|
|
| << | < | > | >> |Indice5 Introduzione 11 Note 13 Note al testo e all'edizione IL LIBRO DEL BIBLIOFILO 17 Avvertenza 21 I. Il Testo 37 II. La Stampa 37 I Caratteri 49 L'Impaginazione 53 La Tiratura 59 La Satinatura e la Brossura 65 III. La Decorazione 77 IV. La Carta 89 V. La Legatura 102 Note 105 Appendice 107 Appendice sulla riproduzione dei testi 115 Alphonse Lemerre e i suoi amici. Piccolo dizionario bio-bibliografico |
| << | < | > | >> |Pagina 5Nel 1874 Alphonse Lemerre, che insieme a Charpentier e a Michel Lévy era considerato l'editore più alla moda di Parigi e dunque della Francia intera, decise di offrire ai suoi lettori bibliofili una sorta di strenna editoriale, illustrando loro i criteri principali che presiedevano alla nascita dei suoi preziosi, esclusivi, curatissimi volumi. Come ogni buon editore, impegnato in mille attività, formulata o forse recepita l'idea dai suoi più stretti collaboratori, Lemerre ne commissionò la redazione a uno di essi, il trentenne e già più che promettente Anatole France, da alcuni anni in forza alla casa editrice come lettore-redattore. È così che nasce questo testo che, intitolato Il libro del bibliofilo, dovrebbe forse chiamarsi Il libro per il bibliofilo. E nasce, per così dire, molto bene. Infatti: «Di questo libro di A. Lemerre composto di 55 pagine in-12° piccolo, depositato il 23 maggio» recita la scheda della Bibliographie de la France del 30 maggio 1874, «sono stati stampati dalla tipografia Claye 100 esemplari su carta Whatman, 25 su carta di Cina, 3 su parchemin e 3 su papier vélin. Tutti gli esemplari sono numerati e siglati dall'editore».
[...]
Pur senza voler affrontare l'analisi di un fenomeno, la bibliofilia, che nei suoi aspetti moderni nasce proprio in Francia e proprio nella seconda metà dell'Ottocento ad opera di editori come Poulet-Malassis e subito dopo Alphonse Lemerre, ci basta osservare che attraverso questo libretto traspare significativamente l'idea che si ha del rapporto che intercorre tra libro come tramite di idee e libro come oggetto. Chi scrive e, si assume, chi legge, ognuno per la sua parte, pongono se stessi al vertice della piramide e il loro obiettivo è esplicito: il miglior testo e il miglior oggetto. L'opera è un intreccio inestricabile di contenuto e di forma di cui l'editore è il regista. Se a noi viene in mente Croce è per ricordare il gran bibliofilo che fu. Quanto poi al contenuto del testo, le idee che esso esprime, la storia che racconta della fabbricazione dell'oggetto-libro utilizzando i mezzi più raffinati, non sembra affatto che pecchino di anacronismo. Siamo al vertice di una tecnologia matura che comincia a declinare, cambiano i rapporti di produzione, cambiano le tecniche. L'ecdotica ha acquistato nuova e più matura coscienza, l'estetica dei caratteri tipografici e quella dell'impaginazione, dopo gli splendori dei secoli passati, sono di nuovo assurte ai massimi vertici (il ricordo di Bodoni, per fare un nome italiano, non è stato certo dimenticato, soprattutto in Francia dove Pierre Didot, il fratello di Firmin Didot, è scomparso da appena vent'anni), il processo di fabbricazione della carta sta sì velocemente cambiando (e già si sentono i lamenti per il sopravvento che gli automatismi vanno prendendo sulla mano dell'uomo, accompagnandosi anche con formulazioni nuove, più adatte alle nuove macchine e soprattutto meno care), ma è ancora possibile reperire i vecchi materiali: la carta cosiddetta "da stracci", ottenuta cioè a partire da lino, canapa e cotone, è ancora la più diffusa mentre solo da pochissimo tempo si riesce a ottenere industrialmente una discreta carta a partire dal legno; la carta "al tino", o "a mano", è almeno dieci volte più cara rispetto a quella fatta a macchina, ma c'è ancora modo di averla, anche se i più esigenti si lamentano per il fatto che non tutti i processi siano condotti seguendo i metodi tradizionali. Più delicato, semmai, è il capitolo della tiratura, dal momento che il torchio a mano è all'epoca già completamente obsoleto, anche se ogni tipografo coscienzioso lo ha ancora in bottega per i lavori più fini. Insomma ci si può divertire a istituire paralleli fra il libro del bibliofilo del 1874 e il libro del bibliofilo di oggi, si può anche cercare di capire quali materiali e quali tecniche artigianali sono pur sempre ripetibili e quali completamente scomparse, resta il fatto che i problemi, le discussioni che si scorgono sullo sfondo delle norme stabilite dall'editore per le sue collane sono le stesse di sempre: come presentare i classici antichi, come trattare le note, quali formati adottare, quale tiratura stabilire, quale ruolo assegnare alla decorazione. Da tutto questo emerge però un elemento importante: per Anatole France, redattore, per Alphonse Lemerre, editore, il libro del bibliofilo è ancor prima il libro del lettore, magari un lettore un po' esclusivo se, per esempio, la fondamentale Pléiade françoise, la cui edizione si dipana nell'arco di quasi trent'anni e venti volumi, viene fatta stampare da Lemerre, sotto il marchio editoriale del vangatore nudo, in 298 esemplari, e questo stesso Libro del Bibliofilo, destinato agli amici della casa editrice, in 131 esemplari, naturalmente su carta, come minimo, Whatman, Olanda, Cina... | << | < | > | >> |Pagina 17Scopo di questo lavoro è esporre i punti principali dell'arte a cui ci siamo dedicati interamente e individuare le condizioni che devono essere, a parer nostro, necessariamente soddisfatte perché una edizione possa essere considerata degna d'essere apprezzata e stimata dai veri intenditori. Parleremo esclusivamente della stampa di una nuova edizione di un classico, non perché la pubblicazione di opere contemporanee ci sembri di minor peso, ma perché i testi antichi offrono all'editore difficoltà particolari e una nuova edizione di testi universalmente conosciuti è inutile se non può essere considerata pressoché definitiva. Esamineremo brevemente le cure che esige il Libro dall'elaborazione del manoscritto o, per dirla in linguaggio tecnico, della copia che deve essere consegnata allo stampatore al momento in cui il volume, finalmente pronto, entra, vestito della sua legatura, nella vetrina del bibliofilo. Per questa lunga serie di operazioni così diverse, così varie, il libraio-editore fa ricorso a numerosi collaboratori: letterato, fonditore, stampatore, fabbricante della carta, disegnatore, incisore, brossuraio, rilegatore etc., tutti concorrono al medesimo scopo: la perfezione del libro; però è necessario che l'editore-libraio vegli costantemente per armonizzare i contributi di tutti nell'esecuzione di un'impresa che lui ha concepita e di cui solo lui è in grado di cogliere l'insieme. Prenderemo via via in esame il libro in rapporto al testo, alla stampa, alla decorazione, alla carta e alla legatura. A. Lemerre | << | < | > | >> |Pagina 21Stabilire un buon testo è d'importanza fondamentale. È questo lo scopo di una nuova edizione, e i complessi trattamenti di chirurgia plastica cui il testo sarà sottoposto dovranno tendere unicamente a presentarlo nella sua luce migliore e dunque nella perfezione della sua bellezza. Tutto il lavoro dell'editore sarà in pura perdita se non si eserciterà su un testo irreprensibile. Bisogna dunque che l'editore se ne preoccupi e, quando dà inizio a nuove collane, che siano di classici o di varia letteratura, è necessario che nella pubblicazione dei testi si attenga a regole determinate in anticipo e che si serva esclusivamente di letterati ed eruditi disposti ad accettare queste regole. Ecco le regole che, d'accordo con i nostri collaboratori, noi applichiamo inflessibilmente ai testi che entrano nella Collection Lemerre, nella Petite Bibliothèque littéraire e nella Bibliothèque d'un curieux. Tutti i volumi di queste collane riproducono le forme del testo originale con la più rigorosa esattezza. L'ortografia e la punteggiatura tipiche di ciascun autore vengono scrupolosamente conservate. Pensiamo, infatti, che dai mille dettagli della punteggiatura e dell'ortografia dipenda, in parte, la fisionomia generale di uno scrittore, e che modificare questi dettagli equivalga ad alterare il carattere dell'insieme. Capita frequentemente di vedere, nei testi originali di scrittori del XVI e del XVII secolo, una stessa parola scritta in due diversi modi a distanza di appena qualche riga. Non abbiamo mai avuto la tentazione, come ancora si fa correntemente, di adottare nei due posti la medesima forma grammaticale. Le due lezioni ci paiono, al contrario, utili da conservare come testimonianza dell'indecisione in cui per molto tempo ha oscillato l'ortografia francese. Si è sostenuto che la preoccupazione dei punti e delle virgole, delle maiuscole e delle particolarità ortografiche sia tipica degli autori contemporanei mentre non riguarderebbe per nulla i nostri classici. Ma, in realtà, una preoccupazione di tal natura non è più nuova di quanto lo sia la cura della forma che tanto sorprende il pubblico nei poeti moderni e che è un tratto comune ai veri poeti di ogni epoca. Le edizioni originali dei classici presentano ben altre particolarità oltre quelle poco filologiche dovute al capriccio di tipografi ignoranti. La loro ortografia è variabile, ma non arbitraria, e la punteggiatura colpisce l'osservatore attento molto più per la sua fissità che per la sua apparente bizzarria. Se Jean Racine non rileggeva mai scrupolosamente le bozze dell'ultima edizione del suo teatro, La Fontaine moltiplicava gli errata corrige nelle diverse raccolte delle sue Favole, dimostrando di non essere per nulla indifferente riguardo alla correttezza tipografica delle sue opere. Molière, che poco si preoccupava che le sue commedie fossero pubblicate, però ci teneva molto che lo fossero correttamente. | << | < | > | >> |Pagina 37I Caratteri I caratteri di stampa detti elzeviriani sono tornati in auge grazie a Monsieur Perrin, di Lione. Questo tipo di carattere, in se stesso molto bello, offre, nel caso specifico che qui soprattutto ci interessa, cioè la nuova edizione di vecchi scrittori, il vantaggio di un certo arcaismo che è in armonia con i testi. Il suo utilizzo in questa circostanza concorre a produrre quell'effetto di colore locale tanto giustamente ricercato oggi. Del resto, il termine elzeviriano non deve essere preso alla lettera. Non si tratta di una designazione precisa, dal momento che si applica indifferentemente a caratteri tipografici del XVI, del XVII e persino del XVIII secolo, abbastanza dissimili gli uni dagli altri. I caratteri impiegati da Louis Elzevir e dai suoi cinque figli, stampatori a Leida, a L'Aia, a Utrecht e ad Amsterdam all'inizio del XVII secolo, sono peraltro ben lontani dall'essere più belli di quelli di cui facevano uso gli editori di Lione o di Parigi nel secolo precedente. Ma Louis Elzevir viene considerato l'iniziatore, alla fine del secolo XVI, di una riforma che è prevalsa su ogni altra: è lui, si dice, il primo che nelle minuscole ha distinto le u e le i, vocali, dalle v e dalle j, consonanti. In ogni modo, gli Elzevir, benché inferiori agli Estienne per la correttezza dei testi, godono di giusta reputazione per aver prodotto, in un'epoca in cui l'arte della stampa in Francia sonnecchiava, una lunga serie di piccoli volumi curati con gusto e stampati con cura. Sotto questo duplice rapporto, il loro è un grande merito; sarebbe però un errore credere che i caratteri oggi conosciuti col loro nome fossero loro esclusiva proprietà. Già dal 1550, Haultin, di La Rochelle, utilizzava gli stessi caratteri di cui gli Elzevir si sarebbero poi serviti. Verso il 1855, un uomo che molto ha fatto per la sua arte e la cui memoria deve essere a giusto titolo tramandata come quella di un artista inventivo e delicato, Perrin, stampatore a Lione, trovò nella vecchia fonderia Rey di Lione punzoni e matrici del XVI secolo. Ne rilevò una parte; disegnò e fece incidere le serie che gli mancavano, e ottenne così quei caratteri la cui novità era costituita, per così dire, dall'antichità, e la cui moda egli stesso contribuì non poco a iniziare. | << | < | > | >> |Pagina 49L'ImpaginazioneÈ soprattutto nell'accortezza delle decisioni prese per l'impaginazione che l'editore dimostra se ha gusto o se ne è sprovvisto. Nel primo caso, può anche sbagliare; che gli errori gli siano perdonati! Nel secondo caso, produrrà edizioni difettose, e non è il caso che i bibliofili si occupino di lui. Detto questo, ci permettiamo qualche osservazione. La giustificazione, cioè il contorno esterno del testo, è evidentemente in relazione con la grandezza complessiva del foglio. Deve esserci armonia. Un margine troppo largo è quasi altrettanto brutto di un margine troppo stretto. Alcuni volumi ostentano il falso lusso di un testo piccolo perso come un'isola in un oceano di bianco. Mai tali fantasie piaceranno a chi sa che il bello consiste nell'equilibrio delle proporzioni. Per la stessa ragione, caratteri troppo grossi su una pagina di piccole dimensioni spiacciono esattamente come un testo troppo fine disteso su un foglio grande. Per i libri antichi, noi prendiamo a riferimento in modo particolare quelli il cui aspetto deriva dal XVI secolo; chiediamo agli stampatori di variare, più di quanto non lo facciano usualmente, la composizione dei titoli, delle testate dei capitoli e dei titoli normali. Essi adoperano soltanto lettere capitali; se le mescolassero con lettere italiche, minuscole comuni e lettere a coda, eviterebbero l'uniformità, rallegrerebbero l'occhio: cosa che deve sempre costituire lo scopo ultimo delle arti industriali. Gli stampatori del secolo XVI lo sapevano: i loro titoli, per molti versi poco imitabili, costituiscono però eccellenti modelli quanto alla varietà dei caratteri. Perché l'aspetto di una pagina sia soddisfacente, bisogna che la distanza tra le parole sia regolare e non presenti quei rivoli, cioè quei piccoli canali bianchi che l'occhio, sgradevolmente colpito, vede a volte correre da una riga all'altra, con un tragitto obliquo, su metà o tre quarti della pagina. L'editore deve prestarvi attenzione. Per libri davvero importanti, l'editore tira abitualmente un numero di esemplari strettamente limitato su carta pregiata, come carta d'olanda, whatman e cina. Ogni intenditore apprezza nel suo giusto valore una tiratura di questo tipo, fatta cambiando forma di stampa, cosa che esige i costi di una nuova preparazione e che presenta il vantaggio di margini proporzionalmente più grandi sia sul fondo che sugli altri tre lati della giustificazione. | << | < | > | >> |Pagina 83La carta di Cina necessita di una menzione speciale; bisogna precisarne l'impiego. Chiunque non sia completamente estraneo ai libri e alle stampe sa distinguere la vera carta di Cina dalla cina francese che è sensibilmente diversa. Qui ci riferiamo alla vera carta di Cina, leggera come sughero, sottilissima e contemporaneamente spugnosa, e dolce e brillante come un foulard di seta. Malgrado tutte queste qualità, la carta di Cina, troppo poco consistente, deve la sua reputazione, non alla sua bellezza, ma piuttosto alle sue particolari affinità con l'inchiostro di stampa. Il suo tessuto, morbido e liscio insieme, è più indicato di ogni altro a essere ben stampato. Questa proprietà, che fa sì che la carta di Cina sia ricercata per la stampa delle incisioni, è la stessa che ne giustifica l'impiego per la tiratura in tipografia. La stampa ne acquista una nitidezza incomparabile. I libri in corpo piccolo guadagnano in modo particolare se sono stampati su carta di Cina.Ricordiamo agli intenditori che questa carta, fabbricata con sostanze vegetali, è esposta a un continuo processo di decomposizione che produce molto presto quelle piccole macchie gialle, quei punti scuri, da cui d'altra parte nessuna carta è completamente esente. È l'umidità, questo grande agente della decomposizione, che accelera la comparsa di queste macchie. È interesse del bibliofilo prevenirle, cosa che può essere fatta facilmente con l'incollaggio. Non insisteremo mai abbastanza nel consigliare di far incollare le carte di Cina subito dopo la stampa del volume, perché le macchiette di ruggine appaiono spesso nel giro di un anno. | << | < | |