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| << | < | > | >> |IndiceLuoghi comuni e luoghi condivisi 4 Autobus n. 56 LORETO 11 Ambaradàn 12 (il signor Gabriele, Porta Venezia) Autobus n. 56 D'AVIANO - DA LODI 25 Il sogno americano 26 (José e Milca, Loreto) Autobus n. 56 DA LODI E DINTORNI 39 I gladiatori 40 (Kais, Quartiere Isola) Autobus n. 56 ANACREONTE - DON ORIONE 57 Uno spazio verde 58 (Kamal, Milano est) Autobus n. 56 DE LA SALLE 69 Keep the beat 70 (Karkadan, quartiere Isola) Autobus n. 56 ROVIGO E DINTORNI 81 Due volti per un popolo silenzioso 82 (Liqin e Huang, quartiere cinese) Autobus n. 56 GIULIETTI 99 Un dolore straniero 100 (Elija, Cascina Gobba) Autobus n. 56 TRASIMENO 111 Le cose che si fanno insieme 112 (Orchestra di via Padova, via Padova) Autobus n. 56 (MERCATO) 118 |
| << | < | > | >> |Pagina 4Luoghi comuni e luoghi condivisiVicino a casa mia, in via Padova, c'era un posto chiamato Il tabaché del vintitrì - il tabaccaio del ventitré, dal numero civico. Fino a metà febbraio era un esercizio chiuso: saracinesca abbassata, negozio venduto. Solo l'insegna riportava ai vecchi tempi, con tutta la malinconia del dialetto. Poi, da un giorno all'altro, la saracinesca si è alzata. Andando al lavoro ho visto due ragazzi asiatici che sistemavano bottiglie di liquori e birra sui nuovi scaffali - interni bianchi minimali, ancora polverosi, ideali per l'ennesimo alimentari della strada: via Padova ne conta un'infinità. Così, fermo di fronte a quei due ragazzi, una mattina di metà febbraio, posso dire di non aver visto soltanto un negozio che riapriva, ma una particella del processo di meticciamento di Milano. In un certo senso, una conferma che il vecchio mondo - il mondo del dialetto, del com'eravamo una volta, ma anche della città italiana a tutti i costi - stava inevitabilmente crollando o era già crollato da tempo, sostituito da un universo più fluido, caotico e arlecchino. E questo ci porta diritti al libro che tenete in mano.
Babele 56
è stato scritto fra il gennaio e il giugno del 2007. Ho bussato alle porte di
bar e phone center e macellerie e girato su Internet e scovato agganci e
sbobinato interviste quasi sempre di notte. Il filo conduttore scelto
è stato il mezzo di trasporto urbano. Non molti immigrati
possono permettersi un'automobile, e dunque io e il mio
editor abbiamo deciso di mappare il percorso in questo
modo. Per aumentare l'effetto, ho usato un
cut-up
di impressioni di viaggio sull'autobus 56 come intercalare del
testo. (A Milano c'è l'usanza poetica di chiamare i bus al
femminile:
la 56
è "l'autobus degli immigrati", una corriera che percorre su e giù via Padova ed
è stipata di persone di mille nazionalità diverse: un autentico mondo in
viaggio). L'idea era di dare al libro una cornice fluttuante,
che rispecchiasse un po' queste vite, il loro essere sempre a metà fra un luogo
e un altro.
L'immigrazione in Italia è un processo in corso da molti anni. Negli ultimi dieci è aumentata esponenzialmente, e secondo le stime relative, ai soli immigrati regolari presenti sul territorio sono attorno ai tre milioni e mezzo (dati XVI Rapporto Annuale Istat): circa il 6% della popolazione complessiva. Da un punto di vista puramente strutturale, sono indispensabili al sistema così come il sistema è indispensabile a loro: e questo è già un dato decisivo. In genere, gli stranieri sul suolo italiano sono divisi in tre categorie: regolari se la loro entrata e permanenza nel territorio avviene secondo la procedura definita dalla legge (rispetto delle frontiere, del permesso di soggiorno ecc.); irregolari se entrano legalmente, ad esempio con un visto turistico, ma la loro permanenza diventa in seguito illegale (il visto non viene rinnovato, lavorano senza permesso ecc.); e infine clandestini se il loro ingresso è illegale già dalla partenza. Questo libro contiene testimonianze relative a tutte e tre le tipologie. Quanto a Milano, la popolazione straniera registrata in anagrafe è di circa 175mila individui (dati del Comune al 31 dicembre 2007): un elemento impressionante, tenuto conto appunto del mondo sommerso dei clandestini. Ma Milano è anche una città dove il meticciamento è ben visibile, e bene o male ha raggiunto un determinato equilibrio - pur fragile e problematico. Gli immigrati sono sparsi ovunque, e hanno un ruolo pienamente attivo nella vita della città. Determinate zone sono diventate inoltre dei veri e propri quartieri etnici, con un conseguente mutamento dello stesso tessuto urbano: penso a via Padova, alla Chinatown intorno a via Paolo Sarpi, all'Isola, o al lato ovest di corso Buenos Aires. È un fenomeno che non sembra legato a ghettizzazioni. Spesso si tratta di luoghi dove le residenze costano meno, o dove l'immigrazione è attiva da lungo tempo: in questo modo si può sviluppare una rete di mutuo soccorso, mantenendo legami culturali e di famiglia. In genere queste zone sono per lo più collocate a nord. Dall'altra parte della città mi sono spinto meno. Comunque, non era mia intenzione dipingere per intero la geografia del meticciato milanese. Il mio obiettivo era quello di raccontare storie, e farlo viaggiando sui mezzi pubblici: su e giù per la metro, su e giù per autobus e tram. Storie in movimento e che parlano la lingua della strada.
Per quel che concerne il criterio di scelta, ho cercato di
equilibrare come potevo inserimento e mancato inserimento nella società. In
queste pagine troverete ragazzi scampati al Mediterraneo e approdati in Sicilia,
manovali ucraini e cinesi che hanno lavato piatti per anni, ma anche storie di
successo personale e crescita. Di nuovo, questo non esaurisce certo la variegata
umanità degli immigrati a Milano, e moltissimi aspetti rimangono aperti. Cosa
dire ad esempio del sottobosco del crimine organizzato o
spicciolo? Nessuno vuole negare l'esistenza di simili problemi, né tantomeno la
loro urgenza. La criminalità immigrata è una realtà, esattamente come lo è
quella italiana.
Il dramma, come sempre, sta nell'omologazione forzata. In questo caso, una certa retorica di destra cerca di eliminare il problema immigrati semplificandolo fino alla brutalità: loro non sono tollerabili, l'Italia è degli italiani. (Ma basta pensare a quando gli albanesi eravamo noi, come ricorda il sottotitolo di un libro di Gian Antonio Stella, per vergognarsi di questa semplificazione.) Di converso, una altrettanto odiosa retorica di sinistra si ispira a un buonismo generico - come se stabilire un piano a lungo termine e gestire razionalmente le cose fosse comunque un sintomo di prevaricazione. Insomma, da una parte i buoni e dall'altra i cattivi, a parti invertite. Mentre la grande maggioranza della popolazione è male informata, o semplicemente se ne frega. Alcuni studi hanno peraltro sottolineato l'assenza di un piano immigratorio preciso da parte dello stato italiano (fin dagli albori). Soprattutto, è lamentabile l'assenza di una politica attiva delle entrate, o il complesso sistema della regolarizzazione. Dal punto di vista civile, infine, è preoccupante la recente ondata di xenofobia ed equiparazione del clandestino al criminale. (Il diverso fa paura in quanto tale, e l'idea di un criminale straniero - "bande slave", "risse di albanesi" ecc. - sembra aggiungere alla criminalità qualcosa di sinistro, di folkloristicamente imprevedibile. Simili argomenti sono pregiudizi largamente condivisi o persino introiettati in modo inconsapevole). Ora, nessuno nega che il "problema immigrati" sia vasto e delicato, e che per risolverlo occorra uno sforzo notevole anche in termini di tempo e incomprensioni. Ogni paese sommerso dall'immigrazione ha dovuto fare i conti con simili conflitti. Ma un conto è affrontarli con razionalità: un conto è cavalcare l'ignoranza diffusa.
A questo proposito, c'è un concetto ricorrente nelle varie parole qui
raccolte. Quasi tutti si sono tenuti attaccati
a una filosofia molto semplice, ferocemente banale, ma
sulla quale bisognerebbe riflettere a lungo:
c'è gente buona e c'è gente cattiva, dappertutto.
Italiani buoni e italiani cattivi. Cinesi buoni e cinesi cattivi. L'origine non
è determinante. È da qui che bisogna ripartire. Trasformare
questo luogo comune in un vero luogo condiviso.
Ciò detto, io non sono né un giornalista né un esperto di immigrazione: io sono uno scrittore. E affronto le cose con i mezzi di uno scrittore. I fatti esistono, e con essi dobbiamo confrontarci: ma i fatti non sono mai puri e limpidi - non si riducono mai a cifre e statistiche. I fatti sono intrisi di problemi. Il loro tessuto trova origine nella carne: gioia, dolore, fame. Ed è questo che ho voluto tracciare. L'arco che porta dalla carne al fatto. Sostituire ad esso la storia: ognuna diversa e con ragioni diverse che la determinano. Pertanto ciò che state per leggere non appartiene alla narrativa pura (intesa come fiction), né si tratta di un documentario vero e proprio. Lo stile è volutamente acceso: alterna momenti descrittivi e riflessivi a parti di racconto più piane, brani di discorso diretto in corsivo, integrazioni di carattere geografico o storico, dialogo e narrazione pura. L'idea era quella di rendere le storiè in modo molto libero, ma senza tradirne alcun particolare concreto (in altri termini: tutto quanto leggerete è vero, o almeno così mi è stato raccontato). Sbobinando le interviste, sentivo le voci trapassare il nastro. Ritornavo all'oralità e alla trasmissione di informazioni minime, veloci. Le loro storie avevano spesso la caratteristica della velocità: la strada non conosce lentezze inutili. La parola detta è una lama che deve colpire rapidamente, e non ha una seconda possibilità. Quindi parte della sfida era riprodurre anche questo linguaggio, alterato sotto forma di protocollo narrativo scritto. Contenuti meticci, stile meticcio. | << | < | > | >> |Pagina 11La chiamano in tanti modi: bus dei dannati, vagone merci, corriera dei maruchitt. Parte da Loreto e fa avanti e indietro per via Padova, su fino al Quartiere Adriano. Parte al mattino, parte al pomeriggio, l'ultima parte di notte, alle due meno dieci, quando è vuota o punteggiata di ubriachi. È famosa e in provincia se ne dicono di storie: ma le storie cambiano faccia ad ogni giro, e bisogna stare attenti a chi le racconta. Tu fai così: tieni alle spalle la piazza con l'orologio digitale, l'ultimo morso del centro prima dei quartieri a nord, quel palmo di strade che separa la città delle guide dalla periferia, scavando un terzo regno che pochi conoscono. Guarda via Padova che sale. All'orizzonte appena il cielo confuso d'inizio estate, o le nuvole spesse dell'autunno milanese. Poi monta su. Prendi un buon posto se puoi, seduto in fondo e con il volto schiacciato contro il finestrino: ma ricorda che dovrai guardare per metà fuori e per metà dentro, se vuoi capire il senso di questo bus. Sali all'attacco della via - prima fermata: Padova Loreto. Seconda fermata: Padova D'Aviano. In mezzo una serie interminabile di negozi che vivono e muoiono e si trasformano nello spazio di pochi giorni. Alimentari peruviano. Ristorante giapponese. Ristorante cinese. Kebab turco. Bar africano. E di nuovo la stessa ritmica, mescolata in modo diverso ma ripetuta metro dopo metro. E i nomi: Ju Bin Due, Wuzouh, Nork's. Questa è la prima cosa che devi imparare. Qui la tua lingua si piega e va in frantumi. Questo posto non è tuo, è di tutti. Tienilo a mente e vai. | << | < | > | >> |Pagina 12Ambaradàn
(il signor Gabriele, Porta Venezia)
Tutto, ancora oggi, passa dalle porte. Scendi a Porta Venezia e capisci perché questo nome abbia un senso che si è conservato intatto nei secoli. Alle spalle hai i giardini di Palestro, e la classe un po' rétro di corso Venezia che porta dritta in centro. Davanti invece parte corso Buenos Aires, l'arteria commerciale che sbuca in piazzale Loreto, e che - caso strano per Milano - fa da spartiacque fra due quartieri dalle anime e dai colori del tutto diversi. La parte destra è borghese e piena di localini alla moda. Palazzi liberty dai balconi ornati, portoni in legno scuro e marciapiedi lindi. La rive gauche, al contrario, è più popolare - e soprattutto è il quartiere africano per eccellenza. Ogni pezzo di questo asfalto parla almeno due lingue. Ma a differenza del blocco ulteriore, spalancato da Loreto, il quartiere conserva ancora un equilibrio fra la grazia di mid-town e la ritmica della periferia. Se fai due passi in via Tadino, avanti e indietro, facce e locali sono molto diversi da quelli del centro storico. I palazzi restano belli, forse un po' meno opulenti, ma la trama del quartiere è fatta di volti stranieri. Molti magrebini e indiani, ma soprattutto centrafricani che passeggiano calmi, le mani in tasca o nella mano di ragazze slanciate. A questo punto svolti in via Panfilo Castaldi. Le auto sono parcheggiate sui due lati, sui marciapiedi stretti, ma l'atmosfera è quella del resto del quartiere. Insegne verticali e qualche neon, un parrucchiere, due ristoranti etnici, un piccolo supermercato. Un hotel. E il Rainbow, il negozio del signor Gabriele. L'insegna con un arcobaleno a tre sole bande: verde, giallo e rosso, i colori dell'Etiopia. La luce si ritira sull'entrata. Due vetrine, zeppe di maschere e collane, quadri, chiavi, croci, libri, statue, corni, vasi. Il corridoio che porta fino alla cassa è costeggiato da cesti di pietre grezze. Manciate di minerali biancastri o rossi, e più in alto vestiti di ogni sorta. In fondo al negozio ci sono i due proprietari, marito e moglie - lei una signora dai capelli bianchi, silenziosa e sorridente. Un bimbo dorme nella culla. Il signor Gabriele, tranquillo ed elegante sulla sua poltrona di legno, vestito in grigio, con panciotto e camicia, la barba biancastra sul volto nero, fa roteare uno stuzzichino fra i denti e solleva appena il berretto con la mano.
"Adesso ti racconto una storia", dice.
Prima di venire in Italia, il signor Gabriele era un marinaio e navigava. E prima di navigare, era un ragazzino etiope nato ad Adua sullo scorcio della Seconda guerra mondiale. La città della famosa battaglia. Indica un disegno a terra, sul fianco destro del tavolino: cavalieri che si lanciano in un paesaggio deserto, montagne sul fondo. Ma l'intero negozio è percorso di libri sulla grande sconfitta (o vittoria). Per ogni angolo, un libro accatastato o nascosto: parole stampate che commentano gli oggetti, ne danno un'esegesi. "Io vengo da lì, da quelle montagne. Sai come si chiamano? Amba Alagi. E sai come si chiamano quelle vicine ad Addis Abeba? Amba Aradam. Lì gli italiani hanno perso contro la nostra resistenza. Ecco perché voi dite ambaradàn quando succede un gran casino! C'è un signore che vende stemmi militari sui Navigli, e la sua ditta si chiama Ambaradàn. Quando lo vedo gli dico sempre: ambaradàn, ambaradàn - e lui tira un sospiro!" Ride, poi alza un dito: "Le parole nascondono sempre qualcosa". Da piccolo, come i suoi coetanei, il signor Gabriele leggeva riviste italiane e guardava film italiani. L'Etiopia fu conquistata dal Regno nel 1936. La vecchia retorica colonialista del Paese: Il popolo italiano ha creato col suo sangue l'Impero, lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi. Foibe e massacri rimossi dalla memoria popolare, e che uccisero migliaia di combattenti neri nel modo più feroce. Ma poi tutto finì, e i bambini erano soltanto bambini, e del nostro Paese non rimaneva la vergogna: rimaneva il mistero. In quell'idea imprecisa, nella pelle bianca come traccia, loro vedevano un futuro. A nord, da qualche parte, c'era l'altro pezzo dell'Impero: e chissà che un giorno non l'avrebbero visto. Quanto al piccolo Gabriele, ha ereditato in pieno questa visione del nostro Paese. I suoi genitori erano contadini - come tutti o quasi. Ma stavano bene e lui aveva la possibilità di studiare: così è finito in un collegio di frati cappuccini. Ha studiato in italiano (leggere e far di conto - immaginatelo così), e dopo la scuola elementare si è dato da fare per colmare il vuoto africano. Non aveva mai compreso davvero le sue origini. La nuova lingua aveva affondato le sue radici tanto in profondità da farlo sentire spaesato, diviso. Così ha cominciato a studiare l'amarico. "In realtà", spiega, "la vera lingua etiope, la nostra madrelingua, è il tigrino. Una lingua antichissima. Poi per i dirigenti statali è stato creato l'amarico, che si è diffuso naturalmente nel Paese, ed è diventato ufficiale. Si chiama così perché è simile all'aramaico." "Ma che ne pensa adesso dell'invasione italiana? Dopo tutto questo tempo, tutti i suoi libri..." "Mah. A volte, quando parlo con i miei connazionali, sembra che io faccia troppo l'italiano. Un italiano nero, mi chiamano. Ma in Etiopia ormai le due cose sono inestricabili. E quanto all'invasione... Che posso dirti. Gli italiani hanno fatto cose buone. Strade, ponti, acquedotti. Il genio militare non era rivolto solo all'occupazione. Certo, hanno fatto il lavoro soprattutto per loro - ma è rimasto. Allora da noi si dice: bisogna dimenticare ciò che non si vede, ma ammirare quello che rimane. Anche Selassié lo ripeteva sempre. L'etiope non cerca vendetta. L'etiope combatte per la salvezza, ma lascia tornare a casa il nemico. Con tutti gli invasori è stato così. È il nostro spirito. Abbiamo avuto tanti presunti conquistatori, dal tempo dei tempi. Dagli egiziani dei faraoni, ai sudanesi, ai turchi che ci hanno provato più di una volta... Tutti sono sempre stati sconfitti e caricati sulle loro barche. Anzi, anzi!", insiste, "ai tempi di Prete Gianni, un prete guerriero, i re etiopi andavano in guerra con settanta croci d'oro e settanta vescovi. Erano l'unico stato cristiano in Africa, sai. E così, quando Prete Gianni imbarcava i nemici, faceva sbattere loro i sandali. La gente non capiva perché. E allora lui spiegava: Serve per non farli tornare mai più, non devono più tornare, come gli apostoli che sbattevano i sandali davanti alle case in cui non sarebbero più tornati. I re etiopi erano giusti. Duri e giusti." La storia trascolora nella leggenda. Il signor Gabriele sorride e al resto ci pensa la voce profonda e un po' ghiaiosa, gli hmmm soddisfatti che chiudono ogni frase. E quindi il resto. Il signor Gabriele ha cominciato a navigare nel 1962. Aveva ventidue, ventitré anni. Di colpo, entrambi i piedi sul grande oceano e i ricordi a terra. La sua prima nave è stata israeliana: poi una danese, poi olandese, poi panamense. È stato per mare due anni, e ha viaggiato praticamente dappertutto. Indocina, Sierra Leone, Kenya, Angola... Fra tutti i posti quello che rimane più nitido nella mente è Singapore - il paradiso terrestre. (Dopo tanti anni ci è tornato, e ha trovato tutto mortalmente diverso. Addirittura hanno rubato acqua al mare, asciugando le spiagge, per avere più terreno per la città.) Ma anche Israele. "La particolarità di Israele è di avere due sbocchi: uno sul Mediterraneo, Haifa, e uno sul Mar Rosso, Eilat." Secondo il signor Gabriele, questa duplice porta dà al Paese qualcosa di unico. Insieme ai suoi paesaggi biblici (biblici, dice esattamente così, ti sembra di vivere dentro un libro della Bibbia), lo lascia sospeso fra Oriente e Occidente, eternamente in bilico, un luogo che parla di cose lontane e che chiamano dal profondo. E così ha viaggiato. Ha deciso di imbarcarsi perché, per i ragazzi che abitavano su quel corno d'Africa, navigare era un sogno. Navigare era visitare il mondo con un biglietto aperto. Il destino del marinaio, alla lunga, è quello di amare lo spostamento e il suo mezzo - l'oceano - più di ogni altro luogo. Perché è lì che ogni luogo viene come riassunto: nel suo contrario. Il signor Gabriele stringe gli occhi e parla delle distese d'acqua e del rollio. La strana avventura di risvegliarsi per giorni in un paesaggio eternamente uguale eppure sempre diverso, avvicinandosi a porti sconosciuti e odori nuovi: riattivare, ogni volta, il senso dell'orientamento e la sensazione del primo piede a terra, la città e i suoi locali e i suoi cibi: cambiare l'abitudine alla lingua straniera, prima era una e ora un'altra, abituarsi, abituarsi, abituarsi sempre. È una dinamica fatta di due o tre cose, ma metterle insieme non è semplice. Anche tu cominci a cambiare, e un giorno, nello specchio della cuccetta, magari rischi di non capire più chi sei. Ma intanto, la terra ti chiama. Così un giorno la nave attracca a Messina. È la vigilia di Natale del 1964. Immaginatelo che mette piede finalmente in Italia, in uno dei suoi momenti dorati. L'epoca del boom e della dolce vita. Immaginatelo con i ricordi di riviste e film e libretti che gli affiorano in testa, i vecchi disegni di una volta, le storielle di propaganda del regime, l'idea ancora chiara che sia il Paese più bello del mondo. Un ragazzo che torna bambino. E come sempre, ciò che deve accadere accade. Gabriele si innamora di una signorina bergamasca, tuttora sua moglie - indica il bimbo che dorme nella culla: la nonna di quel bambino là. Così decide di rimanere. Insieme si mettono a fare i venditori ambulanti. La rapidità che muove ogni storia: ingranaggi sepolti che si risvegliano all'improvviso e macinano una nuova via. La terra ti chiama e ti desidera: non puoi ignorarla per sempre. Del resto, è il momento giusto per stabilirsi in Italia. Anche quanto a permessi e scartoffie, è tutto piuttosto semplice. Il Paese comincia ad avere soldi da spendere, e il prodotto etnico attira parecchia gente. Gabriele e sua moglie si attrezzano per mettere in piedi un business, e lo fanno insieme e lo faranno insieme fino a ora, senza fermarsi mai. Prima vendendo ai mercatini di paesi e città - a Bergamo, soprattutto, stendendo banchetti e contrattando direttamente col passante - e poi con un negozio vero e proprio, dal 1978, a Milano. La prima sede è in via Tadino, e poi rapidamente passa qui in via Castaldi. Calcolo: "Fa parte del primo flusso, quindi". "No, in realtà no. C'erano già alcuni negozi di immigrati. Quando l'Italia ha perso le colonie, sono venuti con l'esercito sconfitto o di loro spontanea volontà subito dopo la guerra. Quindi, tecnicamente io sarei la seconda ondata di immigrati, non la prima. I primi erano pochi e facevano fatica, ma facevano fatica tutti, erano stati anni difficili." "E di quei primi rimane qualcuno?" "Mah, no. Forse. Non saprei. È passato davvero tanto tempo..." "Non sapevo neanche esistessero." "Già. Questa città è più profonda di quanto pensi."
Entrano due clienti. La signora si alza e li accoglie nel
negozio. Cercano una pietra. Il signor Gabriele annuisce,
si raccoglie un po' nella poltrona, stringe le mani al petto.
Il suo è uno sguardo lento. C'è una lentezza insita nell'intero corpo, nel tono
delle parole, e devo farmi forza per non fare l'errore capitale, incastonare la
sua figura concreta in quella astratta del
buon vecchio immigrato sereno.
Poi la storia ricomincia.
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