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| << | < | > | >> |Pagina 9Manuela Ci è stato chiesto di scrivere della perdita ma abbiamo visto che ci interessava di più pensarci insieme, parlarne, senza perderci di vista. Da subito abbiamo compreso che parlare e scrivere della perdita è un paradosso, poiché lo può fare solo chi è ancora vivo nel corpo e nella mente e per di più chi ancora non ha perduto completamente il senso della relazione. Che ne pensi?Rossana Bisogna aver posseduto. Anche quando la perdita ti mutila, continui a essere. Sei mutilato ma non morto. E mi domando che cosa è l'Io a prescindere da quel che ha. Adriana Cavarero ha scritto che sei soltanto in quanto altri ti vedono: sola sulla luna «non saresti». Non mi persuade, è un sofisma: sola saresti tutta cieca, fragile, a tentoni, ma temo che saresti. E così quando subisci una perdita terribile, continui a essere. Che cosa è dunque questo Io che ha e perde, esposto, indolenzito, che a un certo punto a forza di perdere magari stramazza, ma è? Forse è la stessa cosa del nudo vivente. Nudo, perché come sarebbe senza quel che ha? Eppure non sono quel che ho. E d'altra parte questo Io non può capire, «intelligere», che dovrà a un certo punto spegnersi. Non è crudelissimo un Dio che ha dato alla nostra specie la coscienza che si è destinati a finire, uno per uno? Forse l'immagine d'un Dio eterno è la proiezione del «non poter» pensare di finire, è l'impensabile. Come lo zero e l'infinito, che «sappiamo» ma «non possiamo pensare». M. Possiamo accordarci nel definire la morte il grado zero della perdita, poiché, come tu sottolinei, essa non è pensabile in quanto a essa corrisponde la fine della coscienza, cioè la morte di quell'Io che dovrebbe saperne qualcosa. L'irrappresentabile è quindi inesistente quale esperienza. Dunque non è la perdita del corpo, ma la perdita della capacità di pensarlo, questo corpo, che non possiamo tollerare poiché sarebbe come essere già morti. Possiamo perdere l'altro in quanto corpo oltre che come soggetto pensante, ma il nostro proprio corpo è il nostro primo possesso, anzi per meglio dire è il primo possesso del nostro pensiero, il primo oggetto attorno a cui il pensiero nasce. E senza il quale non sopravvive. Il nostro è sempre e ineluttabilmente un Io incarnato. R. Ma pensiamo anche il corpo in modo paradossale. Sappiamo di «essere» il nostro corpo, ma pensiamo di «averlo», come se la coscienza avesse un altro ordine di esistenza, stesse nel corpo come in una casa, lumaca nel guscio. Dirci: il corpo è la prima cosa che ho e il corpo sono io, non fa esattamente lo stesso. Essere e avere non sono lo stesso. M. Infatti una pensatrice in campo psicoanalitico come Piera Aulagnier sottolinea la differenza tra essere e avere, sostenendo che l'Io ha un potere autonomo sul corpo, tanto è vero che non solo può far provare piacere al corpo ma altresì imporgli una sofferenza. Se semplicemente fossimo un corpo privo di un Io non credo che ci infliggeremmo una sofferenza e soprattutto non credo che lo sapremmo. R. Nell'Io umano coincidono, ma non si percepiscono come la «stessa» cosa: «ho» il mio corpo come «ho» il mio tempo, le mie speranze, una serie di cose. M. È la straordinaria proprietà di ciò che chiamiamo Io, di far proprio tutto ciò che gli capita a tiro. Searles lo definisce evocativamente l'ambiente «non umano» di cui fa parte tutto ciò che è esterno al soggetto pensante. Inoltre la malattia può rendere il nostro corpo così altro da noi stessi da indurci a sentirlo non come possesso proprio, ma come parte dell'ambiente «non umano» che ci circonda e dunque non coincidente con l'Io sono. R. È vero, mi vedo invecchiare come se il corpo andasse per conto suo, fuori da una sua forma vera, il mio corpo «non è più quello». Quale? Dove si costruisce la forma che invecchiando perdiamo? Tutta dall'esterno? Forse lo percepiamo come altro perché prima lo sentivamo di rado, adesso non funziona più bene e il suo guasto «intacca» anche qualcosa che attiene alla coscienza, come la memoria. Ma non si degradano l'uno e l'altra con lo stesso ritmo, se non c'è una lesione cerebrale, una rottura. Corpo e mente li percepiamo uniti ma separati. Questo avrà un senso. M. Direi che innanzitutto ha a che fare con i sensi, che privi dell'attività dell'Io diventano appunto, se mi perdoni il bisticcio di parole, insensati. Poiché la loro attività per avere un senso deve dialogare incessantemente con l'Io. Almeno per quel che ne sa ciò che definiamo la mente. R. Qualche anno fa a Parigi, nella giornata dell'Aids, avevano messo il nastro rosso di lutto sulla Tour Eiffel, bellissimo, rosso sangue, e facevano galleggiare sulla Senna tante fiammelle accese. La Senna è un torrentaccio e quelle lucette fluttuavano svelte verso il nord e il mare, e molte andando si spegnevano. La sensazione immediata era che fossero vite, e ogni fiammella che si spegneva una morte. Non era terribile ma tristissimo. Non è la sofferenza che temi perché con la morte cessa anche la sofferenza. E non saprei nemmeno immaginarla una vita senza finitudine, sofferenza, desiderio. Essere assorbiti nella dantesca essenza di Dio, «siccome ruota che igualmente è mossa», non è la vita che amiamo e perdiamo, questa è meravigliosa perché è finita, però a che condizione! E insieme, se possiamo pensare solo un mondo «finito», Pascal lo aveva già detto, lo facciamo in presenza d'un concetto di infinito che non possiamo né eludere né rappresentare. M. Dunque secondo te la morte, quella che chiamiamo il grado zero della perdita, in realtà è il grado zero della rappresentazione. Mentre possiamo rappresentarci il sottozero – per esempio come freddo assoluto – e l'oltrezero come una certa quantità variabile di calore, allo zero non corrisponde altro che un buco e anche di quello vediamo solo il contorno. R. La morte è proprio lo zero, il prima è scomparso e il dopo non c'è. Si può imparare a vivere senza l'altro, ma non è vero che si elabori, nel senso che si superi, la perdita, il lutto... più vado avanti meno so elaborarla. | << | < | > | >> |Pagina 28R. L'ambivalenza della maternità m'è parsa sempre abissale. E poi in genere l'ambivalenza delle relazioni. Fra le idee che non mi tornano ci sono le distinzioni correnti fra amori, affetti, amicizie, che mi paiono molto differenti nelle modalità e nell'emotività che investono e nel patimento che ne può derivare: l'investimento, per dir così, è ad alto rischio per gli amori, minore per gli affetti e quasi zero per le amicizie. Queste ultime sono le più generose perché sono quelle in cui metti meno a rischio del tuo: vuoi il bene dell'amico o dell'amica senza temere che venga tolto a te, cosa che nell'amore è inevitabile. L'amicizia è gratis. Io ho avuto la fortuna di averne di amici. E la sfortuna di subirne la perdita. Puoi più facilmente trovare un altro amore se ne hai bisogno (suppongo perché in esso metti molto del tuo desiderio), piuttosto che un amico simile a quello che hai perduto. Nell'amico c'è meno di te, e c'è più di lui o di lei.M. Tu parli come chi ha avuto grandi amici e li ha perduti. R. Ne ho avuti due e li ho perduti negli ultimi anni, perché i miei amici uomini erano coetanei o più grandi. Le mie amiche, scoperte tardi, sono fortunatamente più giovani. Con i due amici perduti, che ho accompagnato nella morte, non è che stessimo molto insieme – l'amicizia non è ansiosa – è che quando ci incontravamo, magari dopo tre mesi, si riprendeva un discorso sempre essenziale per tutti e due, come se si fosse interrotto ieri. Un amico è un luogo di tranquillo deposito di sé. Non succede spesso con chi ti è caro. Con uno dei due non c'era comunanza politica generica, ma un comune modo di vedere il mondo fra due individui molto diversi. Era un medico ebreo algerino, un illuminista. Che cosa avevamo in comune? Era come un fratello grande per il mio compagno, e questo contava molto. Ma ci conservavamo spazi e tempi separati, discorsi separati. Con l'altro c'è stato mezzo secolo di comunanza politica quotidiana. E un accordo politico totale? No. Una formazione culturale analoga? Neanche. Ma abbiamo preso decisioni definitive insieme, lavorato assieme e ci siamo spesso scontrati. M. Si può dire che il vostro incontro/scontro è stato molto strutturante per tutti e due? R. Anche il dissenso è strutturante. M. È molto vero e ha ragione chi dice che la parola che la madre ti insegna dovrebbe servirti per dissentire da lei. Se quella madre è davvero, come dice Aulagnier, il «portaparola», dovrebbe venire il momento in cui ci si sente autorizzati a utilizzare la sua parola per strutturare il proprio discorso distinto e diverso dal suo. R. Egli aveva subito perdite crudeli, più di quel che dovrebbe toccare a una creatura. E forse non è un caso che nel suo dolore io arrivassi, ci fossi – come se quel che ci eravamo detti fosse qualcosa di originario e triste. Come me era stato radiato dal Partito comunista, ma ne aveva sofferto di più: se uno incontrava il Pci a diciotto anni e ne veniva messo fuori trent'anni dopo, non era un incidente dell'esistenza. Il Pci non era un partito come la Dc, era una specie di vocazione, come diventare un benedettino, intendo non un ordine contemplativo, ma un ordine attivo, ragionante e interveniente. Se ne vieni espulso, molto viene messo in questione, in te e nella tua idea del partito. Lui ne patì molto. | << | < | > | >> |Pagina 32M. L'abbandono dell'impegno politico per te equivale a una perdita di senso?R. È una perdita di senso. Per chi lo ha abbandonato. Io no, non posso costruire granché ma posso tentar di portare «di pianto in ragione», per dirla con Fortini, quel che ci viene tolto e quel che ci viene offerto. È senza senso vivere come si vive: più deprivati di potere che mai sul nostro destino, smarriti di fronte a noi stessi. Si patisce e si subisce. Tre quarti della teoria del postmodemo, la fine delle grandi narrazioni, l'effimero, è un tentativo di svicolare alla perdita di senso. Maldestro. Certo non tutti accettano il tragico dibattersi degli uomini per qualche cosa che va al di sopra di loro. Io ho avuto una formazione diversa, ero abituata a pensare che la vita è tragica nel senso cinquecentesco della parola – Racine, Pascal – dove il conflitto non si aggiusta, non si risolve, non c'è pacificazione. Come nella tragedia greca, o per errore o per pazzia o per intervento divino, la vicenda umana è incomponibile. Ma questo ne fa anche una straordinaria avventura. Fa pensare che nel VI secolo avanti Cristo, decine di migliaia di persone di ogni ceto si spostassero per settimane, per vedere le ultime tragedie. M. La tragedia veniva vissuta e condivisa con molti altri spettatori. La ritualità aiuta molto. Si vive assieme il quasi della tragedia e il dopo. R. Nella tragedia non c'è un dopo. Finisce con la morte d'un protagonista, eliminando il problema, non sciogliendolo. M. Nel finire c'è un compimento, e c'è per forza un dopo poiché lo scorrere del tempo non appartiene a ciò su cui l'umano ha controllo, né signoria... R. Forse hai ragione. L'ho presa larga per dire che una perdita politica può essere vissuta in due modi. Uno come seguito di errori, debolezze, tradimenti dovuti a un fatale degenerare dell'umano, l'altro come un percorso tragico, pieno di errori e cadute, ma non senza senso. M. Questo è quel che ti dico: la perdita non puoi fare a meno di registrarla, anche se un modo – terribile in verità – per non accettarla è il rifiuto costante di tutto ciò che la mette in forma. Ciò che chiamiamo conseguenza è anche questo. R. Io tendo non solo a registrare ma ad accettare che l'esistenza umana sia tragica. Per tragico non intendo drammatico, lacrimoso, insopportabile, intendo di rara soluzione e attraverso molta perdita. In questo caso non esorcizzo il Pci che mi ha cacciato e se ne è andato lontano da quel che era, non mi dico neanche «Se badava a me sarebbe invece prosperato»; è una storia mal finita, per molta debolezza ed errore. Il problema che era stato posto resta. Se uno la vede così, non c'è da stare allegri, ma non ha risentimenti. Io non ne ho. C'è stato un passaggio della mia vita e della storia, che è un passaggio tragico. Lo rifarei. Anche se è stato un coacervo di spinte incomponibili. M. Che cosa è incomponibile? Vita e morte? R. Vita e morte di certo, almeno per il singolo morente o morituro. Pare che nel ciclo biologico siano invece assolutamente necessarie l'una all'altra. Ma noi siamo solo in parte, la parte che non pensa, dentro al ciclo biologico, la coscienza ne è estromessa. Ma anche la vita è fatta di incomponibili. O vivi evitando di pensare alla morte o vivi una finitezza che ti nega. Se questo non è tragico... | << | < | > | >> |Pagina 36M. Prima di avviarci alla conclusione di questo nostro scambio, desidero farti una domanda che mi sta particolarmente a cuore e che riguarda più in generale la tua personale Weltanschauung, poiché è quella che si è scontrata e ancora si scontra con un aspetto importante del pensiero e della pratica politica del femminismo. «Cos'è che guida e orienta la ricerca di senso che metti in ogni gesto e in ogni cosa che dici?» E ancora, l'incessante ricerca di un senso delle cose non ti ha messo di fronte alla prospettiva «astensionista» — quell'aspetto del pensiero femminista che spesso non prende posizione, diversamente da come fai tu sempre tenace riguardo a ciò che accade nel mondo? Talvolta mi è sembrato che tu rivolgessi alle femministe un appello accorato e infuriato contro quella che ti è sembrata una sorta di rassegnazione alla forza delle cose.R. Quando apostrofo le donne con un «voi», dico proprio questo. E ho fretta che la loro posizione di distanza dai codici ereditati del politico attraversi tutto il terreno del politico, che sta diventando sempre più esteso, c'è una finta restituzione degli spazi al privato, i grandi poteri li ritagliano e li definiscono sempre più crudelmente a monte. Le amiche mi rispondono che ci vuole tempo, oppure che nulla si risolve se prima non si rimonta alle origini dell'identità e conflitto fra i sessi, oppure che l'astensione e il silenzio sono già decisivi. Che insomma la politica prima sta nei rapporti fra donne e che la politica tradizionale viene come seconda. Può darsi che sia vero, ma in questo caso non avremo tempo. I tempi sono scanditi da altri, non ce li lasciano.
M.
Insomma niente ti è più estraneo dell'inazione e lo dicono le parole di Barthes
che ti ho dedicato in occasione dei tuoi settant'anni, ricordi? «Subisco senza
adattarmi, persevero senza abituarmi: sempre sconsolato, mai scoraggiato...» Ti
ritrovi in queste parole oggi, e ti sembra che ciò
che ci siamo dette a proposito della perdita e delle concrete perdite subite,
confermi questa tua attitudine a opporti alla forza delle cose?
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