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| << | < | > | >> |Indice9 1. La morale sessuale "civile" e il nervosismo moderno (1908) 35 2. Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915) 1. La delusione della guerra, 35 2. Il nostro modo di considerare la morte, 50 65 3. Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921) 1. Introduzione, 65 2. La descrizione dell'anima delle masse in Le Bon, 67 3. Altre valutazioni della vita psichica collettiva, 78 4. Suggestione e libido, 84 5. Due masse artificiali: la chiesa e l'esercito, 89 6. Ulteriori problemi e altre linee di ricerca, 96 7. L'identificazione, 201 8. Innamoramento e ipnosi, 108 9. La pulsione gregaria, II4 10. La massa e l'orda primordiale, 120 11. Un gradino all'interno dell'Io, 127 12. Complementi, 132 145 4. L'avvenire di un'illusione (1927) 199 5. Il disagio della civiltà (1929) 283 6. Perché la guerra? (1932) Lettera di Einstein a Freud, 283 La risposta di Freud, 287 |
| << | < | > | >> |Pagina 197Non ci si può sottrarre all'impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli altri, ma sottovalutino i veri valori della vita. Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio generale di questo tipo, si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo umano e della vita della psiche. Vi sono taluni uomini a cui i contemporanei non negano l'ammirazione benché la loro grandezza poggi su doti e realizzazioni che sono completamente estranee agli scopi e agli ideali della massa. Potremmo facilmente essere indotti a credere che solo una minoranza, alla fin fine, apprezza questi grandi uomini, mentre la gran maggioranza non se ne cura affatto. Ma la cosa potrebbe non risultare così semplice, grazie alle discrepanze tra i pensieri e le azioni degli uomini e alla diversità dei desideri che li muovono. Uno di questi uomini eccezionali, per lettera, si definisce mio amico. Gli avevo mandato il mio piccolo scritto che tratta della religione alla stregua di un'illusione, ed egli mi rispose di concordare in pieno con il mio giudizio sulla religione, ma di dolersi che non avessi giustamente apprezzato la fonte autentica della religiosità. Essa consisterebbe in un particolare sentimento che, quanto a lui, non lo abbandonerebbe mai, che troverebbe attestato da molti altri e che supporrebbe presente in milioni di uomini, ossia in un sentimento che vorrebbe chiamare senso della "eternità", un senso come di qualcosa di illimitato, di sconfinato, per così dire di "oceanico". Tale sentimento sarebbe un fatto puramente soggettivo, non un articolo di fede; non comporterebbe alcuna garanzia d'immortalità personale, ma sarebbe la fonte di quell'energia religiosa che viene captata, immessa in particolari canali, e indubbiamente anche esaurita, dalle varie chiese e sistemi religiosi. Soltanto sulla base di questo sentimento oceanico potremmo chiamarci religiosi, anche rifiutando ogni fede e ogni illusione. Le opinioni espresse dal mio stimato amico, che personalmente ha esaltato una volta in una poesia la magia delle illusioni, mi hanno causato non lievi difficoltà. Per quel che mi riguarda, non riesco a scoprire in me questo sentimento "oceanico". Non è facile trattare scientificamente i sentimenti. Si può tentare di descriverne gli indizi fisiologici. Dove ciò non è possibile - e temo che anche il sentimento oceanico eluda una caratterizzazione siffatta - non resta da far altro che attenersi al contenuto rappresentativo che più immediatamente risulta associato al sentimento. Se ho ben compreso il mio amico, egli allude a ciò che un drammaturgo originale e piuttosto bizzarro offre al suo eroe come consolazione nella prospettiva della morte volontaria: "Fuori di questo mondo non possiamo cadere." Si tratta dunque di un sentimento di indissolubile legame, di immedesimazione con la totalità del mondo esterno. Potrei dire che per me ciò ha piuttosto il carattere di un'intuizione intellettuale, non certo priva di una sua risonanza emotiva, ma tale comunque da non dover risultare assente neanche da altri atti di pensiero di analoga portata. Per quanto riguarda la mia persona non potrei convincermi della natura primaria di un tale sentimento. Non per questo mi è però lecito negarne la presenza effettiva in altre persone. Occorre soltanto chiedersi se venga correttamente interpretato e se debba essere riconosciuto come fons et origo di tutti i bisogni religiosi.
Non ho nulla da proporre che possa contribuire in modo decisivo alla soluzione
di questo problema. L'idea che l'uomo debba avere conoscenza della propria
connessione con il mondo circostante attraverso un sentimento immediato e fin
dall'inizio orientato in tale
direzione, appare così strana e si accorda così male con la struttura della
nostra psicologia da legittimare il tentativo di una spiegazione psicoanalitica,
ossia genetica, di tale sentimento. Possiamo quindi disporre della seguente
linea di pensiero: Normalmente nulla è per noi più sicuro del senso di noi
stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben
contrapposto a ogni altra cosa. Che tale apparenza sia fallace, che invece l'Io
abbia verso l'interno, senza alcuna delimitazione netta, la propria
continuazione in una entità psichica inconscia, che noi designiamo come Es, e
per la quale esso funge per così dire da facciata, lo abbiamo per la prima volta
appreso dalla ricerca psicoanalitica, da cui ci attendiamo molte altre
informazioni circa il rapporto tra Io ed Es. Ma verso l'esterno almeno l'Io
sembra mantenere linee di demarcazione chiare e nette. Solo in uno stato, in uno
stato insolito, è vero, ma non tale da poter venire condannato come patologico,
le cose vanno diversamente. Al culmine dell'innamoramento, il confine tra Io e
oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l'innamorato
afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se le
cose stessero così.
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