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| << | < | > | >> |Indice11 Presentazione Marcello Flores 13 Da La nuda verità (Nepridumannoe) Lev Razgon 25 Il sistema dei lager in URSS Centro Studi "Memorial" 29 Il nemico oggettivo: il totalitarismo e i suoi bersagli interni Victor Zaslavsky 39 Le peculiarità dell'universo concentrazionario sovietico Giovanni Gozzini 57 Il sistema dei luoghi di reclusione in Unione Sovietica, 1929-1960 Michail B. Smirnov, Sergej P. Sigacëv, Dmitrij V. Skapov 85 Il GULag e la letteratura: storia di un genere mancato Mauro Martini 95 L'Occidente e il GULag Marcello Flores 204 Premessa alla bibliografia Hélène Kaplan 209 Bibliografia a cura di Hélène Kaplan |
| << | < | > | >> |Pagina 11PresentazioneMarcello Flores Il termine GULag ha ormai da circa un quarto di secolo piena cittadinanza nella cultura e nella coscienza contemporanee. Benché se ne parlasse in ambienti ristretti fin dagli anni Trenta e poi diffusamente e sulle pagine dei quotidiani tra gli anni Quaranta e Cinquanta, fu solo l'apparire dell'opera di Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago GULag, pubblicata in Occidente tra il 1973 e il 1978, a rendere diffusa e accettata questa parola che sintetizzava con efficacia anche linguistica il sistema concentrazionario dell'Unione Sovietica. Da allora le conoscenze che già si avevano su quel tragico aspetto dei regime comunista si sono ampliate e approfondite, trovando, nella seconda metà degli anni Ottanta e poi ancora più speditamente a partire dal crollo stesso dell'URSS, un'accelerazione che ha coinvolto gli studi specialistici e la memorialistica, la raccolta archivistica e i servizi giornalistici e radiotelevisivi. Del GULag si è saputo e si sa molto, anche se parecchio resta ovviamente da scoprire e interpretare raccogliendo e organizzando in maniera sempre più sistematica la grande mole di materiale che ruota attorno a quell'esperienza che ha coinvolto per lunghi decenni milioni di persone. Al grande pubblico, tuttavia, o per lo meno a quella parte che non abbia letto con attenzione i romanzi di Solzenicyn o i racconti di Varlam Salamov, proprio adesso disponibili in italiano in edizione integrale, sfugge ancora, probabilmente, la natura e la storia stessa del GULag, il suo funzionamento e la sua dinamica, la sua estensione e la sua articolazione. Molte, naturalmente, sono ancora le lacune che derivano dall'arretratezza e dal ritardo degli studi storici e della divulgazione, dell'istruzione scolastica e dell'attività formativa dei media. All'interno di una cornice culturale segnata da ben precisi limiti, questa mostra si può porre come momento importante di controtendenza, come segnale di una richiesta di approfondimento che è ormai matura e di un'attenzione che non può che rafforzarsi e radicarsi in futuro. In passato, e comunque non in Italia, sono state organizzate mostre che hanno fatto conoscere alcuni aspetti del GULag, in particolare l'attività di disegno e pittura che alcuni prigionieri hanno praticato per testimoniare la propria sofferenza ed esperienza e rammentare al mondo la tragedia di cui erano stati parte e che alcuni sopravvissuti hanno ripreso e ampliato una volta tornati in libertà. Questa è la prima mostra storica sul GULag che sia stata mai organizzata: era inevitabile, al di là dell'orgoglio per il ruolo oggettivo di battistrada, che questa realtà influenzasse il tipo di allestimento che si è potuto costruire e le scelte che sono state compiute per realizzarla. La più importante di esse è stata quella di circoscrivere la mostra alle vicende del GULag, fissando l'attenzione sulla costruzione di quella rete di lager - a sua volta risultato di una serie di decisioni politiche, legislative, giudiziarie, ammistrative e organizzative - che è stata l'essenza e la sostanza dell'universo concentrazionario in URSS. Il GULag è solo una parte, anche se la più rilevante, della storia della repressione in Unione Sovietica dalla presa del potere dei bolscevichi in avanti; è solo un aspetto, anche se certamente il più tragico, del carattere totalitario che il regime comunista ha assunto e imposto all'intera società. | << | < | > | >> |Pagina 12I grandi interrogativi che gli avversari del bolscevismo e gli stessi disillusi del comunismo si ponevano già negli anni Venti e con ancora più forza nei decenni dello stalinismo, e che con alterne vicende sono stati riproposti negli anni del disgelo o in quelli della normalizzazione brezneviana, restano a tutt'oggi un filo conduttore utile: primo fra tutti quanto il GULag sia stato un elemento necessario e indispensabile al sistema che l'aveva creato e quanto il frutto di una scelta soggettiva, giustificata alla luce dell'ideologia e dell'economia, ma non ineluttabile. Quello che una mostra come questa può contribuire a fare è che quegli interrogativi si possano mantenere aperti e approfondire, offrendo materiali inediti e originali, sollecitando analisi non scontate e interpretazioni documentate e persuasive. Il GULag è parte essenziale della storia drammatica di questo secolo, è una delle tragedie maggiori che ne hanno costellato il progredire, è un evento simbolico e al tempo stesso rivelatore di un passato che si spera sepolto per sempre ma con cui è necessario continuare a fare i conti.| << | < | > | >> |Pagina 13Da La nuda verità (Nepridumannoe)Lev Razgon La moglie del presidente Un sabato d'estate, era sera inoltrata e avrei dovuto essere già in cammino. Di solito durante i miei brevi "week-end" andavo a Vozael. Ero ormai abituato alla passeggiatina di trenta chilometri, dal primo lager al Komendantskij e ritorno nel giro di ventiquattr'ore. D'inverno coprivo velocemente quella distanza. La liscia strada invernale era dura come l'asfalto, l'aria gelida "stimolava" e io percorrevo quella distanza velocemente e senza neanche stancarmi troppo. D'estate era molto più difficile camminare sulla sabbia fine, macinata dalle ruote dei camion. Approfittavo di qualsiasi occasione per chiedere un passaggio. | << | < | > | >> |Pagina 17Via Kuzneckij Most, 24Il braccio della gru gira di scatto e una pesante sfera di ghisa colpisce il muro della casa. I telai delle finestre crollano con fracasso; attraverso gli squarci si intravedono le pareti interne delle stanze con le tracce dei ritratti sulle tappezzerie scolorite. Uno spettacolo abituale per Mosca. Sono dall'altra parte della strada, guardo e dentro di me crolla qualcosa, crolla con disperazione e fragore come le pareti di quella casa. Mi sembra che non sia la polvere a nascondere la casa in distruzione, ma che siano le lacrime ad appannare i miei occhi. Probabilmente avrei provato quocosa di simile nel vedere un arnese di questo tipo distruggere il mio nido in via Ordynka, la casa a cui erano legate le gioie e i dolori della mia adolescenza, della mia giovinezza, di quasi tutta la mia vita. Ma adesso non è questa casa che stanno distruggendo! Distruggono una casa maledetta, odiata e terribile, dove l'allegria, forse, è risuonata soltanto in tempi immemorabili, quando ancora apparteneva al principe Golicyn o quando vi abitavano pittori e scultori, e Puskin andava a trovare il pittore Karl Briullov, appena ritornato dall'Italia... Per molte decine di anni questa casa fu un luogo di dolore. Qui furono versate tante di quelle lacrime che, se si fossero conservate, sarebbero confluite giù verso la Neglinka come una fiumana, e quella casa si troverebbe sulla riva di un lago salato. Nei dintomi c'erano edifici ancora più tremendi. Ricordo che questa istituzione - di solito si evitava di pronunciarne il nome - dilagava nelle vie e nei vicoli vicini: inghiottì un grande magazzino e una casa di nove piani; a poco a poco tendine di seta tutte uguali comparvero alle finestre delle case di quel rione, e quelle finestre la sera rimanevano a lungo illuminate da una confortevole luce infernale. Si era terrorizzati soltanto al pensiero di passare da quelle parti. Lì torturavano e uccidevano, ma nessuno piangeva. Lì si gridava, si gridava dal dolore, dall'angoscia, dalla paura... Ma nessuno piangeva. O perlomeno io non me lo ricordo e nessuno me l'ha mai detto. Si piangeva invece qui, in questa casa. Al 24 della via Kuzneckij Most. Qui si trovava l'"Ufficio informazioni" dell'OGPU, dell'NKVD, dell'NKGB, del KGB... Cambiavano le sigle, ma la sostanza rimaneva sempre la stessa. Fino all'ultimo, fino al giorno in cui quell'edificio fu distrutto dal maglio di ghisa, vi rimase appesa una targa con un avviso preciso, oro su nero, valido per decenni, per tutti i secoli: "Si ricevono i cittadini 24 ore su 24"... Un tempo andavo in quella casa senza presentire quale peso avrebbe avuto nella mia vita. Doveva essere nel '25. Al 24 di Kuzneckij Most si tenevano i corsi della Berlitz. Lì, applicando un sistema escogitato ancora prima della grande guerra da un certo Berlitz, a noi ignoto, si insegnavano velocemente le lingue straniere. | << | < | > | >> |Pagina 29Il nemico oggettivo: il totalitarismo sovietico e i suoi bersagli interniVictor Zaslavsky L'emergere del totalitarismo moderno, che riunisce i caratteri di una societa tecnologicamente avanzata con il sistema di controllo totale sulla vita individuale di ogni membro della società, è stata tra le più grandi novità sociopolitiche del XX secolo. Lo stato totalitario ha tentato ed è riuscito a controllare totalmente l'esistenza sociale di ogni individuo che non ha potuto trovare alcun rifugio o difesa dall'onnipresente controllo statale esteso sia su tutta la sfera pubblica che su quella privata. Dal punto di vista individuale, l'esperienza totalitaria consiste principalmente nella paura quotidiana generata dalla minaccia della violenza fisica, dell'arresto, dell'imprigionamento e della morte inflitti dagli organi coercitivi dello stato che utilizza il terrore come mezzo preferito di amministrazione ordinaria. [...] La vera novità dei totalitarismi del XX secolo consiste nei loro tentativi di creare una società nuova, sopprimendo o eliminando fisicamente interi gruppi sociali realmente esistenti e intere aggregazioni umane individuate sulla base di certe caratteristiche ascrittive e arbitrarie, suggerite dall'ideologia dominante del regime totalitario. Hannah Arendt ha giustamente sottolineato che il carattere nuovo e senza precedenti del totalitarismo si vede nella sua invenzione di un nuovo tipo di crimine: il crimine contro l'umanità, l'attacco frontale allo stesso principio del pluralismo della razza umana. L'obiettivo di questo scritto sta nel porre alcune domande analitiche che prima dell'apertura degli archivi sovietici non potevano trovare risposte, se non in maniera sommaria e approssimativa. Come lo stato staliniano riuscì a realizzare la pulizia di classe, cioè quella politica dello stato moderno diretta alla soppressione o addirittura allo sterminio delle classi indesiderate? Qual era il nesso tra l'ideologia dominante che creava l'immagine della società perfetta del futuro e dei suoi nemici e l'attività dell'apparato coercitivo statale cui era stato affidato il compito di individuare ed eliminare questi nemici? Come riuscivano i dirigenti a indirizzare il terrore sia contro categorie sociali realmente esistenti che contro altre create appositamente? Quali criteri di selezione adottavano per creare intere categorie sulla base di caratteristiche ascrittive e arbitrarie, aggregazioni destinate a essere sterminate con l'utilizzo di metodi burocratici e tecniche avanzate? Come gestivano l'attuazione del terrore e come preparavano lo sterminio di massa? Il nuovo materiale archivistico getta luce sul collegamento tra l'ideologia dominante, il processo decisionale della leadership e il lavoro quotidiano degli organi della polizia segreta. | << | < | > | >> |Pagina 30La violenza e il governo attraverso il terrore erano insiti nel regime totalitario sovietico che fin dall'inizio si pose il compito di un rinnovamento della società cosi radicale che richiedeva l'eliminazione fisica non soltanto degli oppositori politici ma anche di intere categorie di cittadini ritenuti avversari per il fatto stesso di esistere. Storicamente il periodo del terrore nell'URSS coincide con quello della costruzione del sistema sovietico, che ebbe termine verso la metà degli anni Cinquanta.[...] Il marxismo classico, pur basandosi sull'idea dell'irrimediabile conflitto di classe come forza motrice dello sviluppo sociale e sull'atteggiamento verso la violenza rivoluzionaria come "levatrice della storia", non si era posto il problema dell'organizzazione pratica del terrore statale né aveva teorizzato l'uso del terrore per accelerare il corso della storia. I marxisti russi, e in primo luogo Lenin come indiscusso leader del partito comunista russo, condividendo in pieno la visione marxista della società come un organismo in continuo sviluppo verso lo stadio della perfezione finale, respinsero il determinismo del marxismo classico, integrandolo con la tradizione del populismo terroristico russo e inserendo nel marxismo una forte dose di volontarismo. Secondo Lenin, la rivoluzione deve essere preparata e può essere accelerata dall'organizzazione dei rivoluzionari di professione. Lenin e i bolscevichi non erano d'accordo sui tempi lunghi che, secondo il marxismo classico, sarebbero stati necessari per preparare una rivoluzione socialista in un paese arretrato. In seguito Stalin avrebbe sintetizzato la novità del leninismo: la rivoluzione socialista nazionale, anche se avesse avuto luogo in un paese arretrato, avrebbe avuto un enorme significato internazionale proprio perché avrebbe rotto l'"anello più debole" del sistema capitalistico mondiale e avrebbe favorito la rivoluzione nei paesi più evoluti. L'ideologia marxista, prefigurando il disegno generale della società del futuro da costruire e della sua struttura sociale, indicava le classi nemiche, aliene o semplicemente superflue, ma non affermava necessariamente la necessità della loro distruzione fisica. Il trattamento nei confronti delle classi aliene avrebbe dovuto dipendere dal tipo di resistenza attiva o passiva dei nemici oggettivi. | << | < | > | >> |Pagina 31La peculiarità della rivoluzione bolscevica consiste non tanto nell'uso del terrore, che costituisce lo strumento essenziale di tutte le "rivoluzioni dall'alto", quanto nella dimensione e nella legittimazione statale del terrore. I leader bolscevichi si ispirarono ai giacobini, cui imputavano l'unico errore di non aver applicato con sufficiente fermezza il metodo del terrore; erano quindi determinati a non ripetere questo errore. Lenin sostenne varie volte e in diverse occasioni che i nemici del popolo dovevano essere repressi e sterminati come "insetti nocivi". Qualche settimana dopo la presa del potere, nel dicembre 1917, il governo bolscevico organizzò la Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio (la CEKA), che immediatamente assunse il carattere di polizia segreta per tutelare la sicurezza dello stato e controllare l'attività dell'opposizione.| << | < | > | >> |Pagina 32Un altro tratto essenziale del terrore praticato dai regimi totalitari moderni è l'esigenza ideologica di creare una società nuova utilizzando i metodi "scientifici" dell'igiene sociale e della "purificazione" dell'organismo sociale dal "contagio borghese". L'essenza e il metodo della giustizia del partito-stato sono formulati in una nota disposizione ai collaboratori della CEKA da uno dei suoi primi dirigenti già nel 1918: "Non stiamo lottando contro persone singole. Stiamo sterminando la borghesia come classe. Nel corso dell'inchiesta non bisogna cercare la prova che l'accusato abbia operato con azioni o parole contro il potere sovietico. Le prime domande che bisogna porsi sono: a quale classe appartiene? Qual è la sua origine sociale? Quale la sua istruzione o professione? Ed è la risposta a queste domande che deve decidere il destino dell'accusato. In questo risiedono il significato e l'essenza del terrore rosso."[...] Fin dall'inizio l'apparato poliziesco fu indotto a eliminare le sue vittime non per quello che avevano fatto, come opporsi al regime, ma per quel che erano, cioè per essere nate nella classe sociale sbagliata o nel gruppo etnico considerato nemico. La pratica del terrore ideologico-metafisico basato sull'idea della purificazione della società dai vari corpi estranei e nocivi, dai parassiti sociali definiti sulla base dell'appartenenza alla classe sociale aliena oppure al gruppo etnico nemico, rappresenta il denominatore comune dei totalitarismi moderni di destra e di sinistra, quello nazista come quello sovietico. [...] Il carattere razionale e pragmatico del terrore staliniano è reso evidente dal fatto che il suo bersaglio principale erano i contadini e gli operai. Il terrore dovette colpire le classi lavoratrici per raggiungere il grande obiettivo del regime: una rapida modernizzazione. Si realizzò così la previsione fatta alla vigilia della presa del potere da parte dei bolscevichi dal custode del marxismo classico in Russia, Georgij Plechanov. Egli riteneva che il socialismo potesse essere costruito solo nelle società ad alto sviluppo economico, non in una società ancora semifeudale come quella russa. Una volta preso il potere, ammoniva Plechanov, i socialisti avrebbero dovuto utilizzare la violenza, addirittura il terrore per realizzare una rapida modernizzazione del paese, e ne sarebbe nato un sistema dittatoriale, dispotico, una sorta di "impero inca". La realtà del regime staliniano si rivelò ancora peggiore della pessimistica previsione di Plechanov. | << | < | > | >> |Pagina 34L'analisi della rivoluzione dall'alto realizzata dal regime staliniano negli anni Trenta permette di fare un bilancio del terrore totalitario. Malgrado gli esempi di situazioni in cui il terrore generò risultati opposti a quelli auspicati dai suoi fautori, il fatto fondamentale è che il terrore di massa fu lo strumento funzionale e razionale per promuovere un cambiamento rivoluzionario e assicurare il controllo del regime monopartitico sulla società e sull'economia. Il terrore provocò l'atomizzazione della società e rese impossibile l'insorgere di qualunque opposizione organizzata al regime monopartitico. Permise di distruggere la società contadina e di realizzare in tempi brevi una industrializzazione forzata basata su un complesso militare-industriale tecnologicamente avanzato. Il terrore fu strumentale per creare nel paese un clima di paura generalizzata, di diffidenza, ansia e insicurezza permanenti, generando così un'atmosfera di fortezza assediata e di psicosi della guerra necessaria per la militarizzazione dell'economia e di tutta la vita sociale. Compensando con la mobilitazione di massa l'elevato spreco e la bassa efficienza di un'economia senza mercato, il terrore divenne uno dei principali supporti del sistema staliniano e una delle più importanti condizioni per la sua sopravvivenza.[...] Il quadro dell'inasprimento del terrore di massa all'interno dell'Unione Sovietica negli ultimi anni del regime staliniano sarebbe incompleto se non menzionassimo la repressione nei confronti degli ebrei che prese la forma dell'eliminazione di una parte notevole della sua élite culturale e dei preparativi per la deportazione dell'intero gruppo etnico dalle grandi città in zone remote della Siberia e dell'Estremo Oriente. Quale ragione razionale o irrazionale aveva Stalin per fomentare una campagna antisemita condotta in maniera sempre più massiccia dal 1948 fino alla sua morte nel marzo 1953? Rispondere a tale domanda è particolarmente importante perché spiegherebbe il fatto assai sorprendente che tutti i regimi totalitari nell'Europa del XX secolo - o fin dall'inizio, come quello nazista, o in un certo momento del loro sviluppo, come nei casi del fascismo e dello stalinismo - praticarono una politica antisemita con misure oscillanti dalla soppressione dei diritti politici e sociali degli ebrei fino alla deportazione e allo sterminio dell'intero gruppo. | << | < | > | >> |Pagina 39Le peculiarità dell'universo concentrazionario sovieticoGiovanni Gozzini "Universo concentrazionario" è il termine coniato nel 1946 da un reduce del lager nazista di Buchenwald, David Rousset, che in seguito lo estenderà alla situazione dei campi di lavoro forzato attivati in Unione Sovietica. Per lungo tempo il ricorso a questa categoria ha rappresentato lo strumento fondamentale di un approccio etico-politico al tema delle dittature novecentesche, in virtù del quale lager e GULag rappresentano l'aspetto simbolico più estremo, ma proprio per questo più significativo, della natura antiumana di quei regimi. Da questo punto di vista la ricerca storiografica su nazismo e stalinismo ha vissuto una sorta di evoluzione parallela. La generazione di storici che domina la scena nell'immediato dopoguerra (Friedrich Meinecke in Germania, Benedetto Croce in Italia) interpreta la dittatura tedesca come il prodotto di forze demoniache estranee alla civiltà occidentale. [...] A ben vedere, questa visione del regime sovietico si fonda sulla combinazione di un doppio paradigma interpretativo interamente mutuato dalla storiografia sul nazismo e sulla shoah: da un lato, il cosiddetto "paradigma intenzionalista" che riconduce lo sterminio degli ebrei alla coerente e immutabile volontà omicida di Hitler e, dall'altro, il paradigma del totalitarismo che assimila le popolazioni civili tedesca e sovietica a masse amorfe, atomizzate e soggiogate dalla violenta coercizione poliziesca esercitata dai rispettivi regimi. Nazismo e stalinismo vengono così identificati come sistemi politici che ricorrono al terrore non solo come mezzo per la vittoria sugli avversari politici ma anche come metodo di governo. L'universo concentrazionario di lager e GULag rappresenta lo specchio deformato di moltitudini "libere" private dei diritti individuali e di ogni possibilità di scelta, piegate all'obbedienza e costrette alla sospensione della propria coscienza umanitaria. Paradigma intenzionalista e paradigma del totalitarismo convergono nello scagionare le popolazioni civili da ogni corresponsabilità con le politiche seguite dalle istituzioni che le hanno governate. | << | < | > | >> |Pagina 40In Occidente, quindi, il dibattito sull'Unione Sovietica si polarizza precocemente e sterilmente tra la denuncia morale di un "impero del male" emblematizzato dal GULag e la sostanziale rimozione operata dalla sinistra comunista mediante una doppia argomentazione: la separazione della fase conciliare e leninista (considerata democratica) dell'esperimento sovietico dalla sua degenerazione stalinista e l'alibi storicistico dell'arretratezza russa come giustificazione necessaria delle "durezze" della rivoluzione. Ciò che è finora rimasto sacrificato in questo dialogo tra sordi è un approccio più propriamente politologico. Qual è il posto dell'universo concentrazionario nell'architettura istituzionale di nazismo e stalinismo? E' un luogo di sperimentazione fine a se stessa del potere assoluto, oppure risponde a un mezzo utile per governare la società?La risposta a queste domande non può prescindere dal ricorso alla comparazione: l'istituzione di un universo concentrazionario parallelo all'ordinamento giudiziario vigente costituisce di fatto un aspetto strutturale presente fin dall'inizio nei due regimi politici, nazista e sovietico. Ma un approccio comparativo serio è esattamente il contrario sia dell'assimilazione indifferenziata e pregiudiziale di chi brandisce la categoria totalitarismo come un'arma ideologica sia del tabù sacrale di chi rifiuta a priori ogni possibilità di comparare nazismo e stalinismo. In realtà la comparazione serve proprio a scendere nel dettaglio e a scoprire differenze: è banale osservare che ogni fatto umano è unico e irripetibile, ma può essere capito meglio se comparato - per analogie e diversità - ad altri. La comparazione rappresenta, in altre parole, una procedura neutra di misurazione della realtà che non implica alcun giudizio di valore: come per accostare un metro di legno a un tessuto non è necessario presupporre che siano fatti della stessa materia. [...] La sociologia cerca di costruire collegamenti tra esperienze storiche lontanissime tra loro. Ma questo sforzo comparativo non si traduce in un piano inclinato univoco e predestinato che annulla le differenze e attribuisce a ogni rivoluzione - intesa in senso stretto come rottura dell'ordine costituzionale - un destino ineluttabile di totalitarismo e quindi di genocidio. L'uso della violenza nei confronti degli oppositori non è uguale alla eliminazione di un intero gruppo sociale, etnico o religioso. Risulta difficile concepire sub specie genocidio - sebbene abbiano duramente combattuto i propri nemici interni ed esterni - la rivoluzione francese così come quella inglese o americana. E può apparire forzato attribuire intenti di sterminio a regimi indubbiamente dittatoriali come quello cileno degli anni Settanta o quello iraniano degli anni Ottanta. Viceversa è difficile negare che la democrazia americana sia stata costruita sulla deportazione di migliaia di schiavi africani e sul genocidio degli indiani d'America. Ma è un passo davvero troppo lungo e indifferenziato, troppo univoco e predestinato sostenere che il colonialismo occidentale rappresenti il "peccato originale" (termine sintomatico di un approccio ideologizzante) del XX secolo e l'incubatrice comune di lager e GULag. | << | < | > | >> |Pagina 41Nell'opinione pubblica europea il tema dei rapporti tra lager e GULag è salito alla ribalta ormai più di un decennio fa ad opera dello storico tedesco Ernst Nolte: ma non seguendo l'approccio comparativo fin qui ricordato, bensì secondo un raccordo genetico di imitazione-risposta assai più rozzo e immediato."L' 'arcipelago GULag' non precedette Auschwitz? Non fu lo 'slerminio di classe' dei bolscevichi il prius logico e fattuale dello 'sterminio di razza' dei nazionalsocialisti? [...] Non compì Hitler, non compirono i nazionalsocialisti un'azione 'asiatica' forse soltanto perché consideravano se stessi e i propri simili vittime potenziali o effettive di un'azione 'asiatica'?" Con lo stile allusivo e volutamente ambiguo che spesso lo distingue Nolte confonde due cose diverse: la proposta di una suggestione comparativa interna - il GULag come modello dei lager - e l'affermazione di un preciso nesso causale che individua nel lager una risposta alla minaccia "asiatica" del GULag. | << | < | > | >> |Pagina 42Un approccio politologico e comparativo al tema del GULag consente invece di apprezzare una prima differenza, relativa al posto e alla funzione che la violenza occupa nell'ideologia e nella pratica nazista e sovietica. Nel movimento nazista l'adozione della violenza come strumento di lotta politica rappresenta una scelta programmatica e identitaria discriminante, che si traduce nell'organizzazione di una milizia paramilitare di partito.[...] Ma SA e SS rappresentano anche l'immagine vivente del nuovo stato razziale, centro del progetto politico nazista: una élite di giovani scelti in base alla purezza del sangue e dei tratti somatici, uniti da un codice d'onore e da una struttura di tipo militare ma anche da riti e simboli di tipo religioso. Queste organizzazioni rispondono a uno schema esoterico, di comunità degli eletti, che fonda la propria superiorità sulla capacità di dominare sentimenti normali ed eseguire compiti impossibili ai più: l'esercizio della violenza contro gli avversari assume un valore iniziatico, il crimine fa parte di una strategia di identificazione, rafforza e rende irreversibile l'identità di appartenenza. A differenza della Germania la Russia conosce una tradizione di provvedimenti amministrativi (non ratificati da sentenze giudiziarie), di condanna alla deportazione e al lavoro forzato nelle terre desolate della Siberia, che risale al tempo degli zar: molti dei leader bolscevichi, da Lenin a Stalin, ne hanno fatto personale esperienza. Ma la violenza non assume nel movimento comunista russo la stessa centralità che ha in quello nazista. I bolscevichi rompono radicalmente con le consuetudini terroristiche di molti gruppi antizaristi e nell'ambito della sinistra rivoluzionaria russa non sono gli unici a organizzare "guardie rossi" armate a difesa del movimento, la cui struttura militare appare peraltro assai meno evidente e curata di quanto non accada nel Partito nazista. Il ricorso alla violenza contro gli oppositori si configura come una scelta sistematica solo dopo lo scioglimento d'autorità dell'Assemblea costituente nel gennaio 1918 e si accompagna alla crescente consapevolezza di combattere una battaglia di minoranza contro i poteri forti dell'economia e della società. Da un lato, perciò, la violenza antidemocratica viene fatta valere come dura necessità dettata dalle circostanze; dall'altro appare la conseguenza obbligata della dottrina marxista della "dittatura del proletariato": fase transitoria di consolidamento del potere rivoluzionario contro le resistenze dei mondo borghese. Di questa logica da "comunismo di guerra" è possibile trovare una formuulazione esemplare nel rapporto svolto da Lenin a nome del Comitato centrale all'XI Congresso del partito nel marzo 1922. | << | < | > | >> |Pagina 43Emerge così una seconda differenza, relativa alle finalità che l'universo concentrazionario viene assumendo nei due regimi. Mentre il lager nazista individua con precisione i propri detenuti sulla base di discriminanti prima politiche e poi razziali, il campo sovietico accoglie una tipologia multiforme di "nemici del popolo", diretta conseguenza della sindrome di accerchiamento del nuovo regime rivoluzionario. La dittatura hitleriana infatti non si scontra né con una particolare opposizione da parte dei tradizionali centri di potere dell'economia e della società tedesca né con una ostilità delle altre nazioni. Ma il prerequisito di un'ideologia della violenza rende automatica e scontata la pratica di luoghi di tortura riservati ai nemici. Fin dal marzo 1933 Himmler, che il nuovo regime ha messo a capo della polizia di Monaco, annuncia l'istituzione di un "campo di concentramento per prigionieri politici" nella vicina cittadina di Dachau.[...] Anche se introdotto con le leggi di emergenza del 1933, l'universo concentrazionario con la sua violazione di uno dei diritti umani fondamentali (l'habeas corpus) assume subito una funzione permanente nello stato nazista. Il lager come strumento persecutorio interamente sottratto all'autorità della legge - precondizione decisiva per lo sterminio - non appartiene al tempo di guerra: contraddistingue il regime nazista fin dalla sua ascesa al governo. In tutta la Germania vengono creati luoghi di sperimentazione di un potere assoluto che, attraverso un'organizzazione terroristica del tempo e dello spazio, cerca di cancellare l'umanità e la vitalità degli internati: l'idea che il fine giustifichi il crimine contro la persona umana lega come un filo rosso l'intera storia della dittatura hitleriana. | << | < | > | >> |Pagina 44Viceversa il consolidamento del governo sovietico avviene sotto la minaccia della guerra civile e sconta una condizione di isolamento internazionale che spinge verso la creazione di un sistema repressivo più generalizzato e indistinto, incaricato di coprire tutti i settori della società. Nascono da qui le due maggiori peculiarità storiche dell'universo concentrazionario sovietico: l'essersi progressivamente rivolto - a differenza del lager nazista - verso un'opera di epurazione interna della propria classe dirigente e l'aver assegnato un ruolo centrale al lavoro produttivo e socialmente utile degli internati.In URSS le modalità di costruzione del doppio stato appaiono simili a quelle naziste (legislazione di emergenza, polizia politica straordinaria) ma si accompagnano a un più radicale processo di rifondazione costituzionale che sconta un'ostilità ambientale assai maggiore. Al lavoro produttivo l'ideologia comunista assegna un ruolo cruciale di rifondazione del patto sociale e di rieducazione dei soggetti controrivoluzionari. Un decreto del gennaio 1918 orienta in tal senso l'intera gestione delle carceri e l'amministrazione dei campi delle Soloveckie utilizza a partire dal 1926 il lavoro forzato dei detenuti per soddisfare contratti di produzione per altri organismi statali: il campo di concentramento acquista cosi una propria collocazione organica (e non residuale) nel progetto complessivo di rifondazione in senso sovietico della società russa. Dal 1929 tutte le pene detentive superiori a tre anni devono essere scontate nei campi di lavoro forzato: nelle regioni del Nord viene allestita una rete di nuovi campi speciali che alla fine del 1930 contengono più di 40.000 prigionieri. [...] La nuova Costituzione del 1936 formalizza il principio secondo cui ogni cittadino è tenuto a svolgere un lavoro socialmente utile: l'universo concentrazionario parallelo alle carceri ne risulta integrato a pieno titolo nell'architettura dello stato sovietico, perdendo quel carattere di emergenza e di duplicità parallela che invece continua ad avere sotto il regime nazista. [...] Nelle intenzioni e nei risultati il GULag assolve un ruolo produttivo che il lager non ha: anche l'amnistia concessa all'indomani della morte di Stalin a più di un milione di reclusi trae origine dalla crisi economica di un complesso concentrazionario sovrappopolato e sempre meno rimunerativo, nonostante il salario simbolico concesso dal 1949 ai detenuti in grado di lavorare. Almeno fino al 1934 la modernità rispetto al sistema carcerario occidentale e i risultati produttivi raggiunti dall'universo concentrazionario sovietico vengono esaltati sulla stampa di regime: una circostanza che contribuisce a destituire di fondamento la tesi di Nolte sullo "stenninio asiatico". Nel GULag la morte di massa appare perciò, piuttosto che l'esito di un'ideologia "eliminazionista" per principio, un effetto del ricorso deliberato a una forza lavoro impiegata in condizioni ancora peggiori di quelle schiavistiche perché non esiste alcuna preoccupazione per il suo sostentamento: la sua consumazione "naturale" viene guardata con indifferenza, se non addirittura incoraggiata per smaltire situazioni di particolare congestione e sovraffollamento. Si spiega anche così l'assenza di una tecnologia specificamente dedicata alla morte di massa: ulteriore e non irrilevante diversità. [...] GULag e lager non appartengono al regno irrazionale della crudeltà umana; costituiscono strumenti di gestione del potere. Con lucidità Lenin individua nel problema contadino ("costruire il comunismo con mani non comuniste") la questione decisiva per la sopravvivenza su basi democratiche del governo rivoluzionario; ma la scelta del "terrore rosso" come soluzione di emergenza per risolverla gli appartiene interamente. | << | < | > | >> |Pagina 47La connessione tra dimensione assoluta della politica e dispiegamento dei poteri istituzionali conduce all'idea di un "primato dello stato sul terreno della vita". Questa idea è prettamente novecentesca e non appannaggio esclusivo di regimi dittatoriali: vi convergono infatti anche i processi che danno origine al moderno welfare state così come le teorie eugenetiche che si diffondono in Europa e negli Stati Uniti all'inizio del secolo. GULag e lager non rappresentano in alcun modo il ritorno della barbarie: al contrario occupano un posto preciso nella modernità. La loro funzione non si esaurisce nella neutralizzazione diretta degli ostacoli che il progetto di ingegneria sociale portato avanti dai due regimi è destinato a incontrare; bensì ricopre un ruolo detenente più vasto e indiretto di intimidazione e di introduzione del terrore nella vita quotidiana delle maggioranze di cittadini che pure rimarranno estranee all'esperienza dell'universo concentrazionario.| << | < | > | >> |Pagina 48Eppure i dati che possediamo sulla composizione etnica degli internati nei GULag tra il 1937 e il 1940 (in raffronto alle percentuali che formano il mosaico delle nazionalità sovietiche) mostrano una particolare presenza di russi rispetto ad altri gruppi (ebrei, ucraini, bielorussi, polacchi, tedeschi, armeni, lettoni) e tendono quindi a escludere una pratica sistematica di persecuzione nei confronti delle minoranze non russe. Solo in conseguenza dell'attacco nazista il Cremlino ordina alla fine del giugno 1941 la condanna al lavoro forzato di interi gruppi nazionali (tedeschi, finlandesi e romeni) che nell'estate 1944 vanno a comporre un totale di circa 400.000 internati, considerati nemici alla stregua dei loro connazionali residenti fuori dei confini dell'URSS.[...] Nella strategia repressiva staliniana, quindi, la sovrapposizione di criteri nazionali e criteri politici appare come la risposta sommaria a una situazione di emergenza determinata dalla guerra piuttosto che il frutto di un disegno organico derivante dall'ideologia ufficiale. Anche se comunque, per conseguire i propri scopi, l'azione terroristica di stato non rinuncia a incoraggiare e sfruttare deliberatamente l'odio razziale: come risulta evidente nel caso del "complotto dei medici ebrei" che la stampa di partito propaganda con ampiezza negli ultimi mesi di vita di Stalin. [...] Rimane tuttavia il fatto che, a differenza del lager, il GULag è essenzialmente finalizzato a un'opera di repressione interna (spesso indirizzata contro i vertici dello stato e del partito): una differenza che rinvia ai caratteri costitutivi dei due regimi. Mentre Hitler è il fondatore e l'indiscusso interprete del nazismo, Stalin conquista il potere assoluto dopo una dura battaglia combattuta nel gruppo dirigente sovietico, nel corso della quale l'aspro dibattito sulla linea politica si mescola alle accuse personali. [...] La fuga dalle fattorie collettive determina una brusca recrudescenza dell'iniziativa statale nelle zone dell'Ucraina, del Volga, del Caucaso settentrionale: secondo le stime sovietiche tra il 1930 e il 1933 vengono "dekulakizzate" 600.000 proprietà e deportate più di 200.000 famiglie. A partire dal 1932 quelle stesse regioni sono colpite da una carestia determinata dai cattivi raccolti degli anni precedenti e da una contrazione pari a un quinto del totale della produzione agricola dell'URSS. Nondimeno i fondi dell'Archivio statale russo per l'economia documentano che tra il 1932 e il 1934 la dirigenza staliniana continua a esportare grano dalle regioni più flagellate dalla carestia e ad aumentare le riserve di grano ammassate nei depositi statali. Le stime più recenti e accurate condotte sulle fonti demografiche ufficiali valutano tra i 4 e i 6 milioni di morti il frutto di questo uso della carestia come strumento di normalizzazione della struttura di classe delle campagne: un disegno consapevole e deliberato di "ingegneria sociale" attraverso uno sterminio di massa realizzato sia direttamente mediante espropri forzati e deportazioni, sia (in misura di gran lunga maggiore) indirettamente mediante privazioni e omissioni di soccorso. | << | < | > | >> |Pagina 50Quest'ultima circostanza introduce una ulteriore significativa differenza tra lager e GULag. Fino allo scoppio della guerra anche dai campi di concentramento nazisti è possibile uscire in seguito ad amnistie decretate dal regime: per effetto delle quali, come abbiamo visto, il numero degli internati conosce notevoli fluttuazioni. Ma dopo il 1939 un caso Rokossovskij all'interno dell'universo concentrazionario tedesco appare impensabile: non solo perché il lager non serve a un'opera di epurazione interna e quindi non accoglie alte cariche dello stato o membri del gruppo dirigente nazista, ma anche perché le porte dei campi si chiudono definitivamente per chiunque vi entri. Viceversa l'universo concentrazionario sovietico è contraddistinto da un elevato turnover (che rende particolarmente difficile ogni stima quantitativa): nel biennio 1937-38 poco più di un terzo dei detenuti nei campi di lavoro correttivo viene liberato e un altro 5% viene rubricato nei registri ufficiali come "fuggito". Due decreti del luglio e del novembre 1941 autorizzano il rilascio e l'arruolamento immediato nell'esercito di 420.000 internati: alla fine della guerra il totale degli ex detenuti al fronte arriva a sfiorare il milione. Ma le partenze dei richiamati sotto le armi sono compensate dalle deportazioni dei gruppi nazionali equiparati a nemici: nel 1950 la popolazione dell'universo concentrazionario supera di nuovo i 2,5 milioni, equamente ripartiti in campi e colonie.Solo in parte questa natura relativamente aperta del GULag può essere spiegata con l'alta percentuale di detenuti (all'inizio del 1940 pari al 57%) condannata a pene inferiori a cinque anni: una delle pratiche abituali della giustizia sovietica di quei tempi è infatti la reiterazione delle condanne per via amministrativa. Mi pare invece più plausibile un'altra ipotesi. Il lager non è strettamente indispensabile per la sopravvivenza del regime nazista: non nasce per difenderlo da un ambiente ostile (lo dimostra il numero contenuto dei detenuti negli anni prebellici) e durante la guerra serve alla realizzazione della soluzione finale che figura tra i programmi della dittatura. Il lager nazista è quindi un luogo-simbolo sia della violenza che distingue la "durezza" del movimento fin dalle origini, sia della sua missione epocale di pulizia etnica. Nei confronti dell'universo concentrazionario il potere sovietico mantiene invece una costante attenzione strumentale, che di volta in volta si impernia sul suo carattere deterrente rispetto al resto della società e sulle sue funzioni produttive. Nella massa dei detenuti una quota rilevante è costituita da cittadini normali, vittime di una repressione generalizzata che non ha obiettivi precisi (politici o razziali) ma che viene adoperata come strumento altrettanto normale (e perciò terrorizzante) da parte di un governo privo in misura crescente del consenso popolare. A differenza del lager, il GULag è una struttura necessaria per la conservazione del potere di una rivoluzione minoritaria: obbedisce all'ideologia del lavoro socialmente utile, si adatta a diverse "ondate" (secondo il termine coniato da Solzenicyn) di categorie di reclusi, è pronto a riconoscere altre priorità (come il richiamo al fronte militare), ha un regime di sorveglianza più elastico e allentato. Un episodio come la rivolta del campo di Vorkuta, che nel gennaio 1942 vede le guardie carcerarie prendere possesso del campo e marciare verso la città più vicina fino a scontrarsi con l'esercito, sottolinea ulteriormente queste differenze di natura; soprattutto se paragonato alle "marce della morte" con cui le SS cercano sino alla fine di portare a termine l'ordine di sterminio che è stato loro impartito. Da tali differenze deriva la minore efficienza "mortuaria" del GULag, che è data non solo dall'assenza di strutture (e di campi) appositamente dedicati alla morte di massa ma anche dalla relativamente maggiore attenzione attribuita alle funzioni produttive. Secondo i dati in nostro possesso negli anni prebellici la mortalità "naturale" nei campi di lavoro forzato raggiunge tassi annui del 10%, con punte del 15% in concomitanza della carestia del 1933 (vicini a quelli coevi dei lager nazisti), mentre negli anni di guerra tocca un picco nel biennio 1942-43 (17%), per poi ridiscendere sotto il 5% dopo il 1945. Solo nei GULag peggiori - quelli minerari di Kolyma e Vorkuta - i tassi di mortalità arrivano a livelli (30%) paragonabili a quelli dei "più miti" lager nazisti. Al netto di quelli provocati dalla "riforma agraria attraverso lo sterminio" attuata nei primi anni Trenta, il totale di decessi "naturali" avvenuti prima della guerra all'interno dell'universo concentrazionario sovietico viene oggi stimato in circa un milione, mentre la perdurante carenza di documentazione sugli anni postbellici impedisce ancora un computo complessivo delle vittime del sistema sovietico. Le esecuzioni capitali documentate dalle fonti ammontano a quasi 800.000 nell'intero periodo 1921-1953, ma si concentrano fortemente (più di 680.000) nel biennio del grande terrore. Su un piano strettamente quantitativo questa macabra contabilità rimane quindi lontana non solo dagli oltre 6 milioni di cadaveri smaltiti dai lager nazisti, ma anche dai livelli raggiunti dalle fucilazioni a cielo aperto realizzate dalle Einsatzgruppen naziste sul fronte russo (1,3 milioni, secondo le stime di Hilberg). Ma un ritmo "industriale" di quasi mille fucilazioni al giorno, per quanto distribuito in centinaia di campi e colonie, testimonia di un'attività omicida svolta con regolarità in tempo di pace nella routine quotidiana del GULag: un aspetto costitutivo, in altre parole, della sua "normalità". L'eliminazione dei detenuti non rappresenta lo sfogo casuale della "crudeltà" dei carnefici, bensì una prova (spesso fissata preventivamente in quota numerica da raggiungere) dell'efficienza del sistema nella repressione dei propri nemici e, nello stesso tempo, uno strumento terroristico dal formidabile potere deterrente funzionale al governo della popolazione, dentro e fuori il GULag. Per il nazismo, invece, la morte di massa corrisponde non già a un metodo di governo, bensì all'esecuzione di un progetto di nuovo ordine razziale su scala continentale ed epocale: se ne spiegano così i maggiori volumi quantitativi e la maggiore precisione nella scelta delle vittime. | << | < | > | >> |Pagina 52Nazismo tedesco e comunismo sovietico rappresentano due ideologie assolute, feroci avversarie reciproche, che forniscono a mandanti ed esecutori giustificazioni morali potenti perché legate alla grandezza di un piano di ingegneria sociale (di classe o di razza) radicalmente alternativo ai sistemi politici fino allora sperimentati dalla civiltà umana. Nel caso tedesco il lager vive un processo di trasformazione che lo reca alle dipendenze della milizia di partito più legata al progetto razziale e assolve a compiti (non esclusivi ma largamente dominanti) di eliminazione di massa degli ebrei europei in quanto contaminatori della purezza e della forza della razza ariana. Nel caso sovietico il GULag conserva una maggiore stabilità e centralità istituzionale (anche produttiva) come luogo terminale di una repressione di massa che cresce di volume insieme alle difficoltà del regime ed è finalizzata alla concentrazione del potere nelle mani di una parte del vertice di partito contro il resto del gruppo dirigente e gli altri poteri forti (esercito, amministrazione pubblica, sindacati) potenzialmente antagonisti. |
| << | < | > | >> |RiferimentiD. Rousset, L'universo concentrazionario, Milano, Baldini e Castoldi, 1997 (ed. or. Paris, 1940). H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale (gennaio 1945), in Id., Ebraismo e modernità, Milano, Feltrinelli, 1986. J. Arch Getty, R.T. Manning, Introduction, in Id. (a cura di), Stalinist Terror: New Perspectives, New York, Cambridge University Press, 1993. R. Conquest, I segreti di Lenin, in "La Rivista dei Libri", IX, n. 1, 1999. E. Jäckel, La concezione del mondo di Hitler. Progetto di un dominio assoluto, Milano, Longanesi, 1972 (ed. or. Tübingen, 1969); H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Bompiani, 1987 (ed. or. New York, 1951). [...] | << | < | |