Copertina
Autore Marcello Flores
Titolo Tutta la violenza di un secolo
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2005, Varia , pag. 208, cop.fle., dim. 140x220x17 mm , Isbn 978-88-07-49035-4
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe storia contemporanea , storia criminale , guerra-pace
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Indice


 11  1. I numeri della violenza
 18  2. Le violenze sono tutte uguali?
 24  3. Quanti tipi di violenza ci sono
 30  4. Violenza di stato, violenza politica
 36  5. Gli obiettivi della violenza
 42  6. L'occasione della violenza
 48  7. Ci sono stati violenti e società propense
        alla violenza?
 54  8. Le forme della violenza
 59  9. C'è differenza tra guerra e genocidio?
 65 10. Il contesto della violenza
 71 11. Le tappe della violenza
 77 12. Tutte le violenze si possono giustificare?
 83 13. I responsabili della violenza
 89 14. La partecipazione alla violenza
 96 15. La giustizia della violenza
102 16. La memoria della violenza
109 17. La negazione della violenza
115 18. E' possibile il perdono e la riconciliazione?
120 19. Le responsabilità dell'Occidente
125 20. Le cause della violenza


131 La sequenza storica
177 Conclusioni
187 Bibliografia
205 Ringraziamenti

 

 

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Pagina 11

1.
I numeri della violenza



Sono delle immagini che, per prima cosa, ci vengono in mente pensando alla violenza di massa commessa nel Novecento. Possono essere diverse o uguali per ogni individuo, per generazione di appartenenza, per luogo di nascita o per educazione. Sono immagini che possono essere altrettanto forti, simboliche, comunicative sia che abbiano per oggetto la violenza subita da una singola persona sia che documentino e raccontino eccidi di massa. Nella nostra società sono pochi coloro che possono dire di non avere mai visto immagini dei corpi scheletrici di Auschwitz e Bergen Belsen, ma sono certo molti meno quelli che hanno avuto la possibilità di osservare le immagini delle fosse comuni dei killing fields cambogiani o dei cadaveri straziati dai machete in Ruanda.

Capita a volte che le immagini personalizzate e individualizzate della violenza ce la facciano sembrare quasi più intollerabile e vicina delle immagini di massacri collettivi che appaiono spesso, in qualche modo, lontani, altrove e senza tempo.

Eppure, anche se l'immagine che più ci colpisce è quella di una violenza individuale – per la mia generazione una terribile immagine-simbolo è stata quella di Kim Phuc –, quando riflettiamo sulla violenza pensiamo anche, immediatamente, alla quantità di morti, al numero delle vittime.

Si calcola, in sintesi, che nel corso del Novecento le persone uccise in atti di violenza di massa siano state tra i cento e i centocinquanta milioni (qualcuno propone addirittura la cifra di duecento). Questa diversità nasce, in larga misura, dal tipo di conteggio utilizzato: che può includere o no, ad esempio, le vittime di carestie che sono strettamente legate alle azioni di guerra e violenza intraprese. Ma può anche dipendere dalle fonti su cui si fonda la propria stima, che diverge soprattutto per quei paesi o per quegli avvenimenti per i quali non è ancora disponibile una documentazione archivistica e statistica trasparente, libera e affidabile. Comunque sia, cento o duecento milioni costituiscono delle cifre in ogni caso agghiaccianti, che giustificano il fatto che il XX secolo sia stato considerato uno dei più violenti nella storia dell'umanità: secolo barbaro, secolo delle tenebre, secolo innominabile, solo per ricordare alcuni dei termini usati con maggiore frequenza.

Il Novecento è stato davvero un secolo più violento dei precedenti? A prima vista sembra che non ci siano dubbi. Il senso comune sembra dirci che sono i numeri che distinguono il grado e il livello di violenza accaduta nella storia. Che possono dircelo nel modo più neutro e obiettivo. E che il XX secolo ha battuto ogni record in questa macabra competizione.

Da cosa deriva questa convinzione? Dalla vicinanza storica del secolo appena concluso? Da una maggiore e approfondita conoscenza della violenza che in esso ha avuto luogo? O dalla semplice somma aritmetica delle vittime?

Restiamo, per adesso, nell'ambito delle crude cifre. E prendiamo in esame l' evento che è stato accompagnato dal maggior numero di vittime. Nessun dubbio a riguardo, è stata la Seconda guerra mondiale, con i suoi cinquanta milioni di morti (un po' di più o di meno se si contano le vittime degli spostamenti forzati di popolazione dai territori ex-tedeschi e se vi si include la Guerra cino-giapponese). Di queste vittime circa la metà (un po' meno secondo alcuni) riguarda i morti in battaglia, l'altra metà i civili uccisi. Questi ultimi comprendono sia i caduti sotto i bombardamenti aerei sia le vittime della Shoah, sia i morti nei massacri compiuti dagli eserciti regolari.

Se si rimane sul terreno quantitativo, l'unica conclusione cui si può giungere è che la guerra (in realtà la guerra totale del 1939-1945) rappresenta l'evento più violento e distruttivo del XX secolo e forse della storia umana. Un risultato che fa già parte della coscienza comune e che nessuno pensa di mettere in discussione. L'analisi dei numeri, allora, serve a poco o nulla? O rischia, addirittura, di nascondere gli interrogativi più rilevanti e annebbiare le questioni più importanti (le cause, gli effetti, le modalità, i risultati, ecc.) che gli eventi carichi di maggiore violenza ci inducono ad affrontare?

Quali sono i parametri – i nostri giudizi e pregiudizi morali, ideologici, religiosi, politici – con cui giudichiamo violenta un'epoca storica? Molto, in genere, dipende da chi sono le vittime e chi i carnefici, dalle forme e dall'intensità che la violenza ha assunto, dalla durata e dall'intenzionalità, cioè, in una parola, dalla qualità della violenza. Sui numeri, invece, sembrerebbe che si possa trovare un accordo, un punto di vista comune.

Prima di allargare il campo dell'indagine alla qualità della violenza, allora, può essere utile rimanere nell'ambito della valutazione quantitativa; che è molto meno semplice e lineare di quanto possa sembrare a prima vista. Anche nel "dare" i numeri della violenza – e cioè i numeri dei morti per violenza, di cui sono responsabili governi e collettività – gli studiosi sono tutt'altro che concordi. Al di là delle incertezze e, in alcuni casi, delle notevoli differenze tra le diverse stime, in genere si è giunti tuttavia a giudizi abbastanza condivisi sulla quantità di violenza avvenuta nel XX secolo.

[...]

Le guerre del Novecento rappresentano il 95% dei morti nelle guerre degli ultimi tre secoli. E la percentuale dei civili uccisi è cresciuta fino a raggiungere il 50% con la Seconda guerra mondiale e il 90-95% nei conflitti dell'ultimo decennio. Il numero dei morti per violenza pubblica nel corso del XIX secolo è stato di gran lunga inferiore a quello del secolo successivo, e l'Ottocento oggi ci appare come il secolo della "lunga pace"; ma la percentuale delle vittime sul totale della popolazione è stata grosso modo la stessa, e cioè attorno all'1%. Se poi confrontiamo il numero dei morti in guerre, genocidi e massacri con le morti complessivamente avvenute nel corso del Novecento (circa quattro miliardi e duecento milioni) constatiamo che la loro percentuale raggiunge il 4,5%.

Le statistiche, naturalmente, ci offrono anche altre possibilità. Per esempio di confrontare le morti per violenza di massa con quelle per colpa del tabacco (settantun milioni nell'intero XX secolo) o per incidenti automobilistici (dieci milioni) o per omicidio (otto milioni e mezzo) o per Aids (ventotto milioni dal 1981 al 2002).

La raccolta di dati quantitativi sulla violenza commessa dai governi e dalle collettività, al proprio interno e in conflitti esterni, è un momento necessario e ineliminabile della conoscenza della violenza stessa. Da soli, tuttavia, questi dati possono unicamente offrirci un'impressione generale, che deve essere il punto d'avvio di una riflessione più ampia. Vi è raramente coincidenza tra la nostra soggettiva impressione del tasso di violenza e i dati oggettivi della realtà circostante: noi giudichiamo in base a ciò che accade attorno a noi, alle nostre aspettative e speranze, a paure infondate o a timori esagerati, ma anche a illusioni o cecità di fronte a una realtà peggiore di quel che crediamo. La violenza vicina, naturalmente, che colpisce la nostra famiglia o la nostra comunità, sembra più grande e terribile di quella che coinvolge i nostri confinanti o che riguarda società e mondi lontani; anche se ormai i mezzi di comunicazione ci forniscono una conoscenza immediata di quel che accade in ogni parte del mondo.

Il modo in cui leggere i numeri e guardare i dati nasce dalle esigenze di conoscenza che ci prefiggiamo. Il punto di osservazione e i criteri di analisi prescelti devono essere coerenti agli interrogativi che ci poniamo. E i numeri, quand'anche si riuscisse a trovare un accordo sul modo di costruirli e stabilirli, possono dare risultati diversi e opposti se li montiamo in successione differente, se li affianchiamo o li confrontiamo in maniera non univoca. Le vittime della storia meritano rispetto, non solo ricordandone la quantità, l'occasione, le modalità della morte. La loro contabilità non può essere solo numerica, ma anche morale: il ricordo delle vittime deve farci affrontare limpidamente le domande che riguardano le possibilità, le scelte e le motivazioni che hanno portato e portano alla violenza.

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Pagina 30

4.
Violenza di stato, violenza politica



Il monopolio della violenza da parte dello stato ha costituito un momento fondamentale nella formazione del mondo moderno, ponendo fine, almeno in larga misura, al tasso di arbitrio e di violenza individuale che i più forti e potenti esercitavano sui più deboli e indifesi. Garante della legge al suo interno, lo stato moderno ha rivolto soprattutto all'esterno la violenza istituzionalizzata e di massa, nel corso di guerre e conflitti con gli stati vicini o di azioni di colonizzazione verso popoli lontani e civiltà diverse e militarmente più deboli. La conquista delle Americhe, dalle spedizioni di Cortés contro gli aztechi o di Pizarro contro gli incas, fino alle guerre indiane di metà Ottocento contro Sioux e Cheyenne, ha rappresentato nel corso di secoli un vero e proprio genocidio collettivo delle popolazioni indigene: compiuto in nome della civiltà occidentale e del suo diritto di imporla a culture più deboli e arretrate.

La violenza non è mai stata estranea alla storia dell'uomo, anzi ne ha costituito un ingrediente essenziale e costante. Con la costruzione dello stato moderno, tuttavia, essa si è diversificata come modalità e come intensità: all'interno nei confronti di chi intendeva sovvertire l'ordine costituito; all'esterno contro nemici concorrenziali (gli altri stati) o contro diversi da soggiogare e colonizzare. La violenza contro i "sovversivi", per quanto abbia raggiunto in certi casi livelli particolarmente estesi e acuti, non ha mai raggiunto una intensità comparabile ai massacri di massa che accompagnavano, invece, quella rivolta all'esterno. Questa aveva un carattere legittimo e istituzionale nelle guerre contro nemici simili, assumeva un aspetto arbitrario e spesso incontrollato contro i nemici altri, quelle "genti irrequiete e selvatiche / torve popolazioni, da poco assoggettate, / per metà demoni e per metà fanciulli".

Dalla pace di Westfalia (1648), che aveva costruito il diritto pubblico europeo attribuendo agli stati il diritto di sovranità interna, al Congresso di Berlino (1878) e alla Conferenza di Berlino (1884-1885), che sanciscono il primato europeo – e delle grandi potenze in particolare – sulla crisi dell'Impero ottomano e sulla spartizione dell'Africa, l'Occidente cerca al tempo stesso di limitare le violenze al suo interno e di dirottarle verso i nuovi territori di conquista.

A cavallo tra Ottocento e Novecento i massacri più significativi sono tutti a carattere coloniale: da quello di Omdurman (Sudan), nel 1898, dove undicimila dervisci vennero uccisi dai mitragliatori di Lord Kitchener, che perse meno di cinquanta uomini; a quello degli Herero, che tra il 1904 e il 1907 si riducono da ottantamila a quindicimila, sterminati dalla politica genocidaria del generale Lothar von Trotha. Lo stato – britannico nel primo caso, tedesco nel secondo – autorizza e avalla questa violenza nell'ambito di un progetto di conquista confortato da una cultura che unisce razzismo e socialdarwinismo, che vede l'evoluzione umana del potere come vittoria legittima del più dotato e del più forte. L'Occidente non ha un unico modello di violenza (come non lo ha di conquista e dominio coloniale); ma tutti, quello britannico come quello francese o tedesco, quelli spagnolo e portoghese come più tardi quello italiano, giustificheranno le loro diverse azioni e comportamenti violenti con la stessa discriminazione razziale e culturale nei confronti dei popoli non occidentali, ora con la logica della missione di portare il progresso, ora con quella del dominio territoriale del piu torte e del piu adatto al potere.

[...]

Nei regimi totalitari o dittatoriali, il numero dei nemici attivi e pericolosi per il potere è di gran lunga inferiore a quello di coloro che saranno vittime della politica di repressione di quei governi. Anche coloro che continuano a manifestare la volontà di opporsi al potere e non costituiscono alcun pericolo reale per un regime che si fonda proprio sull'uso totale e assoluto della violenza. I massacri indiscriminati dei regimi comunisti o delle dittature militari sudamericane sono spesso tanto più numerosi e cruenti quanto la forza del regime è solida e le possibilità di indebolirla irrisorie.

La violenza di massa è una prerogativa dello stato, che la usa contro i propri cittadini che intende escludere ed emarginare, o utilizzare per le proprie guerre di conquista; ma sono i gruppi politici che controllano lo stato a valorizzare l'uso della violenza per raggiungere i propri obiettivi, a legittimarla e organizzarne la pratica e la diffusione. Nei momenti di crisi – di imperi, di federazioni, di stati multietnici – il ricorso alla violenza, a una violenza di massa spietata e sanguinaria, è l'arma che permette più di altre alle emergenti élite politiche di prendere il sopravvento, di conquistare il consenso nazionale, etnico e religioso. In molti casi la violenza e la guerra non sono il proseguimento della politica con altri mezzi, sono l'essenza stessa della politica per poter fondare o legittimare il proprio potere; o per poterlo rafforzare e mantenerlo.

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Pagina 36

5.
Gli obiettivi della violenza



Chi ha dato inizio a una guerra, nel XX secolo, difficilmente è riuscito a vincerla. È stato così nel corso delle due guerre mondiali, le più terribili per numero di vittime e per il tasso di distruzione da cui sono state accompagnate. Ma è stato lo stesso nella Guerra di Corea o in quella del Vietnam, in quella dell'Afghanistan o in quella dell'Iraq con l'Iran. Gli obiettivi della violenza bellica, solo talora esplicitati in modo chiaro e coerente, hanno dimostrato di essere il più delle volte irrealistici, rendendo quella stessa violenza inutile o addirittura controproducente.

In questi casi, tuttavia, la violenza era strumento dell'obiettivo di dominio, era il mezzo individuato per raggiungerlo. In altre situazioni, al contrario, la violenza è sembrata essere lo stesso fine, la sua pratica ha coinciso con l'obiettivo. La violenza contro i cittadini cambogiani o quella esercitata contro i Tutsi in Ruanda non aveva altro scopo che uccidere gli uni e gli altri, eliminarne il maggior numero possibile.

Potrebbe sembrare possibile, allora, fare una sommaria distinzione tra la violenza che ha un obiettivo territoriale, di conquista, e quella di cieca distruzione, dettata dall'odio per un nemico che si suppone assoluto e irrimediabilmente ostile. Se si analizza il tipo di violenza che si manifesta all'interno delle guerre e dei genocidi ci si accorge che gli obiettivi non sono così semplici e lineari come si sarebbe supposto.

La distruzione degli ebrei da parte del nazismo non è avvenuta soltanto per dare una "soluzione finale" a quella che per il regime di Hitler era la presenza più intollerabile e pericolosa. Se l'unico obiettivo fosse stato lo sterminio, infatti, che bisogno ci sarebbe stato del crudele processo di disumanizzazione cui furono sottoposti gli ebrei prima di venire portati nelle camere a gas?

L'obiettivo della violenza scatenata nel 1937 a Nanchino dai soldati dell'esercito giapponese non poteva essere di tipo militare, dal momento che ebbe luogo dopo la conquista dell'allora capitale cinese. Sembra mancare, in questo caso, un'articolazione o casistica di obiettivi possibili, che non siano la stessa estrinsecazione e concretizzazione della violenza, la volontà di distruggere, annientare, umiliare il nemico.

Nei confronti delle bombe atomiche americane sganciate il 6 e 9 agosto del 1945 su Hiroshima e Nagasaki, si può dibattere se fossero uno strumento adeguato (o invece immoralmente esagerato) di pressione nei confronti dell'imperatore e degli alti comandi militari, se la scelta delle città da bombardare fosse avvenuta in buona fede o per colpire volutamente la popolazione civile, se gli effetti distruttivi fossero noti o se si volle sperimentarli su una popolazione ritenuta razzialmente inferiore (e colpevole di avere scatenato la guerra). Tra obiettivi dichiarati, obiettivi nascosti, obiettivi taciuti o inconsci, accuse formulate all'epoca e successivamente, è possibile che la risposta più vicina al vero contenga più d'uno di questi elementi. Quello su cui non dovrebbe più esserci discussione, invece, è il fatto che si sia trattato di un'uccisione in massa di civili inermi e non di un'azione di guerra.

L'uccisione tra l'ottobre 1965 e il marzo 1966 di circa mezzo milione di indonesiani, per la maggior parte appartenenti al Partai Komunis Indonesia (PKI, Partito comunista indonesiano), per mano di unità dell'esercito e gruppi di civili armati, non può essere ascritta soltanto alla volontà di eliminare completamente dalla vita politica il PKI. Per raggiungere questo obiettivo non ci sarebbe stato bisogno di un bagno di sangue così esteso e di una violenza così capillarmente e intenzionalmente perseguita.

[...]

Senza nemico non ci sarebbe violenza. Il nemico è sempre presente come obiettivo da sconfiggere o da distruggere. Vincerlo è lo scopo delle guerre (dove l'obiettivo finale è la conquista territoriale e l'egemonia politica ed economica), eliminarlo quello di stragi e massacri che appaiono, a prima vista, incomprensibili e gratuiti. Ma questo nemico esiste davvero? Quello che il potere individua come tale, è un pericolo reale o una costruzione artificiale?

Gli armeni non costituivano una minaccia concreta per l'Impero ottomano, in crisi ormai da decenni e in via di disfacimento nel corso della guerra mondiale che aveva scelto di combattere accanto alla Germania. Gli ebrei non avevano alcuna possibilità di minare la solidità e la compattezza del Terzo Reich, e non erano certo responsabili di quella "pugnalata alle spalle" di cui la propaganda nazionalista li aveva accusati, incolpandoli della sconfitta nel primo conflitto mondiale. I cittadini della Cambogia uccisi nel mattatoio di Tuol Sleng – fossero vietnamiti o cinesi, intellettuali o contadini – non costituivano un pericolo per la continuità dell'appena costituito regime khmer rosso. I Tutsi in Ruanda, o gli Hutu moderati massacrati con loro, non stavano sfidando il regime di Habyarimana, né potevano essere considerati coinvolti nell'esplosione dell'aereo in cui si trovava insieme al presidente del Burundi, atto che diede il via al genocidio del machete.

Il nemico, in questi casi, è mera invenzione o la sua individuazione anticipa una minaccia possibile? Costruire il nemico rappresenta uno strumento del potere per dare maggiore coesione – con la mobilitazione e la paura – al proprio popolo o al gruppo su cui si appoggia?

Ed è certo, comunque, che manchi del tutto una motivazione concreta e una spiegazione reale alla violenza? Che non ci sia, sullo sfondo, una risposta certo terribile e sproporzionata, ma forse non del tutto immotivata?

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Pagina 52

L'Europa, nel non lontano trentennio 1915-1945, è stato il teatro della più grossa e terribile carneficina che la storia umana abbia sperimentato: eppure gli europei si sentono – oggi naturalmente – un popolo propenso alla pace assai più dell'Occidente nordamericano o di altre regioni del mondo.

Gli italiani, anche se la diffusa convinzione che li dipingeva come brava gente ha perso negli ultimi anni la certezza e lo smalto che aveva in passato, sono più propensi a vedersi vittime della violenza altrui – di quella tedesca nelle stragi del 1944-1945; di quella jugoslava nelle foibe; di quella sovietica nei campi di prigionia – che non promotori e agenti attivi della stessa.

Qualcuno si ricorda di, ha chiesto perdono per, ha proposto di commemorare la data in cui a Debrà Libanòs, sessantasette anni fa, abbiamo trucidato oltre duemilacinquecento persone in una volta sola, evirando gli uomini e squarciando il ventre alle donne, trafiggendo i bambini con le baionette e massacrando a sangue freddo tutti coloro che in quel disgraziato 20 maggio 1937 si trovavano nel monastero cristiano copto che il maresciallo Graziani aveva deciso di punire perché colpevole, a suo dire, di avere dato asilo ai due partigiani etiopi che avevano osato compiere un attentato contro di lui?

Sono le circostanze storiche, le élite politiche al potere, le condizioni di vita e le attese in cui vive la popolazione, la presenza o mancanza di risorse che si ritengono vitali, l'identificazione di un nemico vero o presunto che si reputa minaccioso, che rendono possibile a ogni civiltà di compiere atti di violenza inimmaginabili al suo popolo solo pochi anni prima o dopo averli compiuti. Sono la struttura e l'ideologia degli stati che rendono le società corresponsabili o succubi delle violenze di cui saranno partecipi o complici. Certo, quanto più le credenze e i valori diffusi in una società contengono elementi di intolleranza e di discriminazione – siano essi religiosi, politici, ideologici, comunitari, culturali – tanto più per i regimi politici intenzionati a usare violenza diventa più facile convogliare parti e settori della società verso il loro obiettivo. Ed è quella cultura, in molti casi, a orientare verso una forma o l'altra di violenza, a rendere così particolare e diverso dagli altri un massacro, una strage, un genocidio.

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Pagina 124

Dal punto di vista culturale, della cultura dei governi e degli stati più forti, sembra di essere tornati per certi versi alle giustificazioni dell'epoca coloniale, quando un forte e sincero sentimento della missione civilizzatrice accompagnava le inevitabili azioni militari. Il paradosso attuale dell'Occidente sembra essere quello di proseguire sulla strada dell'elaborazione di principi e diritti universali; ma di violarli in nome dei propri interessi più immediati (riassunti nel principe dei princìpi attuali: la sicurezza) e di legittimarne teoricamente e storicamente le violazioni. Negando agli altri, invece, ogni forma di giustificazione se la violenza si rivolge contro l'Occidente.

Sembra non esistano più criteri univoci con cui giudicare, condannare, giustificare o comprendere la violenza: quel che accade in Cecenia, in Palestina, nel Kashmir, è valutato tenendo conto degli schieramenti internazionali e del grado di adesione al modello occidentale; di quello che succede in Congo, in Costa d'Avorio, Birmania, Etiopia, Colombia si parla come di eventi naturali cui occorre fare l'abitudine. E in modo speculare ogni forma di intervento da parte dell'Occidente è spesso vista, ormai, come strumento del suo dominio mondiale: l'intervento in Kosovo è assimilato a quello in Afghanistan e questo a quello in Iraq, perdendo di vista, insieme alle differenze delle motivazioni, la diversità delle cause che hanno provocato queste violenze recenti.

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