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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione Parte prima - Sinistre e capitale. Le relazioni pericolose Capitolo primo 19 Dodici tesi Capitolo secondo 31 Varianti sul tema (1) 31 Le sinistre postmoderne contro il Novecento. Note sull'ultimo Tronti 36 Boltanski e Chiapello. Il capitale a scuola del '68 40 Colin Crouch. Da cittadini a clienti 43 Paradossi dell'orizzontalismo 43 1. Onofrio Romano. Ideologie dell'immanenza 47 2. Marcello Tarì. Una talpa neoanarchica 49 3. Pierre Rosanvallon. La sfiducia come surrogato della democrazia 51 Le passioni tristi dei ceti medi riflessivi 51 1. Thomas Piketty. I miti della mobilità e della meritocrazia 55 2. Richard Florida. L'aedo della classe creativa si pente 57 3. Raffaele Ventura. Da classe creativa a classe disagiata 60 4. Marco D'Eramo. Paradossi della democrazia del consumo 63 Femminismi 63 1. Intorno a una polemica fra femministe "ortodosse" e Judith Butler 68 2. In margine a due testi di Luisa Muraro 71 3. L'alleanza dei corpi secondo Judith Butler 74 4. L'invettiva di Jessa Crispin 77 5. Nancy Fraser, Critica del neoliberismo progressista 80 Jonathan Friedman. La neolingua del politicamente corretto 86 Nota sul caso Preve 90 Interludio. Sulla crisi 90 1. David Harvey 99 2. Nancy Fraser Parte seconda - Popolo, nazione, Stato e socialismo Capitolo primo 107 Ventidue tesi Capitolo secondo 127 Varianti sul tema (2) 127 Il momento populista 127 1. Ernesto Laclau. L'iconoclasta 134 2. Chantal Mouffe. Laclau "edulcorato" 137 3. Damiano Palano, Marco Tarchi, Andrea Ricolfi. Miscellanea 144 La questione nazionale nel marxismo 144 1. Panorama storico 147 2. Nota su Domenico Losurdo 150 Senza Stato niente democrazia 150 1. Wolfgang Streeck. Quarant'anni di guerra alla democrazia 154 2. Fazi e Mitchell. Crisi della globalizzazione e ritorno dello Stato 159 3. Hosea Jaffe e Samir Amin. Delinking 165 4. Il bipolarismo teorico di Dardot e Laval 170 Contro l'Unione Europea 170 1. Perché la Costituzione italiana non piace a JP Morgan 173 2. L'Europa neoliberale. Verso una nuova forma-Stato 179 3. Tutta colpa della Germania? 182 4. La sinistra resiste, ma poi si converte 184 5. Per un sovranismo democratico 187 6. L'Europa immaginaria dei filosofi 190 È ancora possibile parlare di rivoluzione socialista? 190 1. Dalla rivoluzione nazional-popolare e democratica alla rivoluzione socialista 199 2. Scenari geopolitici 204 Appunti sparsi sui Quaderni di Antonio Gramsci Appendice 219 Piccolo atlante populista 220 1. America Latina 237 2. Stati Uniti 245 3. Europa 260 4. Italia 269 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 9PrefazioneSecondo gli storici, la formula rituale: "Il re è morto, viva il re" sarebbe stata recitata per la prima volta nelle corti francesi del tardo medioevo, per poi diffondersi in altre nazioni europee. Questa ricostruzione storica mi interessa relativamente; più importante - considerato il titolo che ho scelto di dare a questo libro - mi sembra invece ragionare sul senso e sulla funzione dell'atto linguistico in questione. Il significato più banale è rintracciabile nella versione popolare che ne è stata coniata con il detto "morto un papa se ne fa un altro": questa volgarizzazione ha il merito di mettere l'accento sulla continuità di un'istituzione (la Chiesa) che sopravvive nel tempo, trascendendo i singoli individui (i papi) chiamati di volta in volta a incarnarne l'esistenza e l'unità (senza dimenticare la valenza ironica del proverbio: cambiano gli interpreti, ma non cambia lo spartito di un potere che opprime chi sta sotto). Il tema della continuità è ancora più pregnante nella versione originale: dal momento che la vita stessa dell'istituzione monarchica è indissolubilmente associata al corpo del re, occorre che non si dia cesura temporale fra dipartita del sovrano e ascesa al trono del successore. Di qui, da un lato, l'ossessione per le politiche familiari intese a garantire la nascita di uno o più eredi al trono, dall'altro lato - considerato il rischio di intrighi, conflitti dinastici ecc. da cui possono derivare vuoti di potere e guerre di successione -, il tono imperativo che affiora dietro le parole: "Il re è morto, viva il re" è una frase performativa che intende non solo asserire, ma creare una situazione di fatto: la successione è avvenuta, l'unità dello Stato è garantita. Dal momento che non è mai facile sbarazzarsi del peso della tradizione, voglio sgombrare il campo da possibili equivoci. In primo luogo, scegliendo di titolare questo lavoro Il socialismo è morto, viva il socialismo! non avevo in testa alcun intento ironico (non riusciremo mai a liberarci di questo mito, o simili); ma soprattutto non avevo alcuna intenzione di rivendicare una continuità: questo perché è mia convinzione che il socialismo sia realmente morto nelle forme storiche che ha conosciuto dalle origini ottocentesche all'esaurirsi delle spinte egualitarie novecentesche, prolungatesi per pochi decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non si è trattato di un evento (la caduta del Muro e il crollo dell'Urss hanno svolto la funzione di mera registrazione notarile del decesso), bensì di un'agonia durata dagli anni Settanta alla grande crisi che ha inaugurato il nuovo millennio. Oggi l'agonia è terminata ed è iniziata l'attraversata del deserto. Secondo un parere diffuso, stiamo vivendo un'epoca in cui "il vecchio muore e il nuovo non può nascere", per dirla con Gramsci. Personalmente, sono convinto che debba essere abbandonato l'atteggiamento di attesa passiva che quel "non può" rischia di giustificare. Il "non può" di Gramsci è associato alla concretezza d'un momento storico: il grande leader comunista scriveva da un carcere fascista dopo la sconfitta della rivoluzione; anche noi veniamo da una dura sconfitta, ma non siamo in carcere e viviamo in un momento di crisi sistemica radicale, da cui il nemico di classe non riesce a venir fuori. Il "non può" delle sinistre convertite al liberismo è di due tipi: 1) c'è il "non può" dei social liberali mainstream, che fa il verso al TINA (There Is No Alternative) della Thatcher, riconoscendo nel sistema neoliberale una realtà intrascendibile cui non si può fare altro che adattarsi; 2) e c'è il "non può" liberal progressista delle sinistre "radicali" che si illudono di cambiare il mondo "partendo da sé", attraverso pratiche di emancipazione individuale e di gruppo. Io penso invece che non sia possibile attraversare il deserto senza scegliere una direzione, e la direzione si trova abbandonando il "non può" per il "deve". Se la crisi del vecchio perdura, il nuovo deve essere fatto nascere, e il nuovo è il socialismo: non quello d'antan, ormai morto e sepolto, bensì un socialismo del secolo XXI, da costruire a partire dalle concrete condizioni storiche: dalle trasformazioni subite dal modo di produrre, dall'autofagia del capitalismo globalizzato che divora se stesso, dalla ri-nazionalizzazione della politica, dal ritorno dello Stato, dalle trasformazioni della composizione sociale e dalle nuove forme della lotta di classe. Viva il socialismo vuol dire questo: l'araba fenice deve risorgere dalle ceneri perché l'alternativa socialismo o barbarie non è mai stata tanto attuale come oggi. La prima e la seconda parte di questo lavoro - intitolate Sinistre e capitale. Le relazioni pericolose e Popolo, nazione, Stato e socialismo - svolgono, nell'ordine, i due temi contenuti nel titolo generale: la morte del socialismo la prima, la necessità di farlo rinascere la seconda. La struttura del libro è simmetrica: i capitoli iniziali di entrambe le parti ospitano una serie di tesi, rispettivamente dodici e ventidue (ecco perché non c'è un capitolo conclusivo: le tesi sono di fatto conclusioni anticipate). Ho scelto questa formula perché obbliga a esprimere il proprio pensiero in forma apodittica e semplificata. Credo infatti che oggi occorra presentare le proprie idee e i propri giudizi ín forma chiara, netta e inequivocabile, senza nascondersi dietro quei giri di parole, metafore, allusioni e svolazzi accademici tanto amati dalla maggior parte degli intellettuali di sinistra. I secondi capitoli di entrambe le parti (Varianti sul tema 1 e 2) contengono una serie di "faccia a faccia" con il pensiero di autori che hanno esercitato una forte influenza sulle mie attuali posizioni teoriche ( Antonio Gramsci , Ernesto Laclau , Samir Amin , David Harvey , Nancy Fraser , Mario Tronti per citarne solo alcuni), digressioni su argomenti che ritengo di importanza cruciale per comprendere la realtà contemporanea (movimenti populisti, ritorno dello stato, postdemocrazia, Unione Europea, scenari geopolitici, femminismo, questione nazionale ecc.), nonché una serie di "recensioni polemiche" dedicate a lavori che mi hanno irritato. Partendo dalla premessa che, con la sconfitta subita da parte della controrivoluzione liberal liberista iniziata alla fine degli anni Settanta, il movimento operaio non ha perso solo una battaglia, bensì la guerra, le dodici tesi della prima parte descrivono il modo in cui le sinistre hanno svolto il ruolo di becchini dello sconfitto. Da un lato, le socialdemocrazie hanno adottato l'ideologia neoliberale, abbandonando la rappresentanza delle classi subalterne per assumere quella della nuova borghesia transnazionale e dei ceti medi emergenti; dall'altro, i "nuovi movimenti" (femministe, ecologisti, post operaisti e tutto il variegato circo di figli e nipotini del '68), deposte le velleità antagoniste nei confronti del sistema capitalista, si sono concentrati sulle rivendicazioni dei diritti individuali e delle minoranze sessuali, etniche o di altro genere. Nel successivo capitolo si descrivono i diversi rituali con cui si è celebrato il funerale del socialismo: dal matrimonio fra spirito antigerarchico del '68 e nuove culture capitalistiche di impresa, al rifiuto dello stato in quanto tale, rappresentato come fonte e incarnazione di ogni male; dall'alleanza "liberal progressista" fra femminismo emancipazionista e capitalismo "innovativo" (media, showbiz, New Economy ecc.) all'uso del politically correct come arma di dissuasione contro la resistenza popolare nei confronti del pensiero unico. Il tutto condito dai paradigmi sfornati dalla cultura accademica made in Usa, veri strumenti egemonici del soft power americano: gender e cultural studies, postmoderno, postcoloniale, svolta linguistica delle scienze sociali ecc. Senza dimenticare un paradosso: questa ondata di nuovismo, questa esaltazione ultramodernista e ultraprogressista, cerca di accreditarsi come erede delle sinistre storiche usando come foglia di fico le sole idee marxiste che meriterebbero realmente di scendere nella tomba: l'infatuazione per il presunto ruolo emancipatorio del capitalismo, l'esaltazione del progresso tecnologico (lo sviluppo delle forze produttive crea le condizioni per il superamento del capitalismo), l'incessante ricerca di un Soggetto privilegiato portatore d'una genuina coscienza rivoluzionaria. In poche parole: mentre si lascia marcire il cadavere del socialismo, si venerano le sue inutili reliquie. Fin qui, chi ha letto i miei due libri precedenti ( Utopie letali e La variante populista) troverà approfondimenti più che vere novità. Queste arrivano con le ventidue tesi e il successivo capitolo della seconda parte. In questa sezione (che non mancherà di alimentare le consuete accuse di populismo, sovranismo, rossobrunismo, fino all'iperbolico epiteto nazional socialista, tanto sballato da suscitare ilarità), sono infatti presentati i punti di vista più indigesti per gli appena evocati becchini/custodi di reliquie. Viene rilanciata, e arricchita di nuove argomentazioni, la tesi secondo cui il populismo è la forma che la lotta di classe tende ad assumere in una fase storica in cui le tradizionali identità sociali hanno perso consistenza e autoconsapevolezza. Ciò non significa affermare che il "popolo" (entità in sé generica e astratta) diviene il soggetto della rivoluzione, bensì che un movimento politico capace di aggregare un blocco sociale che accorpi diverse rivendicazioni (anche se parzialmente in competizione reciproca), che risultino incompatibili con il sistema capitalista nelle sue forme attuali, può "costruire" un popolo, può costruire cioè un'ampia alleanza di soggetti sociali che gli consenta di conquistare il governo e lanciare un programma di riforme radicali. Riforme perché, nelle attuali condizioni, è impensabile immaginare una transizione diretta al socialismo. Il processo dovrà assumere inizialmente il carattere di una rivoluzione nazional popolare e democratica, di una rivoluzione "cittadina" - neo giacobina - che ricostruisca sia le condizioni di una reale partecipazione popolare e democratica al processo decisionale, sia la possibilità di una ridistribuzione egualitaria del reddito. L'eventuale passaggio a una successiva fase socialista sarà il risultato contingente dei rapporti di forza fra gli strati di classe che compongono il blocco sociale e della lotta egemonica fra le forze politiche che li rappresentano. Lo strumento della trasformazione, e il campo di battaglia su cui si giocherà l'egemonia, non può che essere lo stato-nazione. La fine della grande narrazione globalista è sotto gli occhi di tutti: la politica si ri-nazionalizza e la lotta per il controllo dei mercati riassume l'aspetto dello scontro fra blocchi imperialistici mentre, al tempo stesso, la resistenza e la rivolta dei popoli stremati da decenni di politiche neoliberiste rende sempre più difficile alle élite dominanti gestire i loro business as usual. Per riuscirci devono de-nazionalizzare, de-politicizzare e de-democratizzare la politica come si sono impegnati a fare costruendo quell'infernale strumento di guerra di classe dall'alto che è l'Unione Europea. Il libro insiste sui motivi per cui distruggere questa Europa dovrebbe essere l'obiettivo strategico di qualsiasi forza politica antícapitalista (non prima di aver ricostruito la storia del dibattito sulla questione nazionale interno al movimento operaio otto-novecentesco - tanto per rinfrescare la memoria ai cretini che si proclamano internazionalisti mentre ripetono a pappagallo le litanie del cosmopolitismo borghese ed esaltano un'Europa che incarna le idee dell'ultra liberale e ultrareazionario von Hayek). Ampio spazio viene dedicato al pensiero di Ernesto Laclau e Antonio Gramsci, due autori che aiutano a capire come popolo, nazione e stato non siano i prodotti "naturali" di presunte leggi storiche, ma le tappe di un processo di costruzione politica che può generare esiti diversi a seconda di chi esercita l'egemonia sul processo. Sta a noi concepire il popolo-nazione come un soggetto in marcia verso la democrazia, e lo stato come il prodotto del farsi stato delle classi subalterne. Questi ultimi due punti sono dirimenti ai fini della definizione di cosa possa e debba essere un socialismo del secolo XXI. Liquidare definitivamente í conti con il becero antistatalismo di sinistre radicali e nuovi movimenti non implica ignorare il rischio di degenerazione autoritaria associato a ogni formazione statale. La sfida non va affrontata rilanciando l'utopia di un comunismo consiliare di cui l'esperienza storica ha più volte sancito il fallimento. Il tentativo di realizzare una fusione fra Stato e società civile si è rivelato disastroso sia quando la fusione si è realizzata dall'alto (come nel socialismo reale), sia quando si è sporadicamente tentato di fare il contrario. Ciò che occorre è piuttosto una rigorosa separazione fra il primo e la seconda: alla società civile va garantito il diritto (da costituzionalizzare) di costruire i propri organismi autonomi di rappresentanza, che devono avere la facoltà di opporsi a decisioni statali che ritengono in conflitto con i bisogni e gli interessi popolari. L'altro mito da consegnare all'eterno riposo è quello secondo cui nella società socialista non dovrebbero più esistere conflitti economici, sociali, politici, etnici, culturali, di genere ecc. Questa visione irenica è il sintomo evidente dei residui millenaristici, del profetismo religioso che ispirava il movimento operaio delle origini. I conflitti interumani non spariranno mai (ed è per questo che il mito dell'estinzione dello stato è un'idiozia): il punto è se sapremo fare in modo che essi non assumano più la forma distruttiva che hanno avuto finora. Un'ultima annotazione: nel libro sottolineo in più occasioni come i programmi politici di quelli che definisco populismi di sinistra (da Sanders a Corbyn, da Podemos a Mélenchon) sarebbero stati definiti riformisti e neosocialdemocratici fino a non troppi anni fa (ridistribuzioni egualitarie del reddito, reintegrazione del welfare, ri-pubblicizzazione di trasporti, sanità, educazione, nazionalizzazione di settori strategici e delle banche, ristabilimento del controllo politico sulla banca centrale, programmazione industriale ecc.). Vero, ma, nelle attuali condizioni create da decenni di ristrutturazione neoliberale, questi obiettivi "moderati" assumono un'obiettiva valenza "sovversiva", e comunque sono passi indispensabili per creare le condizioni per un avanzamento verso obiettivi più ambiziosi allo stato non definibili. Concludo con alcune brevi considerazioni sull'Interludio e sull'Appendice. Non si tratta di corpi estranei appiccicati al testo principale per "fare volume", bensì di parti organiche di questo lavoro. L'Interludio è dedicato al pensiero di David Harvey e Nancy Fraser e alla loro analisi sulla natura della crisi capitalistica in corso. Harvey e la Fraser hanno il merito straordinario di smontare il paradigma economicista che prevale nel marxismo, sia in quello classico/ortodosso sia nelle sue attuali forme degenerate. Entrambi rifiutano infatti la tesi secondo cui le crisi sarebbero l'esito esclusivo di contraddizioni "immanenti" al modo di produzione, e spostano l'attenzione sulle contraddizioni antagonistiche che si generano ai confini fra il sistema capitalista e il suo "fuori". Harvey lo fa soprattutto attraverso la categoria di accumulazione per espropriazione, che gli consente di mettere in luce come il capitalismo non possa sopravvivere e riprodursi senza saccheggiare idee, risorse, relazioni sociali, culture, forme di vita esterne alle relazioni formali di mercato; la Fraser lo fa analizzando il complesso rapporto fra produzione e riproduzione sociale, mostrando come l'attuale fase di accumulazione si fondi paradossalmente sulla distruzione delle condizioni che consentono alla forza lavoro di riprodursi autonomamente, per cui il capitalismo sega letteralmente il ramo sul quale è seduto. La loro lezione è fondamentale per comprendere come il conflitto sociale tenda oggi ad assumere la forma capitale contro tutti, più che la forma capitale contro lavoro. Quanto all'Appendice si tratta della versione aggiornata di una sorta di cronaca in tempo reale delle esperienze più interessanti di lotta contro l'egemonia neoliberista che ripropongo in tutti i miei lavori recenti (in questa versione mi occupo, fra le altre esperienze, delle rivoluzioni bolivariane in America Latina, dei casi Sanders e Corbyn negli Stati Uniti e in Inghilterra, di Podemos in Spagna, di Mélenchon in Francia e del M5S in Italia). Lecce, Settembre 2018 | << | < | > | >> |Pagina 19Capitolo primo
Dodici tesi
1. La fine del ciclo postbellico delle rivoluzioni di liberazione nazionale nei Paesi del Terzo Mondo, l'esaurimento del ciclo di lotte del proletariato occidentale alla fine degli anni Settanta del Novecento, il crollo del sistema socialista fra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, sono i tre eventi che hanno impresso un'accelerazione formidabile alla mutazione culturale - già in atto da tempo - delle sinistre, tanto le socialdemocratiche quanto le radicali, le quali oggi cooperano con la cultura liberale nell'offrire legittimazione ideologica al neocapitalismo globale (consapevolmente le prime, perché incapaci di decifrare la realtà storica le seconde). 2. Nell'opera di Marx abbondano gli apprezzamenti per la natura rivoluzionaria del modo di produzione capitalistico, per la formidabile energia con cui esso abbatte ogni ostacolo (geografico, sociale, politico e culturale) alla propria espansione. Sono pagine in cui si avverte un'ammirazione che, da un lato, è frutto delle influenze illuministe, positiviste ed evoluzioniste sul pensiero marxiano, dall'altro, nasce dalla convinzione che l'accelerazione temporale impressa alla storia dal capitalismo prepari e avvicini la transizione al comunismo. Dal momento in cui hanno iniziato a spegnersi le speranze sulla possibilità di superare il capitalismo, l'esaltazione del suo volto modernizzatore ed "emancipatorio" è divenuta un tratto distintivo dell'ideologia di sinistra, a mala pena mascherato da slogan come "un altro mondo è possibile". L'imperativo è essere assolutamente moderni, si sprecano gli elogi del nuovo e si tiene in piedi l'anacronistica contrapposizione destra/sinistra in termini di opposizione conservazione/progresso. La verità è che, mentre il capitalismo di ieri si serviva di forze politiche conservatrici - espressione di interessi e culture di classe residuali - per reprimere le lotte del proletariato, quello odierno affida la propria rappresentanza soprattutto a forze politiche progressiste, se non addirittura "rivoluzionarie" nel senso teorizzato dal fondatore del liberismo moderno von Hayek e messo in pratica da leader come Reagan e Thatcher, nel senso, cioè, di quella "guerra di classe dall'alto" che - a partire dagli anni Settanta del Novecento - ha annientato la resistenza delle classi subalterne. Alle sinistre resta il ruolo di competere con i liberali nel gestire la governance dei processi rivoluzionari promossi dal capitalismo globale. 3. A conferma del fatto che l'identificazione fra sinistra e progresso sul piano storico non regge, basta volgere lo sguardo alle rivoluzioni novecentesche: ognuna di esse ha incarnato il tentativo di opporre una strenua resistenza all'invasione del moderno messa in atto dai barbarici "spiriti animali" del capitalismo. Si potrebbe dire, evocando la famosa frase di Benjamin , che si è trattato di altrettanti tentativi, non di schiacciare l'acceleratore, bensì di tirare il freno a mano della storia, di sabotare il treno del progresso piuttosto che salirci sopra. Non è quindi un caso se i protagonisti di quelle rivoluzioni furono blocchi sociali composti da contadini poveri, piccola borghesia e classi operaie in formazione, tutte classi che tentavano di impedire che relazioni sociali, culture e tradizioni popolari venissero fagocitate dal, e integrate nel, processo di valorizzazione del capitale. "Rivoluzioni conservatrici" tradite da quei partiti comunisti che hanno invece imboccato la via della modernizzazione in competizione con il capitale, finendone travolti. 4. L'integrazione della sinistra nel paradigma progressista-borghese si rispecchia nell'adorazione che essa manifesta nei confronti della tecnologia moderna e delle sue realizzazioni. Il movimento operaio non ha mai saputo cogliere l'elemento demoniaco della tecnica, la sua non neutralità rispetto ai rapporti di forza fra le classi (tutte le rivoluzioni tecnologiche, dall'Ottocento a oggi, si sono risolte in un rafforzamento del dominio/controllo del capitale sulla forza lavoro), per cui concepisce l'apparato produttivo capitalista come un'eredità di cui appropriarsi. L'incapacità di elaborare un pensiero critico sulla tecnica è il prodotto del dogma marxista in base al quale la transizione al socialismo è possibile solo a partire da un certo livello di sviluppo delle forze produttive. La formulazione più sofisticata di tale principio è contenuta nel celebre Frammento sulle macchine, vale a dire in quel passaggio dei Grundrisse in cui Marx ipotizza che lo sviluppo del general intellect - cioè l'insieme delle conoscenze scientifiche e tecnologiche incorporate nell'apparato produttivo - arriverà fatalmente a un livello tale da rendere anacronistica la legge del valore lavoro e le forme giuridico-politiche che ne garantiscono il funzionamento, mettendo all'ordine del giorno il passaggio diretto dal capitalismo al comunismo. Le teorie postoperaiste estremizzano tale concetto sostenendo che il capitalismo cognitivo (cioè il capitalismo basato sulle tecnologie digitali) crea di per sé le condizioni dell'avvento del comunismo, senza che occorra conquistare il potere politico. 5. La teoria operaista è un tentativo sui generis di risolvere una contraddizione di fondo dell'analisi marxista, vale a dire quella per cui, da un lato, si descrive la forza lavoro come una parte interna del capitale, essa stessa capitale, dall'altro, si identifica nella classe operaia il soggetto della rivoluzione comunista. La contraddizione viene "superata" (in realtà rimossa) facendo di tale internità della classe al capitale il presupposto stesso del suo ruolo rivoluzionario, ignorando che, in tal modo, viene neutralizzata qualsiasi possibilità di concepire un "fuori" dal rapporto di produzione capitalistico, mentre è solo al di fuori di tale rapporto che l'antagonismo può esistere e manifestarsi. 6. La rappresentazione della società capitalista come totalità chiusa, capace di assorbire/integrare al proprio interno l'insieme delle relazioni umane, sociali, culturali, politiche e ambientali, non è una caratteristica peculiare dell'operaismo: con rare eccezioni, il marxismo ha sempre teso a ricondurre il processo storico a storia dell'economia, a ridurre la storia al dispiegarsi endogeno dell'economico. Sono rari gli autori che (come Rosa Luxemburg in passato, Davíd Harvey, Nancy Fraser e altri oggi) riconoscono che il mercato capitalistico e l'accumulazione allargata del capitale possono esistere e sopravvivere solo grazie all'esistenza di relazioni sociali non mercificate, e che gli ambiti delle relazioni affettive e familiari, della riproduzione sociale, dei sistemi istituzionali e ambientali conservano gradi più o meno elevati di autonomia nei confronti dei rapporti di produzione. Alcuni arrivano a sostenere che le crisi nascono ai confini fra il sistema economico e gli altri sistemi sociali; tuttavia, pure loro non sempre resistono alla tentazione di ricondurre anche queste contraddizioni intrasistemiche all'ordine olistico del capitale. Ecco perché a sinistra permane la tendenza a concepire il capitale come limite a se stesso, ignorando o sottovalutando i limiti che gli si contrappongono dall'esterno. 7. La mutazione delle sinistre ha seguito percorsi differenti: le socialdemocrazie, di fronte al processo di ristrutturazione capitalistica che ha indebolito numericamente e politicamente la classe operaia, e di fronte al crollo dei Paesi socialisti, hanno consapevolmente scelto di cercare una nuova base elettorale nei ceti medio-alti e di sposare l'ideologia liberista; viceversa la mutazione delle sinistre radicali è l'esito di un processo articolato e complesso che prende avvio dall'onda lunga delle sollevazioni del 1968. Nelle narrazioni della sinistra radicale le rivolte studentesche del '68 vengono accostate alle lotte operaie di quegli anni, al punto che le une e le altre sono presentate come due facce di un fenomeno unitario. È una tesi fuorviante: lo spirito libertario, antiautoritario e antipaternalista dei movimenti studenteschi va piuttosto concepito come una spinta alla modernizzazione dei costumi contro l'egemonia delle vecchie caste sociali, accademiche e politiche, mentre il tempo si è incaricato di dimostrare come la presunta unità fra questi movimenti e le lotte operaie fosse contingente, essendo il prodotto, da un lato, della identificazione astratta ed estetizzante con i miti della rivoluzione comunista e delle lotte anticoloniali, dall'altro, del tentativo di stringere alleanze in grado di sostenere le aspirazioni di mobilità verso l'alto delle classi medie colte (o riflessive come oggi si preferisce chiamarle). I giovani del '68 non potevano immaginare che le loro rivendicazioni di libertà avrebbero preparato la strada allo scatenamento degli spiriti animali del capitalismo, ma tale esito era inscritto nell'elevazione del principio della libera scelta individuale (vietato vietare, ideologia "desiderante", immaginazione al potere ecc.) a valore fondante della cultura di sinistra. Tutto ciò è confermato: 1) dal fatto che - grazie alla capacità del capitale di cooptare valori e idee che vengono dal proprio esterno, anche quelle che gli sono ostili - la critica sessantottina dell'autoritarismo ha ispirato i nuovi modelli manageriali di gestione della forza lavoro; 2) dal fatto che la pur giustificata critica del socialismo reale, nella misura in cui si è concentrata sul verticismo delle istituzioni mentre ha ignorato bisogni e interessi delle masse proletarie dell'Est Europa, ha aperto la strada all'accettazione del sistema liberale come l'unico possibile. 8. Gli eredi del '68 - No global, ecopacifisti, Onda, Girotondi, "benecomunisti" - ne conservano e amplificano il "partecipazionismo", la preferenza per le strutture organizzative "leggere" associata al rifiuto della forma partito, l'antistatalismo, cui aggiungono il culto della Rete come modello di democrazia di base. Un elenco che può essere condensato nel concetto di orizzontalismo, e che consente di assimilare tali culture "alternative" alla visione liberale che descrive la società come rete di relazioni individuali mediate dal mercato. Questa visione che era entrata in crisi dopo il 1929, e in misura ancora maggiore nel "trentennio glorioso" successivo alla Seconda guerra mondiale, un'epoca contrassegnata dalla rivincita delle istituzioni verticali dello Stato e del potere politico, le quali avevano rivendicato il controllo sulle finte merci (lavoro, terra, danaro) e gestito il compromesso capitale-lavoro. La svolta neo-orizzontalista imposta dalla rivoluzione liberale degli anni Ottanta ha trovato una sponda involontaria nella cultura dei "nuovi movimenti" che, abbandonato il riferimento all'alternativa socialista, si sono concentrati sulla promozione dei diritti individuali e sulle rivendicazioni di una "società civile" che non vuole conquistare il potere politico ma solo limitarne l'invadenza. 9. Le mutazioni ideologiche fin qui descritte trovano riscontro - pur senza voler instaurare fra i due fenomeni una relazione causale diretta - nelle mutazioni della composizione di classe avvenute dalla fine degli anni Settanta a oggi. Mi riferisco, in particolare, alle mutazioni che interessano le classi medie. Nei movimenti del '68 erano già evidenti gli effetti della relazione fra aumento dei livelli medi di istruzione e aspettative di mobilità sociale. Nei decenni successivi il fenomeno si intensifica attraversando tre fasi evolutive. La prima appare caratterizzata dal rifiuto del lavoro dipendente in quanto alienante e sottoposto a vincoli gerarchici: è la fase che crea le condizioni per l'affermazione del mito del lavoro autonomo concepito come autoimprenditoria e per l'accettazione del mercato che, ove liberato da vincoli monopolistici e parassitari, si immagina possa promuovere il merito individuale. Sfumano le differenze fra la mobilità del lavoro come scelta e come imposizione padronale, si accetta lo smantellamento del welfare in quanto istituzione autoritaria e burocratica mentre si celebrano il terzo settore e il volontariato, funzionali all'avvento di un capitalismo "compassionevole". Agli occhi dei ceti medi riflessivi l'opposizione destra/sinistra si presenta solo ormai come opposizione fra altruismo ed egoismo, interesse generale e interessi particolari, orientamento verso il progresso e il futuro e orientamento verso la conservazione e il passato. Questa sinistra fatta di dipendenti garantiti, ceti medi istruiti, professionisti dell'arte, dello spettacolo e dell'informazione, si allontana progressivamente dalle classi subordinate, di cui ignora problemi e bisogni. Nella seconda fase, che coincide con gli anni della rivoluzione digitale, fra i Novanta e i primi del Duemila, la composizione cambia in relazione alla crescita delle nuove professioni legate all'informatica (variamente definite come classe creativa, classe hacker, lavoratori della conoscenza), strato sociale in cui le sinistre postoperaiste presumono di riconoscere il Soggetto di una rivoluzione guidata dall'alto, da uno strato di esperti capaci di assumere il controllo di un processo produttivo sempre più immateriale e fondato sulla cooperazione spontanea dei lavoratori della conoscenza. La terza fase, segnata dall'esplosione delle bolle dei titoli tecnologici prima e del mercato immobiliare poi, spazza via le illusioni, mordendo nel vivo di redditi, opportunità di carriera e condizioni di vita e di lavoro e spaccando in due questo strato: in alto la minoranza cooptata nei centri di comando delle imprese digitali, che sviluppano le tecnologie di controllo su lavoratori, consumatori, risparmiatori e cittadini, in basso la massa degli "oppressori falliti che si ritrovano nella condizione di oppressi", costretti a prendere atto che la sovrapproduzione di competenze elevate, laddove le corrispondenti mansioni lavorative appaiono sempre più scarse, li condanna alla mobilità discendente, precipitandoli in un terziario di tipo nuovo (operatori di call center, fattorini e taxisti freelance ecc. sottoposti al controllo delle app sviluppate dagli strati superiori). 10. Le analisi precedenti in merito alla mutazione delle sinistre si adattano perfettamente al movimento femminista, ma l'impatto sociale, culturale e politico di quest'ultimo è stato di proporzioni tali da meritare una trattazione specifica. Occorre distinguere tre fasi. Al femminismo anticapitalista degli anni Sessanta/Settanta si deve un contributo fondamentale all'analisi del ruolo del processo riproduttivo nella dinamica del sistema capitalista. Al tempo stesso la sua narrazione eredita dal marxismo classico l'ossessione di identificare un Soggetto unico (con le donne al posto della classe operaia) la cui emancipazione dovrebbe coincidere con il superamento, ad un tempo, del capitalismo e del patriarcato, e dunque con l'emancipazione dell'intera umanità. Nella fase successiva - quella del cosiddetto "femminismo della differenza" - il movimento risente del drastico ridimensionamento dei rapporti di forza delle classi subalterne: accentua la propria natura di classe (caratterizzata dalla prevalenza dei ceti medi istruiti) e sposta l'interesse verso obiettivi di riconoscimento identitario. Pratiche (l'autocoscienza) e slogan (il personale è politico) già presenti nella prima fase assumono maggior peso, assimilando la cultura femminista a quella dei nuovi movimenti, impegnati nella esclusiva rivendicazione di diritti individuali e civili (per inciso, le politiche di "redistribuzione identitaria" si affermano proprio nel momento in cui il capitale si appresta a spazzare via le politiche di redistribuzione del reddito). Infine nella terza fase - tuttora in atto - il movimento assume dimensioni di massa e, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, si fonda su un'ideologia puramente emancipatoria (parità assoluta fra uomo e donna nella società, nel lavoro e nella politica). Ideologia che lo converte, ad eccezione di minoranze che tentano di orientare le lotte in senso anticapitalista, in una leva funzionale all'egemonia liberale. È la fase che Nancy Fraser definisce in termini di alleanza fra movimento femminista (assieme ai movimenti delle minoranze sessuali riuniti sotto la sigla LGBQT) e settori di business di alta fascia simbolica (media, industria culturale, industria digitale ecc.). Da un lato, ciò garantisce al movimento massiccio sostegno da parte delle élite politiche ed economiche, dall'altro lo pone, al pari delle sinistre "clintoniane", in una relazione antagonista con i bisogni e gli interessi delle classi subalterne. 11. Anche l'evoluzione ideologica del femminismo può essere messa in relazione con le trasformazioni strutturali della società capitalista. Mi riferisco, in particolare, al processo di femminilizzazione del lavoro: negli ultimi decenni una massa enorme di lavoro femminile è stata integrata nel processo produttivo, il che ha consentito al capitalismo di condurre una gigantesca operazione di dumping sociale nei confronti della forza lavoro maschile. Il femminismo emancipazionista legge i differenziali retributivi fra generi come una prova del permanere del dominio patriarcale, ma queste sperequazioni servono piuttosto a mantenere una forte pressione concorrenziale sulla mano d'opera maschile. Quanto al patriarcato, esso appare al contrario incompatibile con il nuovo regime di accumulazione, sia perché le caratteristiche femminili vengono valorizzate ed esaltate dalle nuove attività lavorative, le quali richiedono in misura crescente empatia e competenze comunicative, sia perché la cultura patriarcale rappresenta un ostacolo al dominio integrale di una forma merce che ingloba sempre più la sfera della riproduzione. Il lavoratore ideale, per il neocapitalismo, è un essere androgino dal quale occorre estirpare la consapevolezza della propria identità e appartenenza sessuali. La gender theory nata nelle università americane è una delle armi ideologiche in grado di realizzare tale obiettivo, nella misura in cui nega l'esistenza di fondamenti "ontologici" della differenza sessuale e riduce quest'ultima a una libera scelta individuale, sempre reversibile. Nel contempo il femminismo emancipazionista/líberale sposa un'ideologia individualista/meritocratica focalizzata sul "farsi avanti", nella quale aspirazioni tradizionalmente maschili - carrierismo, avidità di denaro e fama ecc. - prevalgono sugli ideali "femminili", rinnegati in quanto frenano l'ambizione personale. A mano a mano che una ristretta élite di donne (ma anche di gay, lesbiche e altre minoranze sessuali) riesce ad accedere ai vertici delle gerarchie sociali, tende a scomparire ogni consapevolezza dell'esistenza di differenze di classe all'interno del mondo femminile, si consolida il mito della "sorellanza", della relazione di solidarietà che si presume leghi fra loro le donne in quanto tali. Un mito il cui carattere mistificatorio viene impietosamente smascherato dalla realtà: una manager aziendale può definirsi femminista anche se la sua impresa sfrutta ignobilmente donne e bambini nel Terzo Mondo, per tacere dell'ipocrisia che regna nelle relazioni fra donne in carriera e forza lavoro femminile immigrata cui viene demandato il lavoro di cura (le femministe latinoamericane chiamano ironicamente femminismo señorial quello delle appartenenti alle classi medie che sfruttano le loro "sorelle"). 12. La neolingua del politicamente corretto rappresenta il più evidente punto di convergenza fra cultura liberale, cultura socialdemocratica e cultura delle sinistre radicali. Al tempo stesso, rappresenta il più clamoroso sintomo dell'egemonia culturale - del soft power - che gli Stati Uniti esercitano sull'intero mondo occidentale. Si tratta infatti di un fenomeno nato nell'ambiente accademico statunitense, nei dipartimenti umanistici che si occupano di teorie postcoloniali, gender theory, linguistica e affini e nei confronti del quale le élite mediatiche (americane prima ed europee poi) hanno svolto il ruolo di cassa di risonanza. Il politicamente corretto trova legittimazione scientifica nella svolta linguistica delle scienze sociali, alimentando la credenza secondo cui l'atto del denotare - le narrazioni - non rispecchia ma letteralmente crea la realtà. Questa tesi può anche essere definita come una distorta interpretazione del concetto gramsciano di egemonia, ma coglie un nodo reale: il potere performativo del linguaggio, se non crea né modifica le relazioni sociali, certamente ne influenza la percezione, ma soprattutto rende difficile la contestazione delle idee politicamente corrette, mettendo in atto un dispositivo che alcuni hanno definito spirale del silenzio: si esita a criticare i "regimi di verità" egemoni per paura di essere sanzionati socialmente e di essere categorizzati come fascisti, razzisti, sessisti, nazionalisti, populisti, conservatori ecc. L'elenco delle idee e delle parole - nonché di individui e gruppi sociali che ne fanno uso - marchiate come intollerabili è estensibile a piacere in base agli obiettivi del momento. La gender theory esprime la propria vocazione "ibridista" e il proprio orrore nei confronti di tutte le forme di appartenenza identitaria (nazionale, etnica, di genere ecc.) bollando come sessisti e razzisti tutti coloro che le accettano. Le correnti femministe che coltivano la fede nella superiorità morale del mondo femminile tendono a "disumanizzare" il mondo maschile (in particolare i maschi bianchi ed eterosessuali). Chi si oppone al liberalismo, nella misura in cui tale ideologia si proclama contraria a qualsiasi limitazione della libertà individuale da parte di comunità sociali e istituzioni politiche, è per definizione reazionario. Lo stesso capita a chi rivendica la sovranità nazionale del proprio Paese: le élite politiche ed economiche che governano la società capitalista globalizzata rivendicano la superiorità delle idee cosmopolite e multiculturaliste nei confronti del rozzo localismo delle classi subalterne. I proletari che votano per Trump, per la Brexit, per la Lega e il M5S, e in generale per le forze politiche "sovraniste", non sono lavoratori ma feccia reazionaria, "sdentati" (Hollande), "popolo demente" (Bifo). Vengono presentati come classi pericolose pronte a sostenere forze politiche neofasciste. Attraverso la neolingua politicamente corretta imposta dal liberalismo cosmopolita e autoritario si intravede l'immagine d'un futuro "liberato" dalle identità nazionali come da quelle di classe, genere ed etnia, un futuro postnazionale e postdemocratico che Antonio Negri e Michael Hardt rappresentano ed esaltano in Impero. | << | < | > | >> |Pagina 90Interludio. Sulla crisi
1. David Harvey
L'importanza del contributo di David Harvey alla comprensione delle crisi consiste nel fatto che questo autore - al pari di Samir Amin, Giovanni Arrighi e altri - non considera il capitalismo come una macchina astratta, che funziona in base a una serie di leggi oggettive che prescindono dai soggetti concreti che animano il corso della storia, bensì come un processo evolutivo che aggiusta ininterrottamente le proprie logiche in base alle interazioni con gli altri processi evolutivi che avvengono sul pianeta. Per Harvey, se si vuole capire il capitalismo e le sue crisi, non bisogna dunque studiare l'economia, ma piuttosto la storia dell'economia nella sua relazione con altre storie che - analogamente a quanto sosteneva Karl Polanyi - non sono sovradeterminate dalla sfera economica ma godono di ampi margini di autonomia e indipendenza. Sulla base di tale approccio Harvey elenca sette distinte sfere di attività che intersecano il percorso evolutivo del capitalismo: tecnologie e forme organizzative; rapporti sociali; ordinamenti istituzionali; processi lavorativi; rapporti con la natura; riproduzione della vita quotidiana; concezioni mentali del mondo (cioè strutture cognitive, consuetudini e credenze culturali). Nessuna di queste sfere, argomenta Harvey, domina sulle altre o è del tutto indipendente da esse: tutte evolvono autonomamente in un rapporto reciproco di interazione dinamica. Da tale assunto deduce che, dal momento che tali interazioni possono essere conflittuali, la dinamica delle crisi può e deve essere descritta a partire dalle tensioni che sorgono fra le sette sfere di attività appena descritte (l'innovazione tecnologica può mettere in crisi organizzazione del lavoro e relazioni sociali ecc.). Se questo è vero, occorre riconoscere che prevedere quale direzione imboccherà l'evoluzione dell'ordine sociale destabilizzato dalla crisi è assai difficile, perché non siamo di fronte a un processo deterministico bensì a un processo che incorpora alti livelli di contingenza (o, per dirla con Lukacs: la storia è conoscibile solo post festum). | << | < | > | >> |Pagina 992. Nancy FraserDescrivendo le critiche di Nancy Fraser al femminismo mainstream, e più in generale a quello che definisce il neoliberismo progressista, anticipavo che considero di grande rilievo il suo contributo alla teoria marxista contemporanea. In questo Interludio torno a occuparmene in relazione all'analisi del meccanismo delle crisi capitalistiche. A tale scopo mi concentrerò su Capitalism, una lunga conversazione fra lei e la sociologa svizzera Rahel Jaeggi, non perché non esistano altri suoi testi fondamentali sul tema, ma perché ritengo che in questo lavoro le sue tesi siano esposte con particolare semplicità, efficacia e chiarezza. Trattandosi d'un testo non ancora disponibile in italiano, non troverete qui citazioni letterali: ho preferito sintetizzarne il pensiero senza tradurre interi brani (ovviamente mi assumo l'intera responsabilità delle mie interpretazioni). Anche in queste pagine viene ripresa la critica al neoliberismo progressista: sia Fraser che Jaeggi affermano infatti in più occasioni che le critiche "culturali" al capitalismo (termine con il quale si riferiscono soprattutto al pensiero poststrutturalista e alle sue articolazioni disciplinari: gender studies, studi postcoloniali ecc.) hanno il limite di non assumere il capitalismo come una forma di vita che affonda le proprie radici in un modo di produrre, ma tendono invece a separare questi due ordini fenomenici, concentrandosi sul primo e rimuovendone le relazioni con l'economia politica. Pur giustificando tale scelta come un passo storicamente necessario per emancipare il marxismo dal tradizionale economicismo ed esplorare altri temi, come il genere, la razza, il sesso e l'identità, Fraser rivendica con forza la necessità di riequilibrare la relazione: classe e status, ridistribuzione e riconoscimento, economia e politica vanno assunti come un tutto, per capire il capitalismo e le sue crisi non basta ritornare semplicemente all'economia politica, bisogna costruire una teoria generale delle crisi che non trascuri nessuno di questi elementi. È agevole dedurne che ci troviamo di fronte a un punto di vista che accosta il pensiero della Fraser a quello di autori come Karl Polanyi, Rosa Luxemburg e lo stesso David Harvey; che la colloca, cioè, nel novero dei teorici che ritengono che la chiave interpretativa del fenomeno delle crisi non vada ricercata nelle dinamiche immanenti (nelle contraddizioni interne, come amano affermare i marxisti dogmatici) al modo di produrre, bensì nelle sue relazioni antagonistiche con altre sfere dell'attività umana. Al pari di Polanyi, ma anche di Luxemburg, Nancy Fraser è convinta che l'egemonia del mercato nella sua forma specificamente capitalistica (che estende lo statuto di merce al lavoro e alla terra) è un'anomalia assoluta rispetto a tutte le formazioni sociali che l'hanno preceduta (e che, si spera, la seguiranno); è inoltre convinta che i mercati capitalistici non sono istituzioni autonome e autosufficienti, ma possono esistere e riprodursi esclusivamente grazie all'esistenza di relazioni sociali non mercificate, sulle quali si fondano le loro stesse condizioni di possibilità. Per meglio spiegare questa tesi, Fraser ci ricorda che mercato capitalistico e mercato in generale non sono esattamente la stessa cosa: occorre distinguere fra funzione distributiva e funzione allocativa dei mercati, la prima esisteva anche prima del capitalismo, e potrebbe convivere anche con una società socialista; la seconda, viceversa, è specifica del modo capitalistico di produzione. | << | < | > | >> |Pagina 107Capitolo primo
Ventidue tesi
1. Il populismo non è un'ideologia: in primo luogo perché non esistono testi "fondativi" (paragonabili a quelli di Marx per la sinistra) in grado di attribuire forma coerente e unitaria al discorso populista, poi perché quest'ultimo non è associato a contenuti programmatici univoci. Di più: il fenomeno ha assunto nel tempo forme diversissime, dai populismi russo e americano di fine Ottocento-primo Novecento (entrambi caratterizzati da radici di classe contadine, ma diversi sul piano ideologico) ai populismi latinoamericani di ieri (Peron, Vargas e altri) e oggi (le rivoluzioni bolivariane in Bolivia, Ecuador e Venezuela) con prevalenti connotati nazionalisti i primi, orientati al socialismo i secondi, per finire con i populismi contemporanei di destra e sinistra negli Stati Uniti (Trump vs Sanders) e in Europa (Le Pen vs Mélenchon in Francia, Podemos vs Ciudadanos in Spagna). Esistono tuttavia elementi comuni, a partire dallo stile comunicativo. Mi riferisco, in particolare, all'uso di un linguaggio semplificato e diretto, marcato da un elevato contenuto emotivo (ciò che si dice parlare alla "pancia" delle persone) e teso a istituire opposizioni bipolari (noi/loro, popolo/élite, alto/basso ecc.). Per i populisti è inoltre fondamentale raccontarsi come una forza politica del tutto nuova, evitando di ricorrere a parole, idee e categorie proprie dei partiti tradizionali (di destra come di sinistra) e tentando invece di promuovere nuovi significanti in grado di creare un inedito senso comune (di qui il frequente riferimento alla categoria gramsciana di egemonia da parte di intellettuali e leader populisti di sinistra). 2. Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un'entità "naturale", preesistente all'insorgenza del loro discorso politico (a differenza del popolo evocato dal nazifascismo, che rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico, storico-culturale ecc.). Si tratta al contrario d'una costruzione politica resa possibile dalla crisi catastrofica di un sistema di potere consolidato. Il "momento populista" sorge quando una determinata formazione egemonica (come il sistema liberaldemocratico) non è più in grado di far fronte alla proliferazione di domande sociali che restano insoddisfatte. L'accumularsi di istanze cui il sistema non riesce più a rispondere in modo differenziale fa sì che, fra tutte queste richieste inascoltate, si stabilisca una relazione di equivalenza trasversale che tende ad accomunarle. È appunto questa relazione a generare le condizioni per l'emergenza di un popolo, che altro non è se non l'insieme dei soggetti associati da una relazione antagonista nei confronti dell'oligarchia che concentra nelle proprie mani il potere economico, politico e mediatico. In altre parole, si potrebbe dire che è solo attraverso la relazione con un sistema di potere vissuto come nemico che si costituisce l'identità di un popolo. L'unità politica del popolo, in quanto insieme eterogeneo di settori che vivono una contraddizione antagonistica con il potere, non è a sua volta un dato: è essa stessa il prodotto di un progetto di costruzione politica. Il "colore" di tale progetto dipende da quale delle domande insoddisfatte riesce a imporsi come egemone, cioè ad assumere il ruolo di incarnare/rappresentare la totalità delle altre. Muta, per esempio, in relazione al prevalere della domanda di sicurezza (per esempio protezione dai flussi migratori) o della domanda di uguaglianza e giustizia sociali ed economiche (protezione dagli effetti del processo di globalizzazione). Il peso relativo che il programma di una formazione populista attribuisce a tali domande è uno dei fattori che consente di distinguere fra populismi di destra e di sinistra. 3. Le sinistre tradizionali (socialdemocratiche e radicali) negano a priori che possano esistere populismi di sinistra, al punto che fanno un uso spregiativo dell'aggettivo populista come sinonimo di reazionario (o addirittura fascista). C'è chi ha giustamente commentato che populista è l'aggettivo cui la sinistra ricorre per designare il popolo quando quest'ultimo smette di accordarle fiducia. Dopodiché esistono molti criteri per distinguere fra populismi di destra e sinistra: i primi rappresentano il popolo come insieme della "gente comune", i secondi come insieme degli strati inferiori della popolazione; i primi si propongono di "sanare" l'ordine politico strappandone il controllo alla "casta", senza metterne in discussione le strutture sociali e istituzionali, i secondi rivendicano obiettivi anticapitalisti più o meno espliciti e radicali e si propongono di democratizzare lo Stato. Non si può tuttavia negare che esistano zone grigie in cui le visioni si sovrappongono: dall'opposizione fra localismo e cosmopolitismo a quella fra valori comunitari e individualismo borghese, all'atteggiamento critico nei confronti dell'esaltazione del nuovo e della modernità. 4. Anche se e quando riconoscono l'esistenza di populismi di sinistra, le sinistre tradizionali ne contestano la rappresentazione del popolo come totalità che prescinde dalle divisioni di classe (vedi la critica all'ingenuo slogan del movimento Occupy Wall Street, che contrappone l'1% dei super ricchi al 99% di tutti gli altri). Qui entra in gioco un nodo cruciale, che occorre sciogliere se si vuole cogliere l'essenza del fenomeno populista come forma della lotta di classe nell'era del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Le ambiguità ideologiche del populismo sono inevitabili nella misura in cui esprimono ampie alleanze fra classi sociali, a loro volta incerte sulla propria identità, nonché prive di autonomia politica e autocoscienza. La grande narrazione marxista si è sempre fondata sulla ricerca di un soggetto rivoluzionario privilegiato. Tale ricerca suona anacronistica in un'epoca in cui ristrutturazione capitalistica, delocalizzazioni produttive, globalizzazione e finanziarizzazione dell'economia, annientamento delle rappresentanze tradizionali degli interessi proletari hanno causato una stratificazione delle classi subalterne, fino a ridurle ad amorfo insieme di individui. In tale contesto la classica contraddizione fra capitale e lavoro sembra lasciare il campo alla contraddizione capitale contro tutti. In effetti, è questa la filosofia che ispira la categoria postoperaista di "moltitudine", fondata sulla tesi che il capitalismo contemporaneo mette al lavoro la vita stessa. Ma tale visione ha il difetto di riproporre la logica della definizione di un Soggetto salvifico della rivoluzione: la si potrebbe descrivere come il tentativo di estendere l'identità operaia all'umanità intera. La logica gramsciana della costruzione di un blocco sociale articolato su differenti classi, gruppi e identità collettive appare assai più realistica. Nella versione del populismo di sinistra tale logica assume una coloritura "plebea", nella misura in cui l'analisi della composizione di classe viene di fatto ricondotta alla distinzione fra tre grandi "stati" post-moderni: oligarchi, classe media e un gigantesco terzo Stato composto da tutti i perdenti della globalizzazione. Di conseguenza, l'obiettivo diventa costruire il blocco sociale fra terzo Stato e classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (per esempio, piccoli-medi imprenditori). Per concludere: costruire l'unità popolare significa organizzare il potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del movimento operaio non funzionano più. 5. Un altro aspetto del populismo che irrita le sinistre è l'impossibilità di fare a meno della figura di un leader carismatico. Queste forze presentano un contraddittorio miscuglio di democraticismo (contingentamento dei tempi di intervento nelle assemblee, reversibilità delle cariche, vincolo di mandato per gli eletti a cariche istituzionali, esaltazione della Rete come canale di partecipazione democratica ecc.) e centralizzazione del ruolo di direzione politica che, quasi sempre, si concentra nelle mani di un leader e del "cerchio magico" dei suoi più stretti collaboratori e consiglieri. Premesso che l'esaltazione del leader è un elemento ricorrente anche nella storia del movimento operaio, alcuni suggeriscono che sia possibile distinguere fra populismo di destra e di sinistra proprio a partire dalla rappresentazione del leader, il quale è, per il primo, un uomo dotato di virtù eccezionali che si eleva al di sopra della massa, per il secondo un uomo dotato di qualità non comuni ma non diverso dall'uomo comune, un primus inter pares. Non credo però che il vero problema sia questo. Il punto è che tanto l'esaltazione del leader quanto quella della democrazia diretta e partecipativa rispecchiano la natura di forze politiche the sono partiti-movimenti scarsamente istituzionalizzati. È possibile che questa struttura rifletta una fase sperimentale e transitoria nel percorso di ricerca di soluzioni organizzative e istituzionali alla crisi della democrazia rappresentativa. Che le istituzioni liberali si siano trasformate in regimi postdemocratici, svuotando di senso qualsiasi reale possibilità dei cittadini di condizionare le scelte del potere, è un dato di fatto. Tale evoluzione può essere descritta come una sorta di divorzio fra tradizione liberale e tradizione democratica (a sua volta riflesso del divorzio fra democrazia e mercato). L'articolazione fra la prima (fondata sul governo delle leggi, sulla libertà individuale e sui diritti umani) e la seconda (fondata sulla sovranità popolare e sui principi di uguaglianza e di parità fra governanti e governati) si sta rivelando come il prodotto contingente di una fase storica in via di esaurimento. Se le cose stanno così, è evidente che il populismo, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, rappresenta l'unico concreto tentativo di reintrodurre l'elemento democratico negli attuali sistemi rappresentativi. 6. Che la globalizzazione sia l'esito di una tendenza di sviluppo "oggettiva" del modo di produzione capitalistico (oltre che portatrice di benefici per tutti) è una mistificazione alimentata dalla narrazione liberai-liberista, nonché fatta propria da una sinistra intrisa di progressismo, la quale pensa che ogni balzo evolutivo del capitale, pur comportando spiacevoli "effetti collaterali", avvicini l'avvento di un mondo migliore. Accettare questa narrazione significa non saper distinguere fra internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali - processo da sempre associato al capitale - e globalizzazione come strategia di quella "guerra di classe dall'alto" che il capitalismo ha avviato a partire dalla crisi degli anni Settanta del secolo scorso. Il centro di irradiazione del cosiddetto processo di globalizzazione è stato, non a caso, la potenza egemone degli Stati Uniti che, attraverso la deregulation dei flussi di capitale e di merci, ha messo in atto un progetto di "mercatizzazione del mondo", in base al principio secondo cui chi domina i mercati domina il mondo. Il braccio armato di tale progetto sono le grandi imprese transnazionali (in larga maggioranza americane), in ragione della loro capacità di muovere capitali, merci e persone inseguendo le condizioni più favorevoli offerte da mercati del lavoro, politiche fiscali e sistemi giuridici locali. Ma pensare che ciò comporti la fine dello Stato-nazione è un'idiozia. In primo luogo, le multinazionali non avrebbero potuto espandersi senza il sostegno e l'aiuto dei rispettivi Stati di origine; inoltre, se è vero che sono abbastanza potenti per condizionare le scelte della politica (in misura inversamente proporzionale alla forza degli Stati in cui operano), è altrettanto vero che gli Stati al centro del sistema mondo le utilizzano a loro volta per pompare valore dai Paesi periferici. In conclusione: la globalizzazione è un processo politico non meno che economico, sostenuto e accompagnato dagli Stati più potenti (Stati Uniti su tutti) che se ne servono per ristrutturare l'ordine mondiale con la complicità delle élite nazionali subordinate. 7. Quanto asserito nella tesi 6 può essere formulato anche così: l'obiettivo della globalizzazione come progetto politico non è liberare il capitale dal giogo degli Stati, bensì da quello della democrazia. Il neoliberismo non vuole distruggere lo Stato, al contrario vuole costruire uno Stato forte ma non democratico. La battaglia ideologica contro il nazionalismo va di pari passo con quella contro il socialismo e ha l'obiettivo strategico di spezzare il legame fra Stato e democrazia. L'unica forma di democrazia accettabile dal capitalismo globale è quella rispettosa del mercato, vale a dire la democrazia puramente formale garantita dallo Stato liberale. Il nazionalismo di destra cede il passo al cosmopolitismo liberale e allo pseudo internazionalismo di sinistra quali ideologie ufficiali del sistema. 8. Eventi come l'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, la Brexit inglese, i successi elettorali dei populismi di destra e sinistra in vari Paesi del mondo e il ritorno di politiche protezioniste non sono tanto l'esito della controffensiva di settori capitalistici arretrati che tentano di rianimare l'ideologia nazionalista, quanto sintomi del fatto che la macelleria sociale innescata dai processi di globalizzazione ha delegittimato la narrazione globalista che ha a lungo alimentato le speranze di milioni di esseri umani in un futuro migliore. "Trump non è il boia del globalismo ma il medico legale che ne certifica il decesso". La crisi della globalizzazione era già in atto prima degli eventi in questione, come certifica il calo degli scambi commerciali che ha anticipato la, più che fatto seguito alla, reintroduzione dei dazi, oltre al riaccendersi del conflitto imperialista fra grandi potenze per la spartizione del mercato mondiale. Tuttavia le cause principali sono sociali e politiche, a partire dalla resistenza crescente delle larghe masse dei perdenti nel gioco della globalizzazione nei confronti delle politiche liberiste. 9. La crisi della globalizzazione ha colto di sorpresa e gettato nel panico le sinistre convertite al cosmopolitismo le quali, non disponendo - al contrario dei liberali - di soluzioni politiche di ricambio, reagiscono, se va bene, etichettando come reazionarie, se non fasciste, le idee "sovraniste" (aggettivo che, al pari di populista, viene usato con significato spregiativo, senza distinguere fra le differenti modalità di impostare la questione della sovranità nazionale); se va male, confluendo, con il plauso dei media mainstream, assieme a liberali e socialdemocratici, in un fronte antipopulista e antinazionalista. Parole come patria e nazione suscitano rabbia e incutono terrore negli eredi di quella cultura politica che, fino agli anni Settanta del secolo scorso, era ancora consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni socialiste sono state anche, talvolta soprattutto, rivoluzioni nazional-popolari, che ancora masticava gli insegnamenti di Marx e Lenin sulla questione nazionale, e che leggeva con passione le opere di autori come Frantz Fanon e Samir Amin sul tema. Nei decenni successivi, le sinistre hanno viceversa adottato un internazionalismo astratto che ha finito per somigliare sempre più all'ideale cosmopolita di un mondo pacificato e unificato dagli scambi economici. Questa ideologia da cittadini d'un mondo senza frontiere rispecchia valori e interessi del ceto medio riflessivo e delle sue aspirazioni di mobilità fisica e sociale, un ceto che ignora interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale che vive inchiodata al luogo di nascita. Per "salvarsi l'anima", e dimostrare che conservano attenzione nei confronti degli ultimi, costoro sbandierano la propria solidarietà nei confronti dei migranti e difendono una politica no border di accoglienza illimitata. Tale atteggiamento rimuove: 1) il fatto che il principio di libera circolazione delle persone serve a nascondere che tale circolazione non è affatto libera, ma il prodotto di coazione economica e politica; 2) il fatto - ampiamente riconosciuto e analizzato da Marx - che l'immigrazione fa comodo in primo luogo al grande capitale, che può così attingere a un ampio bacino di mano d'opera a basso costo e priva di ogni potere contrattuale; 3) il fatto che il fenomeno accelera e favorisce il processo di smantellamento del welfare, fondato sull'esistenza di una comunità nazionale socialmente e culturalmente sufficientemente omogenea. Se poi i proletari autoctoni reagiscono all'impatto del fenomeno sui quartieri popolari, e ai suoi effetti di dumping sociale, votando per i movimenti populisti, vengono derisi (si nega l'esistenza stessa del problema, declassato a effetto di propaganda e manipolazione ideologica) e accusati di razzismo. 10. La difesa della sovranità nazionale è necessariamente di destra? La risposta negativa è implicita nelle tesi precedenti, ma vale la pena di aggiungere ulteriori considerazioni. In primo luogo, è evidente che esistono due idee di nazione: la prima "naturalistica", la quale presume che la nazione esistesse ben prima della nascita degli Stati moderni e delle rivoluzioni borghesi, perché affonda le radici in fattori fisici, climatici, di sangue e suolo ecc.; la seconda è invece consapevole che la nazione (al pari del popolo) è un prodotto storico della vita politica. Per questa seconda visione la patria non è comunità immaginata bensì res publica, una società concreta di uomini e donne che lottano per l'autogoverno dei cittadini, l'indipendenza nazionale e la sovranità popolare. È il punto di vista che oggi sostengono i movimenti populisti/socialisti (da Sanders a Podemos, a Mélenchon) e che in passato sostennero autorevoli esponenti della Terza Internazionale come Karl Radek (assassinato da Statiti nel 1937), il quale invitava il Partito comunista tedesco ad assumere la guida della resistenza del popolo tedesco alle condizioni neocoloniali che gli erano state imposte dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, argomentando che, in caso contrario, sarebbero stati i nazisti ad assumersi il compito e a conquistare il potere (com'è puntualmente avvenuto). È, infine, il punto di vista che afferma che l'internazionalismo può esistere solo come rapporto di solidarietà fra nazioni indipendenti e sovrane, come cooperazione fra uguali. 11. Il rapporto fra nazioni del centro e nazioni semiperiferiche e periferiche incorpora una relazione di dominio e sfruttamento fra classi straniere e locali. Sia Marx che Lenin avevano ben presente il fatto che il saccheggio perpetrato dai Paesi occidentali ai danni del resto del mondo era la causa fondamentale dell'imborghesimento del proletariato delle nazioni industrialmente avanzate. Autori come Fanon, Amin, Wallerstein e altri hanno arricchito la teoria marxista dimostrando come le nazioni periferiche non ospitino economie precapitaliste, ma siano pienamente integrate in un sistema capitalistico mondiale nel quale la loro arretratezza è condizione necessaria per la crescita e lo sviluppo delle nazioni del centro. Questa verità non vale oggi solo per quei Paesi ex coloniali che stanno rapidamente ricadendo sotto il dominio delle potenze imperialiste occidentali (e di altre potenze emergenti), vale anche per la relazione fra Paesi del Nord e del Sud Europa e in alcuni casi - come quello italiano - vale per il rapporto fra Nord e Sud all'interno di un singolo Paese. Ecco perché la riconquista della sovranità nazionale è l'unica strada percorribile per riottenere il controllo collettivo sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone. 12. L'obiezione più ricorrente al sovranismo di sinistra consiste nell'affermare che, nel contesto dell'attuale sistema capitalistico globalizzato, ogni velleità di sganciamento dal mercato mondiale è illusoria. Tuttavia autori come Hosea Jaffe e Samir Amin hanno contestato questa affermazione, dimostrando che il delinking dal mercato globale è una via percorribile; di più: è l'unica via percorribile per compiere qualsiasi passo verso il socialismo. Solo gli Stati sovrani possono negare agli strozzini della finanza globale il pagamento dei debiti imposti da Fmi, Banca mondiale, Bce e consimili istituzioni sovranazionali, prive di legittimazione democratica. Delinking non significa autarchia: vuol dire ridurre al minimo indispensabile le importazioni, massimizzare e ottimizzare l'uso delle risorse locali, conquistare la sovranità alimentare; vuol dire accentrare il surplus economico nelle mani dello Stato e ridistribuirlo in funzione dei bisogni settoriali di crescita, promuovendo la piena occupazione e la difesa degli interessi delle classi subalterne; vuol dire sfruttare i confini nazionali e la sovranità monetaria per regolare i flussi commerciali e di capitale. Chi sostiene che tutto ciò è impossibile concepisce la storia come un processo lineare e irreversibile, sovradeterminato da ferree leggi economiche rispetto alle quali la politica non può fare altro che adattarsi. 13. L'economicismo e l'idea di necessità storica che regnano a sinistra si manifestano chiaramente non appena si affronta il problema dell'Unione Europea: ignorando le prove inconfutabili della sua irriformabilità, la palese impossibilità di democratizzarne le istituzioni, gli europeisti "critici" ripetono ottusamente la tesi che la globalizzazione ha prodotto trasformazioni politiche e socioeconomiche tali da non poter essere più gestite dagli Stati-nazione. Dal presupposto secondo cui il campo di azione e organizzazione politica deve necessariamente coincidere con il livello di strutturazione più elevato del capitale, deducono che il piano sovranazionale è oggi l'unico sul quale si possono rappresentare gli interessi delle classi lavoratrici. Si argomenta che la sovranità nazionale, nell'attuale contesto economico e geopolitico, possono permettersela solo gli Stati-continente come Stati Uniti, Cina e Russia, mentre i Paesi europei devono integrarsi se non vogliono finire schiacciati dalla concorrenza di quei colossi. Per inciso, questa tesi coincide - non a caso! - con quella delle élite industriali e finanziarie del Vecchio Continente, così come, analogamente, sinistre e settori capitalistici più avanzati convergono nel bollare come conservatrice e reazionaria ogni rivendicazione di indipendenza nazionale. Anche i filosofi portano il loro contributo, tentando di evocare un improbabile "patriottismo europeo" le cui radici risalirebbero millenni addietro, a partire dallo scontro fra democrazie greche e imperi asiatici e dalla successiva cristianizzazione dell'Impero romano, eventi nei quali sarebbe già stata presente in nuce l'idea di uno spazio geopolitico unitario, congiuntamente a una rappresentazione ideale di tale spazio. Ma la verità è un'altra, ed è contenuta nel celebre detto che definisce l'Europa come una mera espressione geografica. L'Europa non è mai esistita come entità politica e culturale unitaria, e l'utopia di farne un unico Stato (utopia che tanto Marx quanto Lenin denunciarono come il sogno reazionario del capitalismo occidentale, il quale aspirava così a rafforzare il proprio dominio sul resto del mondo) si scontra con barriere sociali, linguistiche e culturali che nemmeno l'istituzione di un sistema fiscale, di un esercito e di una polizia comuni sarebbe in grado di superare. 14. Ma se la Ue non è, né mai potrà diventare, uno Stato unitario o una federazione di Stati, come possiamo definirla? La risposta è che si tratta di un mostruoso esperimento istituzionale che tenta di mettere in pratica l'utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek. Muovendo dalla constatazione che il capitalismo non conosce frontiere né radicamento territoriale - mentre la gabbia dello Stato-nazione lo costringe a tener conto degli interessi delle classi subordinate, nella misura in cui queste si organizzano nei corpi intermedi fra Stato e mercato - l'utopia di von Hayek si propone di spezzare il rapporto biunivoco fra politica e territorio neutralizzando, assieme alla sovranità nazionale, i conflitti sociali e la possibilità di offrire loro rappresentanza democratica. Indebolendo l'autonomia decisionale degli Stati membri e integrandoli in un nuovo ordine di mercato, la Ue crea una superstruttura che opera come una sorta di polizia economica, sfruttando l'euro e il principio di concorrenza per sterilizzare i conflitti e condizionare i comportamenti individuali e collettivi. Il sistema dei trattati assume valore costituzionale, agisce di fatto come una costituzione senza Stato e senza popolo e rimpiazza la democrazia con la governance, vale a dire con un processo decisionale di tipo negoziale (nel quale però non tutti i negoziatori hanno lo stesso peso!) che produce regole con il consenso dei destinatari, i quali le accettano "volontariamente" conservando - ma solo sul piano formale! - le loro sfere di facoltà e poteri. L'impianto filosofico che ispira questo esperimento è l'ordo-liberalismo che, contrariamente al liberismo classico basato sul laissez faire, non dà per scontata la capacità dei mercati di autoregolarsi, ma affida a un potere politico forte il compito di garantire la stabilità dei prezzi - a partire da quello della forza lavoro - e di vegliare sul fatto che il principio di concorrenza non venga messo in questione da oligopoli, corpi intermedi e interventi statali diretti in campo economico. 15. Si insiste spesso sul fatto che le regole della Ue vengono decise e imposte dalla nazione egemone: è l'interesse nazionale della Germania a prevalere su quelli di tutti gli altri partner europei. La linea dell'austerità, all'interno della Germania, ha infatti favorito il contenimento dei livelli salariali e, assieme all'alto tasso di produttività del sistema industriale tedesco, ha sostenuto il modello mercantilista dell'economia di quel Paese; viceversa per i Paesi del Sud Europa ha voluto dire milioni di posti di lavoro e migliaia di imprese in meno, deindustrializzazione e declassamento al ruolo di subfornitori delle imprese tedesche. Tutto vero, ma è altrettanto vero che questa relazione asimmetrica è stata, non solo accettata, ma addirittura promossa dagli Stati periferici. Per quanto riguarda l'Italia, in particolare, vanno ricordate le scelte dei vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi, a partire dalla promozione dell'indipendenza della banca centrale dal potere politico, decisione che ha messo il nostro debito pubblico nelle mani della finanza privata internazionale, favorendone la levitazione e ponendoci in condizioni di subordinazione nei confronti dei Paesi che controllano le linee di credito. Già Guido Carli auspicava un mutamento costituzionale (neanche a lui, come alla JP Morgan, piaceva "l'eccesso di socialismo" della Costituzione postfascista) che avrebbe dovuto ridefinire la composizione della spesa pubblica (penalizzando la spesa sociale) e promuovere la ridistribuzione del potere politico a favore dell'esecutivo e a danno del legislativo. I suoi eredi "di sinistra", preoccupati per gli alti livelli di conflittualità sociale e per l'uso "spregiudicato" del bilancio pubblico, hanno pensato bene di importare dall'esterno nuove regole. L'ingresso nello Sme, prima, e nella Ue, poi, hanno avuto proprio questa funzione. A partire da quel momento, il richiamo al vincolo esterno ("non lo vogliamo noi ma l'Europa") è servito sistematicamente a legittimare le riforme neoliberali: tagli alla spesa sociale, privatizzazione di tutto il privatizzabile, precarizzazione del lavoro e, last but not least, l'implementazione nella nostra Costituzione (attraverso il famigerato articolo 81) del Fiscal Compact, cioè del divieto costituzionale di adottare politiche economiche keynesiane. 16. La speculazione finanziaria colpisce soprattutto quei Paesi che non possono contare su una banca centrale come prestatore di ultima istanza, ecco perché la Ue espone sistematicamente i propri membri a tale rischio. Trattati e regole costringono i Paesi che hanno bisogno di denaro a rivolgersi al mercato, il quale assume così una funzione disciplinare nei confronti delle politiche economiche dei governi: l'assistenza finanziaria viene concessa in cambio di "riforme", cioè dell'impegno a tagliare spesa sociale e salari, privatizzare i servizi pubblici e contenere drasticamente il costo del lavoro. La macelleria sociale imposta alla Grecia dopo la capitolazione del suo governo nei confronti dei diktat della Troika (Commissione Europea, Bce e Fmi) è un esempio del destino tragico che incombe sulle nazioni e sui popoli che aderiscono all'area dell'euro. È vero che le borghesie dei Paesi europei periferici si sono volontariamente assoggettate a vincoli esterni, pur di conservare il potere sulle proprie classi subalterne, ma è altresì vero che la moneta unica ha consentito alla Germania di costruire il proprio successo economico sulla miseria altrui: l'euro ha diviso l'Europa fra un centro esportatore e una periferia dipendente, ha "sudamericanizzato" le nazioni dell'Est e del Sud Europa. Ecco perché il principio di delinking teorizzato da Samir Amin a proposito della relazione fra potenze imperiali e Paesi ex coloniali può e deve essere fatto proprio anche dai Paesi euromediterranei. Solo uscendo dall'euro e riconquistando la sovranità monetaria sarà possibile ridare spazio al conflitto ridistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzando banche ed imprese in crisi e rinazionalizzando i servizi pubblici, e infine adottare politiche fiscali progressive. Solo gli Stati sovrani dispongono degli strumenti per realizzare giustizia sociale e piena occupazione, e per gestire il debito sovrano e gli effetti delle crisi senza cadere nelle mani degli strozzini della finanza privata. Certamente i costi dell'uscita dall'euro non sarebbero trascurabili - benché non tragici, come ventilato dalla propaganda dei media di regime e come smentito dal caso della Brexit -, ma ben peggiori sono i costi della permanenza in termini di democrazia, sovranità popolare, povertà e disuguaglianza sociale. 17. Lo scetticismo nei confronti della nazione va di pari passo con lo scetticismo nei confronti dello Stato. Il ripudio delle esperienze storiche del socialismo reale e l'ideologia "orizzontalista" che, dopo la svolta libertaria dei nuovi movimenti, accomuna tutte le componenti della sinistra radicale, hanno fatto sì che il vecchio principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può essere ereditata e usata così com'è da parte delle classi subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo Stato in quanto tale non può più essere usato. Per questa ideologia neoanarchica lo Stato, qualsiasi classe o forza politica ne detenga íl controllo, è sempre e comunque il nemico del popolo; di conseguenza, il concetto stesso di presa del potere è sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista, la speranza di costruire un'alternativa globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello Stato borghese lascia il posto a pratiche di contestazione permanente, alle manifestazioni sistematiche di sfiducia nei confronti del potere, a una sorta di democrazia dell'opinione che ha come protagonista un popolo che diffida ma non aspira a governare. Tale atteggiamento rispecchia un punto di vista che non mira ad abolire il capitalismo bensì, nella migliore delle ipotesi, ad addomesticarne la ferocia. Ne è prova evidente il ruolo svolto da Terzo settore, Ong e volontariato, i quali collaborano attivamente allo smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordoliberale del "capitalismo sociale". Ne è inoltre prova quel patetico surrogato dell'utopia comunista che è l'ideologia "benecomunista", che invita a voltare le spalle al comunismo statale, a immaginare nuove istituzioni estranee alla logica della sovranità e al principio di autorità, che dà per scontato infine che un partito rivoluzionario che pretenda di essere autonomo dai movimenti non solo non serve, ma è controproducente. Siamo dunque di fronte a discorsi che assumono come obiettivo una radicale spoliticizzazione della società civile. Come se non bastasse, a evidenziare la sostanziale convergenza fra liberalismo e "benecomunismo" è lo slogan, in sintonia con le tesi dell'economista liberale Elinor Ostrom , secondo cui la gestione dei beni comuni non dovrebbe essere "né pubblica né privata": si tratta d'una doppia negazione apparente, nel senso che la vera negazione è solo quella che ripudia il pubblico, mentre la negazione del privato è mistificatoria ove si consideri che, una volta sottratto al controllo pubblico, qualsiasi bene è inesorabilmente destinato a diventare privato. 18. Le ideologie criticate nelle tesi precedenti possono essere sintetizzate con la formula "cambiare il mondo senza prendere il potere", che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo "il mio regno non è di questo mondo", e la storia insegna che il detto cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra potenti e sudditi... Del resto, nella formulazione gramsciana, le classi subordinate non "prendono" il potere, si fanno Stato; il punto non è dunque abolire lo Stato in quanto ente distinto dalla società, bensì abolirne il carattere di classe. Questo è il programma massimo, ma anche in situazioni in cui conservava il proprio carattere di classe, lo Stato si è dimostrato capace di funzionare come strumento di emancipazione: dopo la crisi del 1929, ha interpretato la reazione di autodifesa della società civile nei confronti di un sistema capitalistico senza regole, tornando a governare terra, lavoro e capitale; dal 1930 al 1980 la logica del mercato ha dovuto piegarsi alle esigenze di ridistribuzione sociale del reddito e gli Stati-nazione non apparivano impotenti di fronte agli interessi del capitalismo globale. Il vero problema quindi - appurato che il potere politico può, a determinate condizioni, garantire reali miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini - non è Stato sì Stato no, bensì quale tipo di organizzazione del potere può favorire la transizione a una società postcapitalista. Prima di affrontare tale nodo, occorre prendere congedo dal mito dell'estinzione dello Stato - mito che si basa su una visione salvifico-religiosa di un futuro in cui la società sarà liberata da qualsiasi tipo di conflitto. Una società del genere non può esistere né mai esisterà, perché anche dopo l'eliminazione delle classi sociali continueranno a sussistere contraddizioni e quindi conflitti, e perché anche la "semplice amministrazione delle cose" (gestibile anche dalla cuoca, secondo la nota metafora non priva di sfumature maschiliste) non potrà fare a meno di specialismi e gerarchie burocratiche. 19. Le rivoluzioni bolivariane, assieme al concetto di "socialismo del XXI secolo" da esse introdotto, hanno indotto i marxisti latinoamericani a riprendere lo storico dibattito sull'alternativa riforme/rivoluzione. Engels e la Luxemburg avevano bypassato tale contrapposizione sostenendo che nulla impedisce alle classi subalterne di conquistare íl potere attraverso riforme radicali, a condizione che tali riforme non siano fini a se stesse bensì un mezzo per arrivare alla rivoluzione socialista. Ora è evidente che nessuna delle rivoluzioni in questione può essere definita socialista: pur avendo introdotto costituzioni avanzate che prevedono la possibilità del superamento dell'economia capitalista e delle istituzioni politiche borghesi, i governi bolivariani di Venezuela, Bolivia ed Ecuador non hanno abolito la proprietà privata né hanno avviato un processo di trasformazione radicale della matrice produttiva. Tuttavia la dicotomia secca fra socialismo e capitalismo pecca di eurocentrismo. Si tratta piuttosto di capire in quale misura queste rivoluzioni hanno messo in moto un processo di democratizzazione dello Stato e creato i presupposti per l'indipendenza nazionale di questi Paesi dall'imperialismo occidentale. Questo perché non va dimenticato che la lotta di classe in certe circostanze assume forma geopolitica, e che il conflitto fra nazioni del centro e nazioni periferiche ha di per sé la natura di un conflitto di classe, per cui schierarsi dalla parte delle seconde è più importante che tracciare un confine astratto fra rivoluzione nazional-democratica e rivoluzione socialista. Che poi la rivoluzione nazional-democratica possa evolvere in rivoluzione socialista dipende da fattori economici, sociali, geopolitici in larga misura contingenti e imprevedibili. 20. La novità storica è che oggi, a causa degli effetti che la rivoluzione liberale degli ultimi decenni ha avuto sulla composizione di classe all'interno dei singoli Paesi e sulle relazioni di subordinazione fra centri e periferie, sorte anche nel campo capitalista occidentale, nemmeno eventuali rivoluzioni antiliberiste all'interno di tale campo potrebbero evitare di attraversare una fase nazional-democratica e riformista. In primo luogo, perché è da un secolo abbondante che il proletariato occidentale non vuole fare la rivoluzione, ma preferisce seguire le forze politiche che gli promettono miglioramenti graduali. Inoltre, dal momento che tutti i mercati del lavoro mantengono carattere locale, le solidarietà politico-sociali devono essere costruite su basi geografiche (ma non etniche!), il che significa: 1) che la resistenza dei luoghi nei confronti delle potenze sconvolgenti scatenate dai processi di globalizzazione assume il significato di una lotta anticapitalista; 2) che anche qui in Occidente i singoli Stati-nazione sono chiamati a rivendicare la propria autonomia per rendere possibili politiche di ridistribuzione e tutela dei diritti sociali; 3) che lo smarrimento delle identità e la forma populista del conflitto fanno sì che la lotta anticapitalista si presenti sotto le spoglie neogiacobine di lotta dei cittadini contro l'uso capitalistico dello Stato (il cittadino ribelle rimpiazza il proletario). Ecco perché tutti i programmi politici dei movimenti populisti di sinistra (da Sanders a Corbyn, da Mélenchon a Podemos) sono programmi "riformisti" che non presentano chiari caratteri anticapitalisti: ricondurre i settori strategici dell'economia (banche, trasporti, comunicazione, tecnologie avanzate ecc.) sotto mano pubblica, rinazionalizzare i servizi pubblici (sanità, trasporti, educazione ecc.), piena occupazione, sostegno alle piccole medie imprese ecc. Si tratta di programmi che cercano il sostegno di blocchi sociali maggioritari e trasversali e che, qualche decennio fa, sarebbero stati definiti socialdemocratici, ma oggi, nell'epoca del totalitarismo liberal-liberista, suonano sovversivi, nella misura in cui possono rappresentare un primo passo verso la trasformazione delle lotte del cittadino ribelle in lotta di classe. 21. Nelle attuali condizioni storiche, una rivoluzione nazional-popolare che si ponga l'obiettivo di conquistare il potere per avviare il processo costituente di un regime politico democratico non appare meno difficile da realizzare di quanto non lo siano state le rivoluzioni socialiste del passato. Oggi come ieri essa può avvenire solo in presenza di una profonda crisi dello Stato, della società e dell'economia; di più: può avvenire solo se a tali condizioni si aggiunge una diffusa sensazione di insicurezza, paura e minaccia, la sensazione che un cambiamento radicale sia necessario per difendere il proprio mondo vitale. Oggi come ieri il verificarsi di tali condizioni non è prevedibile né programmabile, si potrebbe dire che la rivoluzione è sempre matura e non lo è mai, o che la rivoluzione avviene dove e quando avviene.
22.
In quale misura è possibile prevenire i rischi di degenerazione autoritaria
associati a ogni processo rivoluzionario
che riesca a conquistare il potere? Questi rischi sono connaturati a qualsiasi
regime e forma statale. L'unico modo per
neutralizzarli è la creazione di contrappesi sociali autonomi.
I contrappesi fra potere esecutivo, legislativo e giudiziario
previsti dalle costituzioni liberaldemocratiche non sono sufficienti, nella
misura in cui si limitano a regolare gli equilibri di potere interni alla
"casta". Le istituzioni popolari di democrazia diretta e partecipativa devono
essere esterne a quelle della democrazia rappresentativa e agli organi statali,
devono potersi contrapporre alle loro decisioni, devono cioè
essere in grado di esercitare il conflitto nei confronti dello
Stato e tale diritto dev'essere sancito costituzionalmente. Se
l'assenza di conflitto è un mito irrealizzabile anche nel contesto del comunismo
realizzato, ciò vale a maggior ragione per un regime che abbia realizzato una
rivoluzione nazional-popolare e compiuto solo alcuni primi, timidi passi verso
il socialismo.
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