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| << | < | > | >> |Pagina 11Marzo era un mese allegro per i Pozbipieta. Nell'arco di ventisei giorni avrebbero compiuto gli anni il padre e uno dei quattro figli, e tutti a Gyomaendrod, dal primo all'ultimo, si facevano prendere dallo sfrenato entusiasmo dei festeggiamenti. Le celebrazioni del santo erano state dimenticate, e tutti ormai erano dediti al culto dei Pozbipieta: si addobbava la chiesa, si compravano vestiti nuovi, e nelle case si ammazzava qualche animale. All'alba del giorno del compleanno del più piccolo, Lautaro, i fratelli salivano sul campanile e annunciavano, più puntuali delle rondini, la sconfitta dell'inverno. Verso la fine di marzo il paese, stremato dagli eccessi, sarebbe impazzito, un po' complice e un po' schiavo dei capricci di un clan intrecciato come gli aghi di un abete.I Pozbipieta possedevano una casa a Gyomaendrod che non usavano mai, un'altra vicino a una stazione di monta per giumente e cavalli, e alcune grandi stalle luminose, lungo il sentiero del monte in direzione di Grandale. Richiamavano gran parte del traffico della zona e, alle prime ore del mattino, un rumore di zoccoli segnalava che i Pozbipieta si erano alzati per sorvegliare la tenuta. Il padre, da giovane, si era guadagnato la fama di buon cavallerizzo. Era cresciuto fra le bestie, e sapeva riconoscere al primo sguardo un mulo cocciuto o una cavalla che non avrebbe superato il primo parto. Negli anni si era mantenuto magro e schivo. Sfoggiava baffi impressionanti e un volto austero e silenzioso. La madre, dello stesso ceppo familiare, era una donna impetuosa e di pessimo carattere, si intendeva di cavalli come nessun altro, e trattava i figli con distacco, impartendo loro ordini come si fa con i servi fedeli. Da molto tempo aveva capito che con un temperamento simile al suo c'era poco da fare, e si era ripromessa di non soffrirne; tanto che i figli facevano di testa loro e, avvezzi a imporre il proprio santo volere, moltiplicavano il capitale, ripulivano le bardature, e lasciavano ovunque i segni delle loro barbare scommesse e del loro orgoglio indiavolato. La differenza di età tra i fratelli era esigua, e Bilawal, il maggiore, comandava a capriccio. L'età aveva il suo peso, ma con le doti che possedeva non sarebbe stato diverso anche se fosse nato per ultimo. Si serviva dei fratelli come Frantanes Ragnarok dei suoi cani. Raccontavano che un antenato della madre, accusato del furto di alcuni puledri, fosse stato trascinato in tribunale da un vicino. Quando le prove lo scagionarono, il vicino si scusò, ritirò tutte le accuse e, ammettendo l'errore, volle risarcirlo donandogli due terreni. Pozbipieta, con la stessa serenità dimostrata durante il processo, non li accettò; tornò ai suoi campi e si fidanzò con la sorella del vicino. Dopo qualche tempo l'antico accusatore fu ritrovato accoltellato nel bosco. Pozbipieta si sposò, ereditò tutte le proprietà e non cambiò espressione neppure durante il funerale della moglie, morta molto giovane. Quindi contrasse seconde nozze con la sua fidanzata precedente e regnò sui suoi possedimenti senza che nessuno si azzardasse a dire una parola. In Bilawal scorreva lo stesso sangue: nelle medesime circostanze si sarebbe comportato come l'antenato. Avrebbe quindi dissotterrato i cadaveri dei suoi nemici per gettarli in un letamaio. Impassibile come il padre, aveva occhi vitrei a cui nulla sfuggiva, sempre cerchiati da livide occhiaie, e i suoi sorrisi, bruschi come grandine, erano quelli di un animale feroce. Darío e Galahad si somigliavano; nessuno voleva misurarsi con loro, e lo stesso Thonolan, nonostante la sua forza e la sua autorità, cercava di non provocarli poiché i due, oltre a vantarsi di avere sangue caldo, erano robusti e spietati. Lautaro, il più piccolo, apparteneva alla stessa razza di Bilawal, slanciato e bello, senza però i difetti del fratello più grande. I Pozbipieta ne avevano cura come se fosse d'oro, temendo che una disgrazia crudele se lo portasse via. A Gyomaendrod la gente gli voleva bene, perché volergli bene veniva naturale, e lui apprezzava tutti: muovendosi in equilibrio fra la propria casa e il mondo, sapeva come restituire l'allegria in caso di disgrazia. Certe notti, quando i puledri stavano per nascere e i Pozbipieta facevano la veglia alla stazione di monta, si sentiva Lautaro canticchiare per la strada; gli altri se lo immaginavano con le pupille dilatate per il buio, e gli rivolgevano un saluto che lui non poteva vedere. Bilawal lo guardava come se fosse un mistero indecifrabile, e in quelle occasioni si avvicinava porgendogli una tazza di brodo caldo. I due si sorridevano e bevevano, riscaldandosi le mani con la tazza, mentre sorvegliavano le luci dei falò che tremavano nel bosco, tracce della Caccia Selvaggia. I fratelli mantenevano rapporti amichevoli con tutte le famiglie importanti di Gyomaendrod e dintorni, e ad alcune erano legati da vincoli di sangue; gli unici a cui negavano il saluto erano i Ralco, anche se non erano i soli a farlo, e tutti sapevano che prima o poi i Pozbipieta avrebbero realizzato i desideri di gran parte della gente di Gyomaendrod, infliggendo a Jasar Ralco e ai suoi una punizione esemplare. Quel mese di marzo era iniziato in modo tragico, anche se nessuno lo avrebbe sospettato quando, verso la fine di febbraio, il guaritore bussò alla porta dei Pozbipieta. L'uomo, un mezzo gitano sdentato, dava la caccia ai cani rabbiosi, domava cavalli e qualche volta estraeva il miele delle api. In genere prima di aprile non si faceva vedere e i Pozbipieta, che non lo aspettavano, si trovavano ad Astaregar a fare infiniti acquisti per la festa di marzo e a bere fino a scoppiare. Avevano passato gli ultimi due giorni a correre dietro ai cavalli che allevavano in montagna, e volevano rifarsi. Il guaritore si fermò dove gli fu detto e fece segno alla bambina che lo accompagnava di ripararsi sotto le tettoie per non bagnarsi con la pioggia che non aveva mai smesso di cadere. Quando, già passato mezzogiorno, Bilawal entrò nel cortile e li vide in un angolo, quasi non lo riconobbe. — Cosa ci fai qui, in questo periodo? — la bambina si alzò da terra. — E questa bambina? — È mia figlia. — Hai una figlia? Il guaritore annuì. — Non ti somiglia. La bambina aveva gli occhietti a mandorla e il corpo sproporzionato come quello di una rana. Dimostrava dieci, dodici anni. — Hai intenzione di fermarti tutto il mese di marzo per guadagnare a più non posso — continuò, con indifferenza. — A cosa ci serve una bambina, me lo dici? Il guaritore la afferrò per le spalle, come se volesse vendere un prodotto. — Sarà lei, non io, ad addomesticare gli animali questa primavera. Da quand'è nata le ho insegnato a capirli, e ne ho fatto la principessina dei cavalli. | << | < | > | >> |Pagina 42All'alba tornò a casa solo, incapace d'immaginarsi a letto e con l'idea di riprendere a lavorare una volta cambiatosi d'abito. Sperava che sua madre avesse lasciato la porta aperta, oppure che uno degli uomini si fosse alzato per fare il necessario con le giumente morte, altrimenti avrebbe dovuto aspettare che gli altri si fossero svegliati, e sorbirsi le battute sulla sua vita sregolata. Da lontano vide un sacco rattrappito vicino alla soglia di casa, e pensò che uno dei fratelli lo avesse preceduto nel dormire all'addiaccio. Tuttavia non c'era un Pozbipieta ad aspettarlo, ma il nipote dei Durach, un ragazzino, e non stava dormendo.— Vengo a chiedervi aiuto. I Ralco ci hanno attaccato. Non so come difendermi, e sono l'unico uomo di casa — le labbra gli tremavano. Bilawal lo prese per un braccio e lo portò nelle stalle.
— Raccontami cos'è successo.
Ieri mattina sono riuscito a evitare che mia sorella fosse violentata. Era un po' che non la vedevo, e sono entrato in camera sua per controllare se stesse schiacciando un sonnellino. Vidi Jasar Ralco che la soffocava col suo enorme corpo d'animale. Si girò verso di me, e mi fece un segno col coltello, fino a quel momento puntato contro mia sorella. Io indietreggiai tanto da sentire la rugosità della parete piantata nelle ossa della schiena. Guardavo Jasar senza rendermi conto di chi fosse, ma poi mi ricordai che era uno degli uomini entrato in casa nostra insieme a Sara Ralco il giorno prima. — Sono i miei fratelli — ci aveva detto Sara. — Sono venuti per la festa. Non ti ricordi di loro, vero? — aveva chiesto a mia madre, la quale si scusò per non averli riconosciuti. — Sono rimasti per molti anni sulla montagna come fuggiaschi. Avevo trovato sgradevole il modo in cui Jasar guardava mia sorella, e come sudava attorno ai baffi. Non mi sono mai piaciuti i Ralco, con quell'aria da ragazzini e la loro ipocrisia, i loro perenni debiti e quello sguardo sbieco. Riuscii soltanto a indietreggiare e a restare a bocca aperta, guardando fin quasi a non vedere più il coltello col quale minacciava mia sorella. Perla era mezza nuda, rannicchiata sul pavimento, e si copriva il seno con l'arazzo con cui avevano avvolto mio padre, quando fu riportato dalle montagne dell'Est. L'uomo si avvicinò e brandì il coltello con più forza. — Adesso non fare l'ometto. Esci da dove sei entrato, e non una parola con nessuno. In quel momento avrei voluto gridare contro la parte che mi avevano riservato nella vita, ma non seppi fare neanche quello. Jasar mi perse di vista un istante, e io me la svignai alle sue spalle. Corsi in cucina, ma non trovai alcun coltello, niente con cui difendermi. Ebbi appena il tempo di afferrare un paio di forbici, prima di sbattere l'anca contro la porta. Non ricordo nemmeno se mi dolse. So soltanto che allora vidi il seminarista, che negli ultimi mesi faceva compagnia tutti i pomeriggi a mia nonna, e che corsi verso di lui urlando. — Ci uccidono tutti! Uccidono Perla! Aiuto, aiuto, in nome di Dio! Chi poteva sentirmi in mezzo al monte? Jasar uscì di casa maledicendomi, si scagliò su di me minacciando di lanciarmi il coltello contro. Io ruzzolai sull'erba, o forse inciampai nella catasta di legna, impugnai le forbici con tutta la forza che avevo e gliele scagliai contro senza sapere come. Gli sfiorarono la pancia e gli strapparono le mutande. — Maledetto ragazzino... — biascicò, con la mano sul graffio. Allungai il braccio e tastai uno dei ceppi di legna, e vedendolo ancora ricurvo sull'ombelico, lo colpii in testa quante volte potei. Picchiai e picchiai, ma quel maiale sudato ed enorme si muoveva e mi prese la caviglia. Il seminarista mi passò il machete. — Colpiscilo! Colpiscilo! Riuscii a prenderlo alla nuca e quasi a staccargli la testa dal corpo. Rantolò per un bel pezzo. Pioveva. Il seminarista era pallido, mi scrollai le mani e mi diressi zoppicando verso casa, dove mia sorella cercava di coprirsi con il vestito a brandelli e piangeva. Mi sedetti accanto al letto. — Lo hai ucciso? Annuii. Perla venne a sedersi vicino a me e lentamente smise di piangere. — Io non ho fatto nulla. Te lo giuro. Ha bussato mentre preparavo l'impasto per il pasticcio di carne. L'ho lasciato entrare, e lui ha preso il coltello e mi ha obbligato a seguirlo in camera. Tu sei arrivato quando si stava spogliando. — Ti ha fatto del male? — No. Mi ha solo toccata. — Dammi qualcosa per coprirlo — le dissi. — Tra poco arriverà gente. Una cosa qualsiasi. Cercai la nonna che stava tagliando l'erba, e quando le raccontai cos'era successo, lei mi guardò come se non mi avesse mai visto prima. — Maiali ingrati — farfugliò. — Ci hanno sempre detestato, nonostante tutto quello che abbiamo fatto per loro. Quando festeggiamo qualcosa, non c'è giorno in cui non gli portiamo metà del pasticcio. Quando in casa loro fanno la fame, non si vergognano a venire a elemosinare un pezzo di pane, o gli avanzi della cena. Vengono a sfamarsi alle feste, e si portano dietro altra gente, perché sanno che qui possono rimpinzarsi a piacere, perché i Durach sanno mandare avanti una fattoria, mentre quelli scappano come assassini. Oh se i Pozbipieta li distruggessero! E Thonolan Mercian li finisse come fece col bandito! Non abbiamo mai messo piede in casa loro, anche se sono gli unici vicini che abbiamo da qui a Gyomaendrod, e per quanto mi riguarda penso che non lo farò mai. Li salutavo in chiesa e questo bastava. Per colpirci, hanno approfittato di un momento in cui ci hanno visto deboli, in cui l'unico uomo di casa è un ragazzo di quindici anni — mi si avvicinò e mi prese la mano. — Denholm, figliolo... — Io non volevo... — Ormai è fatta... — disse. — Cosa facciamo adesso? — Nessuno deve venire a saperlo. Dobbiamo inventarci qualcosa. Si allontanò alla ricerca del seminarista. Io finii di tagliare l'erba per i conigli, e la portai in casa. Nello stabbio i gatti mi vennero incontro. L'ultima gatta aveva nascosto i suoi quattro cuccioli lì vicino, in un buco nel terreno, e quando mi vedevano arrivare, si avvicinavano per strofinarsi addosso, con grande ira della madre, che era intrattabile e selvatica. I conigli divoravano l'erba con appetito, li lasciai soli. | << | < | > | >> |Pagina 91— Ultrice, vedi se riesci a ritagliarti un paio di pomeriggi per aiutarmi con le nuove ragazze. Non sanno fare un bel niente, ma per chiedermi anticipi sulla paga gli avanza sempre tempo. Se ti domandano dello stipendio, riferiscilo a Porta o a uno di loro. Non mi occupo io di queste cose, ma parla con me se ti danno qualche problema, perché te ne daranno... non illuderti. Il salario è buono e il lavoro non eccessivo, però molto stancante. Nessuna domestica dura a lungo. Si creano tensioni a causa delle fugaci apparizioni del conte e dei capricci della contessa...Le regole, però, sono semplici. In maniera gentile le dico a tutte: 'Da oggi fino al giorno della festa, fai solo quello che ti diciamo di fare. Non farti influenzare dagli altri, dagli amici e dalla gentaglia. Se ti danno un ordine, tu di' sempre di sì, ma prima di muovere un dito chiedi a me. Per quanto riguarda la signora, invece, è bene compiacerla in tutto. Il conte di solito parla con me. Se lo incontri, non t'inchinare, non tartagliare. Fai come se niente fosse.' Ma nessuna mi dà retta. A maggio ci sarà il compleanno della contessa, e se ti sorprende il fatto che ci occupiamo dei preparativi con oltre tre mesi di anticipo, lascia passare un po' di tempo, e non ti stupirai più di niente. Non so cosa verrà fuori. A partire da oggi, e fino al giorno del suo compleanno, la contessa organizzerà feste ogni giovedì, e qualche volta anche di sabato; di solito si balla, ma non sono feste paragonabili a quella che stiamo preparando. Non aveva mai organizzato niente di simile. Siccome fino al giorno prima non dice di cosa ha bisogno, dobbiamo avvantaggiarci e tenerci pronti. Non puoi immaginarti come riesca a incaponirsi, ma grazie a Dio alcune cose si possono prevedere. In genere i maggiori problemi li danno quelli che vengono da fuori. Non possiamo permettere che gli invitati trovino ragioni per criticare questa casa. Io ho sempre seguito una regola d'oro: quello che fai, dentro e fuori casa, mantienilo segreto. La contessa, fin da bambina, scambia il giorno con la notte, soffre d'insonnia. Non si alza mai prima di mezzogiorno. In compenso, passeggia e girovaga fino a tardi. In estate è molto fastidioso, perché il sole sorge prestissimo e per lei la notte non finisce mai. Ma se devi dormire o recuperare il sonno perduto, la mattina possiamo riposare un po'. Negli anni in cui sono stato qui, ho capito che il miglior atteggiamento di fronte a qualsiasi cosa è sempre risultato quello di essere invisibile, sia con sua madre che con lei. Poi la madre si è risposata e ha avuto quel figlio strano e frivolo. Per quanto mi riguarda, rispettavo il signor Athairfada ma non ho alcuna simpatia per le donne della famiglia: si comportano da eccentriche, e per stare dietro ai loro capricci si finisce per trascurare l'essenziale. In verità, da quando Sverker si occupa dei rifornimenti, non c'è da lamentarsi. Saremo anche la sua gallina dalle uova d'oro ma in compenso, da quando non dobbiamo più correre ogni cinque minuti ai negozi di Astaregar fino a farci venire la nausea, ci siamo alleggeriti. Con loro non ci sono problemi. Sono di casa, la contessa poi la portano sul palmo della mano, e scelgono solo roba di grande qualità. Prima, era il signor conte a incaricarsi degli acquisti più delicati. Almeno una volta a settimana tornava con l'auto colma di regali, piccole cosette per lei: guanti, scialli, piante di rose. La contessa... con le sue rose ci ha fatto diventare matti. Per una stagione intera non è uscita dal giardino, poi si è stufata. Fa sempre così. All'inizio, per ogni automobile di regali le brillavano gli occhi, abbracciava il marito e rideva come una bambina, con le mani piene di gingilli. Faceva piacere vederli così. In seguito ha perso interesse, e provava entusiasmo solo per quello che il conte le comprava. Da quando sono io a occuparmi di tutto, giurerei che non si è neppure accorta del cambiamento. Una volta era diverso. Questa era una casa gradevolissima, ma quando presero l'impegno di sposarsi l'ambiente si è guastato. Il signore da sempre, da quando era ragazzo, nonostante fossero cugini e la famiglia fosse contraria, non aveva mai voluto sentire parlare d'altro. Ricordano ancora il matrimonio ad Astaregar. Siccome volevano evitare la famiglia, quando tornarono dal viaggio di nozze si trasferirono qui a Gyomaendrod, in casa Argos. Il conte non vedeva Argos da molti anni, altrimenti non ci avrebbe neanche pensato. Suo padre era un uomo molto perspicace, aveva aspirato a ottenere un incarico politico. Passò tutta la vita in città perché il cuore non gli funzionava bene, e qui non poteva essere curato bene. Un signore, un gran signore, ma trascurò parecchio la casa e lasciò al figlio un duro lavoro. Loro però non sembravano intimoriti. Tirarono su tutta questa parte, che prima cadeva a pezzi. Si fecero aiutare dalla contessa, che ricordava molto meglio di lui la disposizione originale. Era naturale, dal momento che aveva vissuto nella casa Convalaria per tredici anni e, quando il conte andava a trovarli, conosceva i pertugi della cancellata in cui infilarsi, e come accedere alle stanze dove giocavano. Credo che non sapessero nemmeno che Argos apparteneva a lui, anzi immagino che quei giochi infantili diedero, specialmente al conte, una visione sbagliata di ciò che questa proprietà sarebbe stata per loro. Quando arrivammo, Argos era una casa sfarzosa e signorile, ma i legni imbarcati e umidi, i vetri rotti e sparsi ovunque rivelavano gli anni di abbandono. Oggi, dopo essere stata abitata per anni dalle persone sbagliate, si è trasformata in un edificio desolato e gigantesco, con qualcosa di strano, una ricercatezza artificiale, una deformità di cui non so se ci libereremo. Il giardino era distrutto. Ai tempi d'oro era stato un giardino pregiato, che copriva tutti i suoi dislivelli e gli spazi vuoti con fiori splendidi, statue e imponenti vasi di terracotta pieni di viole del pensiero. Ricordo che quando arrivai le viole erano piante misere, con qualche fiorellino minuscolo e sbiadito. La signora s'impegnò a creare un labirinto di siepi. Non ne attecchì quasi nessuna. Visto che voleva riprovarci, circondò la casa di piante di rose bianche e gialle... ma la stagione delle rose è breve, e il resto dell'anno il giardino aveva l'aspetto di un campo incolto. | << | < | > | >> |Pagina 125I due preti, padre Mirade e padre Deagad, si ripartivano scrupolosamente le messe. Non era molto giusto per il giovane prete, visto che si occupava anche delle faccende amministrative della parrocchia, della gran parte delle confessioni, delle riunioni mensili con le suore di Indigo e di tutti i delicati compiti previsti dal suo ministero.Padre Mirade era ormai vecchio: la testa incanutita non funzionava bene come un tempo, e si sentiva sempre più stanco. E Deagad, giovane figlio e orgoglio di Gyomaendrod, un ragazzo uscito da poco dal seminario che non permetteva a nessuno di baciargli la mano, stava lentamente raccogliendo quell'eredità che gli spettava di diritto dal giorno in cui, ancora bambino, era stato portato in chiesa dalla madre e in sagrestia aveva toccato una casula di velluto ornata con grandi rosoni d'oro. La sensazione di unto al tatto, un po' repellente, si estese a tutto quanto era sacro. Spesso aveva pensato che solo alle donne fossero concesse simili morbidezze. I giaggioli pezzati di fronte alle vergini, le mani madreperlate delle effigi, il satinato interno delle custodie. Curava scrupolosamente la pulizia della chiesa e con le sue pretese faceva diventare matta la sagrestana. Al vecchio Mirade importava poco di questa o di quella faccenda. Sembrava vivere al di sopra delle cose terrene, e godeva di una certa fama di santo perché lo vedevano aggirarsi in condizioni singolari, con la veste talare sporca e trasandata, mangiava poco ed era sempre disponibile a occuparsi di qualsiasi imprevisto. Deagad era convinto che, in caso di necessità, avrebbero avvertito il vecchio prete prima di lui. Questione di abitudine. La gente si era assuefatta alle sue messe infinite, al suo parlare lento, alla sua raffinata difesa delle tradizioni e al gesto di rivolgere in alto a ogni frase pronunciata gli occhi limpidi colore ardesia, e Deagad sapeva di non poter combattere contro questo. All'inizio aveva pensato di vivere con il vecchio prete nella casa attigua alla chiesa, ma sua madre si era opposta con veemenza tale che non osò contraddirla. Si lamentava dicendo che le figlie, il marito e il primogenito l'avevano abbandonata, e non aveva intenzione di separarsi dall'unico figlio rimastole. Al di là di questo contrasto, si dimostrava orgogliosissima del fatto che Deagad fosse diventato prete. Le due figlie si erano fatte suore. Aveva un fratello sacerdote e un'altra sua cugina pensava di entrare presto in convento. Lei stessa comunicava i fedeli giornalmente. Si era creato un ulteriore impedimento, più forte della volontà di sua madre: padre Mirade aveva trascurato la casa per più di quarant'anni, da quando cioè vi abitava, e Deagad riusciva a nascondere a stento la ripugnanza per quel luogo. Una vecchissima stufa nel corridoio aveva lasciato aloni di ossido sul muro e l'odore di marcio del ferro umido. La vernice alle pareti e sul soffitto si screpolava in piccole bolle. Il prete aveva un cane di grosse dimensioni, non addomesticato, legato a una catena metallica, che di notte si aggirava sciolto per la proprietà. Deagad detestava con tutto il cuore l'animale, al quale Mirade dava da mangiare dalle proprie mani. Restò quindi dalla madre, accudito e coccolato, visto che in cuor suo, dopo la lunga permanenza in seminario, smaniava per rivedere Gyomaendrod. I ricordi più felici dell'infanzia erano in quella casa e nella sagrestia della chiesa di San Raffaele. Quando era tornato a Gyomaendrod, contro la volontà dei superiori che per lui avevano in serbo progetti più importanti, andò dritto a vedere la casula color tabacco. Credeva che il tempo avesse levigato il velluto e invece, sotto la fodera che lo proteggeva, il tessuto si era conservato morbido e oleoso. Il cuore gli si intiepidì di quel calore che sentiva da bambino, e non pensò più al passato. Tutti a Gyomaendrod parlavano del passato: di quando, anni prima, il paese era grande e pieno di conti; di quando, l'anno precedente, i lupi non erano ancora una minaccia, o di ieri, quando era piovuto. Quel passato aveva un odore caldo e tenero, come il pane appena sfornato, protetto nel petto dal freddo degli anni. Deagad non aveva mai sentito la madre dire "domani", soprattutto dopo la morte di suo fratello. Da quel momento la donna, meno affettuosa, viveva in un eterno presente e pregava in silenzio avanzando senza fretta verso il passato, come altri contemplavano placidamente la morte ogni giorno più vicina. Sua madre si riuniva quasi tutti i pomeriggi con la sorella, la zia Cecilia, e con altre donne per recitare il rosario. Se lui era in casa gli chiedeva il favore di presiederlo. Sgranava il minutissimo rosario di madreperla e argento regalato a lui e a suo fratello per la prima comunione. Era una piccola mania della quale non voleva fare a meno. Dopo aver pregato facevano merenda. La zia Cecilia, che per anni aveva gestito una taverna, portava sempre dolcetti, o qualche oncia di cioccolato di qualità insuperabile. Spesso l'accompagnava la figlia più piccola, Gadea. Séfora si era sposata da tempo e Dama, la più grande, era intenzionata a entrare in convento, come le sue cugine, e si vedeva di rado. Gadea era la cugina preferita. Nella stanza della madre conservavano un ritratto di loro due abbracciati, eseguito quando non avevano ancora quattro anni. Allora Deagad sembrava una bambina. Aveva i capelli biondi, pettinati in lunghi boccoli, e di lui dicevano che si comportava da vero ometto. Anche Gadea era dolce e bella. Sposata da un paio di anni, non aveva figli e trascorreva il tempo tra la casa della madre e quella della zia. Viveva in una proprietà lasciatale dal padre, distante, immersa nella montagna e, dopo aver subito l'attacco dei banditi, non sopportava di restare da sola mentre il marito lavorava le lontane terre che aveva ereditato. Sua cugina lo prendeva sempre in giro e lo trattava con pochissimo rispetto. Lei era una delle ragioni per le quali Deagad non permetteva a nessuno di baciargli la mano: temeva la sua mordacità. Il giovane prete non era solito adirarsi, ma ci rimase male il giorno in cui Gadea scoppiò a ridere senza trattenersi mentre riceveva la comunione da lui. Non gli rivolse il minimo gesto di scusa. Quando smise di ridere, disse solo che le sembrava di giocare ancora alla messa. | << | < | > | >> |Pagina 162Il giorno prima, due uomini di Pozbipieta avevano bussato al portone.— Porto i saluti di Galahad Pozbipieta, che chiede umilmente il permesso di parlare domani con la signorina Ianua e la sua degna madre. Non fu pronunciata una sola parola oltre alle formule di rito. Il permesso venne concesso e la madre preparò una delle tre bottiglie di vino che serbava in una credenza. Avevano una forma particolare, panciuta e con il collo lunghissimo, e al loro interno il vino pareva acqua colorata. Quel vino si chiamava "Lacrime della fidanzata", ed era stato posto su un vassoio con due bicchieri di vetro leggero. Nella stanza da bagno, Helmina si sporgeva dalla finestra fino alla vita. I capelli, raccolti in fanciulleschi tirabaci all'altezza della nuca, erano stati appena sistemati con alcune forcine. — Sono venuti tutti e quattro — disse all'improvviso. — Arrivano a cavallo, vestiti di bianco, sollevando polvere al loro passaggio. Sulla porta allora apparve la madre, con le mani incrociate e tese, le nocche livide per l'emozione trattenuta. — Scendete. Sono già qui. Dandelión, hai messo le scarpe? Dandel corse a prendere le babbucce di marocchino azzurre e le infilò nel corridoio. La madre lasciò che imboccassero le scale e scese dietro di loro. Quando Iria le passò accanto, le accarezzò i capelli con tenerezza. — Come siete cresciute in fretta... Presero posto a sedere. Iria distese la gonna del suo vestito, lisciandosi le trine. La madre sgranò gli occhi, drizzò la testa e si schiarì la voce. — Fateli entrare. Gli stivali dei Pozbipieta risuonarono nel corridoio. Si presentarono con lo sguardo dritto e un pallido sorriso sulle labbra. Bilawal si sedette per primo, con Lautaro alla sua destra e Galahad alla sua sinistra. Dandel aveva incontrato poche volte i potenti fratelli, e aveva sempre chinato la testa, intimorita dagli occhi di cobra del maggiore. Temeva Bilawal più di sua madre. E ora quel serpente era lì, a casa sua, seduto sulla sedia di velluto. Dandel guardò furtivamente Galahad che fissava il pavimento, troppo confuso per azzardarsi a parlare. E si immaginò sposata con lui, ad allattare figli che avrebbero ereditato quell'espressione turgida e trattenuta, o le gelide pupille di Bilawal. Le si strinse il cuore. Si scambiarono saluti e varie formule di cortesia. All'improvviso Dandel si girò, ed ebbe la sensazione di osservarsi dall'esterno, di spiare il salotto da una finestra e vedere i quattro sgabelli degli Ianua davanti alle sedie dei Pozbipieta, e i fili rossi che li legavano, che la afferravano per il collo e la univano a Bilawal Pozbipieta fino alla morte. Lautaro sorrideva come un bambino con le mani piene di dolcetti, e Galahad non scostava lo sguardo dal pavimento. Dandel si sentì le guance in fiamme, e improvvisamente seppe che per niente al mondo, né per il denaro dei Pozbipieta, né per paura di sua madre, né per la vita dei fratelli, si sarebbe sposata con lui. Strinse le mani e in silenzio supplicò pietà. La madre si scusò per il ritardo di Robin. — I figli. Per quanto ti impegni, fanno sempre come vogliono. I Pozbipieta annuirono; dissero di provare un rispetto quasi sacro per i loro genitori, anche se né la madre né il padre quel giorno li avevano accompagnati. Il lavoro alla stazione di monta doveva essere duro e costante, altrimenti i soldi avrebbero preso il volo senza che nessuno se ne rendesse conto. La madre degli Ianua si dichiarò d'accordo. La ricchezza era passata per la sua famiglia e poi se n'era andata, come una ferita. Ma fra le pareti di casa difendeva una famiglia rispettata e una disciplina ferrea, ammorbidita dalle carezze. E le sue figlie lo sapevano bene, aggiunse, sospirando con finta rassegnazione. Una volta le donne le si educava meglio. Sapevano meno cose, questo sì, ma le si educava meglio. Insomma, i tempi stavano cambiando, e lei non era nessuno per potersi opporre. Entrò Robin con la sua malinconia, e i Pozbipieta si alzarono in piedi. La madre lo attirò a sé con un gesto. — Il mio bambino... — disse. Robin si mise vicino al fuoco, appoggiandosi alla mensola del camino. Guardava Lautaro e il suo profilo che si stagliava contro la finestra. Bilawal parlò chiaro. — Ci porta qui un'umile richiesta, che faccio a nome di mio fratello. Dice che non vive più, che non può fare a meno di sua figlia. Per questo la chiedo in sposa per lui. Tutti sapete chi siamo e conoscete i nostri beni, lei sarà accudita come merita, come una figlia dai miei genitori e una sorella da noi, non avendone mai avuta una. La madre si alzò, si schiarì la voce senza far rumore e si appoggiò di nuovo allo schienale. — Immaginavo si trattasse di questo. Ciascuna delle mie figlie sarebbe onorata di diventare la moglie di Galahad, però credo che prima dovremmo sapere chi di loro vuole sposare. I Pozbipieta disorientati si scambiarono uno sguardo. — Iria, ovviamente — chiarì Bilawal, riprendendosi immediatamente. — E chi altri sennò? Iria si lasciò scappare una risatina e si coprì il viso con le mani. Dandel smise di far girare il suo anello. — Non pensavamo potesse esservi possibilità di un fraintendimento — proseguì Bilawal. Robin, di faccia alla parete, rimase in silenzio. — Ho tre figlie. Tutte in età da marito. Inoltre Iria è la minore, e non è d'uso sposare per prima la più piccola. Bilawal la interruppe. — La mancanza è stata mia. Sono tre figlie splendide, quasi quanto la madre, ma Galahad ci ha tanto parlato di Iria che su tale questione non potevamo immaginare altro, e credevamo si sapesse in questa casa come nella nostra. La madre diresse a Iria uno sguardo terribile. — Iria, quali sono i tuoi rapporti con il signor Galahad Pozbipieta? Bilawal si intromise di nuovo. — Sua figlia è un angelo e non credo osasse parlare con mio fratello senza il suo permesso; ma se è vero che gli sguardi sono eloquenti, sono convinto che Galahad non avesse bisogno di parole. Si alzarono lasciando Iria e Galahad da soli davanti al camino, come era consuetudine. Si spostarono in veranda. Bilawal Pozbipieta porse il braccio alla madre. Anche lì avevano sistemato alcune sedie. Robin si sedette vicino a Lautaro e non lo lasciò parlare quasi con nessun altro. Dandel, sotto la lunga gonna, si tolse le scarpe e respirò più serenamente. La madre si sventagliava. — Fa caldo, non trovate? Ogni anno l'estate inizia prima. Non mi sembra vero di poter già dare in sposa la bambina. Come passa il tempo! Grazie a Dio il mondo è stato fatto con giudizio, e quando la passione svanisce e l'ardore del sangue non spezza più il fiato, ecco nascere i nipoti, e l'amore diventare più tranquillo e meno doloroso. Bilawal si piegò verso di lei.
— Non ha motivo di vantarsi dei suoi anni — disse, sorridendo. Il tempo
trascorre al suo ritmo, uguale per tutti. Anch'io sto diventando vecchio.
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