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| << | < | > | >> |IndiceQuando ho conosciuto Ambrogio 9 di Giangiacomo Schiavi I. Ieri e oggi Reinventarsi una vita 25 La mosca al naso 30 Controvento e controcorrente 35 Il sogno di ricominciare 39 I giorni grandi 42 Chiedo il diritto di vivere 45 Non dimenticatemi 49 Vincere la paura 52 II La lezione Il mestiere di padre 59 Pane, nutella e Jonathan 62 Lettera dal carcere 65 Imparare dai campioni 68 III. Gli amici Mauro, aspettami 73 Non mollare 77 Dalla parte dei secondi 81 Una debole farfalla 84 A mani nude 89 Senza padrone 94 Telepatia 97 Fratelli di corsa 100 IV. Fede e destino La vita, sempre 105 Io credo 108 Non arrendersi mai 111 Sursum corda 116 V. Dal mare al deserto C'era una volta il Surprise 121 Passaggio a Capo Horn 124 Il mare in fondo al cuore 127 Le sabbie del Turkmenistan 130 Ringraziamenti 135 |
| << | < | > | >> |Pagina 25REINVENTARSI UNA VITACaro Fogar, lei è un esempio, per ogni persona che soffre, a non mollare mai, perché ci deve sempre essere la speranza in un futuro anche imminente in cui la medicina possa giungere a un progresso tale da poter fornire cure che leniscano le sue sofferenze e le consentano una qualità di vita migliore. In Italia come nel mondo si spendono milioni di euro per una quantità indescrivibile di cose dannose per l'uomo e inutili, e pochissimo viene fatto per ridurre al minimo la sofferenza, o meglio ancora per condurre ricerche serie. Tutto ciò mi rende molto triste.
Massimo
Ho reinventato una vita senza voce e senza corpo, attaccato a una piccola speranza, al sogno di poter muovere un dito, una mano, toccarmi quel che resta dei baffi o grattarmi ancora il naso e sono qui a chiedere di vivere quell'attimo ai dottori e alla scienza: voglio essere una cavia, voglio mettermi ancora una volta alla prova. Ho rinunciato per sempre a sentirmi uguale a prima, ma sono stanco di aspettare un'occasione che non viene mai. La ricerca scientifica avanza lentamente, rendere di nuovo attivo il midollo spinale tranciato è una meta lontana. Un medico mi ha detto: «Risolvere questo problema è come saldare un filo di rame con la marmellata». Non so come sarà il vostro domani, io non ho futuro. Per questo corro contro il tempo e ho tanta fretta di arrivare. Sono un volontario della sperimentazione, un candidato alla terapia delle staminali. Da quasi tredici anni vivo tutto il male della morte nella perfetta coscienza della vita. Spero di interrompere la paralisi per completare un percorso. Nel deserto potevo anche morire. E molti, forse, penseranno che era la cosa migliore. Senza quella dannatissima pietra nascosta dalla sabbia e dai secoli avrei gambe e muscoli per correre ancora. Potrei navigare, scalare una montagna, attraversare una foresta. Ma senza l'elicottero del soccorso vicino, senza la casualità del suo passaggio in quel drammatico istante, non sarei qui a raccontare com'è andata. Sono condannato a essere immobile. Ma il cervello funziona. Sono tetraplegico, uno di quelli che nel destino hanno pescato una vita spezzata. Una vita che è come un bicchiere, mezzo pieno o mezzo vuoto. Dipende dove si vuole guardare. Ho imparato a non mollare in tempi lontani, quando l'energia mi aiutava a resistere in situazioni disperate. Ma questa sopravvivenza è un'impresa. La spina dorsale con i contatti interrotti non risponde a nessuna sollecitazione. È difficile rassegnarsi, passare di colpo dal movimento alla paralisi. Bisogna dominare la rabbia di non essere più come prima, non farsi travolgere dal peso dei ricordi. Accettare la fatica di una vita che impone regole diverse. Pensare che c'è ancora una finestra aperta sulla speranza. Con la speranza puoi dire: io vivrò. Mi sono allenato a non cedere, a coltivare la fiducia anche quando sembrava persa. Oggi ho scoperto di avere tanti amici che combattono la mia stessa battaglia. Gente che soffre, vecchi senza nessuno, malati di tutte le età. Vi faccio una richiesta: quando incontrate per strada qualcuno sulla carrozzella, non girate lo sguardo o, addirittura, non cambiate direzione. Fategli un sorriso, a voi non costa nulla, lui avrà la sensazione di non essere solo. Sono stato messo fuorigioco in un secondo. Potevo costruire un distacco come fanno certi santoni orientali, che predicano la separazione del corpo dalla mente. Ho scelto di restare nel presente, immaginando un altro viaggio. | << | < | > | >> |Pagina 35CONTROVENTO E CONTROCORRENTECaro Ambrogio, tu mi stavi antipatico. Troppo teatrale troppa voglia di protagonismo. Così ti vedevo. Ma adesso no, non più. Ora sei lì che lotti contro una cosa enorme, troppo grande. Non so cosa dirti, non so nemmeno se fai bene a resistere e non arrenderti. Non so cosa farei al tuo posto.
Alessandro
Non voglio lacrime dì compassione per la mia immobilità. Se così mi vedevi, amico mio, ti posso raccontare che io ho improvvisato ogni mia avventura controvento e controcorrente. Contro ogni previsione. Non ho programmato la mia vita. Non mi hanno sponsorizzato per fare il giro del mondo in solitario. Ho pagato io. Poi l'avventura è diventata la mia vita. Mi sono sentito realizzato. Ho vissuto momenti esaltanti che auguro a tutti di provare. Non è stata una pazzia. A viso aperto sono andato a cercarmi un'occasione. Tutti vogliamo provarci. Non sempre lo facciamo, per pigrizia, mancanza di tempo, paura di rinunciare a qualcosa. Volevo arrivare al Polo Nord con le mie forze, attraversare il deserto di ghiaccio in solitudine per realizzare il grande sogno della mia adolescenza. Avrei dovuto essere più chiaro. Scrivere subito: la mia impresa è fallita, proseguo per gli impegni presi con gli sponsor. La verità è che non ci si rassegna alla sconfitta. Chiunque avrebbe ridato una chance a Peary, Amundsen, agli esploratori artici. Ma non a me, all'assicuratore milanese che voleva misurare le forze di un uomo comune in un'impresa che di comune non aveva nulla. La banchisa non aveva la mia fretta, l'urgenza di passare, dire ciao, arrivederci a mai più. La banchisa ti lancia degli avvertimenti: quando sei sotto la tenda e senti quegli scoppi. Rumori infernali, a cui non ti abitui mai. Sentivo l'oceano che borbottava sotto di me. Non è come in barca, dove ti sentì più sicuro, grazie a uno scafo collaudato in tempeste severe. Sulla barca puoi anche lasciarti prendere dal sonno. Sul pack no, non è possibile. Ti accucci sotto una tendina di goretex, con un forellino per sciogliere la neve, avvolto in un sacco a pelo sempre umido, mentre il freddo non smette mai di stritolarti. Mi sono sopravvalutato. Ne soffro ancora oggi. L'aereo è intervenuto per evitare una tragedia. Potevo rientrare al campo base. Non ho resistito all'idea di vedere il punto finale. Il Polo era il traguardo e al traguardo sono voluto arrivare. Senza felicità. Io ho passato la vita a difendermi. Prima del mio incidente non c'è stato un solo momento in cui qualcuno non mi abbia attaccato. Ho vissuto sempre all'estremo. Ho avuto tanta presunzione, ho osato anche più del dovuto. Osare troppo è stato il mio errore. Ma questa era la mia medicina, il mio cibo. Andare oltre. C'era sempre una siepe da saltare. E una crosta di diffidenza da vincere. Se nell'oceano saltava il contatto radio dicevano che era un mio trucco per creare l'evento. Se una balena prendeva in groppa il Surprise scrivevano che era un'invenzione. Quando sono rimasto settantaquattro giorni su una zattera con Mauro Mancini, e lui non ce l'ha fatta, mi hanno processato. Io non so scrivere come Mauro, non ho la profondità del suo pensiero, ma ho cercato di cucirmi addosso questa straordinaria bontà, la generosità di chi naviga controcorrente. È quello che suggerisco anche a voi che inseguite un ideale. Il mare non è lotta tra uomini, diceva Mauro, dobbiamo fare attenzione che il mare non diventi occasione di mistificazioni e truffe. Ma una volta in pace con tutte le prove, bisogna trovare la quiete e la meditazione in nome di tutto ciò che ci sorprende, ci interessa, ci esalta e ci fa vivere. «Senza le storie di Fogar e di tanta altra gente che si chiama in altri mille modi, italiani o non italiani che siano, noi tutti saremmo più piccoli e meno umani» aveva scritto Mauro. | << | < | > | >> |Pagina 111NON ARRENDERSI MAICaro Ambrogio, non ti conosco ma stai urlando al mondo intero l'importanza di vivere. Io sono circondato da amici che ogni tanto pensano di farla finita. Il mondo in cui viviamo è poverissimo di valori. Cavolo, i miei nonni mi parlano di guerra, di coraggio, di gente che si è fatta picchiare per non fare la spia, e io con cosa posso ribattere?
Matteo
Anche in condizioni peggiori delle mie si rifiuta l'idea della morte. Ripeto: credevo non ci fosse una condizione peggiore di quella vissuta su una zattera alla deriva sull'Atlantico. Allora, riuscivo a convincermi: finché c'è il corpo, fino a quando potrò muovermi, non rinuncerò a vivere. La morte non esiste nella testa di un combattente. Il guaio è quando non puoi combattere, immobile e indifeso. Facciamola finita, ti viene da dire. Come puoi resistere così a lungo? A volte mi chiedo se ci sia ancora una finestra a cui affacciarsi. Mi aggrappo alle piccole cose. Nessuno sa capire veramente la felicità di un disabile. Siamo felici per un niente, anche solo un sorriso, o la telefonata di un amico. Mi piace avere un posto nel presente. Ho sempre guardato avanti. Ogni volta che bruciavo una tappa pensavo a quella successiva. Ho cambiato strade e itinerari. Quando se n'è andato Mauro, mi sono allontanato dal mare. Dopo il Surprise non ho più avuto una barca. In questo tempo, ho imparato a non cadere. A volte mi sento sospeso nel vuoto. Per anni ho lavorato con la mente, ho cercato un senso e l'ho anche trovato: questa immobilità mi aiuta a leggere pensieri segreti, a non fingere mai. Posso ancora essere d'aiuto a chi ha una speranza. Nel mio passato ho cercato di superare i limiti, oggi vorrei dare un senso alla speranza di quelli che non si muovono più. Cerco la tenerezza con gli occhi. Voglio essere accarezzato così. Con un lampo di dolcezza. Non interrogate il mio umore: ci sono giorni in cui il sole non arriva. A volte soffro in silenzio, cerco un posto dove nascondere la mia intimità. Per non essere spiato, un tetraplegico deve rifugiarsi altrove. È terribile rinunciare all'intimità. Ogni volta ti senti saccheggiato. Poi impari a fingere, a lasciare via libera a medici, infermieri, assistenti, fisioterapisti, amici, parenti. Non è come sulla zattera. È peggio. Sulla zattera ogni attimo poteva essere quello buono: una nave che compariva all'orizzonte, un elicottero in cielo, una vela avvistata. La lotta era anche fisica, con le gambe e con le braccia. In questo letto devo resistere lottando con la testa. La zattera era sottoposta all'incessante movimento del mare. Qui c'è l'immobilità assoluta. La zattera era un turacciolo inaffondabile, che subisce i colpi delle onde ma resta sempre a galla. Qui non sento nessun colpo. Sulla zattera c'era un momento per pensare e uno per parlare. Mauro e io ci confessavamo, ci raccontavamo anche le nostre timidezze. E veniva fuori che ci vergognavamo allo stesso modo di un certo conformismo al quale, sulla terraferma, non sapevamo opporci. Sulla zattera eravamo vivi ogni giorno. In quel guscio protetto c'era la nostra angoscia, ma anche la nostra voglia di vìvere. Non voglio credere di morire così, immobile. Per anni, in questa stanza, ho coltivato il sogno di tornare in mare. E un giorno ci sono riuscito. Era il 18 maggio 1997. Ormai sono passati otto anni, mi sembra un'eternità. Quando la barca è approdata a Trieste dopo essere partita da Genova e aver attraversato l'Italia, mi sono rivisto giovane uomo. Durante quel viaggio alloggiavo in un letto basculante, in grado di assorbire il moto delle onde, da cui potevo vedere il mare giorno e notte. Ma il mio vero scopo era ridare speranza, e decisi di farlo tenendo delle conferenze in tutti i porti che avrei incontrato per far conoscere il problema delle lesioni al midollo, così poco conosciuto in Italia e che condanna decine di migliaia di persone su una carrozzella. Ecco perché il Progetto Speranza ha dato ancor più speranza a me stesso: la gente è buona, basta saper parlare, non solo alle orecchie ma soprattutto al cuore.
Da allora, il mare è rimasto un desiderio. La mia salute è peggiorata, c'è
stata una brutta crisi. Ho temuto di essere dimenticato. Di sparire dai ricordi
della gente. Poi ho ricevuto migliaia di messaggi che mi hanno colpito. È bello
quando gli amici si ricordano di te. Arrivano, entrano, ridono, scherzano. Mi
riportano a un tempo interrotto, quando giocavo da titolare. Sono stati buoni:
non mi hanno messo mai fuori squadra.
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