Autore John Foot
Titolo L'Italia e le sue storie 1945-2019
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2019, i Robinson Letture , pag. 418, cop.rig.sov., dim. 16x23x3 cm , Isbn 978-88-581-0488-0
OriginaleThe Arcipelago. Italy since 1945
EdizioneBloomsbury, London, 2018
TraduttoreEnrico Basaglia
LettoreRenato di Stefano, 2020
Classe storia contemporanea d'Italia , storia sociale , paesi: Italia: 1940 , paesi: Italia: 1960 , paesi: Italia: 1980 , paesi: Italia: 1990 , paesi: Italia: 2000 , paesi: Italia: 2010












 

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Indice


  Prefazione                                                         XI


  Introduzione. 1945: l'anno zero                                     3

- Il ritorno, p. 5
- Pedalando verso la normalità, p. 6
- 1946: Viva Toscanini!, p. 8
- Paisà, p. 10
- La repubblica dei morti, p. 13
- Il corpo del Duce, p. 14


  1.  Ricostruire e rifare l'Italia                                  17

- La democrazia, p. 17
- Repubblica o monarchia?, p. 18
- La campagna referendaria, p. 20
- Alle urne, p. 21
- Il conteggio dei voti, p. 21
- Un altro re se ne va, p. 23
- La Resistenza, l'antifascismo e l'Italia del dopoguerra, p. 26
- Il qualunquismo e l'antipolitica, p. 34
- Figure e simboli nell'Italia repubblicana, p. 36
- La costruzione di un nuovo Stato: la Costituzione italiana, p. 37
- La Guerra fredda, p. 42
- Aprile e luglio 1948: elezioni e rivoluzione. Voti da contare,
  voti da pesare, p. 44
- Luglio 1948: l'Italia sulle barricate, p. 49
- Rivoluzione?, p. 50
- Parrocchie, preti e cultura cattolica, p. 55
- La balena bianca: i democristiani, p. 57
- I corridoi del potere, p. 59
- I rossi: i comunisti e il partito dopo il 1948, p. 61
- Il culto della personalità, p. 62
- "Ha da venì Baffone": Stalin, l'Unione Sovietica e il comunismo
  italiano, p. 62
- Eseguire gli ordini?, p. 66
- Un partito di massa, p. 68
- I lasciti della guerra: Trieste, p. 69
- 1956: il 'discorso segreto' e l'Ungheria, p. 70
- Il cuore d'Europa: Altiero Spinelli, l'Italia e l'integrazione
  europea, p. 73


  2.  Il decollo: l'Italia negli anni del boom                       75

- Ultimo atto? Lotte contadine e riforme nel dopoguerra, p. 76
- L'esodo: storie della grande migrazione, p. 78
- La fine dell'Italia rurale, p. 81
- La fine della mezzadria, p. 83
- La nostalgia e i mestieri di una volta, p. 84
- Soldi, soldi, soldi, p. 85
- Fabbriche e operai, p. 86
- Una storia d'amore: gli italiani e l'auto, p. 88
- L'Autostrada del sole, p. 90
- L'Italia della Fiat, p. 91
- Cavalcare la tigre? La città e l'urbanistica, p. 93
- 1963: il Vajont, p. 95
- La frana: Agrigento, luglio 1966, p. 96
- 1966: gli angeli del fango, p. 98
- I re del mattone, p. 99
- Il boom e la cultura che cambia: la colonna sonora, p. 100
- Il boom e la cultura che cambia: il rettangolo magico, L'Italia e
  la televisione, p. 106
- Amore e matrimonio prima e durante il boom: pubblici peccatori?,
  p. 109
- Il matrimonio, il divorzio e la legge, p. 111
- Il ciclista e la 'dama bianca', p. 111
- La morale comunista, p. 114
- Le reazioni al boom: la Chiesa, p. 115
- Le reazioni al boom: la politica, p. 117
- 1960: gli scontri e la ripresa dell'antifascismo, p. 118
- Magliette a strisce in piazza, p. 120
- 1960: il mondo viene a Roma, p. 122
- Il centrosinistra, p. 122
- 1964: Roma, la fine di un'epoca, p. 123
- Il panico morale: censura e modernizzazione, p. 125


  3.  Sangue e riforme: adeguamento delle istituzioni e violenza
      negli anni '60 e '70                                          127

- Utopie concrete: Franco Basaglia e la rivoluzione psichiatrica,
  p. 128
- Scuole, esami ed esperimenti, p. 132
- "Lettera a una professoressa", p. 134
- C'è speranza, se questo accade al Vho, p. 137
- Esamifici?, p. 138
- La battaglia per il divorzio, p. 139
- Dentro la famiglia: genitori e figli, mariti e mogli, p. 141
- Lo Statuto dei lavoratori, p. 144
- Carceri e rivolte, p. 146
- Le università e il 1968, p. 148
- La Chiesa e il '68, p. 151
- La contestazione della cultura, p. 153
- La legge Merlin: la chiusura delle 'case chiuse', p. 154
- Franca Viola e il matrimonio forzato per stupro, p. 155
- Il femminismo: pubblico e privato, p. 156
- L'aborto, p. 158
- Processo alle streghe: il caso Braibanti, 1964-82, p. 160
- Altre Italie negli anni '60, '70 e '80, p. 162
- Colera: Napoli 1973, p. 165
- La nube tossica: Seveso, p. 166
- Terremoto: Campania 1980, p. 167
- Sangue e piombo: bombe, trame e violenza politica in Italia,
  1969-80, p. 168
- 12 dicembre 1969: la strage, p. 170
- Morte accidentale? Il caso Pinelli, p. 171
- Il colpo di Stato: 1970, p. 174
- La rivolta di Reggio Calabria: 1970, p. 177
- Il milionario e il traliccio, p. 179
- La strategia della tensione, p. 180
- 1977: un nuovo '68?, p. 180
- Terrorismo all'italiana, p. 182
- "Colpiscine uno per educarne cento" (le Brigate rosse), p. 183
- Cinquantacinque giorni a Roma, p. 186
- Due funerali, una salma, p. 188
- I terroristi 'neri', p. 191
- Bologna: 2 agosto 1980, p. 193
- Rivoluzione, riforma e sangue, p. 194


  4.  Gli anni '80 e '90: dal boom al tracollo, e oltre             195

- 1980: la fine, p. 195
- Dopo la fabbrica, p. 196
- La politica negli anni '80: la 'questione morale' e
  la partitocrazia, p. 197
- Il bambino nel pozzo: Alfredino Rampi e la televisione italiana
  (1981), p. 203
- Il laicismo e la Chiesa, p. 207
- Bettino Craxi: politica moderna, soldi e corruzione, p. 209
- Il venditore: le molte vite di Silvio Berlusconi, p. 212
- Tutti quei soldi..., p. 215
- Sua Emittenza: Berlusconi e la televisione, p. 216
- Neotelevisione, p. 218
- Dallo scandalo al trionfo: la Coppa del mondo 1982 e
  la 'calcistizzazione' dell'Italia, p. 220
- Il nonno d'Italia, p. 223
- Dio a Napoli: Maradona, 1984-91, p. 225
- Il maxiprocesso: la mafia alla sbarra, p. 226
- Latitanti in bella vista, p. 230
- La fine della Guerra fredda in Italia, p. 231
- Nuove invasioni: i confini italiani e la fine della
  Guerra fredda, p. 236
- Lo Stadio della Vittoria, p. 238
- Berlusconi e il calcio, p. 240


  5.  La Seconda repubblica                                         243

- Tangentopoli e Mani pulite: lo scandalo e le inchieste che
  misero fine alla Prima repubblica. 1992-93, p. 243
- Il Senatur: l'ascesa di Umberto Bossi e della Lega Nord, p. 246
- Il manager: Carlo 'il bello', p. 249
- Giustizia per televisione: il processo Cusani, p. 250
- Il funzionario: Severino Citaristi, p. 251
- Un decennio di austerità, p. 253
- Piovono monetine, p. 255
- Il potere dei presidenti, p. 256
- "Hanno la faccia come il culo": la satira e "Cuore", p. 257
- Cadaveri eccellenti, p. 258
- Mafiosi in galera, p. 261
- Post-neofascismo, p. 263
- La Seconda repubblica, il Mattarellum e la fine della Democrazia
  cristiana, p. 264
- La discesa in campo: Berlusconi entra in politica, 1993-94, p. 266
- Forza Italia, p. 268
- Un terremoto politico, p. 270
- Berlusconi al potere: Atto I, p. 271
- Napoli: "Il presidente del Consiglio è indagato", p. 274
- La guerra con la magistratura, p. 275
- La caduta del primo governo Berlusconi: dicembre 1994, p. 276
- L'interregno: 1995-96, p. 277
- Il processo del secolo: Belzebù alla sbarra, p. 278
- La 'Padania' e la Lega Nord, p. 279
- Tangentopoli: una rivoluzione giudiziaria?, p. 281
- Il contrattacco: Tangentopoli come congiura, p. 283
- I processi Priebke e la memoria degli italiani, p. 285
- Le Fosse Ardeatine, p. 286
- Un nazista alla sbarra: Roma 1996, p. 289
- Dopo i processi: gli ultimi anni di Priebke a Roma e
  la sua morte, p. 291
- Lo scalatore puro: la storia di Marco Pantani, p. 291
- 1996: l'Antiberlusconi, p. 292
- L'euro, l'integrazione europea e l'Italia, p. 294
- Nuovi italiani?, p. 296
- Sport, razzismo e migrazioni, p. 298
- L'assassinio di Abdellah Doumi, p. 299
- Il controllo dei migranti, p. 300
- Le moschee e l'Islam in Italia, p. 302
- La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci, p. 303
- L'Italia, l'Islam e la Chiesa cattolica, p. 307
- Il crocifisso, p. 308
- Il culto di padre Pio, p. 309


  6.  L'Italia nel XXI secolo: crisi, post-democrazia e
      il trionfo del populismo                                      312

- L'apogeo di Berlusconi: 2001-6, p. 312
- Genova 2001: i giorni dell'ira, della violenza, della morte, p. 315
- Ad personam: Berlusconi al potere, p, 317
- Contro Berlusconi, p. 322
- La seconda guerra con la magistratura, p. 323
- La censura e il potere dei media, p. 326
- Per capire Berlusconi, p. 327
- 2006: ancora scandali, p. 328
- Da Calciopoli al trionfo, p. 330
- L'ultimo Berlusconi, p. 333
- La repubblica del bunga bunga: Berlusconi e gli scandali sessuali,
  p. 334
- Rubygate, p. 335
- Finale di partita: post-Berlusconi?, p. 338
- I professori al potere, p. 339


  7.  L'Italia oggi                                                 340

- I nuovi emigranti: italiani in movimento, p. 340
- Il Movimento 5 Stelle, p. 342
- Ascesa, caduta e ri-ascesa della Lega. Il futuro dell'Italia,
  p. 348
- Mario Balotelli, p. 351
- Eliminati. Gli Azzurri e la Coppa del mondo 2018, p. 352
- Papa Francesco, p. 353
- La vita e la morte, p. 356
- Un cimitero galleggiante, p. 357
- Lampedusa, l'Italia e l'Europa: l'isola dei sogni e degli incubi,
  p. 358
- Lampedusa e la politica italiana, p. 362
- Ascesa e caduta di Matteo Renzi, p. 363
- I giallo-verdi al potere, p. 366
- Cemento fragile: Genova 2018, p. 371
- Riace, p. 371


  Conclusioni. Trasformazione e crisi                               373


  Note                                                              377
  Ringraziamenti                                                    405
  Indice dei nomi                                                   407


 

 

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Pagina XII

Gli storici che vogliono scrivere di questo paese ricorrono spesso a un tema portante, o filo conduttore, che dia un senso al tutto. Può essere il ruolo della famiglia, o il rapporto tra i cittadini e lo Stato, o il tentativo di creare 'gli italiani'. Questo libro non è percorso da temi portanti. L'Italia e le sue storie attinge a storie, processi, eventi sportivi e biografie per dipingere il quadro di un paese. Questa frammentarietà mi pare una virtù, l'unico modo per costruire una storia dell'Italia moderna e comunicarla ai miei lettori.

Anche in questo libro ci sono comunque idee e questioni ricorrenti. Una è quella del paese diviso, fratturato nel passato e nel presente (oltre che nella visione del proprio futuro). Sono divisioni antiche e recenti, alcune risalgono alla formazione stessa della nazione nel XIX secolo, altre al fascismo e alle guerre mondiali del XX. E poi le profonde fratture tra il Nord e il Sud, tra la città e la campagna; gli italiani sono divisi sul come modernizzare l'Italia, e perfino sulla necessità o meno della modernizzazione.

L'Italia conta, e non solo per gli italiani. Tutt'altro che marginale all'Europa, come spesso si afferma, è sempre stata al centro del cambiamento e dell'innovazione politica. Il fascismo è nato in Italia dopo la Prima guerra mondiale, e negli anni '40 il paese ha prodotto uno dei più forti ed efficaci movimenti di resistenza contro il fascismo. Dopo la guerra ha elaborato una Costituzione che alcuni considerano la più elegante e meglio costruita del mondo. Nel dopoguerra il suo sistema ha assistito a sviluppi sorprendenti e innovativi nelle sfere della politica, dell'economia e della società. Nel bene e nel male - come dicono gli italiani - questo è un paese dal quale abbiamo molto da imparare. Scrivere questo libro è stato un viaggio nel passato dell'Italia, ma anche, forse, nei nostri futuri; spero che le pagine che seguono contengano qualche lezione.

La storia d'Italia viene spesso concepita come una sequenza di assenze, una sorta di lista delle cose mancanti. Come sostiene John Agnew , "l'immagine di un'Italia arretrata che si confronta (in qualche modo) con la modernità è una rappresentazione prevalente del paese agli occhi dei commentatori italiani e stranieri". Interi studi vorrebbero dimostrare che la nazione non sarebbe mai dovuta nascere, che fu un 'errore storico'. L'Italia e le sue storie rifiuta questa visione dell'Italia: questa è una storia del paese reale, di quello che c'è davvero.

È una storia eclettica, influenzata dalle mie preferenze, esperienze e passioni personali. Si rivolge a chi vuole saperne di più, non agli esperti. È stato detto che la storia d'Italia è contraddistinta da rivoluzioni brevi e controrivoluzioni prolungate. Dal 1945 ci sono stati momenti in cui pareva lanciata a tutto vapore verso il futuro, e altri in cui appariva bloccata, o in arretramento. È vero poi che spesso sono gli individui a cambiare il corso della storia. Ci sono stati italiani comuni che hanno cambiato il loro paese: la donna che rifiutò il matrimonio a dispetto delle convenzioni sociali, lo psichiatra che disse 'no' alle pratiche della repressione e della deumanizzazione, il magistrato che non si piegò alle pressioni politiche, il prete deciso a dare un'istruzione decente anche ai bambini più poveri, il cineasta che provò a costruire bellezza dal caos della guerra. Queste storie ci aiutano a capire l'Italia, e i contrasti sulla forma da dare alla vita del suo popolo dopo il 1945.

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Pagina 3

Introduzione
1945: l'anno zero



                                  Quanto di noi stessi era stato eroso, spento?

                                                                     Primo Levi


                                                        Ha da passà 'a nuttata.

                                                             Eduardo De Filippo


                                Nessuno nega... che in questo mondo dilaniato
                                dalla guerra c'è, oggi più che mai, una trepida
                                attesa della vita che nascerà da tanta morte e
                                della concordia che sorgerà da un odio così
                                smisurato e implacabile.

                                                 Concetto Marchesi, aprile 1945



Aprile 1945: l'Italia era in buona parte in rovina. Gli occupanti nazisti erano stati cacciati, ma i segni di cinque anni di guerra erano ovunque. Altre potenze straniere, gli Alleati - che per molti rappresentavano i liberatori - non volevano andarsene, anche se la guerra era finita. Alcune città erano state rase al suolo, altre ridotte in condizioni primitive. La gente viveva in strada, raccattando rifiuti. In tutto il mondo c'erano italiani che volevano tornare a casa; alcuni erano soldati delle forze fasciste sconfitte, altri mandati in esilio per motivi razziali o politici, o perché si erano rifiutati di continuare a combattere. Molti non ce la fecero. Parecchi impiegarono mesi o perfino anni a tornare, emaciati e irriconoscibili, spesso già dati per morti. Li accoglieva un paese in ginocchio, dilaniato dalla violenza e da un'ondata di criminalità senza precedenti. Le istituzioni fondamentali erano sull'orlo del collasso. Nelle carceri non mancavano soltanto le serrature; non c'erano proprio le porte. Non si capiva nemmeno bene dove stesse l'autorità. Chi comandava? Re Vittorio Emanuele III, gli Alleati, í partigiani antifascisti?

Meno di due anni prima, il 25 luglio 1943 alle 5,20 del pomeriggio, cinque carabinieri avevano arrestato Benito Mussolini a Roma - i carabinieri erano fedeli al re, che aveva dato l'ordine. Era la fine di un regime, l'ultimo atto del 'ventennio' di dittatura, ma non del fascismo. La fatidica decisione di Mussolini di entrare in guerra nel 1940 era stata la sua rovina. Alle rapide vittorie nella scia delle conquiste naziste era presto seguita una serie di umilianti sconfitte. Il bombardamento alleato di Roma e l'invasione della Sicilia nel luglio 1943 costrinsero il re alla drastica decisione di destituire il dittatore con il quale aveva governato l'Italia così a lungo.

Le truppe naziste presero il controllo di buona parte del paese. Il re fuggì per fondare un Regno del Sud nell'Italia liberata. Mussolini fu installato nel Nord a capo di un governo fantoccio. Nei venti mesi che seguirono il paese precipitò in una feroce guerra civile, che si accompagnava al conflitto tra gli Alleati e i tedeschi e alla resistenza antifascista. In tutta la penisola italiani combattevano contro altri italiani, antifascisti e fascisti divisi dalla politica e dall'ideologia. Fu lacerante, come tutte le guerre civili, e lasciò un amaro strascico di odi e divisioni. Nel frattempo migliaia di ebrei e oppositori politici venivano deportati nei campi in Germania e altrove, mentre i bombardamenti aerei devastavano il paese. Invasa e umiliata, l'Italia lottava per mantenere un minimo di autonomia, con diversi personaggi che si arrogavano le posizioni di potere. Quando finalmente, nell'aprile 1945, venne la liberazione dall'occupazione nazista e dal fascismo per l'intero paese, ci fu chi sostenne che l'Italia aveva cessato di esistere - che era 'morta' a un certo punto della guerra. Altri invece parlavano di rinascita, di una 'nuova Italia'. La storia del paese diveniva fonte di divisione nel momento stesso in cui si stava facendo.

Quando e come finì davvero la guerra? Ufficialmente, città e regioni furono 'liberate' dalle armate alleate a mano a mano che queste risalivano la penisola, dal luglio 1943 in Sicilia all'aprile 1945 nel Nord. Ma fu una 'fine' confusa e ambigua. La liberazione ufficiale non portò la fine della guerra in Italia, e il gioco dei rapporti tra gli Alleati, il Regno del Sud (governato dal re e dai partiti antifascisti), i nazisti e i fascisti italiani impedì di capire chi avesse davvero il potere fino a ben oltre l'aprile 1945. Il paese affrontava una crisi esistenziale. E la Chiesa cattolica, che durante la guerra era rimasta neutrale, stava a guardare con trepidazione. Fu costituito un fragile governo dei partiti che avevano combattuto nella Resistenza, ma ancora non si erano tenute elezioni.

Dopo la fine ufficiale delle ostilità esplose la violenza contro gli sconfitti. Alla fine dell'aprile 1945 Benito Mussolini e la sua amante furono presi e fucilati dai partigiani a Giulino di Mezzegra presso il lago di Como. Il cadavere fu portato a Milano, dove venne appeso per i piedi a una stazione di servizio in Piazzale Loreto, per mostrare a tutti che era morto davvero. Nel periodo della cosiddetta 'resa dei conti' morirono migliaia di persone, fascisti e non. Alcuni, i più fortunati, se la cavarono sfilando per strada con la testa rasata. In certe zone particolarmente radicalizzate la violenza continuò, in tono minore, per tutti gli anni '40, e persino nei primi anni '50. Fu il momento di massima espansione dell'aspetto di 'guerra di classe' della Resistenza. Si nascondevano le armi, pronte in attesa del 'momento giusto' - e nel frattempo qualcuno le usava contro preti, ex fascisti, industriali o latifondisti. L'idea che la rivoluzione fosse stata soltanto rinviata aveva grande presa su alcuni settori della classe operaia e contadina.




IL RITORNO



Primo Levi impiegò nove mesi per tornare da Auschwitz in Polonia a casa sua a Torino. Avrebbe poi raccontato quell'odissea in La tregua. Nel dicembre 1943 era stato catturato dai fascisti italiani poco dopo aver aderito a un minuscolo gruppo partigiano in Val d'Aosta. Aveva ventiquattro anni, e dopo la laurea aveva trovato impiego come chimico. Levi fu trattenuto in Italia in un campo di transito, prima di essere deportato col treno ad Auschwitz. Tornato a casa, dopo essersi ripreso (almeno fisicamente) dalla terribile esperienza e aver trovato lavoro, cominciò a scrivere - la sera, nei viaggi da pendolare, nelle pause pranzo. Se questo è un uomo, pubblicato per la prima volta nel 1947, è una delle grandi opere della letteratura mondiale. La prefazione si apre con queste parole straordinarie:

Per mia fortuna, sono stato deportato a Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenore di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.

La cupa storia della 'fortuna' di Levi faticò però a trovare un pubblico nell'Italia del dopoguerra. È noto che il manoscritto fu rifiutato dal prestigioso editore torinese Einaudi (sul perché e il percome del rifiuto infuria ancora la polemica), e uscì in un'edizione di sole duemila copie presso un piccolo editore. Molte delle copie invendute di questa prima edizione finirono a Firenze, dove sarebbero state distrutte dalla devastante alluvione del 1966. Einaudi ci avrebbe poi ripensato, ma le polemiche sul suo rifiuto di pubblicare Se questo è un uomo nel 1946-47 riesplosero dopo la morte di Levi nel 1987. Ci furono accuse personali, e smentite risentite. Al di là delle responsabilità individuali, la vicenda rappresenta un chiaro sintomo dello scarso interesse per l'Olocausto nell'Italia del dopoguerra, del desiderio di dimenticare, o di non parlare di quanto era avvenuto - anche a sinistra, e perfino tra gli intellettuali di sinistra nella comunità ebraica. Il romanziere Giorgio Bassani colse alcuni aspetti della questione nel racconto Una lapide in via Mazzini, in cui un sopravvissuto ritorna a Ferrara per scoprire il suo nome inserito in una lapide dedicata alle vittime; e non tardano a circolare mormorii sul fatto che è "troppo grasso" per essere davvero un deportato. Ci vollero decenni prima che la dimensione effettiva dell'Olocausto in Italia, e il ruolo di carnefici, osservatori indifferenti o vittime che in esso avevano avuto diversi gruppi di italiani venissero alla luce con la dovuta chiarezza.




PEDALANDO VERSO LA NORMALITÀ



Fausto Coppi vinse il Giro d'Italia il 9 giugno 1940, a soli vent'anni (fu la prima delle sue grandi vittorie). Il giorno dopo questo imprevisto trionfo Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Chiamato alle armi, Coppi combatté brevemente nell'infelice campagna d'Africa, per finire prigioniero dei britannici. Ritornò finalmente in Italia nel 1945, sbarcando a Napoli. Un giornale locale lanciò un appello per procurargli una bicicletta. Doveva affrontare un viaggio di centinaia di chilometri per tornare a casa, a Castellania, nel Nord; lo fece come gli riusciva meglio, in bicicletta, da solo. Quando bussò alla porta, dopo quell'avventura, sua madre rimase esterrefatta nel rivederlo vivo.

Coppi non impiegò molto a ritornare in forma, e nel marzo 1946 partecipò alla Milano-Sanremo, una delle corse classiche più celebrate d'Italia, l'evento che inaugura la stagione ciclistica. Folle immense lungo il percorso. Coppi si staccò dal gruppo appena fuori Milano, e fece quasi tutta la gara in solitaria. Spuntò, impolverato e solo, dalla galleria che attraversa il passo sopra Sanremo: a quel punto la vittoria era certa. Pierre Chany, il famoso cronista ciclistico francese, avrebbe poi scritto nel suo Les rendez-vous du cyclisme, ou Arriva Coppi:

Il tunnel era di modeste dimensioni, appena cinquanta metri, ma il 19 marzo 1946 assunse proporzioni eccezionali agli occhi del mondo. Quel giorno era lungo sei anni e perso nella tetraggine della guerra... Si udì un rombo dalle profondità di quei sei anni e all'improvviso comparve alla luce del giorno un'auto verde oliva che sollevò una nube di polvere. "Arriva Coppi" annunciò il messaggero, una rivelazione che solo gli iniziati avevano previsto.

Coppi vinse con quattordici minuti di distacco: la radio trasmise musica nell'intervallo mentre i commentatori aspettavano l'arrivo degli altri corridori. Fu un'impresa sportiva quasi sovrumana. Erano passati sei anni dalla sua vittoria precedente al Giro d'Italia. La guerra di Coppi, e della maggioranza degli italiani, era finalmente finita.

Anche la guerra di Gino Bartali fu un periodo intenso. Tra i grandi corridori degli anni '30, il toscano aveva vinto il Giro d'Italia nel 1936 e nel 1937 e il Tour de France nel 1938. Durante il conflitto, Bartali trasportò documenti falsi attraverso l'Italia centrale nascondendoli nel telaio della bici: servirono a salvare centinaia di ebrei dalla cattura e dalla deportazione. Di tutto questo preferiva non parlare. Cattolico e antifascista (rifiutava di indossare la camicia nera, nonostante le pressioni del regime), Bartali era soprannominato 'il pio', oltre che 'l'uomo di ferro'. C'era anche lui alla partenza della Milano-Sanremo del 1946, ma arrivò al traguardo ben dopo Coppi. La loro grande rivalità non avrebbe tardato a dividere gli italiani tra coppiani e bartaliani. Il Giro del 1946 - ribattezzato "il Giro della Rinascita" - si svolse sullo sfondo della guerra: piccole croci a segnare i morti lungo il bordo delle strade, ponti provvisori e buche di bombe. Vinse Bartali, per soli 46 secondi, Coppi secondo, e l'Italia paralizzata.

Un corridore che non poté partecipare al Giro del '46 fu Fiorenzo Magni, toscano dí Vaiano, presso Prato. Magni era in attesa di giudizio per presunti trascorsi fascisti durante la guerra, ed era stato temporaneamente sospeso dall'attività professionistica. Lo accusavano di aver preso parte a un rastrellamento fascista nel corso del quale erano stati uccisi tre partigiani; assolto dal tribunale, sarebbe ritornato a correre, con grande successo. La vicenda poco chiara di Magni è un ulteriore richiamo alla profonda interconnessione della politica e della storia con lo sport e la cultura popolare. Avrebbe continuato a perseguitarlo per tutto il dopoguerra, e lui non ne avrebbe mai più parlato in pubblico.

I grandi campioni non vincevano quasi mai da soli: avevano bisogno dei gregari. Andrea Carrea era sopravvissuto all'inferno di Buchenwald, dove era stato costretto anche a una spaventosa 'marcia della morte' nella neve. Quando ritornò pesava meno di quaranta chili. Con quei precedenti, pedalare su per un paio di montagne era quasi un piacere. Carrea passò al professionismo e divenne il più fedele gregario di Coppi. Le vicende sportive di Coppi, Bartali, Magni e Carrea sono esempi di come la guerra avesse inciso sulla vita della gente, anche nell'ambito ristretto di uno sport professionale, e di come il ritorno alla normalità fosse sempre determinato dalle esperienze vissute durante il conflitto.




1946: VIVA TOSCANINI!



Alla fine della guerra l'Italia era in buona parte distrutta - sul piano fisico come su quello psicologico. Occorreva ricostruire su tutti i livelli: dagli edifici spazzati via dai bombardamenti in tutta la penisola agli strascichi morali e politici di più di vent'anni di dittatura, di cui cinque di guerra totale. Il 15 agosto 1943 una bomba alleata aveva sfondato il tetto del più famoso teatro d'opera al mondo, la Scala, al centro di Milano. Le rovine non furono toccate fino a dopo la guerra: un grosso buco nel soffitto del famoso auditorio. Appena concluso il conflitto, comunque, le autorità si diedero da fare per ricostruire quel magnifico ambiente. Si progettava di accogliervi il ritorno dell'esule musicale più celebre d'Italia, il grande direttore Arturo Toscanini.

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Ricostruire e rifare l'Italia





LA DEMOCRAZIA



                                La prima volta che ho votato, la prima volta che
                                le donne hanno votato, è stato nel 1946, avevo
                                trent'anni, un gran febbrone, l'influenza, e
                                tremavo per l'emozione... Quell'emozione del
                                votare non mi ha lasciato più da allora... Un
                                senso di responsabilità, un senso di
                                appartenenza alla collettività, il senso di
                                essere finalmente cittadino.

                                                                Elvira Badaracco



La democrazia italiana è nata nel 1945-46. Dopo vent'anni senza elezioni di alcun genere (a parte i 'plebisciti' propagandistici di Mussolini), gli italiani venivano chiamati per la prima volta alle urne. Prima del fascismo il diritto di voto era gravemente limitato - agli uomini e, prima del 1918, solo di determinate categorie. Ora, finalmente, anche le donne potevano votare. Fu una rivoluzione democratica, non un passaggio graduale: il diritto di voto veniva riconosciuto a tutti, in modo immediato.

Il 10 marzo 1946 gli uomini e le donne d'Italia votarono per eleggere sindaci e amministrazioni locali, liberamente e senza il clima di intimidazione fascista che aveva accompagnato le elezioni negli anni '20: era la prima volta nella storia del paese. Nel clima esaltato del dopoguerra, partiti e movimenti fiorivano e si moltiplicavano (e molti svanivano con altrettanta rapidità). Alcuni dei vecchi partiti, spariti nella clandestinità durante l'epoca fascista - i socialisti, i comunisti, i repubblicani -, riemersero alla luce. Altri erano del tutto nuovi, o si erano dati nuovi nomi. Alcuni si dissolsero rapidamente. Il Partito d'Azione, estremamente influente prima, durante e dopo il periodo della Resistenza, non tardò a sparire, nonostante la longevità del suo lascito intellettuale. Le elezioni amministrative di marzo furono seguite a giugno da quelle nazionali per l'Assemblea costituente. In quel contesto, agli italiani veniva richiesta un'ulteriore, fondamentale, decisione.


REPUBBLICA O MONARCHIA?

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ALLE URNE



Alle sei del mattino del 2 giugno 1946 si aprirono i seggi. I negozi erano quasi tutti chiusi. Molte delle donne che si presentarono erano vestite di nero, in lutto per i congiunti caduti, o non ancora ritornati dalla guerra. Alcuni elettori erano abbastanza vecchi da ricordare l'epoca prefascista. Francesco Saverio Nitti (settantasette anni, presidente del Consiglio nel 1919-20) e Ivanoe Bonomi (settantadue anni, presidente del Consiglio nel 1921-22 e nel 1944-45) - due sopravvissuti dell'Italia liberale - votarono entrambi a Roma. Loro sì che ricordavano quando una parte degli italiani aveva votato per l'ultima volta; ma milioni di persone non l'avevano mai fatto prima. Ci furono pochissimi incidenti o atti di violenza. La percentuale dei votanti registrati agli atti toccò un incredibile 89,1 per cento degli aventi diritto. Per molte donne fu un momento emozionante. Una ricordava che "quel due giugno, nella cabina di votazione, avevo il cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi fra il segno della repubblica e quello della monarchia". Un'altra raccontava: "In una cabina di legno povero e con in mano il lapis e due schede, mi trovai di fronte a me, cittadino".

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L'Italia non ebbe dunque un serio processo di epurazione, e molti fascisti ed ex fascisti rimasero a piede libero. Non ci fu una 'Norimberga italiana'. I crimini di guerra non furono mai puniti, né quelli commessi in Italia, né altrove. L'invasione e l'occupazione fascista in Grecia, Albania, Jugoslavia e Francia, le guerre coloniali in Etiopia, Somalia e Libia, l'intervento in Spagna durante la guerra civile: tutto dimenticato (in Italia). Non un solo soldato o politico italiano fu mai ritenuto responsabile di crimini connessi alle guerre fasciste degli anni '30 o agli eventi della guerra mondiale. Quanto ai nazisti, furono pochi quelli di alto livello perseguiti nel dopoguerra sul suolo italiano. Herbert Kappler era stato un personaggio chiave nell'occupazione durante la guerra, responsabile della deportazione di molti ebrei da Roma (diretti ad Auschwitz) e dell'orribile strage per rappresaglia alle Fosse Ardeatine, nel 1944. Nel 1947 fu condannato all'ergastolo (da un tribunale militare) per ciò che aveva compiuto in Italia durante la guerra.

Un'ulteriore tacita amnistia fu estesa alla maggior parte dei nazisti colpevoli dei massacri commessi in Italia durante l'occupazione. Furono quasi tutti rimandati in Germania, e buona parte delle indagini cessarono senza imputazioni. Finita la guerra decine di nazisti di primo piano riuscirono a trovare asilo in Argentina o altrove passando per Genova o Bolzano, con la collusione del Vaticano - tra questi anche Adolf Eichmann. Si decise molto presto di interrompere le indagini giudiziarie su molti gravi delitti, e in un archivio di Roma qualcuno voltò con gli sportelli al muro uno schedario contenente informazioni dettagliate. Fu 'riscoperto' solo nel 1994, e fu subito soprannominato 'l'armadio della vergogna'.

Il biennio 1945-46 fu un periodo in cui i vecchi sistemi si riaffermarono anche in altri settori. Le donne vennero espulse quasi immediatamente dalla forza lavoro, e spesso furono gli stessi uomini che avevano partecipato alla Resistenza a spingere in questa direzione. Paola Gaiotti De Biase dichiarò che "sono, purtroppo, comandanti partigiani, o interi Comitati di Liberazione nazionale (CLN) locali che chiedono nell'estate del '45 il licenziamento d'autorità delle donne per far posto agli uomini"30. In Italia la guerra e la Resistenza avevano cambiato molte cose, ma molte altre erano rimaste immutate. In molte parti del paese le strutture familiari parevano non aver risentito della rivoluzione democratica. Secondo la storica Maria Linda Odorisio, "la vecchia famiglia patriarcale che pure era stata un caposaldo dello Stato fascista non era oggetto adesso di alcun ripensamento: i rapporti familiari apparivano qualcosa di dato e immutabile".

L'assenza di una critica della famiglia e delle sue strutture di potere riguardava anche la sinistra. L'organizzazione femminile del Partito comunista, l'UDI (Unione donne italiane), fondata nel 1944 aveva una posizione conservatrice riguardo alla famiglia. La famiglia in sé, pareva, non costituiva un problema né aveva bisogno di riforme. Per molti era semplicemente una soluzione e una fonte di conforto, specie dopo le fratture, le divisioni e gli orrori della guerra, con tante famiglie distrutte o separate per anni. Non sorprende, forse, che fossero molti anche quelli che rifiutavano in blocco il sistema politico in quanto tale.




IL QUALUNQUISMO E L'ANTIPOLITICA



                                                        VOGLIAMO CHE NESSUNO
                                                        CI ROMPA PIÙ I COGLIONI.

                                         Guglielmo Giannini (il maiuscolo è suo)



Guglielmo Giannini scriveva battute e canzoni, faceva il giornalista e aspirava a diventare commediografo e regista di cinema. Uomo dal fisico imponente, era cresciuto a Napoli (figlio di un'inglese e di un anarchico italiano) e aveva combattuto nella Prima guerra mondiale. Da giovane era stato attratto dagli ideali comunisti. Ci sapeva fare con le parole, e nell'immediato dopoguerra si ritrovò, in modo del tutto imprevisto, a capo di un movimento politico in rapida affermazione, che per un attimo minacciò il sistema partitico vigente, per poi dissolversi con la stessa rapidità.

In definitiva il lascito più importante di Giannini fu forse la parola 'qualunquismo' (usata per descrivere il movimento, ma derivata dal nome che aveva dato al suo 'partito'), un fenomeno che Sandro Setta definisce come "il disprezzo generalizzato per la politica e per gli uomini politici, giudicati avidi e corrotti senza alcuna distinzione critica tra chi governa e chi è all'opposizione; l'indifferentismo ideologico; la tendenza al disimpegno sociale e all'occuparsi esclusivamente del proprio gretto 'particolare'".

Nel dicembre 1944 Giannini fondò un giornale, "L'uomo qualunque". Il foglio, e il movimento che ne derivò, attaccavano la 'classe' dei 'politici di professione'. La politica in sé era considerata inutile, e per governare l'economia bastava "un bravo ragioniere". Usando un linguaggio sboccato (altri populisti e movimenti antipolitici l'avrebbero poi ripreso e copiato) Giannini inveiva contro i partiti e le istituzioni dello Stato. Il 'vento del Nord' (il nome assunto dai cambiamenti radicali proposti dalla generazione della Resistenza) diventava 'il rutto del Nord', e Rai significava 'Restituitela Agli Italiani'. Giannini non era fascista, e trattava Mussolini con estrema volgarità, ma molti dei suoi bersagli erano antifascisti.

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APRILE E LUGLIO 1948: ELEZIONI E RIVOLUZIONE.
VOTI DA CONTARE, VOTI DA PESARE



                    Nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, Stalin no!

                              Slogan elettorale della Democrazia cristiana, 1948



L'aprile 1948 vide la battaglia decisiva nella Guerra fredda italiana. Nel dicembre 1947 era stata sciolta l'Assemblea costituente: aveva svolto il suo compito. Furono quindi convocate le prime elezioni vere e proprie dopo la promulgazione della Costituzione. Fu fissata la data: 18 aprile 1948. Quel giorno avrebbe cristallizzato il sistema politico per i quarantaquattro anni a venire. Il popolo italiano si trovava di fronte a una scelta secca: da una parte la Democrazia cristiana, con il Vaticano; dall'altra il Fronte democratico popolare per la libertà, la pace, il lavoro - comunisti e socialisti, uniti in un'alleanza politica ed elettorale.

Fu una campagna tumultuosa. Gli appelli agli elettori ponevano la scelta come una questione di vita o di morte. I democristiani spiegavano che "il 18 aprile voi potete salvare o distruggere la vostra libertà... la libertà di pensare e di esprimere le proprie idee... la libertà di professare la fede dei padri". "La scelta», continuavano, "è tra il totalitarismo bolscevico, che si nasconde dietro la maschera del Fronte cosiddetto popolare, e lo schieramento dei partiti sinceramente democratici". La propaganda democristiana sottolineava anche i loro legami con gli Stati Uniti. Entrambi i fronti in questo titanico scontro elettorale erano finanziati e armati clandestinamente dalla rispettiva superpotenza di riferimento.

Anche gli appelli dei comunisti lanciavano oscure premonizioni. Palmiro Togliatti intravedeva una "minaccia del ritorno a un regime di tirannide... il rischio di un ritorno a soluzioni di tipo fascista". E aggiungeva che in caso di vittoria democristiana l'Italia avrebbe perduto il controllo della propria sorte, finendo coinvolta nelle guerre future. Allo stesso tempo, gli enormi manifesti della DC incollati ai muri o portati come bandiere nelle manifestazioni erano tutti giocati sulla paura. Come racconta lo storico Rosario Forlenza: "La propaganda visiva cattolica dipingeva i comunisti come scheletri, personificazioni della morte, o come bestie mostruose - diavoli, orsi, serpenti e draghi - che calpestavano il cenotafio d'Italia e ne divoravano (metafora dello stupro) le giovani donne".

La Guerra fredda toccava nel profondo la vita di ogni cittadino, e le sue emanazioni non tardarono a farsi quasi apocalittiche. Si tirava in ballo perfino l'aldilà. Già nel dicembre 1946 papa Pio XII aveva avvertito che per gli italiani la scelta era "con Cristo o contro Cristo". Come ha scritto lo storico Robert Ventresca, "per gli elettori italiani quindi, diversamente che per quelli nelle democrazie tradizionali, non si trattava di scegliere tra i partiti politici o le filosofie, ma tra il paradiso e l'inferno". Sarebbero arrivati provvedimenti e annunci ancor più drastici. La Chiesa emise una serie di 'scomuniche' contro i comunisti tesserati, e persino contro chi si limitava a votare comunista. Così si apriva uno di questi editti:

i capi comunisti, sebbene a volte sostengano a parole di non essere contrari alla Religione, di fatto sia nella dottrina sia nelle azioni si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo.

La scomunica non aveva mero valore simbolico. Precludeva battesimi, confessioni, matrimoni e funerali religiosi. I provvedimenti non furono sempre applicati alla lettera dai preti locali, ma la minaccia incombeva. I comunisti e í loro simpatizzanti erano destinati all'inferno, non al paradiso.

A livello popolare, in tutta Italia nelle settimane precedenti le elezioni si registrarono decine di visioni della Madonna. Ovunque "madonne lacrimanti, madonne sanguinanti, madonne sfavillanti apparvero a bambini, adulti, vecchi. Solo dopo il vittorioso esito delle elezioni, questa febbre mariana a poco a poco si calmò".

Nella corsa finale verso le decisive elezioni nazionali del 1948 la Chiesa superò se stessa. Tre settimane prima del voto, il 28 marzo, il papa impartì la tradizionale benedizione pasquale dalla finestra del Vaticano. Ai fedeli disse che "la grande ora della coscienza cristiana è suonata". Gli italiani dovevano scegliere. Era uno scontro tra noi e loro; le elezioni venivano presentate come una questione di vita o di morte, per i singoli che rischiavano la scomunica votando a sinistra, ma anche per la Chiesa, per la religione stessa, e per il capitalismo occidentale. "Per la propaganda cattolica le elezioni erano niente meno che una battaglia tra Dio e Satana, Cristo e l'Anticristo, la civiltà e la barbarie, la libertà e la schiavitù". In tutte le parrocchie, durante la messa i preti inveivano contro i comunisti. Le organizzazioni cattoliche locali si mobilitavano porta a porta.

Anche lo sport divenne uno strumento nelle macchinazioni della Guerra fredda. La grande rivalità tra i ciclisti Fausto Coppi e Gino Bartali assunse forti connotazioni politiche e culturali. Il cattolicesimo di Bartali era parte integrante della sua immagine pubblica. Papa Pio XII fece perfino il suo nome dal balcone di piazza San Pietro, e il corridore toscano divenne un (volonteroso) combattente nella battaglia contro il comunismo, facendo campagna per i democristiani. Coppi non era certo comunista, ma fu spesso associato con 'l'altra parte' nella Guerra fredda. Gli italiani erano divisi in ogni sfera della loro vita pubblica e privata. Il Fronte popolare aveva adottato un nuovo simbolo per la scheda: la testa di Garibaldi col berretto rosso sovrapposta a una stella verde (che rappresentava il lavoro). Garibaldi era sinonimo di Italia - la sinistra tentava di far proprio lo spirito patriottico - ma era anche un richiamo alla Resistenza, alle Brigate Garibaldi dei partigiani comunisti.

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IL BOOM E LA CULTURA CHE CAMBIA:
LA COLONNA SONORA



La trasformazione dell'Italia ebbe una sua colonna sonora, del tutto particolare. Nel dopoguerra si affermò un gruppo di ottimi cantautori di ispirazione radicale, che prese d'assalto il mondo conservatore della musica di quel periodo. Molti erano di Genova, città portuale che attraversava tempi duri. Le loro canzoni parlavano di vicoli oscuri, di prostitute, e della vita di ogni giorno nel labirinto della città vecchia. Spesso ispirati a cantautori francesi come Georges Brassens, potevano anche assumere controverse posizioni politiche.

Fabrizio De André, un bell'uomo (gran fumatore e bevitore) con una indimenticabile voce profonda e l'estro del poeta, divenne subito l'ispiratore del gruppo. Le sue canzoni furono gli inni di una generazione, cantate da lui oppure - in un caso particolarmente famoso - da una ragazza alta ed esuberante, dalla magnifica voce, di nome Mina. I testi di De André raccontavano di prostitute cacciate dalla città a furor di popolo, o dei morti dimenticati della Prima guerra mondiale; con l'avanzare degli anni '60 e '70 affrontarono in modo sempre più diretto anche la politica contemporanea: l'album a tema Storia di un impiegato (1973), per esempio. Nel 1979 De André e la sua compagna Dori Ghezzi furono rapiti dai 'banditi' sardi (aveva una casa sull'isola). Diversamente da tante altre vittime dei sequestri, De André si identificò con i rapitori: con Hotel Supramonte, la canzone che dedicò a quell'esperienza, seppe trarre vera poesia da un evento terrificante.

La scena musicale italiana subì forti influenze dall'esterno, che però non furono mai accettate o copiate supinamente. Il rock and roll arrivò in Italia negli anni '50, portato da musicisti di Roma e Milano, e qualcuno di loro ebbe subito grande successo. Adriano Celentano, un figlio di immigrati meridionali nato e cresciuto a Milano, fu il primo a sfondare, e la sua brillante carriera continua nel XXI secolo. 'Il molleggiato', che aveva cominciato rifacendo brani altrui, divenne poi un autore di talento, cantando la realtà che conosceva meglio: la periferia povera di Milano. Con Il ragazzo della via Gluck (1966), per esempio, ritornava agli anni del boom: nel video della canzone Celentano passeggia tra i palazzoni ricordando i prati della sua infanzia, ormai coperti dal cemento.

Celentano sperimentava diversi stili musicali, ed era sensibile al tema dell'ambiente (ben prima che diventasse di moda). Nel 1987-88 divenne il conduttore dello spettacolo televisivo serale più popolare, Fantastico, dove si esibiva in lunghi monologhi (dal vivo) che ipnotizzavano il pubblico. Lunghe pause, poi le sue opinioni sulla caccia, sull'amore, sulla musica, sulla distruzione del paesaggio italiano. Una tattica che era anche un segnale del potere (e dei rischi) della televisione. Celentano parlava direttamente a milioni di italiani, dal vivo, scavalcando ogni forma di mediazione e perfino i tradizionali meccanismi di controllo. Fu un evento messianico; altri (in particolare Silvio Berlusconi) avrebbero poi sfruttato forme di comunicazione molto simili.

Nel 1957 Celentano aveva partecipato a un famoso concerto al Palaghiaccio di Milano che fu un momento fondante per il rock and roll italiano. Nel gruppo improvvisato c'erano anche Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Gaber era cresciuto abbastanza vicino al centro città, e anche lui cantava la realtà urbana del miracolo economico. Alcune delle sue prime canzoni, tra le più amate, raccontano la vita nei bar di Milano: Trani a gogò, per esempio, sui locali che vendevano 'vino di Trani', - e "Si passa la sera scolando Barbera / nel Trani a gogò".

Gaber divenne famoso, e compariva spesso alla televisione, ma la sua musica si avviò lungo nuovi e interessanti percorsi. Negli anni '60 e '70 creò una forma artistica ibrida, il 'teatro-canzone', che riscosse enorme successo e lo trasformò in un personaggio di culto. I suoi spettacoli teatrali, costruiti con grande cura, alternavano monologhi e canzoni. Diventavano poi album a tema, creati appositamente per ogni pièce. Mentre l'Italia era percorsa da un'ondata di movimenti di protesta, anche la voce di Gaber assunse toni più critici. Era un uomo di sinistra, ma seppe analizzare e decostruire il movimento, denunciandone le fisime e gli stereotipi. Riuscì a trasformare anche la politica in poesia - con la canzone La libertà, per esempio.

L'opera più celebre di Gaber è Il signor G (1970) - spettacolo teatrale e album doppio; un'analisi critica della classe media italiana dell'epoca in cui recitava un suo alter ego impiegatizio (suo padre era stato impiegato). Il signor G era "un signore come tutti.., una persona piena di contraddizioni e di dolori". Ogni anno un mese di rappresentazioni - tutto esaurito - a Milano; poi uscivano i dischi registrati dal vivo e in studio. I dischi e gli spettacoli di Gaber riflettevano un'Italia che cambiava dopo le speranze suscitate in molti dai movimenti degli anni '60. Il tono era sempre più pessimistico, come in Far finta di esser sani o La mia generazione ha perso.

L'ultimo di quel vecchio gruppo di rockettari era Enzo Jannacci. Di mestiere faceva il cardiologo (continuò ad esercitare per quasi tutta la vita; aveva studiato con il famoso cardiochirurgo Christiaan Barnard in Sudafrica). Era un cantante eccentrico, con una voce roca fuori dal comune. Molte delle sue canzoni erano in milanese. Anche queste erano storie della gente della Milano del boom, con un umorismo un po' grasso; storie spesso farsesche di criminali e ubriachi del sottoproletariato a Milano. Jannacci raccontava di furti non riusciti, di sesso in piedi al cinema, di stordimenti alcolici da svenimento. Collaborò anche con Beppe Viola, un commentatore sportivo e scrittore con un insolito estro da paroliere. Il loro capolavoro, Quelli che..., è una canzone di tipo nuovo, fatta di musica ripetitiva e uno sbrodolìo di frasi fatte e idiozie della quotidianità italiana, compreso il mondo dello sport. Era una canzone flessibile, che si poteva adattare al contesto politico del momento - una forma precoce di rap milanese.

Un altro personaggio centrale della scena milanese dell'epoca era Dario Fo: attore, commediografo, militante politico e cantante. Fo e Jannacci scrissero parecchie canzoni insieme, in cui elementi del teatro e della farsa popolare si fondevano con la satira politica. Come Ho visto un re, una satira sulla natura del potere che prende di mira anche la Chiesa. Era tutto estremamente divertente, è ovvio, ma quella musica era anche sempre più pungente con l'avanzare degli anni '60. Fo sarebbe diventato un personaggio internazionale con le sue opere satiriche e gli spettacoli di teatro popolare, con la moglie Franca Rame e nei famosi monologhi, tra i quali il suo capolavoro Mistero buffo. Il teatro e la musica di Fo erano un ibrido stilistico, una mistura innovativa di tradizione, protesta politica e partecipazione del pubblico. Il suo successo fu una manifestazione del desiderio di nuove forme di cultura che caratterizzò gli anni '60.

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Sangue e riforme:
adeguamento delle istituzioni
e violenza negli anni '60 e '70



Gli ultimi anni '60 e i '70 furono un tempo di scontri, violenze e spargimento di sangue. Ma rappresentarono anche un periodo di riforme epocali, che sospinsero le istituzioni italiane nel XX secolo. L'Italia ebbe un 'maggio lungo' di proteste, centrato sull'anno chiave, il 1968. Lo Stato e i partiti politici risposero, finalmente, approvando una serie di riforme. Importanti modifiche nel diritto di famiglia (1975), cambiamenti radicali nel sistema carcerario (1975), abolizione definitiva degli ospedali psichiatrici (1978), legalizzazone del divorzio (1970) e dell'aborto (1978). I lavoratori ottennero rilevanti miglioramenti, non soltanto sul posto di lavoro (1970). Fu costituito il servizio sanitario nazionale, e altri servizi dello stato sociale.

Mentre nelle strade, e nei tribunali, infuriavano le battaglie, con bombe, omicidi, congiure e complotti, l'Italia e le sue istituzioni si modernizzavano. Incalzati da ogni lato, ma in particolare dai movimenti nati dal 1968, i legislatori produssero delle riforme moderne e organiche, spesso in anticipo su altri paesi. Gli anni '70 furono dunque un eccezionale periodo di riforma, a smentita dell'idea che l'Italia non sarebbe mai cambiata, che fosse 'irrecuperabile'. In tutto il paese vi fu una 'lunga marcia' attraverso le istituzioni. E una delle scintille di questa rivoluzione si accese nel più improbabile dei luoghi: un ospedale psichiatrico in una cittadina sul confine con la Jugoslavia comunista.

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"LETTERA A UNA PROFESSORESSA"



Il rifiuto degli aspetti più antiquati del sistema scolastico si affermò nel corso degli anni '60. Un momento decisivo di questa critica radicale venne da una fonte alquanto improbabile, la campagna toscana. Lorenzo Milani era nato a Firenze nel 1923, da madre ebrea e padre cattolico. Prese i voti nel 1947, e si mise subito nei guai per il suo atteggiamento critico verso le gerarchie della Chiesa e i tentativi di istituire una scuola 'popolare' locale aperta a tutti, e non soltanto ai cattolici.

Per punire la sua condotta poco ortodossa, nel 1954 le autorità ecclesiastiche lo relegarono in un paesino minuscolo chiamato Barbiana. Indifferente al tentativo di marginalizzarlo, don Milani aprì un'altra scuola nei locali della parrocchia per i bambini del paese, e in particolare per quelli che erano entrati in conflitto con le istituzioni tradizionali. La scuola alternativa e utopistica di don Milani era aperta tutto il giorno e nei fine settimana, e anche durante le vacanze. La Costituzione italiana veniva usata come testo. Sulle pareti campeggiavano slogan che sovvertivano quelli fascisti - "I care", per esempio, in risposta al "me ne frego" del regime. Gli allievi venivano incoraggiati a parlare delle loro vite, non a studiare argomenti astratti privi di nessi con la realtà di ogni giorno. Tutti i ragazzi potevano frequentare, e tutti erano, in un certo senso, 'autodidatti'. Un altro elemento fisso era la lettura ad alta voce di un quotidiano, ogni giorno. Spesso le lezioni si tenevano all'aperto.

Nel 1967 uscì un libro, dalla semplice copertina bianca. Gli 'autori' erano otto ragazzi della scuola di Barbiana, ma l'apporto di don Milani risultava evidente. Il libretto avrebbe colto l'Italia di sorpresa. Si intitolava Lettera a una professoressa , e usava un linguaggio chiaro, diretto, rabbioso. "Questo libro", esordiva, "non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi". Il testo, in forma appunto di lettera, cominciava così:

Cara signora

lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell'istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che 'respingete'. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.

Nella Lettera a una professoressa confluivano diversi aspetti che presto avrebbero caratterizzato il '68. Un'indagine sociologica sulla gestione tradizionale delle scuole (una forma di controinformazione), l'attacco contro le strutture di potere nel sistema scolastico, l'indicazione o la proposta di soluzioni alternative. Secondo i ragazzi e gli insegnanti di Barbiana, le scuole statali italiane si fondavano sulla discriminazione di classe. Favorivano i ricchi, umiliando ed escludendo i poveri. Il libro paragonava la scuola a "un ospedale che cura i sani e respinge i malati". Quanto agli esami, la posizione di don Milani era molto chiara: "vanno aboliti".

Anche Barbiana era un'utopia nella pratica, e come la Gorizia di Basaglia ebbe un'influenza enorme. Era una scuola nuova, dove i ragazzi erano partecipanti attivi, e nessuno veniva bocciato. "A quelli che sembrano cretini basta dargli la scuola a pieno tempo... Agli svogliati basta dargli uno scopo". Il libro divenne una sorta di Bibbia per una nuova generazione di studenti, insegnanti ed educatori. Ma nemmeno Barbiana poteva fare miracoli: qualche ragazzo abbandonò, nonostante l'impegno del prete e dei compagni; altri furono costretti a lavorare, servivano braccia nei campi; e don Milani sapeva anche essere molto severo...

Dopo il successo del libro, una processione di ammiratori si riversò su Barbiana, e nonostante la morte per cancro di don Milani nel 1967, a soli quarantaquattro anni (una morte prematura che ne confermò il prestigio di martire-mito), il suo esempio conservò tutto il suo valore. Un'onda di innovazione si riversò sul sistema scolastico, coinvolgendo nella richiesta di cambiamento sia gli studenti che gli insegnanti, oltre che i genitori. Come il lavoro di Basaglia e dei suoi psichiatri radicali, la Lettera a una professoressa preparò il terreno sia per i movimenti del '68, sia per le riforme legislative degli anni '70. Aveva però anche un lato oscuro: nelle mani di qualcuno, venne usato per trasformare tutti gli insegnanti in nemici di classe. Il suo era un linguaggio radicale, totalizzante: era un testo incendiario.

Don Milani ebbe un ruolo decisivo anche in un altro ambito di riforma istituzionale. Il servizio militare obbligatorio era tra i pilastri fondanti dello Stato fin dall'Unità nell'Ottocento. Tutti gli uomini (con qualche eccezione) dovevano servire nelle forze armate per un certo periodo, e non esisteva un'opzione 'civile'. Chi rifiutava l'arruolamento senza una ragione legittima veniva condannato al carcere come disertore.

Nel 1972 fu finalmente concesso agli obiettori di coscienza di evitare il servizio militare vero e proprio. Dopo le riforme di quell'anno venne offerta ai giovani l'alternativa del cosiddetto 'servizio civile', lavorando nelle scuole o in altre istituzioni pubbliche. La riforma legislativa giunse a seguito di una lunga battaglia condotta dai pacifisti, dalla sinistra, e da molti preti e fedeli cattolici. Contro il servizio di leva, don Milani pubblicò un opuscolo intitolato L'obbedienza non è più una virtù, in forma di lettera ai 'cappellani militari' che avevano definito l'obiezione di coscienza un "insulto alla Patria". Se così fosse, scriveva Milani, "io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri". Il prete fiorentino fu processato, e condannato (in appello) per incitamento alla diserzione e 'vilipendio delle forze armate'; ma nel frattempo se n'era andato.

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LE UNIVERSITÀ E IL 1968



                                                                Vietato vietare.

                                                                  Slogan del '68



Alla fine degli anni '60 si verificò un'inebriante concomitanza di fattori storici e politici: sullo sfondo globale, la guerra in Vietnam, la Cina di Mao, le lotte anti-imperialiste nel mondo, e il movimento pacifista. Le correnti di pensiero radicali negli ambiti della psichiatria, del sistema scolastico, oltre che nella letteratura, nella musica e nell'arte, ponevano le basi di nuove forme di antiautoritarismo, una rivoluzione culturale. Il sovraffollamento dell'istruzione di massa, la penuria di risorse e l'apparente immutabilità della gestione delle università generavano gravi insoddisfazioni per il funzionamento delle istituzioni e della società. Molti cercavano la rottura. Un'intera generazione si politicizzava, pronta a combattere. Autori come Herbert Marcuse , R.D. Laing e Frantz Fanon offrivano una prospettiva più generale alla critica della società. Il sistema politico, distante e fossilizzato, pareva refrattario al desiderio di cambiamento. La Primavera di Praga del 1968 indebolì la presa del Partito comunista sulla sinistra: il movimento studentesco italiano simpatizzava con i ribelli cecoslovacchi, non con il regime. Come dichiarava un volantino, "Di fronte, non dietro ai carri armati".

Non fu quindi sorprendente che con il procedere degli anni '60 gli studenti cominciassero a tenere testa ai professori, e all'intero sistema dell'università. L'arma di lotta principale era l'occupazione degli spazi universitari, iniziata in modo sporadico alla metà del decennio a Roma e Milano (le facoltà di architettura in prima fila) e nella nuova Università di Trento, ed esplosa in tutto il paese nel 1967. Il movimento studentesco italiano precede quello francese del maggio 1968, e dura molto più a lungo. Qualcuno ha definito il '68 italiano "il maggio lungo", a confronto con gli eventi parigini. Il movimento si diffuse rapidamente: nel febbraio 1967 fu occupata una parte dell'Università di Pisa, seguita subito dopo da quella di Torino, e così via per tutto il corso dell'anno. Le occupazioni si conclusero con violenze e arresti da parte della polizia.

Negli spazi occupati, gli studenti producevano documenti, si organizzavano in gruppi, eleggevano i leader e discutevano su una grande varietà di temi al di là di quelli strettamente collegati alla riforma universitaria. Nel novembre 1967 una massiccia occupazione bloccò l'attività nella prestigiosa Università Cattolica di Milano. Gli scontri con la polizia del marzo 1968 portarono all'espulsione di molti studenti, tra i quali uno dei primi leader del movimento, l'immigrato umbro Mario Capanna. Molti degli espulsi si iscrissero all'Università Statale, dove ripresero le loro iniziative radicali. Gli studenti protestavano contro il contenuto dei corsi, i metodi di insegnamento e valutazione, e le strutture del potere accademico. Interrompevano le lezioni e tenevano testa ai professori sbalorditi. A Torino lo studente Guido Viale montò in piedi sulla 'sacra' cattedra e diede dell'imbecille a un professore. Più avanti fu arrestato e incarcerato per la sua attività politica. Viale divenne subito un leader - era orfano, condizione che ben corrispondeva a uno degli slogan più popolari dell'epoca, "Vorrei essere orfano", simbolo del rifiuto della 'famiglia borghese'. Viale criticava i criteri metodologici stessi della ricerca universitaria:

Ogni rivista pubblicata dagli istituti contiene articoli in cui si discutono gli articoli pubblicati dalla prima rivista. Le pubblicazioni valevoli per il conseguimento di titoli accademici il più delle volte non sono che raccolte di detti articoli. Il circuito si chiude. La ricerca ricerca se stessa, e le facoltà umanistiche diventano una torre di avorio completamente isolata dalla problematica culturale e politica del resto del mondo.

Nel 1968 Viale pubblicò un importante articolo, dal titolo inequivocabile, Contro l'università: in forma di libro, circolò in migliaia di copie.

Nel frattempo a Trento, tra le montagne - un'università nata solo nel 1962, in un posto tanto sonnolento da essere considerato 'sicuro' -, i contestatori erano già passati a iniziative più radicali, organizzando contro-corsi e i cosiddetti 'scioperi attivi'. Le università toccate dalle occupazioni e da altre forme di protesta furono molte: Padova, Firenze, Siena, Lecce, Roma, Napoli, Pavia, Messina, Ferrara, Parma, Venezia, Genova, Bari, Ancona, Cagliari, Perugia, Bologna, Modena, Trieste, Milano, Palermo e Catania. Il movimento aveva dimensioni nazionali.

Il 1° marzo 1968, a Roma, l'evento che segnò una svolta: gli studenti e altri manifestanti si scontrarono con la polizia per parecchie ore in un parco vicino alla facoltà di architettura. L'avrebbero chiamata 'la battaglia di Valle Giulia'. Ci furono più di seicento feriti quel giorno, tre quarti dei quali studenti. In termini storici la 'battaglia' può essere considerata uno spartiacque, il momento in cui "non siamo scappati più". La violenza, quantomeno per difendersi dalla polizia, diventava accettabile. Il movimento elettrizzò anche molti studenti delle scuole superiori, e anche qui cominciarono le occupazioni. La radicalizzazione dei giovanissimi fu un altro aspetto particolare del movimento italiano: in altri paesi il '68 riguardò quasi esclusivamente l'università. In Italia le stesse rivendicazioni - sugli esami, il potere degli insegnanti, l'antiautorítarismo - venivano dall'università e dalla scuola.

Il Partito comunista era combattuto sull'atteggiamento da assumere verso la rapida espansione del movimento studentesco. Luigi Longo, capo del partito dopo la morte di Togliatti nel 1964, ne aveva una visione positiva. Nel maggio 1968 scriveva che "nessuno può negare l'ampiezza e la profondità del movimento studentesco in Italia". "È evidente", aggiungeva, "che sarà dagli studenti che verranno le nuove generazioni di intellettuali di avanguardia". Ma in giugno Giorgio Amendola, dalla destra del partito, accusava gli studenti di "infantilismo estremista... e di vecchie posizioni anarchiche". A suo vedere "la lotta contro l'opportunismo socialdemocratico è efficace se essa viene accompagnata da un'azione coerente contro il settarismo, lo schematismo e l'estremismo... Già Lenin aveva ammonito a non giocare con l'insurrezione!".

È indubbio comunque che per molti nel movimento studentesco il Partito comunista faceva parte del problema, non della soluzione. Si ribellavano (nella prima fase) anche contro i genitori comunisti, un fatto particolarmente traumatico per chi aveva partecipato alla Resistenza antifascista. Non era raro che gli studenti contestassero anche i professori con impeccabili credenziali antifasciste. Per parte sua, la vecchia generazione faticava a capire quello che succedeva. Come avrebbe dichiarato più avanti Nuto Revelli , ex partigiano e studioso di storia orale, "la generazione del 1968 voleva la libertà dopo la Liberazione! Non sapevano nulla di quanto aveva sofferto la nostra generazione per la guerra - è bello che questi bambini non abbiano dovuto subire la guerra... ma gli studenti hanno sbagliato, perché quando sono scesi in piazza hanno turbato la pace democratica!".

La Resistenza, secondo il movimento studentesco, era stata tradita, e le sue commemorazioni ritualistiche non dicevano nulla ai giovani degli anni '60. Questa posizione veniva dichiarata senza esitazioni dall'influente periodico radicale "Quaderni Piacentini":

NO NO NO. Non vogliamo che i morti della Resistenza siano "onorati" con monumenti "ai caduti di tutte le guerre" inaugurati da vescovo, prefetto, presidente del tribunale, comandante del distretto, commissari, intendenti e sopraintendenti. Meglio il silenzio.

Servivano dei 'nuovi partigiani'. Nonostante le teorie (e la retorica) che parlavano di una cosa chiamata 'potere studentesco', gli studenti uscirono presto nel mondo esterno: ai cancelli delle fabbriche, ma anche in altre istituzioni come musei e sedi di giornali. Uno degli slogan di una parte del movimento diceva "Occupiamo la città". Il '68 italiano sfidava le istituzioni antiquate e le gerarchie ufficiali; ma attaccava anche la vecchia sinistra, e in particolare il Partito comunista, considerato "conservatore" e "funzionale al sistema". Era nata una nuova sinistra.

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12 DICEMBRE 1969: LA STRAGE



                                Piazza Fontana e quel che ne seguì fu un evento
                                che fece da cesura alla vita di tutta una
                                generazione. Ci fu un prima e un dopo.

                                                                Corrado Stajano


                                Nel salone centrale della Banca... sul
                                pavimento... che recava al centro un ampio
                                squarcio, giacevano, fra i calcinacci e resti
                                di suppellettili, vari corpi senza vita e
                                orrendamente mutilati, mentre persone
                                sanguinanti urlavano il loro terrore.

                                  Testo della sentenza per piazza Fontana, 1979



Quel venerdì pomeriggio, il 12 dicembre 1969, la folla in centro a Milano era tutta presa dalle spese di Natale. Nell'imponente salone della Banca Nazionale dell'Agricoltura, a due passi dai grandi magazzini di piazza Fontana, si stava in coda per depositare. Era così tutti i venerdì, per l'antico legame di Milano con la campagna e la sua economia. Gli agricoltori erano perlopiù uomini di mezza età, ma qualcuno era venuto con la famiglia. Era un momento di tensione: in città i movimenti studenteschi e operai si andavano affermando, e le recenti manifestazioni avevano portato a scontri con la polizia. In novembre, non lontano da piazza Fontana, era morto un giovane poliziotto, immigrato meridionale, Antonio Annarumma. I leader studenteschi che si erano presentati al suo funerale furono costretti alla fuga per non subire violenze. Le cose stavano prendendo una brutta piega.

Alle 4,37 del pomeriggio una terribile esplosione scosse l'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura. L'immagine di quel che seguì somiglia alla guerra: arti strappati sparsi tra i calcinacci nella sala buia e piena di fumo, cadaveri ovunque. Al primo conteggio risultarono quattordici morti e quasi novanta feriti. Altri due sarebbero morti nel gennaio 1970, e un certo Vittorio Mocchi morì quattordici anni dopo a seguito delle complicazioni. Qualcuno subì lesioni orrende, capaci di cambiare una vita. Un ragazzino di dieci anni perse una gamba. Un prete, don Fioravanti, si trovava all'ingresso della banca quando avvenne l'esplosione. Cercò di portare aiuto. "Mi è venuta incontro una ragazza senza un braccio", dichiarò alla stampa. "Con l'altro mi ha tirato la tonaca: 'Padre, ci aiuti'".

In quello stesso giorno, in Italia, furono piazzate altre quattro bombe (con timer, borse ed esplosivi identici), tre a Roma e una in un'altra banca di Milano, ma non ci furono altri morti. La bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura avrebbe preso il nome dal luogo, 'piazza Fontana'. La prima versione degli eventi ipotizzava l'esplosione di una caldaia, ma non si tardò a parlare di 'strage': la strage di piazza Fontana. Altri si limitavano a citare la data, il 12 dicembre.

Chi aveva compiuto quella carneficina, in tempo di pace, ai danni di persone colpevoli solo di essere entrate in banca? Chi aveva piazzato quella bomba? La polizia non aveva dubbi. Guardarono subito a sinistra e al movimento anarchico. Pare che nei giorni successivi venissero fermati circa quattromila attivisti di sinistra, e gli interrogatori procedevano giorno e notte in tutte le questure d'Italia. Fu determinante, a quel punto, la fermezza della classe operaia milanese, che scese in piazza compatta in una formidabile manifestazione silenziosa per il funerale delle vittime. Il messaggio era chiaro: non avrebbero rinunciato alla democrazia senza combattere.




MORTE ACCIDENTALE? IL CASO PINELLI



Tra i fermati a Milano il 12 dicembre - nel giorno stesso dell'esplosione - c'era Giuseppe 'Pino' Pinelli, un ferroviere quarantunenne, padre di due figlie. Era un anarchico, ben noto alla polizia, ma non aveva precedenti penali. Fu trovato che giocava a carte in un bar nella zona dei Navigli, e seguì la macchina fino in questura sul suo motorino.

Pinelli fu trattenuto senza imputazione per tre giorni e tre notti (violando le norme in vigore). Dormì pochissimo e fu interrogato in diverse riprese - non adeguatamente documentate. Il 15 dicembre, intorno a mezzanotte, un giornalista nel cortile della questura sentì il rumore di un tonfo: era Pinelli, arrivato dalla finestra di un ufficio al quarto piano. Era caduto? Era stato spinto? Si era buttato lui? Fu portato nell'ospedale più vicino, dove poco dopo morì. A una conferenza stampa nella stessa notte la polizia dichiarò che Pinelli si era suicidato, che esistevano pesanti indizi contro di lui, e che si era gettato dalla finestra gridando "l'anarchia è morta!".

Molti rifiutarono di crederci, e la versione della polizia fu presto smontata. Pinelli fu esonerato da qualsiasi collegamento con la bomba. Un innocente era morto dopo (o durante?) un interrogatorio illegale. Ma chi era responsabile di quella morte? La colpa ricadde sul commissario che guidava le indagini, Luigi Calabresi. Nel frattempo, il 15 dicembre un altro anarchico, Pietro Valpreda (che faceva il ballerino) veniva arrestato a Milano con l'accusa di aver piazzato la bomba nella banca. Protestò la sua innocenza, e fu tenuto in carcere per tre anni senza processo (la legge sulla carcerazione preventiva fu modificata appositamente per poterlo rilasciare). All'epoca i telegiornali dichiararono che 'il colpevole' era stato preso. Come Pinelli, anche Valpreda alla fine sarebbe stato prosciolto, ma soltanto nel 1981.

Calabresi, intanto, era diventato l'oggetto di una campagna d'odio nella stampa di sinistra. Giravano vignette in cui buttava persone dagli aeroplani, senza paracadute. Le scritte sui muri lo chiamavano assassino. Calabresi finì per querelare per diffamazione il giornale di sinistra "Lotta Continua", dandosi la zappa sui piedi in quanto il processo che seguì fu usato per denunciare e interrogare chiunque fosse implicato nel caso Pinelli.

Il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi fu ucciso con un colpo alla nuca davanti a casa, a Milano, mentre si avviava a prendere l'auto. Nell'immediato le indagini finirono in nulla. Ma nel 1988 un ex militante di Lotta continua confessò di essere stato l'autista nel fatto del 1972, e accusò altri tre esponenti del gruppo dí aver compiuto, o approvato, l'omicidio. I tre si dichiararono innocenti, ma alla fine furono condannati, dopo un procedimento interminabile (e circa quindici sentenze diverse), nel 2000.

Piazza Fontana e il caso Pinelli favorirono la radicalizzazione di un'intera generazione di militanti, molti dei quali già schierati nel movimento del 1968. Un libro a più mani (che si dichiarava opera di 'contro-informazione') pubblicato un anno dopo la bomba, puntava il dito contro una torbida alleanza di cospiratori, neofascisti e agenti provocatori. Il titolo era forte, esplosivo: Strage di Stato. Si sosteneva l'esistenza di una 'strategia della tensione' che ricorreva alle bombe e ad altri atti di violenza per demolire la democrazia e la sinistra. Si riproponevano i timori di un colpo di Stato in Italia dopo quello greco, e i brutti ricordi del 'Piano Solo'.

Le indagini ufficiali, e i processi che ne conseguirono, continuavano a guardare a sinistra, nonostante la crescente evidenza del coinvolgimento dei servizi segreti e dei neofascisti. Finalmente alcuni magistrati coraggiosi cominciarono a indagare anche sull'estrema destra, decidendo di interrogare uomini politici di primo piano. Dopo una serie di processi inconcludenti, alcuni dei quali trasmessi per televisione, un'indagine davvero approfondita fu possibile soltanto negli anni '90. Molti dei protagonisti erano ormai morti, e l'opinione pubblica era molto meno interessata. Nonostante gli eroici sforzi di diversi magistrati, alla fine nessuno venne condannato come esecutore o mandante della strage. Sono stati digitalizzati a beneficio dei posteri circa 100.000 faldoni di documenti legali.

Dal 1972 si sono tenuti nove processi per piazza Fontana, con una sconcertante varietà di imputati, testimoni e pubblici ministeri, e ogni genere di elemento di prova. In uno di essi anarchici e neofascisti furono processati insieme per lo stesso reato. Molti procedimenti furono spostati nel profondo Sud, a Catanzaro, a mille chilometri da Milano: le autorità non volevano tenere i processi nella città dov'era esplosa la bomba.

Nel frattempo si trascinava anche íl caso Pinelli, l'anarchico caduto da una finestra della questura di Milano - una questione distinta, ma collegata alla strage. Qualcuno lo ha definito 'la diciassettesima vittima' della bomba. Giornalisti e cineasti indagarono, in modo quasi ossessivo, sulla sua vicenda, mentre la moglie Licia conduceva una lunga e dura battaglia per avere giustizia. Dario Fo scrisse una pièce emozionante intitolata Morte accidentale di un anarchico, che attingeva agli atti dei tribunali e alle notizie del giorno per far satira sulle versioni più assurde fornite dalla polizia. La pièce era anche un evento politico, e veniva aggiornata col procedere delle indagini. Finalmente, nel 1975, dopo una lunga inchiesta giudiziaria (che vide anche il lancio di manichini a grandezza naturale dalla finestra della questura, per verificare le diverse teorie), lo Stato emise il suo giudizio. Pinelli era caduto 'accidentalmente' dalla finestra per un 'malore attivo'. La decisione fu ampiamente ridicolizzata, ma chiuse il caso - ufficialmente, quantomeno.

Oggi a Giuseppe 'Pino' Pinelli sono dedicate lapidi e targhe, a Milano e altrove. È emblematico della controversia intorno a quella vicenda e della memoria sempre viva di quegli eventi il fatto che in piazza Fontana, nel cuore di Milano, coesistano due diverse commemorazioni: una targa, voluta dai militanti nel 1977, dichiara sfrontatamente che Pinelli è stato "ucciso... nei locali della questura di Milano" nel 1969; un'altra, poco distante, del 2006, sostiene che Pinelli è morto accidentalmente. Una rappresenta la memoria ufficiosa, l'altra una versione ufficiale, ma ambigua, del passato. Ognuna ha la propria storia. Le due versioni parallele del medesimo evento - incise nel marmo, di fronte al sito della bomba - sono un'efficace evidenza di come in Italia la memoria rimanga divisa: per lunghi periodi, le guerre della memoria hanno caratterizzato il conflitto sul passato nel presente.

Piazza Fontana e le sue conseguenze giudiziarie e politiche avrebbero tormentato l'Italia per molti anni a venire. Ad ogni anniversario della strage, soprattutto negli anni '70, il centro di Milano veniva paralizzato da violente manifestazioni. Ci furono altre tragedie. Il 12 dicembre 1970, primo anniversario della bomba, lo studente Saverio Saltarelli fu ucciso durante gli scontri da un lacrimogeno sparato a bruciapelo. Piazza Fontana aveva fatto un'altra vittima. La bomba a Milano nel 1969 viene considerata un momento di svolta, di 'perdita dell'innocenza', una macchia sul cuore della storia d'Italia. La tensione creata da quella bomba, e dal caso Pinelli, sarebbe stata esacerbata da quanto avveniva a Roma.




IL COLPO DI STATO: 1970



Meno di un anno dopo piazza Fontana, fu tentato un colpo di Stato.

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Pagina 257

"HANNO LA FACCIA COME IL CULO":
LA SATIRA E "CUORE"



Tangentopoli fu una manna per la satira. Il nuovo giornale "Cuore" ebbe il suo massimo momento di popolarità nel pieno dell'ondata degli scandali. Di "Cuore" erano famosi i titoli: "Loro rifanno lo stesso governo, noi rifacciamo lo stesso titolo: 'Hanno la faccia come il culo'". Oppure: "Scatta l'ora legale. Panico tra i socialisti". "Cuore" nasceva da una solida tradizione satirica iniziata ben prima del fascismo, e poi ripresa dalle raffinate parodie delle prime pagine dei giornali sul "Male" e altre pubblicazioni. In origine supplemento del quotidiano comunista "l'Unità", e poi diventato indipendente, "Cuore" rappresentava il desiderio di mostrare finalmente la verità al potere, coprendo di ridicolo quelli che per tanto tempo avevano governato il paese.

E non c'erano soltanto i titoli. Andavano per la maggiore anche certe rubriche: il voto dei lettori su "Le cose per cui vale la pena di vivere", per esempio (vinceva quasi sempre qualcosa di connesso all'attività sessuale), oppure la "Guida alle chiese più brutte d'Italia", sugli effetti devastanti dell'architettura post-modernista in Italia. "Mai più senza" era invece dedicata agli oggetti di consumo più inutili, mentre un'altra rubrica prendeva in giro i nomi assurdi di tanti negozi, spesso parole inglesi deformate, come l'ottico Occhial House (esisteva davvero, a Milano), o la bottega Sexy Wig a Roma. "Cuore" conteneva anche pezzi più seri di satira giornalistica, ma il suo senso dell'umorismo demenziale lo distingueva dal resto della stampa sinistrorsa in Italia, con la sua deprimente tendenza a prendersi troppo sul serio. Le feste di "Cuore" scimmiottavano quelle dell'"Unità", ma erano molto più creative. Fu però un successo effimero. La realtà cominciò a superare la satira: le battute di "Cuore" non divertivano più.

Altre nuove forme satiriche - in televisione, oltre che nelle edicole - accompagnarono lo spettacolare tracollo della Prima repubblica. Blob, un programma serale quotidiano che monta in modo brillante e fantasioso spezzoni ripresi da tutti i canali - ebbe allora un grande successo. I politici erano più vulnerabili, la satira più audace e tagliente. Un tempo la satira televisiva era per lo più prudente e conservatrice, e non era raro che i politici si presentassero insieme con i loro imitatori. Comici travestiti da politici scambiavano tristi battute "audaci" con presentatori e soubrette. Quelli che attaccavano la classe politica al governo, come il comico Beppe Grillo , che in diretta diede dei "ladri" ai socialisti, venivano banditi dalla televisione di Stato.

Ora cominciavano a spuntare programmi più aggressivi e pericolosi. Avanzi, in onda tra il 1991 e il 1993, era un insieme di satira e umorismo surreale, dove le imitazioni erano molto più cattive (in particolare quelle inventate dai fratelli Corrado e Sabina Guzzanti , alcune basate su persone reali, altre su 'tipi' presi dalla società). I politici si vedevano esposti al ridicolo, e all'odio. I programmi che prendevano spunto dai casi di corruzione erano tanti, con presentatori d'assalto come l'eccentrico Gianfranco Funari, che divennero famosi quasi da un giorno all'altro. Le agenzie di stampa battevano di continuo aggiornamenti sugli scandali, sugli arresti, sui presumibili sviluppi ulteriori, spesso fatti trapelare ai giornalisti da qualche magistrato.




CADAVERI ECCELLENTI



Mentre la classe politica si disintegrava, la mafia saldava i conti con chi aveva tradito la sua fiducia, o aveva rinchiuso i suoi dietro le sbarre. Nel marzo 1992 Salvo Lima, potente politico democristiano e intermediario tra il partito e la mafia siciliana, stava rientrando in auto a Palermo. Qualcuno sparò alle gomme. Lima sapeva cosa aspettarsi; tentò di fuggire, ma quelli erano professionisti. Lo finirono con due colpi, poi si dileguarono in moto. Agli occhi della mafia, Lima aveva la colpa di non aver ribaltato l'esito del maxiprocesso. Il suo corpo insanguinato, coperto a malapena da un lenzuolo e circondato da poliziotti dall'aria annoiata, era anche un avvertimento per Roma. Giulio Andreotti era in prima fila, al funerale. Sapeva che i segnali inviati da Palermo non promettevano bene per il suo futuro politico.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sapevano di essere segnati. La mafia era a caccia degli ispiratori del maxiprocesso. Il primo fu Falcone - e la data, 23 maggio 1992, è di quelle incise nella storia d'Italia. Aveva cinquantatré anni. I preparativi dell'attentato furono complessi. Usarono uno skateboard per piazzare 500 chili di esplosivo sotto l'autostrada che porta dall'aeroporto a Palermo. Falcone e la moglie, il magistrato Francesca Morvillo, erano appena arrivati. Stavano andando in vacanza.

Fatto insolito per un uomo soggetto ai massimi livelli di protezione, Falcone aveva deciso di guidare lui. Quattrocento metri più in alto, sulle colline, stavano i sette che dovevano innescare l'esplosione. Fumavano, aspettando il convoglio di Falcone: sul posto furono trovati cinquantuno mozziconi, che avrebbero poi fornito le tracce di DNA per identificare gli attentatori. La bomba aprì una voragine nell'autostrada, uccidendo sul colpo tre uomini della scorta. Falcone e la moglie, precipitati nel cratere, morirono poco dopo, in ospedale. Se fosse stato sul sedile posteriore, forse si sarebbe salvato. Il regista Paolo Sorrentino avrebbe poi ricostruito l'attentato nella sua biografia semi-immaginaria di Giulio Andreotti, Il Divo. I resti accartocciati di una delle auto furono conservati a ricordo della tragedia. Molti siciliani non vollero rassegnarsi a questo assassinio. Nacque un movimento sociale, che scese nelle strade. Si diffondevano le lenzuolate di protesta alle finestre.

Una delle vedove della cosiddetta strage di Capaci si chiamava Rosaria Schifani (moglie di Vito). Rosaria tenne un discorso appassionato al funerale del marito, trattenendo a stento le lacrime. Cominciò leggendo un testo, poi andò a braccio, parlando "a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato" - e aggiungendo, con un sospiro, "lo Stato!". Poi si rivolse direttamente "agli uomini della mafia... perché ci sono qua dentro, ma certamente non sono cristiani". "Anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio"; ma "loro non cambiano".

A Roma il Parlamento fu indotto a eleggere alla presidenza della Repubblica un candidato fuori dai grandi giochi, appena due giorni dopo la morte di Falcone. Il nuovo capo dello Stato era un democristiano conservatore di nome Oscar Luigi Scalfaro: si sarebbe rivelato un difensore inflessibile dello Stato e della legalità per tutta la durata del suo mandato.

L'attentato a Falcone non fu l'ultimo degli orrori: fu solo l'inizio di una vera e propria guerra di mafia contro lo Stato. Il prossimo sulla lista era Paolo Borsellino, amico e collaboratore di Falcone. Anche per lui usarono una bomba, ma questa volta l'attentato avvenne in piena città di Palermo. Borsellino andava spesso a trovare la madre, e fu qui che la mafia colpì. Un'autobomba potentissima fu piazzata in strada, all'interno di un'auto parcheggiata; il 19 luglio 1992, all'arrivo di Borsellino in via D'Amelio, l'esplosione fu spaventosa. Con lui morirono cinque persone della scorta (tra le quali una donna). La morte di Borsellino, aggiungendosi a quella di Falcone, fu un duro colpo per tutto il paese. Tra i due omicidi erano trascorsi solo settantacinque giorni. Quando i politici romani si presentarono ai funerali della scorta a Palermo, la gente tentò di aggredirli, sfondando i cordoni della polizia. Il nuovo capo dello Stato (Scalfaro) e il capo della polizia, terrorizzati, furono salvati dalla folla, che scandiva "Fuori la mafia dallo Stato". L'ItaIia era arrivata al punto di rottura.

Negli anni a venire, decine di vie e piazze in tutta Italia sono state dedicate a Falcone e Borsellino. Una famosa foto dei due, scattata da Tony Gentile pochi mesi prima degli omicidi, il 27 marzo 1992, è diventata "uno dei veicoli più diffusi della memoria pubblica dei due magistrati", comparendo nelle dimostrazioni, sulle magliette, sulle 'lenzuolate' di protesta. La forza dell'immagine viene dal contesto. Come spiega lo stesso Gentile, "l'emozione della foto deriva dall'empatia tra i due, il legame di fiducia che li unisce, la risata che svela la loro grande amicizia. Sono come due vecchi amici che si incontrano al bar. Il volto di Borsellino irradia serenità. Non sembrano affatto oberati dal loro ruolo. E soprattutto, c'è il fatto che entrambi sono stati ammazzati dalla mafia a distanza di due mesi uno dall'altro". Quella foto è diventata "una delle immagini più iconiche della storia d'Italia", un simbolico "atto di resurrezione dei magistrati scomparsi".

L'Italia non aveva saputo proteggere i servitori dello Stato. Ma la mafia non aveva ancora finito. La guerra allo Stato non dava segno di stanchezza. Nel maggio 1993 passarono a un nuovo livello: l'attacco ora veniva rivolto contro l'Italia stessa. Il 27 maggio esplose una bomba in centro a Firenze, vicino alla Galleria degli Uffizi, uno dei musei più visitati al mondo. Morirono cinque persone, tra le quali una bambina di cinquanta giorni. Due mesi dopo, altre bombe a Milano e Roma, che distrussero un museo e danneggiarono due chiese, uccidendo a Milano altre cinque persone (tre pompieri, un vigile e un immigrato che dormiva su una panchina). La mafia usava la sua potenza militare per destabilizzare il paese e diffondere il terrore. Una delle richieste principali riguardava i suoi tanti affiliati ormai in carcere.

Si dice che in questo periodo lo Stato (o certi settori dello Stato) trattò con la mafia: 'la Trattativa', appunto. Quale fosse il presunto accordo raggiunto tra le due parti è tema di accese controversie. Ma se questi colloqui scandalosi ebbero davvero luogo, è certo che la questione chiave sul tavolo riguardava i boss finiti dietro le sbarre.

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PER CAPIRE BERLUSCONI



                                   Se una cosa non è in televisione, non esiste.

                                                               Silvio Berlusconi



Ma cos'era il 'berlusconismo'? Come spiegarne la presa di potere e la lunga stagione di successi elettorali? Qualcuno lo collocava in un contesto molto più vasto, risalendo al tempo dell'Unità d'Italia nell'Ottocento. Il suo richiamo avrebbe agito su certe tendenze di fondo della storia italiana - bassi livelli di legittimazione dello Stato, scarso rispetto per la legge, propensione a seguire un capo piuttosto che le scelte politiche e i programmi etici. Berlusconi era un prodotto dei tempi - televisione, consumismo, individualismo? O era invece un prodotto dell'Italia stessa? Il berlusconismo veniva prima di Berlusconi, e poteva sopravvivergli? Fu lui a trasformare l'Italia, o si limitò a riflettere tendenze e contesti già esistenti? È probabile che la vera risposta stia nel mezzo. Berlusconi e il berlusconismo vanno considerati nel contesto dell'Italia postindustriale, dove la televisione privata e il calcio erano diventati vettori culturali decisivi. Ma il messaggio centrale, che contrapponeva ogni uomo o donna (o famiglia) allo Stato, alla politica e al diritto, aveva radici ben più profonde.

L'era di Berlusconi lo vide vincere tre elezioni politiche (1994, 2001, 2008) e perderne tre - una di strettissima misura - (1996, 2006, 2013). Perse la poltrona due volte, nel 1994 (per lo scioglimento della sua maggioranza) e nel 2011 (sull'onda di una crisi finanziaria incombente). In entrambi i casi dichiarò che 'il popolo' era stato tradito, e che si era trattato di una specie di colpo di Stato. Fu più volte messo da parte, considerato politicamente 'finito', ma ogni volta (o quasi) riuscì a risorgere. La botta finale è sembrata essere giunta con la sentenza definitiva per frode fiscale del 2013, che insieme con una nuova legge sui precedenti penali dei politici ha comportato la sua espulsione dal Parlamento. Politicamente, però, il colpo poteva anche non essere fatale.

Matteo Renzi, per esempio, è stato presidente del Consiglio senza essere eletto in Parlamento dal 2014 al 2016. Ma l'espulsione di Berlusconi è coincisa con una scissione nel suo partito, e con la sensazione che componenti significative del suo elettorato si stessero rivolgendo altrove. Si è aperto così un finale interminabile, segnato dalle trattative (esplicite o meno) sulla exit strategy. Il problema era in parte giudiziario e in parte politico. L'era di Berlusconi volgeva al termine, ma la sua eredità continuava a pesare. Come per Margaret Thatcher nel Regno Unito, molti hanno visto evidenti parallelismi tra Berlusconi e tutti i suoi successori, comunque fossero schierati. La politica era ormai irrimediabilmente personalizzata, 'antipolitica'. Lo sprezzo di Berlusconi per 'il pubblico', la verità e la coerenza era diventato parte del sistema. La sua strategia post-fattuale, narcisistica, non-partitica è stata adottata come formula vincente da molti altri. Iniziava così, senza scosse, l'era dei Renzi, dei Salvini... per non dire di Trump e Grillo. Una folla di 'piccoli Berlusconi' che tentavano la sorte.

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IL MOVIMENTO 5 STELLE



In Italia, intanto, nuove forme di populismo contendevano la scena a quelle propagate per anni da Berlusconí e dalla Lega. La mappa politica del paese stava per essere ridisegnata da un movimento guidato da un comico e da un guru di Internet.

Beppe Grillo (nato a Genova nel 1948) è stato un popolare comico televisivo degli anni '80; pungente, ma in linea di massima non si occupava di attualità. Molti credono che nel 1986 fosse stato 'escluso' dalle reti pubbliche per certe battute sui potenti - una gag in cui dava (indirettamente) dei 'ladri' ai socialisti. Grillo scese in piazza, richiamando folle numerose ai suoi spettacoli dai toni sempre più messianici. Teatrante vulcanico e instancabile, le sue esibizioni erano lunghe e rabbiose tirate - molto divertenti - contro la società, la politica e il sistema economico. Nei primi anni 2000, concludeva il numero sfasciando una serie di computer in scena con una mazza. "Credevo in te" - diceva abbracciando un monitor e fingendo di piangere -; poi invitava sul palco qualcuno del pubblico per dare i colpi finali. Uno dei suoi tormentoni era "Dietro Internet non c'è nulla!... Ci sono sempre gli stessi".


Ma Grillo non ha tardato a convertirsi a Internet e ai social media, aprendo nel 2005 un blog popolarissimo che richiamava milioni di lettori ogni settimana. Con Gianroberto Casaleggio, esperto guru dell'informatica, decise di utilizzare Internet sia come fonte di 'informazione' alternativa, sia - e sempre di più - come arma di mobilitazione per un nuovo movimento. Insieme, i due hanno inventato una forma di 'populismo digitale'. La scelta di temi sufficientemente generici richiamava sostenitori (soprattutto tra i più giovani) da destra e da sinistra. La propaganda a 5 Stelle denunciava la corruzione della classe politica e i suoi privilegi (come certi vitalizi vergognosamente generosi), i problemi dell'ambiente, e il potere delle multinazionali, e organizzava campagne in favore dei consumatori. Nuovi esponenti della società civile entravano in politica, promettendo di fare le cose in modo diverso, di non farsi coinvolgere dal gioco del potere, di rimanere 'onesti' e 'puliti' anche dopo essere stati eletti. Molti non si identificavano né con la sinistra, né con la destra. Per lo più erano relativamente giovani, con un buon livello di istruzione. Stava forse nascendo una nuova classe politica (o antipolitica)?

Nel 2009 fu fondato il Movimento 5 Stelle - in origine l'avevano chiamato Movimento di liberazione nazionale, ma suonava troppo di sinistra. Venne annunciato con quello che Grillo definiva un 'non-statuto', e un elaborato programma in oltre 120 punti. Il successo elettorale fu quasi immediato. Nel frattempo, l'Italia cadeva a pezzi, ancora sotto il moribondo governo Berlusconi, paralizzata dagli scandali quasi quotidiani, sprofondata nella recessione e nella crisi finanziaria. Non sorprende che molti non andassero nemmeno più a votare, e comunque non per i grandi partiti.

Fondamentale per l'ascesa dell'M5S fu il successo del libro - dall'eloquente titolo La casta (2007) - di due giornalisti di punta, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella , che ricostruivano gli sprechi grotteschi perpetrati dalla 'classe politica'. Il libro rappresentò "la... scintilla che incendia la prateria. È un frame potentissimo, che stuzzica gli italiani e la loro rabbia verso una politica immobile ormai da decenni". Nel solo 2007 bruciò 1,2 milioni di copie. Gli italiani erano particolarmente indignati per i piani pensionistici molto speciali che i politici si erano regalati. Bastavano cinque anni in Parlamento per avere diritto a una generosa buonuscita. E queste elargizioni potevano essere 'cumulate' da chi veniva eletto a più di un incarico. A seguito della controversia scatenata dalle rivelazioni della Casta, che usava le tecniche del giornalismo d'inchiesta per scovare i dettagli della corruzione e del privilegio, si tentò di riformare il sistema con una serie di provvedimenti - che comunque incontrarono forte opposizione legale e politica. Prima e dopo essere stati eletti, i rappresentanti del Movimento 5 Stelle rifiutavano qualsiasi privilegio. Il Movimento si definiva una "libera associazione di cittadini". Non era un partito politico, e non voleva diventarlo, e riconosceva "alla totalità dei cittadini il ruolo di governo".

L'M5S offriva ospitalità a forum democratici su Internet e associazioni locali che si trasformavano rapidamente in fonti di voti su vasta scala. Nel 2012 il Movimento ebbe un decollo spettacolare. Alle amministrative di maggio a Parma - una delle città più ricche d'Italia, che fino a tutti gli anni '90 era stata roccaforte del centrosinistra, poi governata per più di un decennio (in modo inefficiente e disonesto) dal partito di Berlusconi - venne eletto sindaco uno sconosciuto rappresentante dei 5 stelle. Il candidato di centrosinistra fu sbaragliato: il trentanovenne Federico Pizzarotti conquistò oltre il 60 per cento dei voti. Pizzarotti era in politica soltanto dal 2009. Alle regionali in Sicilia il Movimento divenne primo partito, ottenendo quindici consiglieri. Con la consueta esuberanza, Grillo aveva traversato a nuoto lo stretto di Messina in apertura di campagna - un gesto dal sapore mussoliniano che dimostrava la sua abilità nella manipolazione dei media, che dichiarava di detestare.

Le elezioni politiche del 2013 furono un'ulteriore formidabile conferma di quanta strada avesse fatto il Movimento in un tempo tanto breve. Soltanto il voto degli italiani all'estero impedì all'M5S di diventare primo partito. Lo scelsero 8,8 milioni di italiani: un risultato comparabile - ma senza alleati - con quello di Berlusconi nel 1994. 648 dei 945 rappresentanti eletti nel Parlamento precedente si erano ripresentati, ma ne furono rieletti soltanto 344. Tutti i deputati e i senatori eletti nelle liste M5S entravano in Parlamento per la prima volta. Molti avevano tra i venti e i trent'anni. Per la maggior parte erano completamente ignoti ai media e agli elettori e avevano poca o nessuna esperienza politica.

Grillo rifiutò qualsiasi ipotesi di alleanza con il Partito democratico e tenne i suoi all'opposizione. Dall'esterno del Parlamento (una condanna subita nel 1988 per omicidio stradale gli avrebbe comunque impedito di candidarsi) Grillo controllava il Movimento con pugno di ferro. Qualsiasi forma di dissenso comportava l'espulsione immediata - decisione che si voleva presa grandiosamente da 'Internet', e che però di fatto corrispondeva a numeri relativamente esigui di voti online.

Fu subito evidente che le componenti più radicali dell'M5S venivano abbandonate in favore di una linea anti-euro, anti-UE e anti-immigrati. Il messaggio lanciato alleandosi con l'UKIP di Nigel Farage nel Parlamento europeo era chiaro. Grillo e Casaleggio parevano esercitare un controllo ferreo sull'organizzazione 'leggera' che avevano creato. Questi cambiamenti accompagnavano i segni evidenti del passaggio all'M5S di molti elettori di centrodestra che ne avevano abbastanza di Berlusconi, di Alleanza nazionale o della Lega. E senza dubbio ci fu anche chi abbandonò il centrosinistra - magari in via temporanea, per vedere se l'M5S avrebbe mantenuto le promesse.

All'interno dell'M5S il ricambio dei candidati, e dei militanti, era continuo. A Parma il sindaco Pizzarotti e alcuni dei suoi consiglieri uscirono dal Movimento nell'ottobre 2016, dopo una serie di scontri con Grillo. I consiglieri protestavano per il modo in cui si gestiva l'organizzazione, attraverso "votazioni 'confermative' in cui si può solo prendere per buono ciò che in altre stanze è stato deciso; capi politici autoproclamati; direttivi di partito nominati dall'alto; successioni dinastiche come nella peggiore tradizione padronale". E aggiungevano: "Noi non siamo cambiati, non sono cambiati i nostri valori e la nostra volontà di cambiare le cose. È cambiato un movimento che è indiscutibilmente mutato geneticamente". Pizzarotti batté senza fatica il candidato ufficiale dell'M5S alle successive elezioni del 2017, e fu rieletto con una lista indipendente.

La vittoria alle comunali di Livorno nel giugno 2014 dimostrò ancora una volta che l'M5S era capace di vincere nelle roccaforti della sinistra, andando a sfidare quel che restava delle tradizioni comuniste. Grillo portava al limite estremo la politica dell'antipolitica. Nella scelta dei candidati M5S contavano soprattutto la provenienza non-politica e la trasparenza di redditi, rimborsi spese e altre forme di accesso ai privilegi di cui godevano altri settori della 'classe politica'. L'M5S era contro molte cose - l'euro, gli immigranti - ma che cosa voleva? Era ultra-democratico, o era invece una forma di autocrazia, in cui il feticcio della 'rete' rimpiazzava quello delle 'masse' o del 'popolo'? Grillo e i suoi denunciavano il 'finanziamento pubblico' dei 'media convenzionali', funzionali al sistema.

L'M5S aveva indovinato la formula (quantomeno a breve), sfruttando la rabbia diffusa contro l'immigrazione, la crisi interminabile e le istituzioni europee, compreso l'euro. La crisi del debito aveva portato austerità, disoccupazione giovanile alle stelle e contrazione delle pensioni. I risultati del 2013 mostrarono tutta l'estensione e la potenza dell'onda populista in Italia. Il nuovo partito di Monti finì ai margini, con appena il 9 per cento. Grillo vendeva un'illusione - come Berlusconi prima di lui - ma era un'illusione di tipo nuovo. I veri problemi dell'italia - proclama Grillo - sono politici: la corruzione e il potere della 'casta' (che a suo dire investe anche i media, i sindacati, la magistratura e altri settori della vita pubblica). Se riusciamo a sostituire chi sta al potere, potremo risolvere tutto. Ma Grillo ha poco da dire sull'economia, sul debito pubblico, e anche sull'immigrazione, a parte facili slogan come "espulsione immediata degli immigrati clandestini". Il suo è un anti-programma.

Se tutti fossero 'onesti' e 'nuovi', sembra dire Grillo, tutto andrebbe per il meglio. Noi siamo 'puri', affermano i griliini, siamo 'puliti', non siamo come 'loro'. Ma se la storia insegna qualcosa - dopo Tangentopoli - è che l'essere 'onesti' o meno è una categoria senza senso. I politici non sono tutti eguali, questo è ovvio; ma ogni movimento o partito italiano che si sia proclamato onesto e pulito è poi finito in tribunale. Come è successo anche a qualche esponente del Movimento di Grillo, soprattutto ai nuovi amministratori locali. L'M5S si concentra sui sintomi, non sulle cause dei problemi del paese.

Nulla di tutto questo è parso frenare l'avanzata elettorale dei grillini. Nel giugno 2016 un'altra semisconosciuta candidata M5S vinse il ballottaggio, diventando sindaca della città più grande, e forse più difficile da governare, d'Italia: Roma. Virginia Raggi era consigliera comunale soltanto dal 2013. Conquistò più del doppio dei voti del candidato del centrosinistra: 770.000, il 67 per cento. Da anni Roma era scossa da gravi scandali di corruzione, culminati con la scoperta di stretti collegamenti tra la criminalità organizzata e la classe politica. Intanto i blog e i tweet della propaganda grillina si concentravano sul messaggio anti-immigranti, in parte per rincorrere l'aggressiva politica razzista della Lega, rivitalizzata dal nuovo leader Matteo Salvini, che si identificava con Marine Le Pen in Francia e con l'euroscetticismo. Nel giugno 2015 Grillo twittò un appello per le elezioni a Roma, "prima che la città venga sommersa dai topi, dalla spazzatura e dai clandestini".

Nel 2016, dopo l'uccisione a Milano di un ricercato per un attentato terroristico a Berlino, Grillo lanciò appelli all'espulsione degli immigrati e alla sospensione temporanea degli accordi di Schengen: "L'Italia sta diventando un viavai di terroristi, che non siamo in grado di riconoscere e segnalare, e che grazie a Schengen possono sconfinare indisturbati in tutta Europa. Bisogna agire ora". Nel 2017 si è opposto alla concessione della cittadinanza agli immigrati nati sul suolo italiano.

La nuova sindaca di Roma, Virginia Raggi, che è un avvocato, aveva trentasette anni, ed era stata tirocinante nello studio di uno degli avvocati, e amici, di Berlusconi, Cesare Previti. La sua amministrazione esordì bocciando la candidatura di Roma per le Olimpiadi (un 'no' popolare, in linea di massima). Ma presto cominciarono i problemi con i suoi funzionari e fecero capolino i problemi giudiziari. Seguirono indagini e arresti, e lei fu accusata di aver mentito all'autorità anticorruzione. Nel dicembre 2016 un 'contratto' firmato dai candidati M5S, che li impegnava a dimettersi in caso di condanna, o anche soltanto di avviso di garanzia, suscitò molte perplessità. Il contratto legava le mani agli amministratori M5S anche per quanto riguardava le alleanze. La clausola più problematica del documento, comunque, era la 'multa' prevista per i candidati che danneggiassero 'l'immagine' del Movimento. I portavoce M5S erano a favore: basta amministratori eletti con il Movimento che poi passano ai partiti tradizionali. La morte prematura di Casaleggio, a sessantun anni nell'aprile 2016, ha privato l'M5S di una delle figure più importanti, ma si sono fatti subito avanti altri giovani candidati, e il figlio di Casaleggio, Davide, ha ereditato in parte l'aura del padre.

Grillo inveiva contro l'intero sistema politico - e sapeva bene di cosa parlava. Documentava l'ammontare assurdo dei contributi statali a giornali politici inesistenti, per esempio, e sparava sia a destra che a sinistra, quasi senza distinzioni. Berlusconi era uno "psiconano"; Pier Luigi Bersani (leader del PD nel 2013) lo "zombie", oppure "Garganella" (un personaggio dei Puffi); Mario Monti "rigor Montis". Usava un linguaggio violento e diretto, organizzava i "Vaffanculo day" contro il governo - di fatto, contro tutti. Ce l'aveva anche con le multinazionali, chiedeva una maggiore democrazia degli azionisti.

Per quanto ne sappiamo, i seguaci di Grillo sono in genere giovani e idealisti. Di conseguenza, il Parlamento del 2013 era il più 'nuovo' dal 1994. Da loro ci si aspetta il massimo rigore personale. Molti, se non tutti, sono cresciuti con Internet, che usano in modo quasi esclusivo per comunicare e ottenere informazioni e notizie. Il partito di Grillo è post-moderno e post-politico, ma è soggetto a un controllo gerarchico rigoroso.

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ASCESA, CADUTA E RI-ASCESA DELLA LEGA.
IL FUTURO DELL'ITALIA



Col tempo la Lega Nord ha cambiato il registro di molti dei suoi proclami, alternando posizioni più decisamente secessioniste (federalismo radicale, o perfino separazione del Nord dal Sud in due Stati diversi) ad atteggiamenti più moderati (specie nella coalizione di governo con Berlusconi dopo il 2001). Le riforme federaliste approvate dal governo di centrosinistra furono confermate da un referendum nel 2001, in cui votarono 16,8 milioni di italiani, di cui il 64 per cento a favore. Quelle proposte dal governo Berlusconi - che comprendeva la Lega - furono invece bocciate da un referendum analogo nel 2006 (questa volta 26 milioni di votanti, 61 per cento per il No). Il Sì vinse soltanto in Lombardia e in Veneto. Per la Lega fu un duro colpo. I suoi ideali e le sue proposte di decentramento (che comprendevano la pubblica istruzione e la polizia) si erano confuse con altre riforme costituzionali e per di più il voto era diventato una specie di referendum sulla persona di Berlusconi. Comunque fosse, la Costituzione italiana era costruita per durare, e molti preferivano che rimanesse così.

L'impressione è che la Lega tendesse ad accendere o spegnere le sue aspirazioni alla Padania indipendente a seconda del contesto politico. Al potere, il movimento divenne più moderato, integrandosi sempre più nel sistema. Qualcuno l'accusò di essersi 'romanizzato' - peccato imperdonabile per un leghista. Nel governo formato da Berlusconi nel 2001 la Lega aveva tre ministri. Si dimostrarono alleati fedeli di Forza Italia sia all'interno che all'esterno del governo e il 'tradimento' del 1994-95 fu presto dimenticato. Nel 2004 Bossi fu colpito da un ictus quasi fatale, che ridusse le sue capacità di comando. Non si ritirò dalla politica e rimase potente all'interno del movimento, ma il vero capo della Lega divenne Roberto Maroni, un politico più tranquillo, e più efficace, ma del tutto privo del carisma e della potenza del Bossi degli anni '80 e '90.

Si potrebbe sostenere che la Lega e Bossi si avvicinarono troppo al potere - a livello nazionale e locale - tradendo così molte delle proprie radici populiste. Gli scandali del nuovo secolo avrebbero rivelato la dimensione di questo processo. Soltanto vent'anni dopo Tangentopoli, il partito che si era maggiormente schierato dalla parte dei magistrati e di Mani pulite fu colpito da un grave scandalo politico. Il movimento i cui militanti avevano allegramente agitato il cappio in Parlamento per cacciare i politicanti dal potere finiva esso stesso alla sbarra. Umberto Bossi, i membri della sua famiglia e i maggiori leader della Lega furono accusati di corruzione e di aver speso a scopo personale denaro destinato all'attività politica. Nel 2012 lo scandalo finì sui giornali. I titolisti si divertirono: "La Stampa", per esempio, uscì con "Da Roma ladrona a Padania ladrona".

"Il Fatto quotidiano" sosteneva che "Chiamare terremoto quanto è successo all'interno della Lega rischia di essere un eufemismo". Umberto Bossi si dimise da segretario federale (ma fu presto nominato presidente federale, e nessuno sapeva bene quale fosse la differenza), e si dimise anche suo figlio Renzo, eletto in Consiglio regionale lombardo. Quanto emergeva di tanto in tanto sulle vicende della famiglia Bossi era al tempo stesso divertente e preoccupante. Renzo, per esempio, era stato bocciato per tre volte alla maturità, prima di superare l'esame al quarto tentativo; la stampa parlò molto del fatto che pareva essersi laureato in Albania senza seguire un'ora di lezione. Lui dichiarò di non saperne nulla. I giornali replicarono con titoli come "Renzo Bossi laureato a sua insaputa". L'altro figlio di Bossi, Riccardo (che negò ogni addebito), nel 2016 fu condannato in primo grado per appropriazione indebita di fondi pubblici.

Il tesoriere della Lega Roberto Belsito venne arrestato per una serie di reati finanziari, e al 2019 sono ancora in corso diversi processi. Al di là degli esiti giudiziari, l'affare inflisse danni gravissimi alla Lega e alla sua reputazione. Erano comunque pochi gli italiani che rimasero sorpresi. La corruzione politica non era certo finita con Tangentopoli, e ogni partito, movimento o organizzazione era stato prima o poi coinvolto, insieme con tanti affaristi e privati cittadini. Erano talmente tanti che ormai l'opinione pubblica era 'sazia' di scandali, alcuni dei quali si meritarono anche il suffisso "-opoli": "Affittopoli" per gli affitti stracciati pagati dai politici e dai loro amici; "Vallettopoli" per un'inchiesta legata al mondo della televisione e a 'scambi di affettuosità' fra politici, imprenditori e attrici.

Con l'incremento dell'immigrazione la Lega è diventata sempre più razzista, soffiando sul fuoco del risentimento contro migranti e rom (e poi dell'islamofobia) ovunque si manifesti. Il politico della Lega Mario Borghezio si specializzò nell'organizzazione di marce e manifestazioni contro gli immigrati. Certi leghisti si organizzarono in 'ronde', gruppi di vigilanti vestiti di verde che si autonominavano poliziotti. In diverse occasioni militanti della Lega hanno chiesto di gettare gli immigranti dagli aerei, di deportarli in treno, di rastrellarli e rinchiuderli in 'campi di lavoro', di cacciarli come animali; fino a richiedere la castrazione per gli immigrati accusati di stupro. Il leghista Roberto Calderoli ha detto di una parlamentare di colore: "Amo gli animali.., ma quando vedo le [sue] immagini... non posso non pensare... alle sembianze di un orango".

Attaccando l'immigrazione, la Lega è riuscita ad assumere dimensioni sempre più nazionali (adottando perfino, in qualche occasione, sentimenti nazionalistici in luogo del regionalismo). Una situazione paradossale, considerato che proprio gli appelli della Lega alla divisione del paese negli anni '90 e 2000 avevano avuto come riflesso una rivalutazione dei simboli nazionali nella sinistra. La bandiera italiana - che per molti era stata una questione problematica - ha assunto allora un nuovo significato. In opposizione alla Lega, molte persone di sinistra hanno adottato quella bandiera che un tempo era stata guardata con un certo fastidio.

Lo scandalo che travolse Bossi e i suoi alleati dopo il 2012 portò al cambio della guardia, e gli uomini di Roberto Maroni si insediarono nelle posizioni di potere. Il cosiddetto 'cerchio magico' al vertice della Lega - che comprendeva membri della famiglia Bossi - venne marginalizzato. Nel 2013 si tennero le primarie per scegliere il leader: con l'82 per cento dei voti venne eletto un personaggio più giovane, dinamico e aggressivo, l'ex studente di storia Matteo Salvini. Salvini prendeva a modello il Front National di Le Pen, e dava la priorità al linguaggio anti-immigrazione, anti-islam, anti-rom - una propaganda che rientrava da sempre nella strategia della Lega, ma che ora assumeva un ruolo centrale - e al forte richiamo dell'euroscetticismo. Salvini era deciso a trasformare la Lega in un partito davvero nazionale, e alle regionali del 2015 il movimento cominciò a diffondersi in regioni tradizionalmente rosse come l'Emilia Romagna, la Toscana e l'Umbria.

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PAPA FRANCESCO



Il pontificato di Benedetto XVI si è concluso drammaticamente l'11 febbraio 2013. Una giornalista attenta, che conosce il latino - Giovanna Chirri -, si accorse di colpo che il papa stava annunciando una cosa inaudita. Nella sua breve dichiarazione aveva colto la parola "renuntiare": il papa si dimetteva. L'ultima volta era successo 598 anni prima. Papa Benedetto spiegava che per occupare quell'incarico nel mondo moderno "è necessario anche il vigore, sia del corpo sia dell'animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo... con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro cui compete, il Conclave per l'elezione del nuovo Sommo Pontefice".

Il mondo rimase a bocca aperta. Seguirono febbrili speculazioni sui reali motivi delle dimissioni. Il papa aveva una malattia terminale? Era stato coinvolto in troppe coperture di scandali per abusi sessuali? Nessuno lo sapeva. Non era stato un papa popolare: troppo cerebrale, troppo riservato, troppo poco carismatico per un ruolo ormai intimamente legato ai media. La Chiesa aveva bisogno di qualcos'altro. In marzo elessero l'uomo all'altezza del compito.

Il pontificato di Francesco ha rappresentato un soffio d'aria fresca per tutto il mondo cattolico. Lui parla direttamente alla gente, e si è dato come missione l'impegno della Chiesa in favore dei poveri nel mondo. "Fin dalla scelta del nome, il nuovo papa ha manifestato... un amore speciale per i poveri, i marginali, gli esclusi, i disoccupati, i disabili, i 'reietti', e i cosiddetti 'residuali urbani'". Si è rivolto anche contro "l'economia che uccide", criticando molti aspetti della società dei consumi. In netto contrasto con il predecessore, la sua popolarità è immensa.

Papa Francesco è spesso riuscito a stupire, anche gli uomini di Chiesa, con í suoi pronunciamenti e le sue decise prese di posizione. Nel giugno 2014, in visita in Calabria, dichiarò a una folla adorante di 250.000 fedeli che "la Chiesa deve dire di no alla 'ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati" - la frase non era prevista nel discorso originale, e pare abbia turbato parecchi prelati.

In Italia il rapporto della Chiesa con la criminalità organizzata si è basato in genere sulla coesistenza, quando non sul favoreggiamento attivo. Ci sono stati casi di preti antimafia, che spesso hanno pagato con la vita, ma nell'insieme Chiesa e mafia (e la camorra, e la 'ndrangheta) andavano d'accordo. Il primo papa a pronunciare il nome della mafia è stato Giovanni Paolo II nel 1993. Ma la dichiarazione di papa Francesco è molto più forte: in teoria espelle del tutto i mafiosi (e i camorristi e gli 'ndranghetisti) dalla Chiesa.

Molti capi mafiosi hanno sempre sostenuto di essere profondamente religiosi, nonostante le loro attività criminali (che spesso negano). Che fare di loro? E i preti che lavoravano con loro nelle carceri? In teoria la scomunica è un affare serio: niente battesimo, niente confessione, niente matrimonio religioso, niente funerale in chiesa. In poche parole, spedisce i mafiosi all'inferno. Tutti. Nella pratica, le cose sono molto più sfumate; la traduzione in comportamenti delle pronunce 'infallibili' del papa è affare politico e pragmatico. Si vedrà col tempo se la Chiesa, in quanto istituzione, ha realmente modificato il suo approccio alla criminalità organizzata.

Una serie di sconcertanti rivelazioni dall'interno del Vaticano dimostra però quanto sia stato difficile il tentativo di riformare la Chiesa. L'affare 'Vatileaks', quando documenti e registrazioni segreti furono passati ai giornalisti da diversi personaggi vaticani, rivelò una gerarchia ecclesiastica spendacciona, dilaniata da aspre rivalità personali e politiche combattute a suon di dossier e pugnalate alla schiena. Erano spariti fondi donati dai fedeli e destinati ai 'poveri'; di certi cardinali si scopriva che vivevano nel lusso. A richiamare l'attenzione fu soprattutto lo sfarzoso appartamento del cardinal Bertone (300 metri quadri secondo il cardinale, più del doppio secondo altri, con magnifica terrazza sui tetti di Roma), i cui costosi lavori di restauro sarebbero stati pagati con denaro spettante a un ospedale pediatrico. Bertone avrebbe poi rimborsato 150.000 euro, dichiarando tuttavia che quei soldi erano stati spesi "a sua insaputa".

L'opinione pubblica è rimasta affascinata da queste indiscrezioni, pubblicate in una serie di libri di grande successo. Il rapporto della Chiesa con la ricchezza appariva esattamente il contrario di quello auspicato dal nuovo papa. I tentativi di Francesco di strappare il controllo delle finanze della Chiesa dalle mani di un'élite arroccata hanno incontrato una fiera resistenza. Il Vaticano ha reagito comunque male per le modalità con cui è avvenuta la fuga di notizie, sottoponendo i presunti responsabili ai procedimenti del suo bizzarro sistema giudiziario.

La rivoluzione di papa Francesco non è facile, e le forze che vi si oppongono sono potenti. Sanno di avere tempo, di poter attendere la fine del pontificato. È uno scontro affascinante, che si estende ben oltre la collocazione geografica del Vaticano nel cuore di Roma. Scrive un esperto vaticanista: "Misteriosamente la Chiesa cattolica riesce spesso a eleggere i pontefici giusti nei passaggi epocali. Giovanni XXIII arriva sul crinale del disgelo tra il blocco occidentale e quello sovietico. Paolo VI coincide con il movimento planetario di decolonizzazione. Giovanni Paolo II marca la fine della cortina di ferro. Francesco è diventato papa in una stagione di crisi mondiale. Non sono più solo i paesi del Terzo mondo a soffrire di gravi squilibri economici, povertà, emarginazione, corruzione, violenza, differenze intollerabili tra ceti iper-ricchi e settori sociali alla fame". Eppure, chiunque sa qualcosa della Chiesa si aspetta che la continuità avrà la meglio sul cambiamento. Come dice l'adagio, "morto un papa, se ne fa un altro".

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