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| << | < | > | >> |IndiceICEBERG il mio Sessantotto/1 Andrea Camilleri Del Sessantotto e altre eresie 7 Luciana Castellina Dall'ortodossia del partito all'eresia del movimento 25 Karl Dietrich Wolff La nostra vittoria con Dutschke 34 Axel Honneth L'anno di una generazione 45 Paolo Mieli Militante e giornalista 55 Nicola Piovani L'euforia civile di un anno che cambiò la mia vita 70 Anne Wiazemsky Io, Godard e il Maggio francese 75 Gian Carlo Caselli Sessantotio: i semi della violenza politica 92 Todd Gitlin Il Sessantotto a stelle e strisce 104 Letizia Battaglia Con il Sessantotto ho ritrovato me stessa 114 Paolo Flores d'Arcais Gli anni dell'incanto libertario 123 EST/OVEST Rudi Dutschke in conversazione con Jacques Rupnik Il malinteso del 1968 139 CARTA CANTA 143 Ingrid Colanicchia e Giacomo Russo Spena 'Una tigre di carta contro gli studenti' 144 in appendice Indro Montanelli Gli altri giovani 165 Paolo Flores d'Arcais I giovani della nuova sinistra 168 Giampaolo Bultrini e Mario Scialoja La battaglia di Valle Giulia 181 CONTROVERSIA 187 dossier Pasolini Pier Paolo Pasolini Il Pci ai giovani! 188 Nello Ajello / Vittorio Foa / Claudio Petruccioli / Pier Paolo Pasolini Vi odio cari studenti 191 Alberto Moravia / François Revel / Michel Butor / Goffredo Parise / Eugenio Montale / Guido Piovene / Franco Fortini / Johannes Agnoli Le ceneri di Pasolini 200 Pier Paolo Pasolini Perché siamo tutti borghesi 207 BILANCI E PROSPETTIVE Adriano Sofri / Paolo Flores d'Arcais / Gianni De Michelis / Fabio Mussi / Lea Melandri / Ernesto Galli della Loggia / Roberto Formigoni 1968 vent'anni dopo: una rivoluzione fallita 213 NOTIZIE SUGLI AUTORI 229 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Il 1968 resta una data cruciale nella storia del dopoguerra. Ma l'indifferenza verso il passato che, di generazione in generazione, sembra ormai diventare sempre più la normalità, al punto da non essere neppure più percepita come tale, rischia di farlo ricordare solo con la reviviscenza di logore accuse che già allora caratterizzarono l'opinione d'establishment (la violenza eccetera) o con il virare a reducismo di una sacrosanta nostalgia.
MicroMega
ha scelto perciò la strada delle testimonianze in prima persona.
Che oltretutto sotto il profilo storico, massime per l'epoca contemporanea,
dovrebbero essere materiale privilegiato, anziché secondarie
rispetto ai documenti ufficiali. Per il 1968 questo vale in modo
particolarissimo, poiché spesso chi agiva non scriveva documenti, e i resoconti
della stampa e della tv erano particolarmente menzogneri, o nel caso
(rarissimo) del rispetto dei fatti (all'epoca quasi unico
L'Espresso
) favorivano poi nelle interviste le fonti più vicine e avvicinabili (si veda
quanto ne racconta Paolo Mieli a p. 62).
Il Sessantotto, inteso come il grande movimento di contestazione di quegli anni, nacque in realtà quasi ovunque negli anni precedenti e durò negli anni successivi, in modo non sovrapponibile da paese a paese, come del resto confermano tutte le testimonianze che pubblichiamo. Se prese il nome da un anno specifico è perché nel 1968 si dispiegò in tutto il mondo, e con il maggio e giugno in Francia raggiunse il suo acme di evidenza internazionale e mediatica (benché sia stato molto più sanguinoso in Messico), poiché coinvolse tutto il sistema produttivo e non solo quello scolastico e universitario. I testimoni che abbiano scelto appartengono a generazioni diverse, solo una parte è di allora ventenni, e non tutti fra loro parteciparono attivamente. Anche la posizione verso il Sessantotto è diversa, sia quella di allora, sia quella attuale e retrospettiva. Ma non sono stati scelti col «bilancino» del finto pluralismo, che scambia troppo spesso imparzialità con equidistanza. Li abbiamo scelti valutando quali tra le voci di persone diventate in qualche modo delle personalità della vita pubblica, soprattutto culturale, avevano da raccontare senza reticenze un «mio Sessantotto» capace di restituire le diverse angolazioni esistenziali con cui quel movimento fece irruzione e lasciò il suo segno. Si evita così la disputa sulla sconfitta o i successi del Sessantotto, e si cerca di capire, attraverso «vissuti» tra loro diversi, come in ciascuno influirono e confluirono gli elementi politici, culturali, di cambiamenti nei costumi, di scoperte emotive e pelsonali, che ancora oggi li spingono a ricordare quegli anni, con gradi diversi di adesione o di rifiuto.
Purtroppo è prevedibile, invece, che le «celebrazioni» del
Sessantotto, su cui i media si eserciteranno comunque (benché in forma temo
ridotta rispetto all'importanza di quel periodo storico, vista l'attuale
egemonia
reazionaria), faranno della «violenza», dell'«estremismo» e dell'utopia, i
topoi
di dispute tra personaggi (anziché personalità).
Offuscando un dato storicamente certo: che nel Sessantotto la violenza del movimento fu sempre e solo difensiva, sempre e solo di risposta alle azioni repressive delle forze di polizia. Libero chi preferisce insistere che era violenza l'occupazione di edifici pubblici, dunque legittima la repressione di Valle Ciulia, o della notte parigina delle barricate e dunque violenza la reazione di legittima difesa degli studenti in entrambi i casi: si evita di capire come in determinati momenti e occasioni l'occupazione di una facoltà o di una fabbrica, proprio perché non sono routine, costituiscano una forma di disobbedienza civile di alto calore morale e/o sociale. O si proietta sul Sessantotto ciò che non fu quel movimento ma il seguito del suo sfilacciarsi ed estinguersi in quanto movimento, dalle cui ceneri alcune frange decisero di dar vita ad organizzazioni clandestine di lotta armata. Dimenticando che il gruppo che nella vulgata più viene accusato di estremismo, Lotta continua, decise di sciogliersi proprio quando il gruppo dirigente avvertì scricchiolii di tentazioni in quella direzione (oltre che per il noto scontro che in tale quadro vende sollevato da alcuni settori femministi contro lo stesso gruppo dirigente).
E si dimentica il carattere sistematico che ebbe invece la repressione
governativa e poliziesca, si cancella (ormai è considerato mostruoso il
semplice farvi cenno) che forme di tortura in senso stretto (ad esempio
l'affogamento simulato con acqua e sale tramite imbuto o con straccio
imbevuto di acqua sulla bocca) furono praticate spesso sugli arrestati,
anche nella primissima fase del Sessantotto. Ma queste modeste verità di
fatto (riferite allora da chi le subì) sono state cancellate, e chi prova a
ricordarle è colpito da anatema di «filo-terrorismo».
Qualcuno, come abbiamo detto, non è d'accordo con queste valutazioni: MicroMega ha interpellato anche alcuni di loro - non per poter vantare aperture a chi dissente - lo facciamo in molti numeri e in campo filosofico quasi in permanenza - bensì perché è importante che il lettore valuti le ragioni (comprese «le ragioni del cuore che la ragione non conosce») per cui personalità che con la rivista da anni si trovano in una consonanza intensa, su questo tema ormai storico abbiano maturato un giudizio diverso. Naturalmente singoli episodi di violenza del movimento, non di legittima difesa (al di là, o se si preferisce al di qua, dei brigatismi armati) ci furono. Ma in un mare di manifestazioni quotidiane per mesi e mesi in tutta Italia costituirono delle assolute eccezioni, e quasi sempre dopo che la strage di Stato delle bombe di Piazza Fontana a Milano aveva reso evidente il carattere simbiotico del rapporto tra strutture dello Stato e organizzazioni fasciste nelle sanguinose provocazioni.
Per quanto riguarda la Germania, poi, la rimozione forse più profonda
riguarda il merito cruciale che il Sessantotto ebbe nel costringere le
istituzioni ad un opera di de-nazificazione delle stesse che non era mai
stata seriamente intrapresa (anzi). Se per qualche decennio, nel sentire
comune e ancor più in quello mediatico, è crollata verticalmente ogni
compiacenza che facesse del nazismo e del suo esercito comunque un
momento della storia patria, al punto che ogni ricostruzione storica
«negazionista» dei crimini contro l'umanità dal nazismo perpetrati è stata
sanzionata penalmente e in Costituzione, il merito è quasi esclusivamente del
Sessantotto e della sua onda lunga.
Così come è mero dato storico che senza il Sessantotto non ci sarebbe stata in Italia la grande stagione delle lotte per i diritti civili. I radicali (quelli di allora) ebbero un merito incacellabile nel riuscire prima in Parlamento, e poi nello scontro referendario voluto con iattanza dalla Chiesa e dalla Dc, a far diventare legge il diritto al divorzio e all'aborto. Ma erano battaglie che conducevano da sempre e mai erano potute andare al di là della generosa e intransigente testimonianza. Nel clima creato dal Sessantotto fu invece possibile far diventare le rivendicazioni radicali rivendicazioni di massa (anche se il Pci non ci credeva e seguì piuttosto obtorto collo). Lo Statuto dei lavoratori fu esso stesso un effetto secondario del Sessantotto, benché il movimento lo considerasse un compromesso al ribasso. Il ministro socialista Brodolini non sarebbe mai riuscito a imporlo alla Dc senza il gigantesco movimento nelle fabbriche e il rinnovamento profondo dei sindacati metalmeccanici innescato proprio dal Sessantotto. Così come è impensabile senza quel movimento la nascita di un sindacato di polizia, la discussione sul servizio obbligatorio di leva che porterà infine alla sua soppressione e assai prima all'introduzione del diritto di obiezione di coscienza. O la legge Basaglia che avrebbe liberato i «matti» dalle pratiche violente, umilianti e anche al limite della tortura che nei manicomi di allora non erano affatto l'eccezione. O il seguito di leggi che culminarono con l'istituzione del servizio sanitario nazionale. E si potrebbe continuare.
Di particolarissimo rilievo fu la spinta cruciale che il Sessantotto
diede alla trasformazione del sistema dell'informazione. Chi ha meno di 65 anni
ha difficoltà a immaginare cosa fossero allora i quotidiani cosiddetti
indipendenti e il significato del termine «velina», oggi associato a belle
ragazze sculettanti su
Striscia la notizia,
ma in origine copie battute a
macchina tramite carta carbone su carta velina e inviate agli organi di
stampa dal governo e dalle questure. Il «pastone politico» e le notizie di
politica interna se ne abbeveravano come fosse vangelo, a dispetto di stridenti
verità di fatto sotto gli occhi di chiunque volesse tenerli minimamente aperti.
Senza il Sessantotto non sarebbe mai nata
la Repubblica.
Le «radio libere» furono il prodotto della stessa onda lunga.
Molto di tutto ciò è stato cancellato col passare dei decenni, in un'opera di restaurazione che ha visto complice anche la «sinistra» ufficiale. Il carattere libertario delle radio (e poi tv) è stato maciullato dalla logica di mercato e il pluralismo televisivo tradotto in lottizzazione partitocratica. La legge sull'aborto largamente vanificata da una versione aberrante dell'obiezione di coscienza (che vale per un servizio obbligatorio come la leva, non per scelte libere come la professione, dove deve vigere il dovere di prestare i servizi stabiliti per legge). I sindacati di polizia divenuti spesso puntello del più retrivo corporativismo.
Oggi il conformismo dell'informazione fa rimpiangere talvolta la situazione
pre-'68, che pure era cupa. Nell'ambito dei diritti dei lavoratori è
invece certo che la situazione sia peggiore rispetto a quel pre-. Solo
nell'ambito delle libertà sessuali sembrava che le conquiste dell'onda
lunga fossero irreversibili. E invece i progressi nell'eguaglianza tra donne e
uomini si sono arenati per poi invertire la rotta a causa dei colpi di
maglio che hanno devastato un già fragile welfare, e nell'ambito del
movimento femminista internazionale e italiano si sono fatte strada posizioni
sessuofobiche e oscurantiste che un tempo erano appannaggio
solo dell'integralismo cattolico.
Forse aveva ragione Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione
d'Indipendenza e terzo presidente degli Stati Uniti: ci vorrebbe una
bella rivolta ogni vent'anni.
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