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| << | < | > | >> |IndiceICEBERG il mio Sessantotto/2 Paul Auster Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi 3 Massimo Cacciari Un Sessantotto di classe 16 Sveva Gasati Modignani Fare il Sessantotto nel '58 27 Irena Grudzinska Cross Il Sessantotto in Polonia tra 'ragazzi viziati', marxisti ed ebrei 37 Piera Degli Esposti Un anno di festosa sonorità 47 Lorenza Carlassare In cattedra dalla parte degli studenti 54 Loriano Macchiavelli Va in scena il Sessantotto 62 Francesco Guceini Amsterdam e balere 73 Eva Cantarella Un Sessantotto vissuto due volle 76 Francesca Marciano Un'adolescenza in Movimento 80 Gustavo Zagrebelsky Uno scossone necessario 88 Renzo Piano Cambiare il mondo costruendo 95 Alex Zanotelli Il battesimo dei poveri 101 Edoardo Boncinelli Capopopolo per caso 107 Carlo Verdone ... e finì tutto in un film di Verdone 111 EST/OVEST Martin Walser 'Quando verrà l'inverno' (il mio Sessantotto in versi) 125 Milan Kundera / Václav Havel / Karel Kosík Il Sessantotto ceco e il destino di una nazione 130 CARTA CANTA 161 Mario Tronti Lenin in Inghilterra 162 Una Chiesa maoista (estratti da Servire il popolo) 169 Salvatore Salta / Bruno De Finetti / Ludovico Quaroni / Giovanni Vitucci Università: che fare? 174 CONTROVERSIA Alberto Moravia / Oreste Scalzone / Sergio Petruccioli / Massimiliano Fuksas / Valerio Veltroni / Duccio Staderini Processo a Moravia 183 NOSTRA PATRIA È IL MONDO INTERO Daniel Cohn-Bendit / Lewis Cole / Yasuo Ishii / Karl Dietrich Wolff / Jan Kavan / Dragana Stavijel / Luca Martin de Hijas / Ekkehart Krippendorff / Luca Meldolesi / Tariq Ali / Alan Geismar / Leo Nauweds in conversazione con Robert McKenzie Perché protestano 193 NOTIZIE SUGLI AUTORI 205 |
| << | < | > | >> |Pagina 3La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all'occupazione dell'università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall'assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Il 1968 è stato probabilmente l'anno più importante, folle e confuso della mia vita. Sono nato nel 1947, ciò significa che nel '68 ho compiuto ventuno anni. A quell'epoca ero perciò giovane, ma non così giovane. Durante gli anni precedenti, vale a dire più o meno dal 1960, da adolescente, ho sempre seguito con attenzione quello che accadeva negli Stati lmniti e nel mondo. In particolare, quando andavo alle superiori, m'interessavo al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e seguivo gli sviluppi dell'«escalation» in Vietnam. Ero sostenitore dei Sane (National Committee for a Sane Nuclear Policy), un gruppo pacifista degli Stati Uniti, che si opponeva all'uso delle armi nucleari. Quindi seguivo con attenzione gli avvenimenti, ed ero partecipe di quello che succedeva, ma non ero un attivista. Stavo maturando la decisione di fare lo scrittore e avevo già iniziato a scrivere poesie e racconti. Nel 1965, a diciotto anni, sono entrato come studente alla Columbia University. Ero ormai risoluto nel voler diventare uno scrittore e continuavo a informarmi con grande interesse su ciò che mi succedeva intorno. Il 1967, ad esempio, è stato un anno molto turbolento. È stato l'anno della guerra dei Sei giorni in Israele e dei giganteschi disordini a Newark, nel New Jersey, la città dove vivevano mia madre e il mio patrigno, avvenimenti che ho visto io stesso con i miei occhi. | << | < | > | >> |Pagina 16Il contesto Il Sessantotto, nella mia personale periodizzazione, comincia molto prima del 1968: la data che ne segna l'inizio è il 1962, con la grande manifestazione di piazza Statuto, a Torino, la quale denuncia lo scollamento tra un largo settore della base operaia della Fiat, cioè del faro del capitalismo italiano, una nuova classe operaia e le organizzazioni storiche del sindacato e del partito. È lì che comincia il vero Sessantotto e cioè quando sulle macerie del movimento operaio sindacale alla Fiat degli anni Cinquanta, rinasce una forza politica operaia di tipo completamente muovo. In quel momento c'era già, in nuce, tutto ciò che accadrà dopo e che sfocerà nell'autunno caldo, nel movimento studentesco, nei gruppi cosiddetti extraparlamentari con loro diverse elaborazioni eccetera. La mia lettura, in linea generale, è la seguente: nel dopoguerra si ha quello che io chiamo il «ventennio socialdemocratico» - che non è neanche propriamente un ventennio che rivoluziona profondamente i rapporti di potere all'interno del sistema sociale di produzione capitalistico a favore del lavoro dipendente, di quello salariato, politicamente «egemonizzato» dall'«operaio massa» delle grandi fabbriche del Nord. La stessa Democrazia cristiana allora al potere non può non fare i conti con questa realtà. La Dc di quegli anni non è affatto un partito conservatore. La Dc di allora è anche Fanfani, è anche Moro, è politica sociale, e dunque a mio avviso è parte integrante del ventennio socialdemocratico. Ci sono, certo, tentativi di spostare l'asse della Dc a destra, tentativi che danno vita al governo Tambroni, ai fatti di Genova del 1960 e che rappresentano un momento fondamentale in questa storia. Però falliscono: l'ipotesi di una Democrazia cristiana che guardi a destra non passa perché i rapporti sociali erano quelli. E l'esperienza di centro-sinistra sancisce ciò includendo nel governo rappresentanti di primo piano di un'idea quasi di via democratica al socialismo, come Riccardo Lombardi. Si assiste dunque, in quegli anni, un po' in tutti in paesi capitalistici, in tutto l'Occidente, a una ridistribuzione profonda del reddito, ma soprattutto del potere, processo che raggiunge il suo apice nella metà degli armi Sessanta e che scombussola il quadro politico e quello sociale. In Italia questo processo costringe a una riorganizzazione del ceto politico del centro-sinistra, all'interno del quale iniziano ad aumentare il peso e la capacità di influenza del Partito comunista. Basti pensare al fatto che un esponente di spicco della sinistra socialista, come il già citato Riccardo Lombardi – e poi Giacomo Brodolini, Giorgio Ruffolo eccetera – ha in quegli anni un grande peso all'interno del piano di programmazione. In questo quadro, agli inizi degli anni Sessanta, si affaccia nelle fabbriche una generazione, una classe operaia giovane che non si è formata nell'antifascismo e in quelle correnti politiche rappresentate da un po' tutte le componenti del Partito comunista. Una classe operaia che non viene dal mondo contadino e che, a differenza di quella anteguerra, è scolarizzata e refrattaria all'ideologia delle correnti tradizionali del movimento operaio. Una cosa analoga accade nel ceto medio, tra i giovani che vanno all'università, nella scuola: scollamento totale dal padre, parricidio generalizzato. Oppure nostalgia del nonno, saltando al di là del padre: mi riferisco ai miti resistenziali che caratterizzavano alcuni di questi gruppi. Queste due componenti sociali, così nuove da un punto di vista antropologico, gli operai e le masse studentesche provenienti in gran parte dal ceto medio, nel Sessantotto si congiungono. E allora avviene l'esplosione di fermenti che covavano da molto prima. Mi pare quindi indubitabile che la lettura da fare sia questa: il Sessantotto rappresenta l'apice di questo processo che giunge fino al punto di porre esplicitamente la questione del potere politico, in un momento in cui gli equilibri che erano stati raggiunti - e che erano il massimo che la borghesia, come si chiamava allora, potesse accettare - non funzionano più. | << | < | > | >> |Pagina 73L'aria che qualcosa stava per cambiare si avvertiva già da prima del 1968. Ne abbi la netta sensazione tra il '66 e il '67, quando andai ad Amsterdam, dove erano attivi i Provos, proprio per capire cosa questo movimento controculturale dei Paesi Bassi avesse in mente. Mi resi subito conto che erano molto diversi da noi italiani figli di piccoli borghesi: era gente che faceva una vita molto differente dalla nostra. Un giorno, mentre camminavo con uno dei capi di questo gruppo, passando vicino a un bidone della spazzatura, vedemmo un paio di scarpe. buttate lì e lui disse: «Uh, queste sono interessanti, possono ancora servire!». E se le portò via. Una cosa che noi non avremmo mai fatto. Vivevano in maniera diversa da noi, per proprio conto, in piccole comuni addirittura. Noi a questo non eravarno ancora arrivati. Del mio soggiorno ad Amsterdam ricordo in particolare una manifestazione contro la guerra in Vietnam. La protesta non era autorizzata, perché l'idea era che, in tal modo, la polizia sarebbe intervenuta per sedarla, ci avrebbe picchiato e saremmo finiti sui giornali, garantendo in pratica che la manifestazione fosse un successo. Io ero là, con la chitarra, e fui intervistato per caso - ovviamente non mi conosceva nessuno - da un giornalista che mi chiese chi fossi, avendo sentito che ero uno straniero. In effetti, alla fine la polizia intervenne, non sono certo se usò anche i gas lacrimogeni, ma sicuramente cominciò a manganellare e scappammo via. Poi conobbi una ragazza e mi imbarcai dietro di lei. Quando scoppiò il Sessantotto, partecipai all'occupazione della facoltà di Magistero a Bologna, anche se non vi passai mai la notte. A Magistero erano quasi tutte donne, come alle magistrali, e quindi l'elemento femminile era preponderante, ma nei giorni delle occupazioni non ho mai combinato niente da questo punto di vista. Parlavamo soprattutto dell'università, di come avrebbe dovuto funzionare. Ricordo che c'era anche un altro musicista. Rudi Assuntino, che faceva canzoni molto più rivoluzionarie delle mie - tipo «Buttiamo a mare le basi americane» - e che mi tacciava, non dico di essere reazionario, ma quasi. Eppure non lo ero! Di quel periodo i ricordi più vivi riguardano non tanto l'occupazione di Palazzo Campana a Torino, che pure è il momento che apre il Sessantotto, ma i fatti di Roma e la reazione di Pasolini, la cui poesia fu pubblicata su L'Espresso. Tutto sommato, pensavo che non avesse tutti i torti. Ne parlai fra l'altro con un amico, uno del Pci, e anche lui era d'accordo con me, perché in fondo questi poliziotti d'allora erano proletari o sottoproletari che venivano mandati allo sbaraglio. In quegli anni suonavo già da tempo. Nel 1964 era uscita Auschwitz, nel 1966-67 Dio è morto e all'epoca ricordo che ci incontravamo in un appartamento di amici, che era stato liberato dai genitori ed era stato battezzato «Folkstudio», dove ci trovavamo certe sere alla settimana a suonare e a discutere. | << | < | > | >> |Pagina 76Tra Berkeley e Milano Se penso al Sessantotto, quello che mi torna alla mente è innanzitutto l'esperienza vissuta negli Stati Uniti cinque anni prima. Nel 1963 mi ero sposata con Guido Martinotti, che aveva avuto una borsa di studio di due anni negli Usa. Io non potevo fermarmi così a lungo, perché ero già assistente all'università (sia pur «volontaria», vale a dire non retribuita, come allora accadeva) e andai con lui per un anno all'Università di Berkelev. E a Berkeley nel '63 possiamo dire che fosse pieno Sessantotto. L'università non era occupata, le lezioni si svolgevano regolarmente ma nel campus c'era un'attività e un movimento continuo di idee e di protesta. C'erano grandi manifestazioni contro la guerra, contro la politica americana, soprattutto quella estera. C'era il movimento per il Free Speech. Si vedevano i primi «arancioni», gli Hare Krishna... Dall'altro lato del ponte, a San Francisco, c'era tutta la Beat Generation e un mondo letterario nuovo. Si leggevano poesie, c'era uno scambio continuo tra politici e letterati, e di tutto questo si discuteva nel campus, tra una lezione e l'altra, nelle riunioni più o meno improvvisate, che si svolgevano tra Berkeley e San Francisco, o in quelle che si tenevano la sera tra amici, in un confronto continuo di idee, che ha contribuito in modo determinante alla mia formazione intellettuale, politica e sociale. In Italia allora c'era ancora il delitto d'onore, l'adulterio era un reato solamente se commesso dalle donne, non esisteva il divorzio, il codice civile prevedeva che la moglie dovesse seguire il marito ovunque decidesse di stabilire la propria residenza, i reati di «ratto» si dividevano tra quelli «a fini di seduzione» e quelli «a fine di matrimonio» (fine, beninteso, esclusivamente del rapitore, l'intenzione della rapita non interessava) e nella seconda eventualità la pena era minore. Nel 1967, non a caso, avrebbe fatto grande clamore la vicenda di Franca Viola, una ragazza siciliana che, per prima, rifiutò di sposare l'uomo che l'aveva rapita e stuprata. Ancor prima di andare negli Stati Uniti, io sentivo come una costrizione quel tipo di mentalità e avevo ben chiaro in mente che non avrei mai accettato un matrimonio borghese tradizionale (tavola pronta, posate d'argento, moglie che prepara la cena per il marito che torna dal lavoro...). Quando arrivai a Berkeley, mi trovai in un altro mondo e scoprii una mentalità e uno stile di vita radicalmente diversi. Ciononostante, dopo un anno decisi di tornare a Milano: avevo fatto gli esami da procuratore, ma non volevo fare l'avvocato, volevo fare la carriera universitaria. Mio marito, che era molto più aperto dei suoi coetanei dell'epoca, capì perfettamente. Lo scarto rispetto ai ragazzi della sua età, del resto, si coglieva in tante cose: non si è mai aspettato che io mi occupassi della casa, né ha mai preteso che cucinassi (e infatti sono rimasta una pessima cuoca, o meglio non-cuoca: non so cucinare assolutamente nulla). Per me e per Guido era chiaro che, se uno di noi per lavoro doveva allontanarsi, andava dove ritenesse necessario. A me tutto questo sembrava scontato, come fortunatamente sembrava a Guido. E così, in perfetto accordo, decidemmo che lui sarebbe rimasto a studiare a Berkeley un altro anno e io sarei tornata a Milano. Berkeley però mi aveva cambiato la vita. Avevo avuto la fortuna di vivere un momento straordinario, un insieme di ribellione politica, culturale e sociale. Così, quando il Sessantotto arrivò in Italia, a me pareva di averlo già vissuto. | << | < | > | >> |Pagina 193
La sera del 13 giugno, la televisione inglese ha messo in onda un
dibattito intitolato «Studenti in rivolta» al quale hanno preso parte esponenti
dei movimenti studenteschi europei, americani e
asiatici. Il dibattito, moderato da Robert McKenzie, commentatore
di politica estera della BBC, verteva sulle ragioni e gli scopi della
rivolta studentesca che, ha detto McKenzie, «sta indubbiamente
influenzando il corso politico della storia». Del dibattito, Panorama presenta
una trascriziolre, tratta dal testo diffuso dalla BBC.
Robert McKenzie: Prima di tutto, voglio fare questa domanda: che cos'è che non va nell'attuale società? Perché, secondo i capi dei movimenti studenteschi che abbiamo qui riuniti, essa dev'essere cambiata? Per cominciare, vorrei chiedere al signor Cohn-Bendit, di Parigi, la sua opinione, dato che egli è una delle persone maggiormente coinvolte negli avvenimenti delle ultime settimane. Daniel Cohn-Bendit: Devo precisare che noi non siamo i capi del movimento studentesco, ma ci consideriamo soltanto i megafoni, gli altoparlanti di esso. Premesso questo, la risposta è molto semplice. Noi critichiamo qualsiasi società in cui gli individui rimangono passivi, vale a dire non hanno il potere di cambiare nulla di ciò che sono costretti a fare. McKenzie: Vorrei sapere che cosa ne pensa Lewis Cole, degli Stati Uniti, che ha avuto una parte importante, direi molto vivace, nell'azione studentesca della Columbia University. Lewis Cole: La ragione per cui sono accadute certe cose alla Columbia, la ragione per cui negli Stati Uniti il movimento studentesco si è sviluppato così rapidamente, specialmente quest'anno, è principalmente una: gli studenti non credono più che l'attuale società possa garantire loro un effettivo diritto di scelte sociali che assicuri un certo grado di libertà. Perciò essi sono spinti a fare, per conto loro, certe scelte e queste scelte essi le vedono sempre più in termini di opposizione alle autorità che attualmente governano le università, alla polizia cui ricorre l'amministrazione universitaria, al Presidente o all'esercito di cui si serve il Presidente per bloccare la protesta studentesca. McKenzie: Sentiamo ora che cosa succede in Giappone. C'è qui il signor Ishii, che è originario di Tokio, ma è vissuto per diverso tempo in Europa. Yasuo Ishii: Io credo che, in primo luogo, dobbiamo considerare l'azione contro la guerra, perché... McKenzie: La guerra nel Vietnam? Ishii: Prima di tutto la guerra nel Vietnam, per ragioni geografiche, giacché siamo molto vicini al Vietnam e il Giappone, anche se non vi è direttamente coinvolto, ne risente profondamente le conseguenze. Perciò noi vogliamo che la guerra finisca. In secondo luogo, abbiamo l'esperienza di Hiroshima e di Nagasaki e quindi, da un punto di vista generale, siamo congro la guerra, che porta sofferenze alle popolazioni civili. McKenzie: Capisco che la guerra del Vietnam sia stato un potente catalizzatore e che in tutto il mondo molta gente, e non soltanto gli studenti, abbia avuto reazioni emotive profonde. Ma ciò che vorrei sapere è questo: se nella società occidentale, in cui includo il Giappone, c'è secondo voi una necessità intrinseca, fondamentale, di cambiamento. Mi rivolgo a Karl Dietrich Wolff, che viene dalla Germania occidentale, affinché ci spieghi qual è la ragione per cui gli studenti del suo Paese hanno, in questi ultimi mesi, reagito così passionalmente. Karl Dietrich Wolff: Questo non è un problema di situazioni nazionali. Bisogna capire che le società occidentali, così come sono, non funzionano come dovrebbero, non realizzano le nostre possibilità storiche. Voglio dire per esempio che l'industria della Germania occidentale non sfrutta il 40 per cento della sua potenziale produzione di acciaio e che di quel 60 per cento che utilizza il 20 per cento circa va sprecato. Ora, noi vediamo che un sistema che fa un continuo spreco di ricchezza tenta di mantenersi in piedi con metodi repressivi in ogni campo: è repressivo nelle fabbriche, dove gli operai non possono controllare ciò che producono; è repressivo nelle scuole, dove gli studenti di liceo non possono manifestare; ed è repressivo nelle università, per mezzo degli esami e di altri pretesti didattici. McKenzie: Veniamo al sodo. Voi ritenete che sia stato uno spreco di tempo rendere i sindacati operai compartecipi della gestione delle aziende?
Wolff:
Questo può essere considerato un passo avanti fatto nelle fabbriche. Ma voi
siete in errore se pensate che il nostro sia soltanto un movimento studentesco,
perché non lo è affatto. È cominciato a livello universitario perché gli
studenti erano nella condizione privilegiata di poter capire ciò che non andava
nella società. È un problema che sorge dal superato capitalismo delle
società occidentali, e dalla burocratizzazione oligarchica dei Paesi dell'Est.
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