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| << | < | > | >> |Pagina 7Nell'inverno del '67 c'era del movimento all'Università di Neustadt, Nova Civitas secondo la toponomastica latino-medievale (quella greca freme per l'accorto lettore), nel paese dei vitelli. Tutto era cominciato meno di un anno prima con l'assassinio di uno studente democratico, in un'altra Università del paese, quella della capitale, ad opera di neri beccamorti. La protesta s'era levata anche nell'Università di Neustadt e nell'occasione studenti e docenti subalterni democratici avevano fatto un fronte comune occupando l'Università per qualche giorno, iniziando un lavoro politico di analisi della situazione generale del paese che si era subito estesa a quella della struttura universitaria. Si era timidamente incominciato a intravedere a livello di massa il nesso tra strutture della società e quelle dell'Università, la stessa generica unità antifascista, nata sotto la spinta dell'emozione per l'assassinio dello studente, aveva corso il rischio di incrinarsi nell'approfondimento delle analisi. La fine dell'occupazione e il concludersi dell'anno accademico avevano rinviato il dibattito all'anno successivo. Che puntualmente era ripreso e bene: un comitato sorto dopo duri mesi di lavoro politico guidava nel febbraio '67 un'occupazione di massa dell'Università di Neustadt che sarebbe durata per 18 giorni. Le Autorità accademiche erano in preda ad un nero sconforto da luogo comune: non tanto per la rivolta studentesca – pensavano di reprimerla facilmente con semplici operazioni di polizia — quanto per l' insubordinazione, cosí il Magnifico che presiedeva l'Università, della forza-lavoro dei docenti appunto subalterni. Da un secolo, a partire dall'Unità del paese, il docente subalterno era stato l'immagine speculare dell'accademico in cattedra, servizievole strumento nelle mani del Maestro che prima o poi lo avrebbe promosso a piú alti incarichi, un intrallazzo di qua un calcio in culo di là: eccovi bell'e pronto un nuovo accademico. Cosí per un secolo: ora invece dalla sera alla mattina gli accademici scoprivano la covata di serpi allevata in seno. Non era colpa loro, poverini, e neanche del tutto merito dei subalterni, era che la società andava trasformandosi e con l'Università di massa il vecchio controllo della riproduzione genetica dei cattedratici era saltato. Felipe, trovatosi a fare il mestiere di docente subalterno piu per fattori ambientali che per spinta propria, si vide subito piombato nel lavoro politico, attiratovi già da tempo dopo prudenti ma non saltuarie attività di micro-sindacalismo. Il progressivo allargarsi della lotta fece il resto. A Medicina, all'inizio del mese di febbraio, i primi episodi che fecero prendere coscienza alle masse, ancora guardinghe, della loro forza unita alla capacità del gruppo dirigente. Il Policlinico, completamente paralizzato; il Preside della Facoltà, l'austero Direttore di Istituto padre di meno austero speculatore edilizio su terreni che avevano subito cospicui incrementi di valore grazie all'austerità del potere accademico paterno, il Preside, costretto ad allontanarsi a tutte gambe. Un docente di archeologia, con tessera di Ispettore onorario delle Antichità e Belle Arti, correttamente qualificandosi, con esibizione di sventolato tesserino, come Ispettore, senza per altro precisare di che cosa, riusciva a far allontanare un folto gruppo di poliziotti: questa la cronaca spicciola con i suoi piccoli e barocchi successi. Ma si capisce che maggiori erano quelli che si venivano conseguendo con il lavoro di massa, con le Assemblee, con le mozioni: dove nei primi giorni un'atmosfera quasi ludica, un senso di sollievo per la rottura di catene, oltre che di subordinazione gerarchica, psicologiche, un'aria di kermesse popolare, davano agli sforzi delle masse una gratificazione che negli anni successivi la pubblicistica in ritardo del paese avrebbe definito marcusiana. Jouissance: laetificabatur, gratificabatur in latino medievale l'anima dei contestatori, sed magis gratificantur quelle anime belle mistificanti misterificanti mitificanti des intellectuels sulle selle: c'est du pouvoir que s'agit, di che uso farne. Il faccione da buon borghese tedesco ottocentesco sul corpo massiccio di Felipe tradiva la felice riuscita del tutto. L'obiettivo primario in quei giorni era di respingere in blocco il disegno di legge governativo di riforma universitaria, o piuttosto di controriforma, tendente ad integrare organicamente al sistema il tumultuoso sviluppo universitario, ritenuto del resto il disegno di legge non emendabile in nessun punto: nelle prime assemblee si richiedeva insistentemente "la istituzione obbligatoria del dipartimento interdisciplinare come struttura portante dell'Università capace di garantire l'unità di preparazione professionale e qualificazione scientifica con una struttura mobile al fine di formare un intellettuale critico nei riguardi del modello di realtà in cui opera". Il rifiuto del piano governativo era accompagnato dal rigetto in sede locale della ristrutturazione dell'edilizia universitaria proposta dagli accademici: a Neustadt infatti l'Università aveva un bellissimo frontone di epoca umbertina, parallelo al rettilineo che tagliava in due il centro storico, di lustra per i turisti all'estero, cioè che venivano a Neustadt: "questa è la stupenda Università di Neustadt etc. etc.", cosí la guida turistica in quattro lingue. Nella lingua locale era una solenne "chiavica", alle spalle del frontone archivolti e scaloni in marmo ed in fuga arrestantisi in un susseguirsi di vecchi conventi mal riattati + appartamenti d'affitto in palazzi privati, una disseminazione di locali per l'intera città, una corsa continua di Zazie da una lezione, una mezza lezione, ad un altro quarto di lezione al capo opposto. Una inverosimile atomizzazione della sede universitaria tra colline, centro storico, zona industriale, che gli accademici si proponevano di perfezionare con un nuovo scoppio atomico: il fungo doveva poi essere la Facoltà di Lettere progettata dal piú insigne architetto locale, per caso anche Preside della corrispondente Facoltà di Architettura. Per la verità piú che a un fungo atomico il progetto faceva pensare, con maggiore esattezza, a uno smisurato fallo d'una ventina di piani, eretto dirimpetto al frontone umbertino in mezzo al convulso clacsonare delle macchine del rettilineo, in bell'evidenza sull'altezza media di sei piani, per due kilometri, di tutti i rimanenti palazzi. La foia dell'architetto, ancorché Preside, aveva trovato modo di sfogarsi, una volta per tutte e in modo definitivo. Dietro l'architetto non mancava naturalmente un buon coagulo di interessi economici i piú disparati, compresa una libreria all'angolo che aveva il monopolio delle dispense (azionisti ne erano gli stessi accademici, editori-librari per interposta persona), perciò interessata a che la Facoltà non si trasferisse in un posto meno insalubre, cosí come non mancava la motivazione culturale in difesa dei valori del centro storico, la sua rivalutazione und so weiter. Durante una di queste assemblee Felipe rivide Àniza o meglio colse, mentre parlava al microfono, tra le traiettorie di occhi brucianti della massa quelli sul viso filiforme della donna: al termine le si avvicinò chiedendole della sua presenza a Neustadt. Era venuta da Zurigo, dove studiava, a Neustadt per un corso di alcuni mesi e s'era trovata nel pieno dell'occupazione: mancava dalla sua vecchia città croata da quasi un anno, era stanca tanto stanca, ma la voglia di partecipare ai dibattiti non le mancava, a lei militante rivoluzionaria. Felipe avvertí una stanchezza che non era solo nelle parole, nel tono e nel contegno un po' vecchiotto e mitteleuropeo di Àniza, come nelle donne occidentali degli anni Quaranta. | << | < | > | >> |Pagina 31Felipe allegrissimo di rivedere Zurigo, dove giunsero dopo alcuni giorni. Durante il viaggio, a sera, alla fermata di Novokomi, poco prima del confine, sali sul treno, ed entrò nello scompartimento, uno strano personaggio. Con una valigetta di cartone pressato, alto, rosso di gote, trafelato e impacciato, un sorriso bamboccesco, il nuovo arrivato pestò subito, scusandosene, i piedi di Felipe, sistemò poi sulla reticella varie volte il piccolo bagaglio con rischio continuo di farglielo ricadere sulla testa. Sbuffando si accomodò infine sul sedile. Si presentò cerimonioso gutturaleggiando, ma sommesso: era don Gonzalo Pirobutirro d'Eltino. Raccontò subito come fosse tolstoianamente in fuga non dall'arpìa della moglie ma dalla arteriosclerotica madre. Temeva d'essere inseguìto da qualche peone speditogli appresso da lei, e si affacciava continuamente al finestrino sbirciando per tutti i lati per ogni dove. Bestemmiava con sistematicità, a frasi brevi, smozzicate, in lombardo e in romanesco, talora in bonoarense. Felipe gli chiese perché ce l'avesse tanto con la madre. Don Gonzalo rinfrancato dalle premure interrogative del compagno di viaggio (forse anche di morte, perché per don Gonzalo i viaggi erano sempre la morte, il distacco, la rottura), si mise a raccontare con dovizia di particolari, che si incastravano l'uno nell'altro all'infinito, una ingrovigliata, o ingarbugliata che fosse, storia. Ce l'aveva con la madre non per un banale odio-amore édipo-freudiano, ma perché s'opponeva a una sua relazione con altolocata signora o signorina (non si capí bene) che gli aveva rifilato anche un bel ragazzino, di nome Juan Carlos. Che sarebbe stato in cima a tutti i suoi pensieri se questi non fossero stati maledettamente affollati dai litigi con la mamma, dai quali usciva sconvolto da non poter pensare ad altro. Felipe trascorse con don Gonzalo alcune ore piacevoli, parlando di scienza e di letteratura, di Mach di Joyce e d'altri minori, finché non si separarono. Non senza però tutta una sfilza di complimenti di don Gonzalo nei suoi confronti, e che era di "alto ed acuto intelletto" e, forbendo ancor piú l'espressione, che si sentiva "insignito della luce di amicizia" (quella di Felipe), che "partecipava con l'animo alla sua ascendente 'carriera' di studioso e di persona" ripeté "d'alto intelletto"; "carriera, aggiunse, è per me vocabolo serio e pieno di meriti; anche per Dante lo userei". Strabico per la voglia di ridere, strabiliando, strabuzzato, Felipe si senti dire da quel personaggio fuoruscito chissà da dove, che la conversazione "con la sua incriminata anima gli era stata porta quasi al naufrago la cintura di salvezza". Zürich la reumatica lungo-amata da Joyce, da Musil, il cimitero di Mann, al Café Terrasse (l'8 febbraio del millenovecentosedici alle sei de la tarde) era nato Dada o era al Cabaret Voltaire alla Spielgasse? Alla Spielgasse abitava Lenin con la Krupskaja, un centro intorno a cui ruotava un mondo, ora capiva (ora che sapeva) anche il suo amore. Un finito da cui ti aprivi all'infinito, una dimensione della storia dell'uomo senza clamori, in sordina, sulla Limmat che si slarga nel lago, ed ogni posto è un segno della nostra geografia. Tra un pensiero e l'altro accompagnò Àniza a casa, in periferia e si salutarono. L'uomo sebbene cercasse disperato un sorriso dalla donna non ebbe una risposta da lei tuttora a lui assente, interessata e rammaricata, ma ancora troppo lontana da un rapporto non imposto. A Zurigo il solito cosmopolitismo affollava Strassen und Gassen, nelle vetrine delle banche televisori, etiam nocturno tempore, di Borse mondiali quotazioni trasmettere, di tanto in tanto anche les cours des actions suisses, Fischer S.A. Schaffhouse, Sandoz S.A. Bâle, Interfood S.A. Lausanne, les produits diététiques insieme al chocolat en tablettes e subito dopo produits pharmaceutiques, chimiques, centrales hydrauliques, thermiques, et tour les iques del mondo intero. Occhi bistrati guardare, lampeggiare scrutare cours des actions di marito fidanzato amante o convivente, soppesare valutare vendita del dolce d'un amplesso ai punti della Borsa di Niuiorche. Felipe camminava senza fine quella sera nell'afa maledetta, ombre infocate dal vapore del selciato, sfinimento nel sudore delle reni, avanti a una meta oscena, macchine con donne arrosolate dal sole di un'estate con la pioggia, cosce d'avorio e spalle ben brunite con seni dalle punte affusolate, neanche uno straccio di sorriso traghettava fino a lui. I capelli di una passante, un lampo, furono associati (come nella migliore letteratura della memoria) a quelli di Çoisefran e Giuseppe incollatole addosso: il babbo e la mamma avrebbero provveduto a quella loro figliola, a Çoise, provveduto d'un marito, sí sí, d'un maritozzo a modo, e avec de l'argent, beaucoup d'argent. Point d'argent, point de Suisse: l'avevan fatta perciò sposare, icché bello, a quel provolonaro, a quel giovane tanto ammodino, pelatino, aggiustatino, che non era miha figlio d'una buhaiola come quel Giuseppe: iccome è che si chiamava? ah! sí, Nandino, Nandino ammodino e pelatino. In una piazzetta alle spalle del Limmatquai un gruppo consistente alpeggiava con canti: Das Wandern ist des Müllers Lust, das Wandern ist des Müllers Lust, das Wandern. Anche a lui piaceva andare a zonzo senza per ciò essere mugnaio: meno compreso dei babbioni alpeggianti, poco discosto, un gruppetto hippy cantando voleva sapere pourquoi la femme blonde a le trou du cul noir, ma il senso dell'umorismo era lontano dagli alpeggianti imperterriti compunti continuando: vom Wasser haben wir's gelernt, vom Wasser. | << | < | > | >> |Pagina 59Felipe vive al confine tra due classi sociali ed in quanto borghese declassato di una città di provincia si porta dietro tutto un bagaglio di sentimentalismi e di angoscia esistenziale che gli fa pensare che egli accetta – ha accettato – una morte qualunque, l'una o l'altra che fosse, col viverla fino in fondo, la vita e la morte scherno d'un'unica vicenda. E non è colpa dello scrivente se Felipe in conseguenza del suo essere sociale sente di vivere in un tempo catafratto dove la parola è morta o è pudore inerte delle cose. Piú importante è che Felipe prenda coscienza di ciò, del suo essere sociale, della ideologia che condiziona lui come Àniza, e riesca a collegarsi con una realtà diversa da quella nella quale finora ha girato a vuoto.Gli anni della presa di coscienza precipitati al loro fondo metteranno Felipe dinanzi ad un fatto nuovo: si trovava dinanzi ad una progressiva presa di coscienza anche da parte dei suoi colleghi e, pur mancando loro un reale rapporto con la classe operaia, la presa di coscienza del loro essere sociale, della loro strisciante proletarizzazione e delle contraddizioni che ne nascevano rispetto alla antica coscienza di borghesi intellettuali privilegiati e tutti d'un pezzo, questa presa di coscienza poteva, se indirizzata politicamente, se volta ad un'alleanza con la classe operaia, sottrarli alla dimensione borghese, al mondo del qualunque, e del dovunque sono solo io che conto, poteva sottrarli al qualunquismo ed anche peggio. Un primo passo lungo una linea avanzata ma a patto di gettarsi nel sinuoso e vorticoso fiume del movimento di classe invece di starsene a contemplarlo in solitario assenso sulle rive cosí ancora, nonostante tutto, tranquille e serene della propria presa di coscienza. Se questa è la conclusione va anche detto che la via per giungervi in Felipe è tortuosa, appesantita dal fardello delle precedenti esperienze, degli anteriori condizionamenti. Era vissuto, sempre, sul filo d'un'angoscia secca che infrangeva la parola ed ora si ritrovava possessore di un intero discorso, si era lasciato andare ad una vita lenta che trascorreva, di giorno in giorno, arida disseccandogli la voce ed ora invece voleva inseguire il tempo andato avanti, voleva raggiungerlo, recuperare il perduto, dissolvere la frattura della sua condizione. Ed erano stati anche gli anni del rapporto negato con Ániza: l'ultima volta che l'aveva vista a Neustadt, prima che ripartisse, era stato un cercarsi disperato di sorrisi in uno spazio isolato dal contesto delle altre persone – come ultimo saluto. È anche questa solitudine dell'uomo – non sapersi parlare che per segni sfuggenti alla pronunzia della voce ma ancora piú strazianti per l'attesa. Erano dimessi soli – nel frastuono dei forse tutto attorno – con la speranza di un progetto ritrovato. Dopo pochi giorni però non aveva retto alla lontananza e si era messo in viaggio con Nicola che l'accompagnava con la macchina. In una precedente occasione, l'anno prima, era stato lui, Felipe, a tenere compagnia a Nicola Vittorio, questo era il nome completo dell'amico, da Basilea risalendo lungo la Francia dell'Est fino al Belgio, a Liegi. Qui viveva una minuta donna, il viso illuminato dal biondo slavato dei capelli e dalle luci di due occhi che irradiavano azzurro, l'ultima e profonda passione dell'amico, che voleva sposarla, ma il padre gli urlava arrochito – Non è vergine, non è vergine, non voglio una puttana per la madre dei tuoi figli. La violenza contadina dei pregiudizi del padre aveva fiaccato la resistenza del figlio, che andava a congedarsi, per sempre, per sempre, con un ultimo colloquio, dalla giovane donna. La neve fioccava fitto, e Nicola uscendo dall'auto infilò la destra nel guanto della mano sinistra.
Compagno di viaggio piacevole, Nicola ricordava l'allegra brigata di
quell'estate che si era tuffata nelle gelide
acque dell'Arbia, nel 1260 colorata in rosso (una premonizione?), vicino alla
cascatella, e il raffinato piccolo turco Akmet, un poco ricchioncello, schizzava
acqua da tutte le parti. Àniza sorrideva, serena, estatica. Un'altra
volta Nicola aveva distratto Felipe con le sue faccende
recenti con Olga; rapporti strani e movimentati.
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