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| << | < | > | >> |IndicePrefazione IX Note XII Parte prima - Guru & Sons 1 1. Il fantasma di Menenio Agrippa 3 Riferimenti bibliografici 11 Note 12 2. Utopie 2.0 13 2.1 Digitalsocialismo 13 2.2 Elogio della pirateria 18 2.3 Dalla fabbrica al wiki 26 2.4 Lo strano caso del Dottor Castells 32 2.5 Capitalismo personale? 38 Riferimenti bibliografici 44 Note 45 3. Controcanti (I) 47 3.1 I guru pentiti rileggono McLuhan 47 3.2 Gratis? No grazie 58 3.3 La fine del Web 60 3.4 Nostalgia hacker 68 3.5 Mitologie del post-umano e neototalitarismo 74 Riferimenti bibliografici 77 Note 79 Parte seconda - Capitale, valore e lavoro al tempo della rete 81 4. L'eclissi del lavoro 83 4.1 I teorici della fine del lavoro 83 4.2 Operaismo senza operai 94 Riferimenti bibliografici 104 Note 106 5. Controcanti (II) 107 5.1 Marx a Silicon Valley 107 5.2 La classe creativa si divide in due 119 5.3 Ombre cinesi 128 Riferimenti bibliografici 138 Note 139 Conclusioni 143 Utili idioti 143 Il lavoro dopo il lavoro 145 Marx/Foucault/McLuhan 146 America e Cina 148 Note 149 |
| << | < | > | >> |Pagina IXPrefazioneDa circa un decennio — da quando, cioè, ho interrotto l'attività giornalistica a tempo pieno per ritornare in università — sono impegnato nel tentativo di dare un contributo alla sociologia della rete. Fra le tappe più significative di tale impresa ricordo, in particolare, una trilogia di saggi dedicati, rispettivamente, all'antropologia, all'economia e alla politica internettiane. Il libro che avete in mano, tuttavia, è diverso dai precedenti, non è motivato dall'esigenza di approfondire alcuni nodi teorici, ma è nato quasi di getto, sull'onda di due emozioni forti: indignazione e irritazione. Con l'eccezione del Capitolo 4 e del primo paragrafo del Capitolo 5 - che riprendono il filo rosso di temi di ricerca trattati in precedenza -, il lettore non si troverà di fronte a un linguaggio «accademico», bensì allo stile sarcastico, diretto, assertivo più che argomentativo, al limite del pamphlet, tipico della polemica ideologica. Sottolineo volutamente e provocatoriamente l'ultimo termine che - nella «vulgata» condivisa dalla stragrande maggioranza dei giornalisti, dei politici e degli intellettuali - è ormai divenuto sinonimo di patetica nostalgia per l'era antecedente alla caduta del Muro di Berlino. Viene bollato come «ideologico» qualsiasi tentativo di interpretare la realtà contemporanea al di fuori del «pensiero unico» liberal-liberista che domina incontrastato nei media, nei partiti politici, nelle università e nelle istituzioni. Ebbene, questo è un libro esplicitamente e orgogliosamente ideologico, nel senso che è un libro che osserva la realtà dal punto di vista della guerra fra idee, del conflitto - altro termine tabù - fra parole, concetti e categorie che, da un lato, rispecchiano gli interessi materiali di certi attori sociali - una volta si chiamava «lotta di classe» -, dall'altro lato, sono gli strumenti della battaglia per l'egemonia culturale che si svolge fra tali attori. Ma torniamo alle emozioni: indignazione e irritazione contro chi e per che cosa? Indignazione per la faccia tosta con cui i guru della New Economy - assorbito lo schiaffo della crisi del Nasdaq del 2000 - tornano a snocciolare imperterriti le loro false profezie su un futuro liberato dal principio di scarsità, dove tutti potranno divenire imprenditori di se stessi e competere con i colossi della vecchia economia; indignazione per le apologie di un'economia del gratuito che gratuita non è; indignazione per il cinismo dei teorici della wikinomics e del crowdsourcing, che esaltano la rapidità e l'intelligenza con cui le dot.com hanno imparato a sfruttare il lavoro non retribuito di milioni di prosumers; indignazione per l'ipocrisia con cui si celebra quello spirito di cooperazione e solidarietà delle comunità «amatoriali» che sta a fondamento della produzione dei self generated contents (tacendo su chi si appropria del valore creato da queste pratiche); indignazione per l'esaltazione dei principi del libero mercato - incarnati al meglio dalla rete - che fa da foglia di fico al più colossale processo di concentrazione monopolistica della storia del capitalismo; indignazione per l'annuncio mistificatorio della fine di ogni gerarchia, laddove la presunta «orizzontalità» delle imprese a rete nasconde inediti dispositivi di concentrazione del capitale sociale e relazionale, ma soprattutto nasconde il trasferimento dei rischi e delle responsabilità manageriali su dipendenti, collaboratori esterni e consumatori; indignazione per l'interessata difesa d'ufficio della cultura dei digital natives, soggetti ad «amputazioni» sensoriali e mnemoniche che vengono esaltate come vantaggi competitivi, mentre appaiono funzionali a un processo produttivo fondato su nuove forme di «taylorismo digitale»; indignazione per le promesse di folgoranti carriere basate sulla meritocrazia che vengono fatte ai giovani, laddove il mercato del lavoro, esposto agli effetti di disoccupazione tecnologica, ripetute crisi finanziarie, outsourcing verso i paesi emergenti, offrirà ben scarse opportunità ai rampolli di una middle class impoverita e proletarizzata. Irritazione per il ritardo con cui certi esponenti di punta della «rivoluzione digitale» si sono «pentiti», dopodiché hanno iniziato a dire il contrario di quanto andavano predicando fino a poco fa senza avvertire il bisogno di fare autocritica; irritazione nei confronti di quegli utopisti in buona fede del Web - evangelisti del software libero, teorici dell'economia di rete come «economia del dono», entusiasti del Web 2.0 come strumento di «democratizzazione» di imprese, istituzioni e mercati - che, invece di prendere atto del fallimento delle utopie e di puntare il dito contro le forze che lo hanno determinato, si attardano a nutrire illusioni; irritazione nei confronti dei nostalgici della cultura hacker, ormai totalmente emarginata o rientrata nei ranghi del sistema; irritazione nei confronti degli esteti del «post-umano», che si esaltano per Internet come il «mistico» McLuhan si esaltava - senza perdere tuttavia una lucidità critica che manca ai suoi epigoni - per i media elettrici, rimuovendo i fattori economici, politici e sociali dalla loro analisi sulla mutazione epocale in corso; irritazione per i discorsi che tendono a offrire una lettura «ambivalente» dei processi di frammentazione e individualizzazione della forza lavoro, valorizzando il lavoro (nominalmente) autonomo come una nuova forma di «capitalismo personale», perniciosa metafora che rischia di nobilitare le inedite pratiche di sfruttamento inventate dal capitalismo delle reti; irritazione nei confronti dei discorsi sulla fine e sul rifiuto del lavoro, i quali, pur muovendo da condivisibili analisi economiche, non offrono risposte convincenti in merito ai soggetti sociali, politici e istituzionali che dovrebbero traghettare la nostra civiltà «oltre il lavoro». Rispetto all'ultimo saggio della trilogia citata in apertura, questo libro - come è agevole intuire dal fitto elenco di bersagli polemici appena stilato - segna un'ulteriore evoluzione in senso pessimistico del giudizio sul potenziale «rivoluzionario» della rete. Qualcuno, a questo punto, potrebbe ritorcermi contro la critica che ho rivolto poco sopra ai guru «pentiti»: perché non fai ammenda dei giudizi più «possibilisti» espressi in passato? La risposta è semplice: ho già fatto autocritica nel lavoro di tre anni fa, ma soprattutto ritengo che sia sbagliato dare per scontato che quanto è successo nell'ultimo decennio sia l'esito necessario, inevitabile della prima fase della storia dell'economia e della cultura di Internet: la «necessità» storica è spesso il frutto di costruzioni a posteriori, né sono convinto che le cose non sarebbero potute andare diversamente. Detto altrimenti: non rinnego le speranze rivoluzionarie nutrite in passato, mentre a chi ancora le accarezza rimprovero di chiudere gli occhi di fronte all'ineludibile realtà dei fatti. | << | < | > | >> |Pagina 132. Utopie 2.02.1 Digitalsocialismo Parlando di software libero, un noto manager di Microsoft ebbe a dire, qualche anno fa, che si trattava di un'utopia socialista e antiamericana. Bersaglio dell'accusa - che, per inciso, accomunava la filosofia del free software di Richard Stallman a quella dell' open source di Linus Torvalds ignorandone le differenze - era la collaborazione spontanea e gratuita fra migliaia di sviluppatori indipendenti interconnessi via Internet. Quel modo di produrre, distribuire e utilizzare programmi per computer, sosteneva l'inquisitore, è un atto di concorrenza sleale nei confronti delle imprese produttrici di software proprietario, le quali - dovendo ammortizzare ingenti investimenti in salari, ricerca e sviluppo, marketing, reti distributive ecc. - si trovano nella necessità di far pagare licenze d'uso per il software. Questa violazione delle leggi del mercato, aggiungeva, è di gravità tale da rappresentare una intollerabile sfida ai principi etici della nazione americana. La mistificazione ideologica che si cela dietro simili accuse - che spacciano le pratiche di una comunità di «artigiani» del software per utopie marxiste - appariva improponibile già allora, ma oggi suonerebbe ridicola: non solo perché il software open source è ormai al centro di modelli di business mainstream come quelli di Ibm e Google, ma anche perché, fra i teorici dell'economia di rete, è convinzione diffusa che il mercato capitalistico possa convivere pacificamente con inedite forme di «socialismo». | << | < | > | >> |Pagina 192.2 Elogio della pirateria
Mentre la preoccupazione di Microsoft nei confronti dei «comunisti» del
free software
si placa a mano a mano che il nemico si rivela meno
pericoloso del previsto, cresce quella delle
majors
dell'industria culturale, terrorizzate dall'esplosione delle pratiche di scambio
illegale di file audio e video protetti da copyright. La pirateria digitale
innescata dalle tecnologie di
file sharing
appare fin dall'inizio una minaccia più dirompente di quella delle comunità
hacker impegnate nella produzione di
programmi gratuiti. In primo luogo per le differenti dimensioni numeriche: da un
lato, un'élite di smanettoni, dall'altro lato, decine e poi
centinaia di milioni di consumatori che decidono di colpo di non sborsare più un
centesimo per acquistare canzoni e film che possono scaricare gratuitamente
dalla rete. Né meno diverse sono le conseguenze
economiche: da un lato, la crescita relativamente lenta di un modelllo di
business alternativo che offre accettabili margini di assorbimento
da parte
delle imprese tradizionali, dall'altro lato, la fulminea propagazione di un
incendio che rischia di annientare le possibilità di sopravvivenza di interi
settori produttivi. Al centro della crisi sono il principio
stesso di proprietà privata, nonché l'apparato giuridico che la società
capitalistica ha costruito nei secoli per farlo valere. Per quanto improbabile,
il concetto di digitalsocialismo di Kelly rischia dunque di contenere un nucleo
di verità? Le pratiche «collettiviste» delle comunità online sono il prodromo
della transizione a una società postcapitalista? Per
rispondere, gli autori che verranno qui di seguito presi in esame riformulano la
domanda: è possibile immaginare un capitalismo senza proprietà?
Jeremy Rifkin
Uno dei critici più noti dell'inasprimento del regime giuridico a tutela della proprietà intellettuale è Lawrence Lessig. Docente di diritto nonché ex consulente della Corte Suprema degli Stati Uniti, Lessig è un tipico esponente di quella corrente libertarian che, come si è detto nel precedente paragrafo, ha svolto un ruolo di primo piano nella «rivoluzione culturale» innescata dalle tecnologie digitali. Politicamente vicino al Partito repubblicano, Lessig sembrerebbe la persona meno adatta a incarnare il ruolo di nemico della proprietà privata. In effetti, di fronte alle frequenti accuse di diffondere idee «socialiste» che gli sono state rivolte, Lessig ha puntualmente replicato di ritenersi un fervente sostenitore della proprietà privata, della libertà individuale e del mercato capitalistico; tuttavia, mentre condivide con Rifkin l'idea che l'attuale situazione storica presenti forti analogie con quella caratterizzata dalle enclosure che hanno scandito la nascita del capitalismo in Inghilterra, trae conclusioni diverse da tale accostamento. Il vero problema, argomenta, è che le risorse immateriali - conoscenze e informazioni, idee in sintesi - oggetto di appropriazione delle nuove enclosure hanno proprietà assai diverse rispetto ai beni materiali mercificati attraverso le vecchie enclosure. Fino ad oggi, nessuno aveva mai immaginato che le idee potessero essere oggetto di appropriazione privata, anche perché la loro libera circolazione rappresentava il presupposto indispensabile di tutte le innovazioni scientifiche, tecnologiche e culturali, una sorta di «materia prima gratuita», un bene comune che - al pari di altri commons come l'aria, l'acqua, la biosfera ecc. - rappresenta una condizione primaria di esistenza del processo economico pur restandone - o meglio: dovendone necessariamente restare - al di fuori. A sostegno del proprio ragionamento, Lessig cita soprattutto due argomenti: 1) tutte le innovazioni culturali della storia sono sempre avvenute grazie alla libertà di attingere al patrimonio culturale accumulato dalle generazioni precedenti, onde poterlo rielaborare creativamente (uno dei suoi esempi preferiti è la genialità con cui Disney ha «reinventato» l'immaginario letterario dei secoli precedenti, grazie al fatto che si trattava di materiali di pubblico dominio); 2) da quando esiste l'istituto della proprietà intellettuale - cioè dai primi del Settecento - i governi hanno sempre cercato di limitarne la durata temporale, allo scopo di equilibrare il diritto dei creatori di sfruttare economicamente - per un ragionevole periodo di tempo - i prodotti del proprio ingegno con il diritto dell'umanità di rientrare in possesso di tali prodotti per poterne inventare di nuovi. Tutto questo finché gli interessi dell'industria culturale - con un crescendo imposto dal ritmo delle rivoluzioni tecnologiche che si sono susseguite nell'ultimo secolo, costringendo ad adeguare continuamente organizzazione produttiva e modelli di business - hanno indotto i governi a estendere a dismisura la durata e l'area di applicazione dei diritti di proprietà intellettuale, fino a scardinarne il senso e lo spirito originari: da garanzia temporale di equo profitto a garanzia di monopolio illimitato. In questo modo, accusa Lessig, siamo passati da un regime di cultura libera a un regime del permesso; ma un regime di questo genere evoca i diritti di esclusiva feudali più che le leggi della libera concorrenza e del moderno mercato capitalistico, è il regno della rendita piuttosto che il regno del profitto. Rifkin, o chi per lui, potrebbe però obiettare, appellandosi a Marx: 1) che la differenza fra idee e prodotti immateriali non ha la minima importanza per il capitalista, il quale investe laddove si aspetta di ottenere rendimenti più elevati, senza chiedersi se le sue scelte possano risultare controproducenti o dannose per la produzione di nuove conoscenze; 2) che benché la superiorità etica del profitto sulla rendita sia stata spesso usata come arma ideologica per combattere la resistenza delle vecchie classi parassitarie, ciò non ha mai impedito ai capitalisti di lottare per conquistare a loro volta, ove possibile, posizioni di rendita monopolistica. Obiezioni forti, che Lessig potrebbe superare solo dimostrando che un regime più mite in materia di proprietà intellettuale sarebbe in grado di generare profitti più elevati. Una tesi che egli sembra effettivamente sostenere in più occasioni, soprattutto laddove afferma che «là fuori» (cioè fuori dai recinti dell'impresa tradizionale, dall'ambito delle relazioni sociali governate dall'economia formale e dal regime giuridico) esiste un valore che la proprietà non riesce a catturare. A dare un volto concreto a quel «là fuori» è, fra gli altri, Henry Jenkins, uno dei più convinti apologeti delle pratiche di condivisione dei prodotti dell'industria culturale da parte dei consumatori. Utilizzando gli strumenti teorici e metodologici della tradizione dei cultural studies, questo autore analizza i comportamenti delle comunità virtuali dei fan, mettendo in luce il desiderio profondo che li motiva: grazie all'avvento dei nuovi media, il pubblico può finalmente realizzare il sogno che la logica unidirezionale dei vecchi media rendeva impossibile, cioè partecipare attivamente alla creazione e alla distribuzione di una mitologia culturale condivisa. Poco importa che gran parte dei presunti contenuti «autoprodotti» che circolano nelle reti del Web 2.0 siano, in realtà, rielaborazioni e scimmiottamenti dei contenuti generati dai media mainstream: questa ossessione per il remix non è il sintomo di una carenza di capacità creative, ma incarna un'etica e un'estetica che rispecchiano il prevalere dello spirito di collaborazione e cooperazione collettive sulle antiche velleità di ispirazione individuale. Per quale motivo questa produzione «parallela», che fa il verso al filone mainstream — versione consumista di massa delle vecchie pratiche di culture jamming elaborate da élite controculturali e avanguardie artistiche —, rappresenterebbe una fonte di valore per l'industria culturale dell'era internettiana? Perché, spiega Jenkins, offre al marketing un prezioso canale per misurare gusti e indici di gradimento del pubblico; perché è una riserva inesauribile di idee per migliorare i vecchi prodotti e lanciarne di nuovi; infine perché consente di selezionare nuovi talenti — molti dei quali si sono già costruiti un proprio pubblico online — abbattendo drasticamente i costi di ricerca e sviluppo. Su queste basi, Jenkins ipotizza la possibilità che le imprese vengano indotte ad assumere posizioni meno rigide in materia di proprietà intellettuale, non perché convinte dalle motivazioni ideali alla Lessig, ma perché spinte alla collaborazione con i pirati dall'interesse economico. C'è poi chi — riprendendo le riflessioni storiche di Lessig in merito al fatto che tutti i periodi di innovazione sono coincisi con il dilagare della pirateria — formula un punto di vista ancora più radicale, affermando che oggi la pirateria non è un problema giuridico, bensì un «normale» modello di business. È il punto di vista dell'ex Dj Matt Mason, il quale sostiene che i cosiddetti pirati non sono altro che giovani imprenditori più abili di altri nell'adattarsi al cambiamento sociale e tecnologico. Il neocapitalismo delle reti ha ereditato — dopo averlo integrato nel mercato — lo spirito del movimento punk, la frenesia di una generazione che desiderava salire subito sul palco anche se non sapeva suonare, che non accettava autorità e gerarchie fondate sull'accumulo di esperienza e competenze professionali. I nuovi pirati stanno assaltando la vecchia nave del capitalismo ma non hanno alcuna intenzione di affondarla, rassicura Mason, al contrario: si metteranno al lavoro per tapparne le falle e mantenerla a galla. Per riassumere quanto fin qui esposto: Rifkin sostiene che l'intera produzione capitalistica sta per adottare i modelli dell'industria dell'entertainment, compresa la necessità di «blindare» conoscenze e informazioni erigendo barriere sempre più efficaci a tutela della proprietà intellettuale; Lessig e soci sostengono che questo è piuttosto il modello della vecchia industria culturale, destinato a essere rimpiazzato da nuove modalità di appropriazione del valore. Il «capitalismo senza proprietà» di Rifkin è un capitalismo in cui la sola proprietà che conti è quella immateriale; mentre quello di Lessig è un capitalismo che, senza rinnegare la proprietà privata, dovrebbe adattarsi a ridurre le proprie pretese in materia di proprietà intellettuale. La seconda tesi, tuttavia, richiede un supplemento di argomentazione: occorrerebbe dimostrare che non solo l'industria culturale, ma l'intera economia sta mutando pelle, al punto da poter convivere con comportamenti di massa che si sottraggono alle leggi del mercato; il che è precisamente quanto tenta di fare Yochai Benkler attraverso il concetto di «economia dell'informazione in rete». | << | < | > | >> |Pagina 262.3 Dalla fabbrica al wikiBenkler, come si è visto, prende distanza dalle interpretazioni «socialiste» dell'economia dell'informazione in rete. I teorici della wikinomics, se possibile, assumono in merito posizioni ancora più nette. Le sparate di Bill Gates e soci contro il «comunismo» del movimento open source, sostiene fra gli altri Tapscott, nascono dall'irritazione che i vecchi monopoli dell'ICT provano di fronte all'abbassamento della soglia di ingresso al mercato, che causa un'intensificazione della concorrenza, ma la verità è che fenomeni come la collaborazione di massa e la peer production, sui quali si fonda l'economia di rete, sono l'esatto contrario del comunismo: mentre il secondo si basa sulla coercizione e il controllo centralizzato, i primi si fondano su un agire collettivo che implica libera scelta e inedite forme di coordinamento distribuito. La wikinomics non può dunque essere utilizzata come argomento a favore di una qualche nuova forma di collettivismo che dovrebbe rimpiazzare l'economia capitalistica: i mercati finanziari e le corporation sono — e resteranno anche in futuro — i motori insostituibili che garantiscono innovazione, prosperità e posti di lavoro. Il vero problema è in quale misura questi protagonisti del processo di creazione della ricchezza sapranno adattarsi all'ambiente economico generato dal Web 2.0: chi ce la farà diventerà ancora più forte, gli altri soccomberanno. Integrarsi nelle dinamiche cooperative associate alle comunità in rete e contribuire alla produzione di commons non significa obbedire a un imperativo morale, abbracciare il presunto «altruismo» del popolo della rete, né è solo una tattica per migliorare la propria immagine: è piuttosto il modo migliore per sviluppare «ecosistemi di business» in grado di sfruttare le conoscenze condivise per accelerare il ritmo dell'innovazione. | << | < | > | >> |Pagina 31L'elenco degli esempi potrebbe proseguire, ma quanto finora messo in luce è più che sufficiente a illustrare la realistica - per non dire cinica - visione dei teorici della wikinomics come macchina per lo sfruttamento economico dei commons in rete. Se non che costoro non si considerano affatto cinici, al contrario: si concepiscono come profeti di un'economia win win che consente a tutti di trarre vantaggio dalla situazione. È vero che le imprese si appropriano gratuitamente dei frutti della peer production, ma è altrettanto vero che i prosumers godono (felici e sfruttati!) della possibilità di esprimere liberamente il proprio talento, di vederlo riconosciuto dalla comunità dei pari, di appagare le proprie passioni individuali e collettive, di accumulare capitale sociale. Un esempio che viene citato spesso in questo senso è quello del tornaconto che i blogger ottengono in cambio della loro attività gratuita di informatori amatoriali: il fatto che ognuno di noi possa accedere liberamente al contenuto di un blog, si argomenta, non significa che ogni volta che ne visitiamo uno ciò non comporti uno scambio di valore; in cambio dei suoi contenuti gratuiti, il blogger spera di ottenere un aumento di capitale reputazionale spendibile in miglioramenti di carriera, ampliamenti della clientela ecc. Ma tutte queste chiacchiere non riescono a nascondere la cruda verità: in nessun'altra occasione la categoria dello «scambio ineguale», con cui Marx definiva la capacità del capitale di appropriarsi della potenza produttiva del lavoro remunerandola in minima parte, è apparsa tanto adeguata. E ciò è tanto èiù vero in quanto questi modelli di business si sono sviluppati in coincidenza con una serie di crisi finanziarie che hanno provocato l'immiserimento di larghi strati della popolazione mondiale, spalancando oltre ogni ragionevole limite la forbice che separa l'1 per cento dei ricchissimi da tutto il resto dei mortali: l'economia win win si sta rivelando una winner take all economy, un'economia in cui un pugno di vincitori si appropria di tutto il malloppo, lasciando poco o nulla agli altri. Anche perché queste nuove modalità di sfruttamento non sono confinate nei settori dell'ICT e dell'economia di rete: sempre più spesso anche i settori della vecchia economia, a mano a mano che le nuove tecnologie vengono integrate nei loro cicli di produzione e distribuzione, adottano i nuovi modelli di business e assumono la forma di impresa a rete, come vedremo nel prossimo paragrafo.| << | < | > | >> |Pagina 43Resta un dubbio radicale: quella del capitalista personale è una categoria che ha reale base scientifica oppure si tratta di una metafora dal valore puramente suggestivo? Se continuiamo ad attribuire al termine capitalismo il significato che gli è stato attribuito dall'economia classica e da Marx - e personalmente ritengo che non vi siano motivi per ritenere «superato» tale significato - parlare di capitalismo personale non ha letteralmente senso. Il capitalismo è infatti un modo di produzione che non prevede che i mezzi di produzione e di sussistenza restino proprietà del produttore privato. In caso contrario siamo di fronte ad artigiani o a forme ibride, come il lavoro a domicilio tipico di certe forme di protocapitalismo. Dire che lavoratori autonomi e knowledge workers sono «imprenditori di se stessi» o, appunto, capitalisti personali può essere solo una metafora per evidenziare le mutate condizioni psicologiche e culturali del rapporto di lavoro, tuttavia il «vero» capitalismo è un'altra cosa; né vale l'obiezione che oggi la prima fonte di valore sono le conoscenze personali contenute nella mente del lavoratore, obiezione irrilevante finché esisterà un mercato del lavoro, cioè finché il lavoratore potrà campare solo vendendo le sue conoscenze a un imprenditore che le sfrutti per produrre merci - prodotti, servizi, emozioni, esperienze, non fa differenza - da cui estrarre profitto. Quindi siamo di fronte a una metafora dal valore suggestivo. Ma soprattutto siamo di fronte a una metafora pericolosa, nella misura in cui contribuisce a stendere un velo ideologico sul perpetuarsi del rapporto di capitale come rapporto di sfruttamento. Un esempio della cruda realtà che si cela dietro la maschera consolatoria del capitalista personale viene da un ampio servizio che il Corriere della Sera ha dedicato all'uso che un nutrito gruppo di professionisti italiani - manager, designer, pierre, informatici e consulenti vari - sta facendo di LinkedIn, il noto sito di social business, in questi tempi di crisi. LinkedIn viene utilizzato per fare comunità fra persone che svolgono attività simili, condividere informazioni interessanti, trovare fonti di accrescimento delle proprie conoscenze, incrementare il capitale sociale, far circolare il proprio curriculum, cercare opportunità di carriera. Tutte funzioni, nota l'estensore dell'articolo, che passano in secondo piano rispetto all'ossessiva ricerca di lavoro in una situazione economica che genera rischi e incertezza. Da notare che il servizio esprime un punto di vista simile a quello dei teorici del capitalismo personale: la nuova economia rende obsolete le vecchie modalità di organizzazione della forza lavoro e i vecchi metodi di contrattazione fra lavoro e capitale, per cui queste nuove forme di aggregazione «reticolare» rappresentano uno sforzo per «farsi sindacato di se stessi, privilegiando il rafforzamento delle proprie chance individuali e non i riti della rappresentanza collettiva». Peccato che quei «riti» garantissero concrete possibilità di rovesciamento dei rapporti di forza fra capitale e lavoro a favore del secondo, laddove queste innovative modalità di aggregazione rispecchiano una profonda debolezza strutturale del lavoro, che emerge dal fatto che l'orario di questi «internauti» del mercato del lavoro è flessibile, anzi ultraflessibile, al punto che spesso si estende oltre le sessanta ore settimanali (senza contare quelle spese a navigare in cerca di un modo per sbarcare il lunario).| << | < | > | >> |Pagina 52Le accuse alla società e all'economia di rete avanzate da Nicholas Carr sono fondate sulla rilettura in chiave critica del pensiero di McLuhan in misura ancora maggiore. In particolare, il suo ultimo libro prende le mosse dall'identificazione fra il medium e il messaggio, e dall'idea che le protesi tecnologiche «amputano» le parti del corpo e della mente di cui amplificano le funzioni, per analizzare sia le mutazioni antropologiche che l'umanità subisce a causa della digitalizzazione del proprio ambiente culturale, sia le conseguenze che tali mutazioni producono sugli equilibri di potere fra capitale e lavoro. In particolare, Carr si basa sulle più recenti acquisizioni della ricerca neurologica per dimnstrare come e in qual misura il dispositivo di amputazione stia «riprogettando» la mente umana per adattarla ai media digitali: un processo che, secondo Carr, mentre conferma alcune tesi di McLuhan, tende a sovvertirne il senso etico. Come si è già ricordato, McLuhan polemizza con l'etica del libro - che accusa di favorire l'individualismo e la razionalità astratta - mentre esprime simpatia nei confronti dell'etica dei media elettrici, portatori di una forte carica empatica e comunitaria. Gli effetti di amputazione generati dalla rapida transizione dai tradizionali media elettrici ai media digitali, sostiene Carr, inducono tuttavia a rimettere in discussione questo punto di vista. Da qualche anno - cioè da quando utilizziamo intensivamente le tecnologie digitali -, scrive, tutti noi avvertiamo che sta succedendo qualcosa al nostro cervello, qualcosa che ci impedisce di pensare come pensavamo prima e indebolisce le nostre capacità di concentrazione. La spiegazione del fenomeno, continua, ci viene dai più recenti sviluppi della ricerca sulla memoria: mentre un tempo i neuroscienziati erano convinti che, arrivati a una certa età, i nostri cervelli fossero irreversibilmente «cablati» e sostanzialmente immodificabili, oggi ritengono che subiscano continue modifiche lungo tutto il corso della vita. Un cambiamento di paradigma che, da un lato, dischiude nuovi spazi di libertà, dall'altro lato, introduce nuovi vincoli deterministici: il fatto che la nostra mente sia «plastica» - cioè adattabile - non implica infatti che sia anche elastica, cioè capace di imboccare nuovi percorsi a prescindere dai vincoli ambientali. Per tornare al linguaggio di McLuhan, ciò significa che siamo esposti per tutta la vita alle amputazioni che i mutamenti dell'ambiente mediale possono infliggerci (senza che ne siamo consapevoli). Ma quali sono le amputazioni che stiamo subendo a causa delle tecnologie digitali? E soprattutto: qual è l'etica intellettuale che si sviluppa a partire da tali amputazioni?La lettura favoriva, oltre all'isolamento individuale, il pensiero profondo, costringeva cioè il lettore a mettere in atto associazioni e processi deduttivi, incrementandone sia le competenze sia la capacità di sviluppare idee originali e un personale punto di vista sul mondo. Naturalmente, l'avvento del digitale non implica la fine della lettura, al contrario: se i vecchi media elettrici favorivano la sostituzione del testo scritto con le immagini, i media digitali inaugurano un'era di ubiquità del testo, che occhieggia dagli schermi di cellulari, computer, tablet e quant'altro. Ma non si tratta di un ritorno all'etica intellettuale del libro, perché leggere un libro e leggere uno schermo sono attività cognitive diverse. «Navigare» un testo digitale comporta livelli di attenzione e profondità della lettura assai inferiori rispetto a quelli richiesti dalla lettura tradizionale: la possibilità di «saltare» da un testo all'altro tramite link riduce la concentrazione su un particolare testo e ne favorisce la fruizione distratta; il che vale anche per gli e-book che, benché si presentino come il nuovo medium più affine al libro, vengono consumati come se fossero pagine web. Ancora: chi legge libri impegna le aree cerebrali associate a memoria, linguaggio e processi visuali; chi legge uno schermo utilizza le regioni prefrontali associate all'assunzione di decisioni e al problem solving, in quanto occorre compiere continuamente scelte di navigazione senza lasciarsi «distrarre» dall'interpretazione del testo, il cui senso si sottrae all'esplorazione profonda. Di più: chi legge un libro non impegna solo la memoria a breve termine, ma anche e soprattutto quella a lungo termine, in quanto deve immagazzinare concetti complessi per organizzare i dati in uno schema coerente; chi legge su schermo usa quasi esclusivamente la memoria a breve termine che, da un lato, tende in questo modo a intasarsi, dall'altro lato, complica l'estrazione di informazioni rilevanti dal «rumore» provocato dall' overloading di dati. Perché dovremmo tuttavia attribuire più valore all'etica intellettuale del libro, e disprezzare la «superficialità» delle nuove attività cognitive, replicano i tecnoentusiasti a Carr. La rinuncia alla concentrazione su singoli testi, unitamente alle modalità ipertestuali e multimediali di fruizione, non sviluppa forse la capacità di assemblare più velocemente una enorme quantità di conoscenze e informazioni, rendendoci più creativi? Leggere libri per recuperare informazioni sul passato, ora che le possiamo ottenere con un semplice click, non è una perdita di tempo? Lungo tutto il corso della sua storia, l'umanità si è impegnata a inventare tecnologie di esteriorizzazione della memoria (dai graffiti ai libri): in fondo Internet non è che l'ultimo passo in questa direzione. Certo, si tratta di un salto incommensurabilmente più radicale dei precedenti, ma perché mai ciò dovrebbe rappresentare una minaccia? Appunto perché, risponde Carr, la nuova amputazione non è paragonabile alle precedenti: finora si era trattato di fornire supporti esterni che rafforzassero la capacità di creare connessioni cerebrali, oggi siamo di fronte al tentativo di sostituire le nostre connessioni con quelle del Web, e visto che le nostre connessioni non servono solo ad accedere ai dati memorizzati, ma sono letteralmente la nostra memoria, ciò significa che ci apprestiamo a trasferire alle macchine parte della nostra mente e della nostra stessa identità. | << | < | > | >> |Pagina 583.2 Gratis? No grazieEsaltando l'economia 2.0 e il principio di gratuità, gli apologeti del tempo nuovo come Benkler, Anderson, Shirky e Tapscott rigettano le critiche degli autori che accusano la filosofia win win di mistificare lo «scambio ineguale» che si nasconde dietro le relazioni «reciprocamente soddisfacenti» fra imprese e prosumers. Pur ammettendo che, alla fine del gioco, tutti i quattrini finiscono nelle tasche delle società che producono e/o gestiscono le piattaforme che permettono lo scambio e la condivisione di conoscenze e informazioni, essi ribattono che non esiste scambio ineguale, dal momento che le presunte vittime non se ne preoccupano minimamente (felici e sfruttati!), nella misura in cui le loro motivazioni sono extraeconomiche, né implicano aspettative monetarie. Si tratta di un trucco ideologico vecchio come il capitalismo: basta «psicologizzare» le relazioni economiche, riducendo i comportamenti degli attori sociali a motivazioni soggettive, per mascherare la realtà dei rapporti di sfruttamento. Dal canto loro, i critici non ignorano il fattó che la gente è disponibile a lavorare gratis perché si diverte, perché spinta da impulsi narcisisti a ottenere fama e riconoscimenti, perché appagata dal sentirsi partecipe di progetti collettivi o per motivazioni economiche indirette, come la speranza di ottenere vantaggi sul piano della reputazione professionale, dello status, del capitale sociale ecc. Ma tutto ciò, argomenta fra gli altri Carr, non deve farci chiudere gli occhi sull'altra faccia della medaglia: insieme alle celebrazioni retoriche dell'«economia del dono», avanza il processo di colonizzazione delle relazioni sociali in rete da parte dell'economia di mercato; se fino a ieri certe visioni utopistiche potevano apparire ingenue, oggi rischiano di trasformarsi nella foglia di fico che copre le «vergogne» del capitalismo 2.0, cioè il fatto che il tempo e le idee donati dai prosumers vengono integralmente convertiti in semilavorati per la creazione di merci. | << | < | > | >> |Pagina 834. L'eclissi del lavoro4.1 I teorici detta fine del lavoro La Parte Prima si è concentrata sui discorsi teorici e ideologici finalizzati a celebrare le inedite modalità di sfruttamento della creatività sociale che il capitalismo ha escogitato negli ultimi decenni: dal lavoro gratuito - individuale e collettivo - delle centinaia di milioni di prosumers che cooperano spontaneamente attraverso Internet, all'utilizzo delle nuove tecnologie per intensificare ritmi, intensità e durata del lavoro di dipendenti, collaboratori esterni e tutti gli altri soggetti intrappolati nelle maglie delle imprese a rete che protendono i loro tentacoli a livello planetario. Il leit motiv che ricorre nei discorsi in questione - nel tentativo di descrivere la New Economy come la via d'accesso al migliore dei mondi possibili - potrebbe essere sintetizzato così: la nuova economia ha posto fine all'era della scarsità; il magico potere della rete - che consiste nella capacità di estrarre valore da tutte le interazioni sociali, comprese quelle che nascono e crescono al di là di ogni finalità economica - ci permette di accantonare il detto che sentenzia «nessun pasto è gratis». Nell'era dell'abbondanza in cui siamo entrati, basta sbarazzarsi della zavorra delle vecchie idee e abitudini per intercettare una ricchezza che è ormai alla portata di tutti. Questa Parte Seconda farà invece i conti con una serie di altri discorsi teorici e ideologici che - ancorché consapevoli della realtà di sfruttamento che si nasconde dietro tutte le utopie liberiste, compresa quella 2.0 - non vogliono restituire al lavoro dignità, consapevolezza dei propri diritti e capacità di lottare per tornare a imporli. Al contrario: il punto di vista con cui stiamo per misurarci è quello secondo cui, per contrastare la catastrofe che ha colpito il lavoro negli ultimi decenni, è necessario estirpare dalle radici il concetto stesso di lavoro; immaginare un futuro in cui la dignità, il reddito, i diritti, la libertà e il potere di comunità e individui non siano più associati allo status sociale, politico e culturale del «lavoratore». Se gli apologeti della New Economy ci invitano a dimenticare lo slogan «nessun pasto è gratis», le teorie che stiamo per analizzare vogliono fare piazza pulita di un altro slogan novecentesco che - in un certo senso - ne rappresenta la variante di sinistra: «chi non lavora non mangia». In questo capitolo ci occuperemo in particolare di due approcci che - pur indossando entrambi i panni dei «becchini» del lavoro - seguono vie differenti: nel primo paragrafo analizzeremo le teorie sulla fine del lavoro, nel secondo quelle sul rifiuto del lavoro. Al processo che i teorici della fine del lavoro intentano contro l'ideologia «lavorista» c'è un imputato che siede in prima fila: la cultura novecentesca dell'ala riformista e socialdemocratica del movimento operaio. Allontanandosi progressivamente dall'utopia marxista, le socialdemocrazie hanno deposto ogni velleità di liberazione del lavoro salariato. Per Marx - e per il marxismo rivoluzionario - l'obiettivo di fondo era quello di emancipare il lavoro umano dal rapporto di subordinazione formale e sostanziale al processo di valorizzazione capitalistica, restituendolo all'essenza originaria di ricambio organico fra uomo e natura, di produzione di valori d'uso, e sottraendolo così alla condizione di fattore strumentale per la produzione capitalistica di merci, di valori di scambio. La socialdemocrazia non accampa simili pretese - che liquida come utopie o, peggio, come l'anticamera di regimi totalitari -, ma si accontenta di ottenere miglioramenti immediati delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori salariati (aumenti di reddito, ritmi e orari di lavoro meno massacranti, aumento del tempo libero), sforzandosi nel contempo di convincere la controparte che si tratta di obiettivi compatibili con l'aumento della produttività. Grazie alla «lunga marcia dentro le istituzioni» che partiti e sindacati riformisti hanno intrapreso alla fine dell'Ottocento e proseguito fino agli anni Sessanta del secolo scorso, tuttavia, gli obiettivi si sono fatti via via più ambiziosi. In cambio della mobilitazione della classe operaia, in fabbrica e al fronte, a sostegno delle nazioni impegnate nel primo conflitto mondiale; in cambio del ruolo di diga contro il «contagio» degli altri paesi europei da parte della rivoluzione russa; in cambio della disponibilità a sostenere l'economia in tutti i momenti di crisi succedutisi nel corso dell'ultimo secolo, le sinistre riformiste sono state cooptate nel processo di costruzione del compromesso storico fra capitale, lavoro e stato fondato sulle politiche di welfare, sull'erogazione di salario indiretto attraverso la spesa pubblica e su strategie di ridistribuzione del reddito finalizzate a promuovere la crescita contemporanea di produttività, consumi e profitti. Nel nuovo contesto, il lavoro non è concepito come il soggetto di un processo di liberazione, bensì come il fondamento di tutti i diritti di cittadinanza. La cultura del lavoro permea la società del Novecento, al punto da renderla incapace di valorizzare attività che non siano direttamente o indirettamente produttive; si è cittadini - e si gode dei relativi diritti - solo se e nella misura in cui si è lavoratori: da «chi non lavora non mangia» a «solo chi lavora esiste». Ogni considerazione sulla negatività della condizione operaia, sull'alienazione che la caratterizza in misura crescente, a mano a mano che il paradigma dell'organizzazione capitalistica del lavoro si identifica con la grande fabbrica fordista/taylorista, viene a cadere, cancellata dai vantaggi che si ottengono in cambio dell'accettazione di tale condizione: sicurezza del posto di lavoro, assistenza sanitaria, copertura pensionistica, aumento dei redditi e del tempo libero in cui consumarli. La parola d'ordine è rinunciare all'autonomia in cambio di sicurezza. Il compromesso inizia a vacillare negli anni Sessanta, fino a crollare del tutto negli anni Ottanta, travolto da un insieme di potenti fattori di cambiamento. In primo luogo, sono gli stessi lavoratori a non accettare più di moderare le proprie pretese in cambio di sicurezza: il ciclo di lotte operaie che investe il mondo intero nel corso degli anni Sessanta e Settanta, rivendicando aumenti salariali sganciati dalla produttività, drastica riduzione di orari e ritmi di lavoro, e rivoltandosi contro la disciplina di fabbrica, esprime, da un lato, il rifiuto di trascorrere la propria vita in uno stato di alienazione percepito come disumano e inaccettabile, dall'altro lato, la consapevolezza di poter sfruttare i rapporti di forza accumulati grazie a un lungo ciclo di prosperità economica, nonché alla progressiva concentrazione/omogeneizzazione della forza lavoro della grande fabbrica. L'erosione dei margini di profitto provocata da questi comportamenti si somma alle conseguenze della crisi energetica che colpisce l'economia mondiale negli anni Settanta, generando una miscela esplosiva che, da un lato, innesca il fenomeno della stagflazione, dall'altro lato, provoca quella crisi fiscale dello stato che renderà impraticabili ulteriori estensioni del welfare. In questa situazione, partiti e sindacati socialdemocratici vedono svanire sia il proprio potere di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, dei quali controllano sempre meno umori e comportamenti, sia la capacità di ottenere sicurezza in cambio di moderazione, a mano a mano che la crisi induce stato e padroni a stringere i cordoni della borsa. Così la crisi degli anni Settanta e il conseguente indebolimento delle classi lavoratrici e delle loro rappresentanze sindacali e politiche spianano la strada al più radicale e rapido processo di ristrutturazione che il capitalismo abbia messo in atto nel corso della propria storia, accompagnato e sostenuto dalla svolta neoliberista che i governi di tutto il mondo occidentale mettono in atto a partire dagli anni Ottanta, seguendo l'esempio delle amministrazioni Reagan e Thatcher rispettivamente negli Stati Uniti e in Inghilterra. Ad agire da catalizzatori del cambiamento sono soprattutto due fattori: il processo di deregolamentazione/globalizzazione dei mercati finanziari e la rivoluzione tecnologica innescata dal diffondersi dei personal computer e dalla loro successiva messa in rete attraverso Internet e il Web. Decentramento produttivo, terziarizzazione e finanziarizzazione dell'economia, impresa a rete, frammentazione e individualizzazione del lavoro, smaterializzazione dei prodotti, migrazione della produzione di valore nel settore ICT, centralità della produzione di informazioni e conoscenze, assieme ad altri fenomeni analizzati nella Parte Prima di questo lavoro, hanno provocato in tempi brevissimi quella che può essere definita senza esagerazioni una catastrofe del lavoro. La prima piaga è quella della disoccupazione tecnologica strutturale. Al grido di allarme lanciato in merito da Rifkin si è risposto con il tradizionale argomento in base al quale ogni rivoluzione tecnologica genera in un primo tempo disoccupazione, che viene tuttavia puntualmente riassorbita in un secondo tempo, a mano a mano che nuovi posti di lavoro nascono a valle delle mansioni sostituite dal salto tecnologico (alla distruzione di mansioni manuali fa seguito la creazione di mansioni di controllo, alla distruzione di mansioni esecutive fa seguito la creazione di mansioni creative ecc. in una spirale che sale dal basso verso l'alto). Ma questo assunto appare sovvertito dalle peculiari caratteristiche del ciclo congiunturale della New Economy: le tecnologie digitali determinano incrementi di produttività che, per la prima volta, tendono a colpire soprattutto il lavoro creativo; il software rende obsoleto il lavoro umano impiegato in mansioni di progettazione, gestione e controllo, interrompendo la dinamica di spostamento della domanda di lavoro verso le mansioni elevate. Se a questo aggiungiamo la tendenza delle imprese transnazionali a delocalizzare questo tipo di attività, trasferendole ai paesi in via di sviluppo dove il costo del lavoro qualificato è più basso, si capisce come la creazione di nuovi posti di lavoro in Occidente — in controtendenza con cicli precedenti — riguardi, se e quando avviene, i settori del terziario arretrato, che offrono mansioni a basso contenuto professionale e a bassa retribuzione. Se e quando ciò avviene, si è appena detto, perché già dopo il crollo dei titoli tecnologici del 2000 si è manifestato il fenomeno di una ripresa senza recupero — o con un recupero parziale — dei posti di lavoro distrutti nel corso della crisi; fenomeno che si è ripetuto in misura ancora maggiore dopo la crisi finanziaria del 2008, innescata dalla bolla dei titoli subprime. Del resto, le due crisi si presentano come due fasi dello stesso processo: mentre gli effetti della prima fase vengono contenuti e mascherati grazie a livelli di consumo «gonfiati» dal debito privato, non appena quest'ultimo diventa insostenibile parte la seconda fase. | << | < | > | >> |Pagina 90Qual è l'attualità delle visioni di Arendt e Polanyi nell'epoca contemporanea, nella quale il paradigma liberista si ripresenta in tutta la sua virulenza grazie al crollo del compromesso storico fra stato, capitale e lavoro? Cosa significa, in questo contesto, andare al di là dell'utopia marxista di liberazione del lavoro per rivendicare la liberazione dal lavoro? I teorici della fine del lavoro appaiono concordi nel criticare il «pan-economicismo» di Marx e degli economisti classici - ma anche di quelli contemporanei - al quale contrappongono tradizioni di pensiero che non fanno del lavoro il centro della vita sociale, ma offrono risposte diverse ai due interrogativi appena formulati. In particolare, prenderemo qui di seguito in esame tre approcci distinti, ancorché non necessariamente in contrapposizione fra loro: 1) la prospettiva genealogica; 2) le interpretazioni ambivalenti (cioè non necessariamente negative) dei processi di flessibilizzazione e individualizzazione del lavoro; 3) il tentativo di riformulare un progetto riformista radicale, adattandolo all'era del capitale informazionale e globalizzato.| << | < | > | >> |Pagina 92Non resta dunque altra scelta che arrendersi alle leggi del mercato, rinunciando alla speranza di proteggere gli strati sociali più deboli dai loro effetti devastanti? La risposta che arriva da quest'area teorica è articolata e complessa. Il primo passo da compiere è prendere atto della «fine del lavoro» così come lo abbiamo concepito lungo tutta la storia del Novecento. Dopodiché bisognerebbe lottare per elevare alla dignità di cui godevano i lavoratori salariati tutta una serie di attività che, finora, non sono mai state riconosciute in quanto lavoro: cure domestiche, assistenza a bambini e anziani, impegno civile in tutte le sue forme e articolazioni (dal volontariato al terzo settore) ecc. Per realizzare tale obiettivo occorre in primo luogo riequilibrare le relazioni fra i generi, trasferendo agli uomini una parte delle mansioni tradizionalmente svolte dalle donne; occorre poi garantire a tutti la possibilità di svolgere attività professionali di tipo «classico» - il che può essere fatto solo attraverso una drastica riduzione degli orari di lavoro dipendente, dando attuazione allo slogan «lavorare meno, lavorare tutti»; occorre infine - e questa è forse la condizione più importante - offrire redditi dignitosi sia a chi svolge attività che non producono direttamente valore per il capitale, sia a chi deve affrontare i rischi del precariato, il che può avvenire solo grazie all'erogazione di un salario minimo di esistenza. In poche parole, si tratta di farla finita con il vecchio welfare, che serve ormai solo a tamponare le falle di un mondo del lavoro destinato a un irreversibile tramonto, per costruire un nuovo welfare che garantisca a tutti i cittadini, e non solo ai lavoratori tradizionalmente riconosciuti come tali, il diritto a un'esistenza dignitosa. Purtroppo, questo seducente sogno riformista appare destinato a cozzare contro un banale interrogativo: chi dovrebbe farsi garante di questa svolta epocale, dal momento che siamo tutti d'accordo in merito al fatto che lo stato nazione appare incapace di fronteggiare lo strapotere del capitale globale? È nel momento in cui tenta di rispondere a questo interrogativo che il discorso dei teorici della fine del lavoro mostra i suoi limiti, evocando scenari velleitari e fumosi sul tipo di quelli suggeriti da Ulrich Beck , come quando attribuisce il compito di rifondare la possibilità di una democrazia politica ed economica globale alla «società mondiale dei cittadini», fantomatica entità che, grosso modo, sembra coincidere con la comunità cosmopolita degli «individui in rete» descritta da Manuel Castells (cfr. Capitolo 2), e la cui rappresentanza viene demandata ad agenzie transnazionali (allo stato dei fatti inesistenti) che dovrebbero gestire la governance di un mondo sempre più globalizzato e complesso. Per tacere del fatto che di questi organismi dovrebbero fare parte anche quelle grandi imprese transnazionali che hanno tutto l'interesse a conservare la situazione attuale, che le vede dominare l'economia mondiale senza sottostare a regole imposte da altri attori sociali. Una visione di ingenuità tale da non meritare commenti. Resta il fatto che alcuni degli obiettivi elencati poco sopra - riduzione dell'orario di lavoro, riforma del welfare, salario minimo di cittadinanza ecc. - sono condivisi anche da chi - come gli autori che discuteremo nel prossimo paragrafo - per andare «oltre il lavoro» invita piuttosto a imboccare la via del conflitto e dell'antagonismo.| << | < | > | >> |Pagina 97Il concetto di operaio sociale, infatti, conteneva in nuce il punto di vista che avrebbe trovato definitiva sistematizzazione nelle pagine del già citato Impero e di altri lavori - non solo del duo Negri-Hardt - pubblicati dalla fine degli anni Novanta a oggi. Il filo rosso che collega le riflessioni che si susseguono nel mezzo secolo che va dall'inizio degli anni Sessanta ai giorni nostri è l'idea che tutte le lotte anticapitaliste possano essere interpretate come diverse manifestazioni di un'unica contraddizione antagonista: quella fra l'intelligenza collettiva (il marxiano general intellect) incorporata nel lavoro morto - cioè nel sistema produttivo fatto di macchine, organizzazione aziendale ecc. - e il lavoro vivo, cioè con quell'intelligenza collettiva che è tutt'uno con il corpo vivente - con la mente, la creatività, le emozioni, i sentimenti, le relazioni, quello che oggi chiamiamo capitale sociale e culturale - della classe operaia. La sfida teorica decisiva, per l'operaismo, consiste nel dimostrare che la contraddizione permane anche in un'era postfordista in cui l'epicentro del processo di creazione di valore si è spostato dalla fabbrica alla società. La figura dell'operaio sociale è la risposta provvisoria a tale sfida, nel senso che rappresenta l'anello di congiunzione con quella categoria di moltitudine che verrà proposta molto più avanti, quando i teorici operaisti si troveranno a fare i conti con il salto tecnologico associato alle reti di computer e con tutti i fenomeni descritti nella Parte Prima di questo lavoro: cooperazione sociale spontanea fra individui e comunità connessi in rete; centralità della produzione di conoscenze e informazioni nel processo di creazione di valore; privatizzazione dei commons immateriali; emergere di nuovi strati professionali ( knowledge workers, classe creativa); comportamenti illegali di massa in materia di proprietà intellettuale ecc.Prima di dare una definizione della moltitudine — e prima di metterne in luce limiti e contraddizioni —, è tuttavia necessario richiamare sinteticamente le ibridazioni fra marxismo e altri punti di vista teorici su cui si fonda il concetto. La prima contaminazione è quella fra marxismo e filosofie del linguaggio. A mano a mano che l'agire comunicativo — l'interazione linguistica — si insedia nel cuore stesso della produzione capitalistica, diventando il motore principale della creazione di valore, si sostiene, avviene una sorta di inversione dei rapporti fra lavoro morto e lavoro vivo: le tecnologie digitali che governano la produzione nell'era del postfordismo e dell'impresa rete, infatti, non sono assimilabili al «capitale fisso» industriale, in quanto la loro funzione non è più quella di comandare/controllare le attività esecutive di un lavoro «stupido», bensì quella di intercettare la creatività di un'attività lavorativa che, per produrre valore, deve essere lasciata il più possibile libera di esprimere bisogni, esigenze, emozioni e sentimenti di chi la svolge. Di più: l'attività di cui stiamo parlando di per sé non è lavoro, ma appartiene alla sfera dell'esperienza vitale dei soggetti che la compiono; essa diventa lavoro solo laddove, se e nella misura in cui il capitale riesce ad appropriarsi dei suoi effetti per integrarli nel proprio processo di valorizzazione. Il paradosso del nuovo operaismo consiste dunque nell'affermare che nulla è più lavoro, ma che, al tempo stesso, tutto diventa lavoro. Come si vede, ritroviamo qui, ancorché formulati con parole ma soprattutto con finalità ideologiche diverse, i temi cari ai teorici della wikinomics, del crowdsourcing e della peerproduction analizzati nella Parte Prima. Una convergenza tematica che emerge con evidenza ancora maggiore non appena si prende in considerazione la seconda contaminazione realizzata dal neo-operaismo, cioè quella fra marxismo e biopolitica foucaultiana, operazione che Negri e Hardt hanno esplicitato soprattutto nel loro ultimo lavoro. Dal momento che il capitalismo delle reti non produce più solo merci, argomentano i due autori, ma anche relazioni sociali e forme di vita — altrove si arriva a dire che la produzione è oggi in primo luogo produzione di soggettività, produzione di sé, una definizione che piacerebbe non solo ai fan di Foucault, ma anche agli studiosi del fenomeno dei social network — occorre ammettere che ci troviamo di fronte a un fenomeno che Marx aveva già descritto analizzando i meccanismi dell'accumulazione originaria, vale a dire l'espropriazione di ricchezze che si generano al di fuori della produzione capitalistica. Con una differenza radicale: oggi l'espropriazione del comune non riguarda più — o riguarda in misura minore — le ricchezze materiali come la terra e altre risorse «naturali», ma colpisce piuttosto le pratiche sociali, la creatività linguistica, le relazioni personali ecc. Assieme al significato della parola lavoro — che viene sempre più a sovrapporsi con la stessa esperienza vitale — cambia dunque il significato di concetti come sfruttamento e alienazione. Per quanto riguarda lo sfruttamento, si rinvia a quanto scritto nella Parte Prima, mentre per quanto riguarda l'alienazione occorre sottolineare che le nuove forme del lavoro fanno sì che il lavoratore non sia più alienato solo dal prodotto del proprio lavoro, ma anche dalle sue stesse capacità affettive e cognitive. Il passaggio decisivo, tuttavia, è quello che vede una parziale convergenza fra il punto di vista che stiamo analizzando e quello dei critici liberali dell'espropriazione dei commons immateriali, come Benkler e Lessig. Al pari di questi ultimi, infatti, Hardt e Negri ritengono: 1) che la produzione di valore scaturisca oggi da forme di cooperazione sociale spontanea che si sviluppano in modo del tutto autonomo dal comando capitalistico; 2) che i prodotti di questa cooperazione spontanea siano difficilmente sussumibili dalla proprietà privata. La differenza consiste nel fatto che, mentre Lessig e Benkler vedono in ciò un'opportunità per le imprese che riescono a convivere con tali esternalità e a sfruttarle pur senza controllarle direttamente, Hardt e Negri sono invece convinti che la convivenza sia impossibile: il capitale può valorizzarsi solo imponendo il proprio controllo diretto sulla produzione di conoscenza, mentre questa tende al contrario a sottrarsi a tale controllo, che rappresenta un ostacolo per la produttività del lavoro «biopolitico». | << | < | > | >> |Pagina 103Questa valorizzazione dell'immanenza rappresenta un elemento di forte continuità con la tradizione operaista degli anni Sessanta e Settanta. Già allora, attraverso la critica della forma partito e l'esaltazione dell'autonoma capacità della classe operaia di scegliere obiettivi e forme di lotta, nonché di auto-organizzarsi per realizzarli, si era manifestata una profonda fiducia nelle spontanee capacità della società civile. Oggi questo atteggiamento viene riproposto in misura più radicale, arrivando a negare qualsiasi legittimità all'«autonomia del politico»: dal momento che la rivoluzione è stata definita nei termini appena descritti, è chiaro che il vero problema non è dare rappresentanza politica alla moltitudine, bensì far emergere una «imprenditorialità del comune» e consentirle di operare nel contesto di una «democrazia delle singolarità produttive». Eppure, riproducendo una contraddizione che risale a sua volta alla storia degli anni Settanta, si sostiene che, per poter emergere, il piano di immanenza che caratterizza la società richiede di essere organizzato politicamente. Ecco dunque l'ultimo, decisivo dilemma: come darsi un'organizzazione politica senza scivolare sul terreno dell'autonomia del politico, senza arrendersi, cioè, al principio di rappresentanza? È tentando di rispondere a tale interrogativo che il pensiero degli autori che stiamo esaminando mostra i limiti più evidenti. Il punto di partenza è capire se e come sia possibile strutturare un processo democratico di deliberazione politica dal basso, e la soluzione viene indicata nelle nuove forme di organizzazione «orizzontali» - strutturate come reti informali - che si sono date le comunità virtuali: dalle comunità di hacker e ricercatori che hanno costruito la rete, alle reti di cooperazione produttiva spontanea degli sviluppatori di software libero, alle reti di organizzazione e controinformazione dei movimenti contro la globalizzazione, ai network di scambio illegale di contenuti protetti da copyright ecc. Anche chi scrive, in un lavoro precedente , aveva messo in luce le analogie fra tali esperienze e le strutture di democrazia diretta - soviet, consigli operai, comitati di base ecc. - che il movimento operaio ha saputo inventare nel corso della storia; non dimenticando di sottolineare, tuttavia: 1) come tali fenomeni, in assenza di istituzionalizzazione politica, fossero destinati a venire neutralizzati dalla controffensiva di governi e imprese, alleati nel comune sforzo di normalizzazione della rete; 2) come alcuni di essi - a partire dalle comunità del software open source - apparissero fin dall'inizio costitutivamente ambigui, in quanto passibili di evolvere in strutture produttive funzionali alle nuove forme di accumulazione capitalistica (ciò che è effettivamente avvenuto, come dimostrato nella Parte Prima di questo lavoro). Viceversa, i teorici neo-operaisti appaiono animati da un'incrollabile, cieca fiducia nella capacità della moltitudine di inventare sempre nuove forme di auto-organizzazione democratica, finendo paradossalmente per convergere con gli entusiasmi utopistici dei guru del Web 2.0.A questo punto, disponiamo di tutti gli elementi per tirare le fila del discorso. Dopo avere demolito le argomentazioni degli apologeti dell'economia di rete, e svelato il volto oscuro di Internet, fatto di colonizzazione commerciale, sfruttamento della creatività sociale, taylorismo mentale ecc.; e dopo aver analizzato il contributo dei teorici della fine e del rifiuto del lavoro e averne evidenziato i limiti - incapacità di indicare un soggetto istituzionale e/o sociale della trasformazione -, restano da affrontare tre argomenti che saranno oggetto del prossimo e ultimo capitolo. Nel primo paragrafo faremo un passo indietro: tornando a Marx , si tenterà di dimostrare come certe sue categorie siano ancora - senza necessità di «aggiornamenti» - gli strumenti più efficaci per decodificare la realtà del capitalismo contemporaneo. Nel secondo paragrafo verrà messa in luce la necessità di riavviare una riflessione sulla nuova composizione di classe - senza cedere agli interessati luoghi comuni sulla perdita di significato della parola e senza imboccare scorciatoie «moltitudinarie» -, distinguendo fra composizione tecnica e composizione politica. Nel terzo paragrafo si proverà ad allargare la prospettiva, inquadrando i nuovi conflitti nell'attuale contesto globale. | << | < | > | >> |Pagina 114Quanto appena detto dimostra fino a che punto le categorie marxiane possano aiutarci a comprendere i meccanismi della New Economy. Ha senso parlare di subordinazione formale o sostanziale del lavoro al capitale, in un contesto caratterizzato dall'emergere di forme di cooperazione produttiva spontanea fra produttori indipendenti, rese possibili dalle tecnologie di rete? Ha senso parlare di dominio del lavoro morto sul lavoro vivo in un contesto in cui la creatività del lavoro vivente sembra prevalere sui mezzi di produzione in quanto fonte del valore? Ha senso distinguere fra plusvalore assoluto e relativo in un contesto in cui tendono a svanire i confini fra tempo di lavoro e tempo di vita? Se la visione utopistica di un Benkler, secondo cui il controllo dei mezzi di produzione sarebbe oggi ridistribuito fra milioni di produttori indipendenti, e se il concetto di «capitalismo personale» proposto da Rullani e Bonomi (cfr. Capitolo 2) fossero fondati, dovremmo riconoscere che siamo di fronte a un nuovo modo di produrre. In presenza di un simile frazionamento dei fattori produttivi, infatti, non esisterebbe la possibilità di centralizzare il capitale, e quindi di sviluppare quegli elementi — cooperazione e divisione del lavoro, disciplinamento dei ritmi e dell'intensità del lavoro ecc. — che caratterizzano il modo di produrre specificamente capitalistico; ma in realtà, come si è messo in luce nella Parte Prima, le cose sono assai più complicate. Il capitale — non solo nelle sue forme classiche, ma anche in quanto capitale sociale, culturale ecc. — continua a essere soggetto, anche nei settori al centro dell'innovazione tecnologica e culturale, a radicali processi di concentrazione. L'ascesa di colossi della New Economy come Microsoft prima, Google, Amazon e Apple poi dimostra che, in barba al crollo dei costi dei mezzi di produzione e al proliferare delle start-up negli anni Novanta, la quantità di capitale necessario per entrare nei nuovi rami della produzione non si abbassa, ma tende a divenire più alta di quanto non fosse nell'era del macchinismo fordista. Quanto all'epopea dei produttori indipendenti, valgono considerazioni analoghe a quelle che Marx faceva a proposito dei coloni americani: il cyberspazio è stato una sorta di «nuova frontiera» virtuale che ha consentito agli artigiani hacker di sottrarsi in parte al destino del lavoro dipendente salariato. Questi spazi di autonomia si sono tuttavia ridotti a mano a mano che il capitalismo delle reti è venuto riassumendo il controllo sul mercato, anche grazie alla colonizzazione/subordinazione (cfr. Capitolo 3) delle comunità del software libero. Si è così ripetuta l'oscillazione fra processi di socializzazione e desocializzazione che caratterizza tutta la storia del capitalismo: da un lato, le rivoluzioni tecnologiche consentono al capitalismo di colonizzare attività che in precedenza non ricadevano sotto il dominio dell'economia formale, dall'altro lato, favoriscono la nascita di nuove aree di autonomia sociale che, successivamente, vengono a loro volta integrate nel processo di valorizzazione del capitale. L'intervallo temporale caratterizzato dall'estensione dell'autonomia sociale e dall'emergere di modalità di collaborazione spontanea fra i produttori in rete si è del resto rivelato estremamente fruttifero per il capitale, visto che ha creato i presupposti di nuove modalità di appropriazione gratuita di queste preziose nicchie di produttività del lavoro sociale. Il fatto che queste forme di cooperazione produttiva siano motivate da fattori extraeconomici offre poi un ulteriore vantaggio alle imprese che riescono a intercettarle: l'aumento dell'intensità e della durata del lavoro è garantito dall'entusiasmo degli stessi produttori nei confronti della propria attività, che non viene percepita come lavoro, eliminando la necessità di ricorrere a complicate e dispendiose gerarchie di disciplinamento e controllo. Resta la contraddizione più volte evidenziata nel corso di questo lavoro: lo sforzo di «recinzione» dei commons immateriali, che il capitalismo è costretto a compiere per integrare questa creatività sociale «indisciplinata» nella catena del valore, rischia di ammazzare la gallina dalle uova d'oro, indebolendo la spinta motivazionale alla libera cooperazione. D'altro canto non c'è via d'uscita, dal momento che, senza «privatizzare» i commons, il capitale non può trasformare i produttori indipendenti in forza lavoro. Né l'esistenza di modelli di business che prosperano sul «furto» dell'altrui proprietà intellettuale — da Google alle start-up che campano di pirateria digitale — autorizza a pensare che possa svilupparsi e divenire egemone un'inedita forma di «capitalismo senza proprietà»: la pirateria e le pratiche predatorie ai danni della concorrenza sono sempre esistite, e spesso hanno rappresentato l'unica soluzione nel consentire l'emergere di settori innovativi a spese dei vecchi monopoli (cfr. Capitolo 2); ma i pirati di ieri si trasformano puntualmente nei monopoli di domani: finché esisterà il capitalismo, esisteranno anche proprietà privata e monopoli.| << | < | > | >> |Pagina 122Diverso l'approccio dell'interpretazione allargata del concetto di knowledge workers. Con interpretazione allargata mi riferisco soprattutto al concetto di moltitudine utilizzato dai teorici neo-operaisti, analizzato nel capitolo precedente. Come il lettore ricorderà, i neo-operaisti (ma anche un autore come Rullani, cfr. Capitolo 2) estendono il concetto di lavoratori della conoscenza a tutte le attività che a diverso titolo contribuiscono — direttamente o indirettamente — a creare valore per il capitalismo delle reti. Da questo punto di vista i creativi non sono una classe sociale, bensì lo strato superiore di una composizione di classe ampia e stratificata, per cui quello della saldatura con i lavoratori dell'industria tradizionale e/o di altri settori del terziario non è un problema di alleanze, bensì di ricomposizione sulla base del comune antagonismo nei confronti del capitale. Non è qui il caso di riproporre le mie considerazioni critiche nei confronti di tale prospettiva — ampiamente argomentate in precedenza —, per cui mi limito a ripetere che in questo modo: 1) si rinuncia all'analisi concreta della composizione di classe per adottare una visione metafisica dell'opposizione fra capitale e vita; 2) si perde di vista il problema dell'organizzazione politica della resistenza al capitale, che viene delegata ai comportamenti spontanei della società civile. In un lavoro precedente, chi scrive aveva a sua volta affrontato il problema riproponendo il concetto gramsciano di egemonia. In quelle pagine, dopo aver identificato il soggetto emergente in quello che definivo Quinto Stato — un'entità sostanzialmente omologa ai concetti di classe creativa, classe hacker e lavoratori della conoscenza — ipotizzavo la possibilità che esso riuscisse prima a esercitare la propria egemonia su altri strati di lavoratori, poi a creare nuove forme di organizzazione politica in grado di convertire l'egemonia in progetto rivoluzionario. Gli sviluppi degli ultimi anni — descritti nella Parte Prima — mi inducono a deporre questa illusione, e a sollevare nel contempo altri interrogativi: i knowledge workers costituiscono davvero una classe unitaria, o si articolano in uno strato superiore e uno strato inferiore portatori di interessi divergenti, se non opposti? Il loro ruolo, nel complesso scenario dei conflitti di classe globali, è davvero quello di un'avanguardia? Infine, se la risposta all'ultima domanda è negativa: quali altri soggetti possono aspirare a tale ruolo? In breve: qual è, oggi, la composizione politica del proletariato internazionale?| << | < | > | >> |Pagina 1285.3 Ombre cinesiProviamo a mettere fra parentesi categorie astratte e grandi sistemi teorici: come si presenta da una prospettiva empirico/descrittiva la stratificazione del proletariato globale? Un buon tentativo di risposta - pur al prezzo di inevitabili semplificazioni - viene da Karl Heinz Roth, il quale fotografa così lo stato attuale della classe globale dei lavoratori e delle lavoratrici: 1) quasi tre miliardi di persone - concentrate nei paesi del Sud del mondo - vivono ancora di agricoltura di sussistenza; 2) i fenomeni di migrazione di massa - all'interno dello stesso continente o fra continenti diversi - interessano centinaia di milioni di esseri umani che rappresentano una quota fra il 10 e il 20 per cento delle sottoclassi dei paesi industrializzati e dei principali paesi emergenti; 3) un miliardo di poveri ai limiti della sopravvivenza alimenta l'economia sommersa nelle aree periferiche delle megalopoli del Sud del mondo; 4) dagli anni Ottanta e Novanta è in crescita tumultuosa la nuova classe operaia industriale nelle economie emergenti, Cina, India, Brasile ecc.; 5) la classe operaia dei tradizionali centri di sviluppo (Stati Uniti, Europa e Giappone) sta viceversa subendo processi di riduzione numerica, pauperizzazione e precarizzazione accompagnati dalla crescita di forme di lavoro (formalmente) autonomo. Roth non inserisce nel quadro i lavoratori della conoscenza, per cui possiamo dedurne che dia per scontato che - nel contesto di un'economia globalizzata e governata da reti tecnologiche - la definizione si adatti in diversa misura a tutti gli strati sopra elencati (a eccezione del primo). Dando per buona la descrizione, la domanda è: esistono obiettivi politici in grado di unificare questa variegata composizione? Ricordiamo le più diffuse parole d'ordine che le sinistre radicali hanno proposto negli ultimi anni: reddito minimo garantito (salario di esistenza), drastica riduzione della giornata lavorativa (lavorare meno lavorare tutti); tassazione progressiva e ridistribuzione della ricchezza (per fronteggiare le crisi di sottoconsumo aumentando il reddito di massa e per ricostruire il welfare). Sappiamo poi che i knowledge workers (nell'accezione ristretta del termine, che connota le minoranze impegnate nei settori di punta della New Economy) hanno arricchito l'elenco con obiettivi più specifici: difesa della neutralità della rete; allentamento dei vincoli giuridici che tutelano la proprietà intellettuale; democratizzazione/degerarchizzazione di imprese e istituzioni pubbliche. È evidente che questo programma non basta a trasformare la composizione tecnica del proletariato globale in composizione politica. Gli obiettivi del primo elenco - debitamente articolati e adattati ai contesti regionali - potrebbero tutt'al più essere condivisi dalla classe operaia occidentale e da quella dei paesi emergenti; le rivendicazioni della classe creativa, viceversa, dovrebbero essere riformulate in modo da renderle compatibili con gli interessi del proletariato globale, il che potrebbe avvenire solo se, e nella misura in cui, lo strato inferiore riuscisse a sottrarsi all'egemonia dello strato superiore (vedi paragrafo precedente). In caso contrario, la cultura di Internet rischia di appiattirsi sugli interessi delle corporation che infiltrano i vertici dell'Impero e ne condizionano le scelte.
Parlando di
vertici
dell'Impero, sollevo implicitamente una domanda
che chi analizza il conflitto capitale/lavoro dal punto di vista biopolitico
tende a rimuovere: non dobbiamo solo chiederci
chi,
ma anche
dove
è il nemico. Castells può avere ragione quando afferma che il potere
economico e quello politico assumono oggi la forma di flussi deterritorializzati
di denaro, informazioni e conoscenze, che non si «incarnano»
più nei luoghi. Lo stesso Castells, tuttavia, ammette che la logica dei
flussi incorpora dispositivi di inclusione ed esclusione, per cui il nuovo
potere si afferma anche tracciando confini fra dentro e fuori: queste
affermazioni vanno intese in senso metaforico, oppure evocano una
concreta, ancorché inedita, geografia del potere? A offrire la risposta più
convincente, a mio parere, sono le analisi di
Saskia Sassen.
Il merito di Sassen consiste nell'aver superato il tradizionale schema
centro-periferia del mondo di
Wallerstein
senza rinunciare a descrivere una geografia del tardo capitalismo. Se
l'Occidente si «brasilianizza», importando le pratiche di pauperizzazione,
flessibilizzazione e precarizzazione
della forza lavoro un tempo appannaggio dei paesi in via di sviluppo;
se i paesi emergenti si occidentalizzano, importando tecnologie e stili
di vita dai tradizionali centri di concentrazione del potere economico;
se, infine, gli uni e gli altri tendono a integrare reciprocamente le proprie
economie tramite flussi deterritorializzati di denaro, conoscenze e
informazioni, ciò non significa che i luoghi abbiano perso importanza.
Al contrario: quanto maggiore è la dispersione - resa possibile
dall'organizzazione a rete di processi produttivi e flussi finanziari - tanto
più cresce il peso delle funzioni centrali di governo e controllo, funzioni
che si concentrano in una quarantina di città globali, dando vita a una
nuova geografia della centralità che taglia la vecchia divisione fra Nord
e Sud del mondo. In questo contesto, il ruolo degli stati nazione appare
tutt'altro che marginale: da un lato, essi devono farsi garanti dei diritti del
capitale globale, dall'altro lato, devono promuovere la competitività e
l'efficienza degli hub che ospitano sul proprio territorio. «Poiché
le funzioni pubbliche normative e legislative» scrive Sassen, «diventano sempre
più subordinate agli standard tecnici che rendono possibile la globalizzazione
delle corporation, possiamo assistere all'emergere
di un'agenda sostanzialmente privata nell'ambito di un'autorità pubblica
formalmente legittimata». A tracciare i confini della nuova geografia del
potere, dunque, sono, da un lato, la competizione fra centri
di governo e controllo dei flussi del capitale globale, dall'altro lato, la
competizione fra stati nazionali che tentano di imporre, trasformandoli
in norme e regolamenti globali, gli standard tecnici dei propri «clienti»;
una competizione, aggiunge Sassen, che però non vede partire tutti alla
pari: gli Stati Uniti - e in misura minore l'Inghilterra - occupano una
posizione privilegiata sia nel progettare le nuove legalità, sia nell'imporle
agli altri stati. A questo punto, disponiamo degli elementi per riflettere su
una serie di eventi recenti che, oltre ad attestare le sempre più
strette relazioni fra l'amministrazione Obama e la lobby delle Internet
company, segnano una svolta nella politica estera statunitense, sempre
più decisa a fare della rete l'arma strategica per riaffermare l'egemonia
americana sul mondo.
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