Copertina
Autore Saul Friedländer
Titolo La Germania nazista e gli ebrei
SottotitoloVolume I: Gli anni della persecuzione, 1933-1939
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1998], gli elefanti storia , pag. 448, cop.fle., dim. 135x206x28 mm , Isbn 978-88-11-67701-7
OriginaleNazi Germany and the Jews. Volume I The Years of Persecutions, 1933-1939 [1997]
TraduttoreSergio Minucci
LettoreCorrado Leonardo, 2004
Classe storia: Europa , storia contemporanea , storia criminale , shoah , paesi: Germania
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Indice

Ringraziamenti                                     7

Introduzione                                       9

Parte 1: Un inizio e una fine

Capitolo 1: Dentro il Terzo Reich                 17
Capitolo 2: Élite consenzienti, élite minacciate  49
Capitolo 3: Antisemitismo redentivo               81
Capitolo 4: Il nuovo ghetto                      121
Capitolo 5: Lo spirito delle leggi               153

Parte II: In trappola

Capitolo 6: Crociate e schedari                  183
Capitolo 7: Parigi, Varsavia, Berlino, Vienna    217
Capitolo 8: Un modello austriaco?                247
Capitolo 9: L'assalto                            275
Capitolo 10: Il crollo                           311

Note                                             339

Bibliografia                                     413

Indice analitico                                 435
 

 

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Pagina 9

Introduzione



La maggior parte degli storici della mia generazione, nati alla vigilia dell'era nazista, ammette, esplicitamente o implicitamente, che il rivangare gli eventi di quegli anni comporta non solo un'opera di scavo e di interpretazione di un passato collettivo simile a qualunque altro, ma anche un processo di recupero di elementi decisivi delle nostre stesse vite e di confronto con essi. Tale ammissione è ben lungi dal generare un qualsiasi tipo di accordo su come definire il regime nazista, come interpretarne la dinamica interna, come illustrarne in modo adeguato la natura assolutamente criminale e al contempo assolutamente ordinaria, o su dove e come collocarlo all'interno di un più ampio contesto storico. E tuttavia, nonostante le nostre controversie, credo che nel descrivere questo passato sia comune a molti di noi un senso di coinvolgimento personale che carica di un'ansia particolare le nostre ricerche.

Per la generazione di storici successiva alla nostra - e ormai anche per quella che le succederà -, così come per la gran parte dell'umanità, il Reich hitleriano, la seconda guerra mondiale e il destino degli ebrei d'Europa non costituiscono una memoria comune. E tuttavia, paradossalmente, la centralità di questi eventi nella coscienza storica appare oggi ancora maggiore rispetto a qualche decennio addietro. I dibattiti su questi argomenti tendono a perpetuarsi con acredine immutata via via che i fatti vengono contestati e le prove negate, che interpretazioni e tentativi di commemorazione vengono a scontrarsi, e che nuove dichiarazioni sulle responsabilità di quei fatti storici vengono periodicamente alla ribalta. Forse in questo nostro secolo di genocidi e di criminalità di massa, lo sterminio degli ebrei d'Europa, a prescindere dal suo specifico contesto storico, è percepito da molti come parametro ultimo del male in base al quale commisurare i vari livelli di malvagità. In tutti questi dibattiti, il ruolo dello storico è fondamentale. Per la mia generazione, essere al contempo depositari della memoria storica e partecipi delle odierne conoscenze di tale passato puo creare un'inquietante dissonanza, ma anche, al contempo, alimentare intuizioni interpretative che sarebbero altrimenti precluse.

Produrre una narrazione storica dell'Olocausto che abbracci le iniziative politiche dei suoi responsabili, gli atteggiamenti della società circostante e il mondo delle vittime in un unico e strettamente integrato quadro interpretativo continua a essere impresa quanto mai ardua. Alcuni dei più noti resoconti storici di questi eventi sono incentrati principalmente sulla macchina di persecuzione e morte nazista e prestano scarsa attenzione alla società nel suo complesso, al più ampio scenario europeo e mondiale o al destino stesso delle vittime. Meno di frequente, altri hanno focalizzato l'attenzione esclusivamente sul mondo delle vittime, offrendo un'analisi solo parziale della politica nazista e dello scenario circostantr. Questo studio intende offrire una narrazione in cui la politica nazista costituisca l'elemento centrale, ma nella quale il mondo circostante e gli atteggiamenti, le reazioni e il destino delle vittime siano parte altrettanto integrante di un quadro complessivo.

In molti studi, l'implicito presupposto della generale passività che caratterizzò le vittime, o della loro incapacità di mutare il corso degli avvenimenti che portò al loro sterminio, ha trasformato le vittime stesse in un elemento statico, astratto, degli eventi accaduti. Troppo spesso si dimentica che non è possibile comprendere appieno gli atteggiamenti e le iniziative naziste senza conoscere la vita e finanche i sentimenti degli stessi uomini, donne e bambini ebrei. Ecco perché qui, in ciascuna fase illustrativa della politica nazista - nonché degli atteggiamenti della società tedesca ed europea laddove questi ne influenzano l'evolversi - si è inteso dare grande importanza al destino, agli atteggiamenti e a volte alle iniziative stesse delle vittime. Ritengo infatti che le loro voci siano essenziali per una più piena comprensione di questo passato. Sono infatti le loro voci che rivelano quanto sappiamo e quanto invece potremmo sapere; e sono le sole voci in cui viene a fondersi la più lucida presa di coscienza e la totale cecità di esseri umani posti innanzi a una realtà del tutto nuova e assolutamente terrificante. La costante presenza, in questo libro, delle vittime - elemento già di per sé fondamentale da un punto di vista storico - mira altresì a collocare l'operato dei nazisti nella sua prospettiva più completa.


È abbastanza facile individuare i fattori che determinarono il contesto storico globale entro cui fu perpetrato lo sterminio di massa nazista. Tali fattori determinarono metodi e portata della «soluzione finale», e contribuirono altresì a creare quel clima generale che spianò la strada allo sterminio. Basti qui menzionare la radicalizzazione ideologica - con l'acceso nazionalismo e l'accanito antimarxismo (poi antibolscevismo) a fungere da forze propulsive principali - emersa negli ultimi decenni del XIX secolo e che raggiunse l'apice dopo la prima guerra mondiale (e la Rivoluzione russa), la nuova dimensione dei massacri di massa introdotti da quella guerra, il crescente controllo tecnologico e burocratico esercitato dalle società moderne, e gli altri tratti caratteristici essenziali della modernità in quanto tale, che costituirono un aspetto preponderante del nazismo. Tuttavia, per quanto essenziali queste condizioni possono essere state nel preparare il terreno all'Olocausto - e in quanto tali costituiscono parte integrante della nostra storia - esse non offrono, da sole, un quadro completo di tutti gli elementi che caratterizzarono il corso degli avvenimenti che vanno dalla persecuzione allo sterminio.

Riguardo a tale processo, ho inteso enfatizzare il ruolo personale di Hitler e della sua ideologia nella genesi e realizzazione pratica delle misure antiebraiche del regime nazista. Ciò, tuttavia, non è assolutamente da considerare come un ritorno a vecchie e riduttive interpretazioni incentrate esclusivamente sul ruolo (e la responsabilità) del leader supremo. Mi sembra, tuttavia, che col passare del tempo le interpretazioni opposte si siano spinte troppo in là. Il nazismo non fu un fenomeno alimentato essenzialmente dal caotico scontro di feudi burocratici e di partito in reciproca competizione, né la pianificazione delle sue iniziative antiebraiche fu affidata a meri calcoli contabili di tecnocrati. In tutte quelle che furono le sue decisioni più importanti, il regime dipese da Hitler. E soprattutto in relazione agli ebrei, Hitler fu guidato da ossessioni ideologiche che nulla hanno a che vedere con gli studiati artifici di un demagogo. Intendo dire che egli portò un tipo di antisemitismo del tutto particolare alle più estreme conseguenze. Definisco tale peculiare aspetto della sua visione del mondo «antisemitismo redentivo». È qualcosa di diverso, seppur correlato, rispetto ad altri tipi di odio antiebraico comuni in tutta l'Europa cristiana, e anche ai comuni tipi di antisemitismo razziale tedesco ed europeo. Fu questa dimensione redentiva, questa sintesi di furore omicida e di un fine «idealistico» - pienamente condivisa dal nucleo centrale del partito - che portò Hitler alla decisione finale di sterminare gli ebrei.

Ma le scelte politiche di Hitler non furono determinate soltanto dall'ideologia, e l'interpretazione offerta in questo libro sottolinea l'interazione tra il Führer e il sistema all'interno del quale egli agì. Il leader nazista non prese le sue decisioni indipendentemente dalle organizzazioni di partito o di Stato. Le sue iniziative, soprattutto durante i primi anni di regime, furono influenzate non solo dalla sua visione del mondo, ma anche da pressioni interne, da vincoli burocratici, a volte dall'opinione pubblica tedesca nel suo complesso e finanche dalle reazioni di governi e popoli stranieri.


In che misura il partito e il popolo condivisero l'ossessione ideologica di Hitler? L'«antisemitismo redentivo» fu moneta comune tra l'élite del partito. Studi recenti hanno altresì dimostrato come tale antisemitismo estremo non fosse inusuale nelle organizzazioni che avrebbero fatto da perno alla realizzazione delle politiche antiebraiche, quali ad esempio il servizio di sicurezza delle SS di Reinhard Heydrich (il Sicherheitsdienst, o SD). Per quanto riguarda gli elementi cosiddetti radicali del partito, essi erano spesso mossi da quella sorta di risentimento sociale ed economico sfociato poi in iniziative antiebraiche di segno estremo. In altre parole, all'interno del partito - nonché, come vedremo, al suo esterno - esistevano dei nuclei di antisemitismo irriducibile abbastanza potenti da trasmettere e propagare l'impulso dato dallo stesso Hitler. E tuttavia, tra le élite tradizionali e tra la popolazione nel suo complesso, l'atteggiamento antiebraico era più simile a una sorta di tacita acquiescenza o a una più o meno partecipe condiscendenza.

Sebbene la maggior parte della popolazione tedesca fosse pienamente consapevole, già molto prima della guerra, delle misure sempre più dure adottate contro gli ebrei, non vi furono che aree minoritarie di dissenso (e quasi tutte per motivi economici e ideologico-religiosi). Sembra, tuttavia, che la maggioranza dei tedeschi, pur indubbiamente influenzata da varie forme di antisemitismo tradizionale e pronta ad accettare la segregazione degli ebrei, fosse contraria ad azioni di violenza diffusa nei loro confronti e fosse ben lungi dall'invocarne l'espulsione dal Reich o il loro annientamento fisico. Dopo l'attacco all'Unione Sovietica, quando la decisione dello sterminio totale era già stata presa, le centinaia di migliaia di «tedeschi comuni» (vale a dire distinti, ad esempio, dalle fortemente ideologizzate unità SS), che parteciparono attivamente agli eccidi agirono in modo perfettamente simile agli altrettanto numerosi e «comuni» cittadini austriaci, romeni, ucraini, baltici e di altri paesi europei che divennero i più solerti esecutori della macchina omicida operante nei loro paesi. Ciò nonostante, che ne fossero coscienti o meno, tali killer tedeschi e austriaci erano stati indottrinati dall'incessante propaganda antiebraica del regime, che penetrò ogni piega della società e i cui slogan furono almeno in parte interiorizzati, principalmente nel contesto della guerra ad Est.

Nel sottolineare il fatto che Hitler e la sua ideologia ebbero un'influenza decisiva sul corso assunto dal regime, non intendo in alcun modo affermare che Auschwitz non fu altro che il naturale e preordinato epilogo dell'avvento al potere di Hitler. Le politiche antiebraiche degli anni Trenta vanno interpretate nel loro contesto, e fin anche la furia omicida di Hitler e la sua esplorazione dell'orizzonte politico alla perenne ricerca delle scelte più estreme non sembrano indicare l'esistenza di un piano di sterminio totale negli anni precedenti l'invasione tedesca dell'Unione Sovietica. Al contempo, tuttavia, nessuno storico può dimenticare dove finì quella strada. Di conseguenza, si intendono qui sottolineare anche quegli elementi che sappiamo, a posteriori, aver avuto un ruolo importante nell'evoluzione di quel processo e nel suo drammatico epilogo. La storia della Germania nazista non va scritta esclusivamente dal punto di vista del periodo bellico e delle sue atrocità, ma la pesante ombra gettata da quanto accadde in quegli anni oscura in misura tale gli eventi degli anni prebellici che uno storico non può fingere che gli avvenimenti successivi non influenzino la valutazione dei fatti e il giudizio sul corso complessivo di tale storia. I crimini perpetrati dal regime nazista non furono né il mero risultato di un casuale, involontario, impercettibile e caotico dipanarsi di eventi slegati, né il realizzarsi di un mostruoso copione preordinato. Essi furono il risultato di fattori convergenti, dell'interazione tra intenzioni e contingenze, tra cause discernibili e pura e semplice casualità. Grandi obiettivi ideologici e tatticismi politici si influenzarono reciprocamente e restarono sempre aperti a iniziative più radicali parallelamente al mutare delle circostanze.


In termini generali, la narrazione di quest'opera rispetta la sequenza cronologica degli eventi: la loro evoluzione prebellica e, in un prossimo volume, il mostruoso culmine raggiunto negli anni di guerra. Tale quadro temporale complessivo evidenzia gli elementi di continuità e indica il contesto dei principali mutamenti, consentendo altresì di spostare i piani narrativi all'interno di uno stabile quadro cronologico. Tali spostamenti derivano dai cambiamenti di prospettiva imposti dall'approccio interpretativo da me adottato, ma sono anche frutto di un'altra scelta: contrapporre livelli di realtà del tutto diversi - ad esempio, dibattiti ad alto livello sulla politica antiebraica e decisioni successive a comuni scene di persecuzione al fine di creare un senso di estraniazione che si contrapponga alla nostra tendenza ad «assuefarci» a quel particolare passato e ad ammorbidirne l'impatto mediante spiegazioni slegate e interpretazioni standardizzate. Credo che tale senso di estraniazione rifletta la percezione delle vittime del regime, almeno negli anni Trenta, di una realtà assurda e minacciosa, di un mondo al contempo grottesco e agghiacciante sotto una patina di ancor più agghiacciante normalità.

Dal momento in cui le vittime furono intrappolate nel processo poi sfociato nella «soluzione finale», la loro vita di collettività - dopo un periodo di accresciuta coesione - iniziò a disintegrarsi. Ben presto la storia di tale collettività venne a fondersi con quella delle misure amministrative e criminali del loro sterminio, riducendosi ad astratta espressione statistica. La sola storia concreta che è possibile recuperare resta quella testimoniata dalle esperienze personali. Dalla fase di disintegrazione collettiva a quella della deportazione e della morte, questa storia, perché la si possa scrivere, deve essere rappresentata sotto forma di narrazione organica di destini individuali.


Sebbene menzioni la mia generazione di storici e le potenziali intuizioni interpretative derivateci dalla nostra particolare collocazione cronologica, non posso ignorare la tesi secondo la quale un coinvolgimento emotivo personale in questi eventi preclude un approccio razionale alla narrazione storica. La «memoria mitologica» delle vittime è stata posta in contrapposizione alla comprensione «razionale» degli altri. Non intendo certo riaprire vecchie dispute, ma bensì semplicemente suggerire che gli storici tedeschi ed ebrei, al pari di quelli di ogni altra provenienza e formazione, non possono sfuggire, chi più chi meno, a una sorta di «transfert» nei confronti di questo passato. Tale coinvolgimento finisce inevitabilmente con l'influenzare chi scrive di storia. Non necessariamente, tuttavia, ciò preclude allo storico quel certo distacco indispensabile per il proprio lavoro, purché egli sia dotato di un sufficiente grado di consapevolezza. In realtà, potrebbe rivelarsi ancor più arduo evitare di cadere nell'eccesso opposto. Se un approccio costantemente auto critico può aiutare e ridurre gli effetti della soggettività, esso presenta tuttavia un altro e non meno grave rischio: quello di generare indebiti freni morali e una paralizzante cautela.

Le persecuzioni e gli stermini nazisti furono perpetrati da persone comuni che vissero e operarono in una società non diversa dalla nostra, una società che aveva prodotto sia loro sia i metodi e gli strumenti per la realizzazione delle loro azioni. Gli obiettivi di tali azioni, tuttavia, furono formulati da un regime, una ideologia e una cultura politica del tutto fuori dal comune. E questo rapporto tra ordinario e straordinario, questa fusione tra potenziali istinti omicidi comuni anche al nostro mondo e la peculiare furia apocalittica del regime nazista nei confronti del nemico mortale, l'ebreo, che attribuisce significato universale e specificità storica alla «soluzione finale della questione ebraica».

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Pagina 17

Capitolo 1
Dentro il Terzo Reich
[...]

Il principale obiettivo politico del nuovo regime e del suo sistema di terrore, almeno nei primi mesi successivi all'ascesa al potere dei nazisti, non furono gli ebrei, ma i comunisti. All'indomani dell'incendio del Reichstag del 27 febbraio, la caccia anticomunista portò all'arresto e all'internamento in campi di concentramento appositamente creati di quasi diecimila membri e simpatizzanti di partito. Dachau era sorta il 20 marzo e fu ufficialmente inaugurata dal capo delle SS Heinrich Himmler il 1° aprile. A giugno, il capogruppo SS Theodor Eicke assunse la direzione del campo, e un anno dopo fu nominato «ispettore dei campi di concentramento», in tal modo diventando, sotto l'egida di Himmler, il padrone della vita (e della morte) quotidiana dei detenuti nei campi della nuova Germania hitleriana.

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Pagina 41

Secondo l'ottica razziale nazista, la comunità nazionale tedesca traeva la propria forza dalla purezza del sangue e dalla profondità delle proprie radici nel sacro suolo tedesco. Tale purezza razziale era il risultato di una creazione culturale superiore e della costruzione di uno Stato potente, garanzia di vittoria nella lotta per la sopravvivenza e il dominio della razza. Sin dall'inizio, dunque, le leggi del 1933 mirarono a escludere gli ebrei da tutte le aree chiave di tale utopistica visione: la struttura stessa dello Stato (legge sui pubblici funzionari), la salute biologica della comunità nazionale (legge sui medici), il tessuto sociale della comunità (radiazione dall'albo degli avvocati ebrei), la cultura (le leggi sulle scuole, le università, la stampa, le professioni culturali) e, infine, il sacro suolo (la legge agraria). La legge sui pubblici funzionari fu l'unica di tali misure a trovare piena applicazione in questa prima fase, ma le dichiarazioni simboliche che esse esprimevano ed il messaggio ideologico di cui erano portatrici non lasciavano adito a dubbi.

Furono pochissimi gli ebrei tedeschi che colsero nelle implicazioni delle leggi naziste una strategia di terrore diffuso. Uno di questi fu Georg Solmssen, portavoce del consiglio di amministrazione della Deutsche Bank e figlio di un ebreo ortodosso. In una lettera del 9 aprile 1933 indirizzata al presidente del consiglio di amministrazione della banca, dopo aver affermato che finanche la parte non nazista della popolazione sembrava considerare le nuove misure «ovvie», Solmssen aggiunse: «Temo che siamo semplicemente all'imzio di un processo volto, in modo mirato e secondo un piano prestabilito, all'annientamento economico e morale di tutti i membri, senza distinzioni di sorta, della razza ebraica residenti in Germania. La completa passività non solo di quei ceti sociali vicini al partito nazionalsocialista, l'assenza di qualsivoglia sentimento di solidarietà tra quanti hanno fino a ieri lavorato fianco a fianco con colleghi ebrei, il desiderio sempre più manifesto di trarre vantaggi personali dalle posizioni che vanno liberandosi. Il voler sottacere l'onta e la vergogna inflitta a persone che, sebbene innocenti, assistono alla distruzione del proprio onore e della propria esistenza da un giorno all'altro: tutto ciò è indice di una situazione così disperata che sarebbe un errore non affrontarla di petto, senza tentare di abbellirla».

[...]

La città di Colonia proibì l'utilizzo degli impianti sportivi comunali agli ebrei nel marzo del 1933. A partire dal 3 aprile le richieste degli ebrei di Prussia di cambiare nome dovettero essere sottoposte al Ministero della Giustizia, «per impedire l'occultamento delle proprie origini». Il 4 aprile l'Associazione pugilistica tedesca espulse tutti i pugili ebrei. L'8 aprile tutti gli assistenti universitari ebrei dello Stato del Baden furono licenziati in tronco. Il 18 aprile il capo distrettuale di partito (Gauleiter) della Westfalia decise che un ebreo «avrebbe potuto lasciare la prigione solo se le due persone che avevano versato la cauzione o il medico che aveva firmato il certificato medico, fossero state disposte a prenderne il posto in cella». Il 19 aprile l'uso dello yiddish fu proibito nei mercati di bestiame del Baden. Il 24 aprile fu proibito il ricorso a nomi ebraici per scandire le lettere di una parola durante le conversazioni telefoniche. L'8 maggio il sindaco di Zweibrücken proibì agli ebrei di prendere in affitto degli stand in occasione del prossimo mercato cittadino annuale. Il 13 maggio fu vietato il cambio da un nome ebreo a uno non ebreo. Il 24 maggio fu ordinata la completa arianizzazione dell'organizzazione delle palestre tedesche, con l'obbligo per i tesserati di certificare la piena discendenza ariana di tutti e quattro i nonni. Se ad aprile i medici ebrei erano stati esclusi dalle istituzioni assicurate dallo Stato, a maggio fu ordinato alle istituzioni assicurate da privati di rimborsare le spese per le cure effettuate da medici ebrei solo se i pazienti erano a loro volta non ariani. Entro giugno sarebbero stati pronti due elenchi distinti di medici ebrei e non ebrei.

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Pagina 47

La «Legge per la prevenzione della progenie con malattie genetiche» (Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses) fu approvata il 14 luglio 1933, il giorno in cui entrarono in vigore le leggi contro gli ebrei orientali (cancellazione della cittadinanza, stop all'immigrazione e via dicendo). La nuova legge consentiva la sterilizzazione di chiunque fosse riconosciuto affetto da supposte malattie ereditarie quali frenastenia, schizofrenia, follia maniaco-depressiva, epilessia genetica, corea di Huntington, cecità genetica, sordità genetica e gravi forme di alcolismo.

[...]

Partendo dalle politiche di sterilizzazione e finendo con la legge sull'eutanasia dell'agosto 1941 - nonché con l'inizio, pressappoco in quella data, della «soluzione finale» - la politica riguardo agli handicappati e i malati di mente da un lato e quella antiebraica dall'altro ebbero uno sviluppo simultaneo e parallelo. Le loro origini e i loro obiettivi, tuttavia, erano ben diversi. Se la sterilizzazione e l'eutanasia miravano esclusivamente a preservare la purezza della Volksgemeinschaft ed erano sostenute da un calcolo costi-benefici, la segregazione e lo sterminio degli ebrei - sebbene anch'esso un processo di purificazione razziale - fu essenzialmente una lotta contro un formidabile nemico che, si riteneva, stava minacciando la sopravvivenza stessa della Germania e del mondo ariano. Così, oltre all'obiettivo della pulizia razziale, identico a quello perseguito con la campagna di sterilizzazione ed eutanasia e in opposizione a essa, la lotta contro gli ebrei fu vista come uno scontro di dimensioni apocalittiche.

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Pagina 49

Capitolo 2
Élite consenzienti, élite minacciate
[...]

A giudicare dalle apparenze, l'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti del nuovo regime sarebbe dovuto essere più risoluto di quello dei protestanti. Negli ultimi anni di vita della repubblica la gerarchia cattolica aveva manifestato un certo grado di ostilità nei confronti del movimento di Hitler, ma questa posizione era determinata esclusivamente da interessi di parte e dalle mutevoli fortune politiche del Partito del Centro cattolico. L'atteggiamento di molti cattolici tedeschi verso il nazismo prima del 1933 rimase fondamentalmente ambiguo: «Molti pubblicisti cattolici... sottolineavano gli elementi anticristiani del programma nazista, dichiarandoli incompatibili con l'insegnamento cattolico. Essi tuttavia passavano poi a parlare dell'anima sana del nazismo, che invece era da apprezzare: la sua riaffermazione di valori quali religione ed amore per la madrepatria, la sua funzione di baluardo contro il bolscevismo ateo». L'atteggiamento generale della Chiesa cattolica nei riguardi della questione ebraica in Germania e altrove può essere definita come un «moderato antisemitismo» che appoggiava la lotta contro «l'indebita influenza ebraica» nella vita economica e culturale. Come ebbe a esprimersi il vicario generale di Mainz, Mayer, «In Mein Kampf Hitler aveva "descritto in modo appropriato" l'influenza negativa degli ebrei sulla stampa, sul teatro e sulla letteratura. E tuttavia, non era da cristiani odiare altre razze e sottoporre gli ebrei e gli stranieri a penalizzazioni mediante leggi discriminatorie che avrebbero prodotto null'altro che rappresaglie da parte di altri paesi».

Appena giunto al potere, e impegnato com'era a firmare il Concordato con il Vaticano, Hitler tentò di stornare le possibili critiche cattoliche alle sue politiche antiebraiche e di scaricare la responsabilità delle sue argomentazioni sulla Chiesa stessa. Il 26 aprile ricevette il vescovo Wilhelm Berning di Osnabrück, delegato della Conferenza vescovile riunitasi in quei giorni. La questione ebraica non figurava tra gli argomenti di discussione di Berning, ma Hitler provvide personalmente a sollevarla. Secondo una bozza di protocollo vergata dall'assistente del vescovo, Hitler parlò «in tono caldo e tranquillo, a volte emozionato, senza mai pronunciare una sola parola contro la Chiesa e mostrando sempre rispetto per i vescovi: "Sono stato attaccato per il modo in cui ho trattato la questione ebraica. Per millecinquecento anni la Chiesa cattolica ha considerato gli ebrei degli appestati, li ha rinchiusi nei ghetti, e via dicendo, perché giudicavano gli ebrei per quello che erano. Nell'epoca del liberalismo questo pericolo ha cessato di essere riconosciuto. Io sto tornando all'epoca in cui venne applicata una tradizione durata millecinquecento anni. Non pongo la razza al di sopra della religione, ma considero i rappresentanti di questa razza pestilenziali per lo Stato e per la Chiesa e dunque sto forse rendendo al Cristianesimo un grande servigio cacciandoli dalle scuole e dai pubblici uffici"». Il protocollo non registra alcuna risposta da parte del vescovo Berning.

In occasione della ratifica del Concordato, nel settembre del 1933, il segretario di Stato cardinale Pacelli inviò all'incaricato d'affari tedesco una nota in cui illustrava la posizione di principio della Chiesa: «La Santa Sede approfitta di questa occasione per aggiungere una parola a difesa di quei cattolici tedeschi passati dall'ebraismo alla religione cattolica o che discendono in prima generazione o ancor più lontanamente, da ebrei che hanno abbracciato la fede cattolica e che per motivi noti al governo del Reich stanno parimenti patendo difficoltà economiche e sociali». In teoria, questa sarebbe stata anche in futuro la posizione delle chiese cattolica e protestante, sebbene in pratica entrambe finissero col piegarsi alle misure naziste contro gli ebrei convertiti allorché questi ultimi vennero definiti razzialmente come ebrei.

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Pagina 60

Heidegger era diventato rettore dell'Università di Friburgo nell'aprile del 1933. Già in passato era intervenuto sul tema della presenza degli ebrei negli atenei tedeschi. In una lettera del 20 ottobre 1929 a Victor Schwörer, presidente facente funzione del Fondo di emergenza creato per sostenere gli studiosi bisognosi, il filosofo aveva affermato che le due sole soluzioni possibili erano o un sistematico rafforzamento della «nostra» vita intellettuale tedesca o la sua resa definitiva alla «crescente giudaizzazione, nel senso più e meno ampio del termine». Allorché il professore di matematica di Heidegger, Alfred Löwy, fu costretto nell'aprile del 1933 ad andare anticipatamente in pensione perché ebreo, il nuovo rettore gli augurò di trovare «la forza per superare i patimenti e le difficoltà arrecate da quest'epoca di cambiamenti». Elfride Heidegger ripeté quasi testualmente tali parole nella sua lettera del 29 aprile 1933 a Malvine Husserl, moglie del mentore ebreo di suo marito, il filosofo Edmund Husserl, aggiungendo, tuttavia, che per quanto dura potesse essere, la legge sui pubblici funzionari era ragionevole da un punto di vista tedesco.

Poco prima della sua partenza dalla Germania nell'estate del 1933, Hannah Arendt aveva scritto in quella che è forse la più dura delle sue lettere a Heidegger, suo maestro e amante, di aver sentito parlare del suo [di Heidegger] atteggiamento distaccato e ostile nei confronti dei colleghi e studenti ebrei. Il tono della risposta di Heidegger - così come ci è raccontato da Elzbieta Ettinger - in quella che sarebbe stata la sua ultima lettera alla Arendt fino a dopo la guerra, è illuminante: «Agli studenti ebrei... egli concedeva generosamente il proprio tempo, per quanto ciò nuocesse al proprio lavoro, dando loro stipendi e discutendo insieme le loro tesi di laurea. Chi correva da lui in caso di emergenza? Un ebreo. Chi insisteva affinché leggesse con urgenza la sua tesi di laurea? Un ebreo. Chi gli inviava ponderosi lavori chiedendogli urgentemente una recensione? Un ebreo. Chi gli chiedeva aiuto per ottenere dei fondi? Gli ebrei!!».

Il 3 novembre 1933, Heidegger annunciò che sarebbe stata negata ogni forma di sostegno economico a studenti «ebrei o marxisti», o a chiunque fosse definito «non ariano» in base alle nuove leggi. Il 13 dicembre cercò un aiuto finanziario per un volume di discorsi filohitleriani di professori tedeschi da distribuire in tutto il mondo, concludendo la propria richiesta con un'assicurazione: «Non occorre dire che i nomi dei non ariani non compariranno sulla copertina». Il 16 di quello stesso mese scrisse al capo dell'Associazione dei docenti nazisti di Gottinga in merito a Eduard Baumgarten suo ex studente e collega: Baumgarten «frequentava, assai attivamente, l'ebreo Fränkel, che insegnava a Gottinga e che era stato appena licenziato». Al contempo, Heidegger si rifiutò di continuare a seguire le tesi di laurea di studenti ebrei, passandoli a Martin Honecker, professore di filosofia ecclesiastica.

L'atteggiamento di Heidegger nei confronti ài Husserl resta poco chiaro. Sebbene, secondo il suo biografo Rüdiger Safranski, non sia vero che Heidegger avesse proibito ad Husserl l'accesso al dipartimento di filosofia, egli ruppe di fatto ogni contatto con lui (così come con tutti gli altri colleghi e discepoli ebrei) e non fece nulla per alleviare il crescente isolamento di Husserl. Quando Husserl morì, Heidegger era malato. Se non lo fosse stato, avrebbe partecipato al suo funerale insieme all'unico altro membro di facoltà «ariano» che si sentì in dovere di farlo, lo storico Gerhard Ritter? La dedica a Husserl della sua opera magna, Essere e tempo, fu cassata dall'edizione del 1941 su richiesta degli editori, ma la nota a piè di pagina in cui l'autore esprimeva riconoscenza al proprio mentore fu lasciata. Le contraddizioni abbondano, e forse la più strana di tutte è l'elogio di Spinoza fatto da Heidegger negli anni Trenta, e la dichiarazione che «se la filosofia di Spinoza era ebraica, allora tutta la filosofia da Leibniz a Hegel era anch'essa ebraica».

Il 22 aprile 1933 Heidegger inviò una petizione a Carl Schmitt, il più famoso politologo e filosofo del diritto tedesco dell'epoca, chiedendogli di non voltare le spalle al nuovo movimento. L'iniziativa fu del tutto superflua, avendo Schmitt già fatto la propria scelta. Al pari di Heidegger - sembra che questa fosse la prima regola da seguire - egli aveva cessato di rispondere alle lettere di colleghi, studenti e altri studiosi ebrei con i quali aveva in passato allacciato stretti rapporti (uno degli esempi più clamorosi di tale voltafaccia fu l'interruzione netta e repentina del suo rapporto epistolare con il filosofo della politica Leo Strauss). E per accertarsi che la sua posizione non si prestasse a fraintendimenti, Schmitt inserì alcune osservazioni esplicitamente antisemite nella nuova (1933) edizione del suo Il concetto di «politico». Ad ogni modo, le posizioni antiebraiche di Schmitt avrebbero finito col diventare più esplicite, estreme e violente di quelle del filosofo di Friburgo.

Nel corso del semestre estivo del 1933, sia Schmitt sia Heidegger parteciparono alla serie di conferenze organizzate dagli studenti di Heidelberg. Heidegger parlò della «Università nel nuovo Reich»; il tema di Schmitt fu «La nuova legge costituzionale». Entrambi furono preceduti dall'intervento del dr. Walter Gross, capo dell'ufficio politica razziale del Partito nazista, che affrontò il tema «Il medico e la comunità razziale». Il 1° maggio, a Friburgo, Heidegger era diventato il membro di partito numero 3-125-894; in quello stesso giorno a Colonia, Schmitt prese la tessera numero 2-098-860.

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Ai primi di aprile del 1933 l'Associazione degli studenti nazional-socialisti creò una sezione stampa e propaganda. La sua prima iniziativa, decisa l'8 aprile, sarebbe stata «la pubblica messa al rogo delle deleterie opere ebraiche» da parte degli studenti universitari in risposta allo «sfrontato incitamento» dell'ebraismo mondiale contro la Germania. Dal 12 aprile al 10 maggio avrebbe avuto luogo una campagna «d'informazione»; il rogo avrebbe avuto luogo nei campus universitari alle ore diciotto dell'ultimo giorno di tale campagna.

Le tristemente note dodici tesi preparate dagli studenti per essere ritualisticamente declamate durante il rogo non erano dirette esclusivamente contro gli ebrei e lo «spirito ebraico»: tra gli altri obiettivi figuravano il marxismo, il pacifismo e l'«eccessiva enfasi posta sulla vita istintiva» (vale a dire la «scuola freudiana e la sua rivista "Imago"»). Si trattò di una ribellione dei tedeschi contro lo «spirito non-tedesco». L'essenza della manifestazione, tuttavia, restò essenzialmente antiebraica. Agli occhi degli organizzatori essa avrebbe dovuto ampliare l'azione antiebraica dal settore economico (il boicottaggio del 1° aprile) all'intero campo della cultura tedesca.

Il 13 aprile le tesi vennero affisse sui muri e le bacheche di tutte le università tedesche. La tesi 7 recitava: «Quando l'ebreo scrive in tedesco, mente. A partire da oggi dovrebbe essere costretto a indicare sui libri che desidera pubblicare in tedesco: "tradotto dall'ebraico"».

La sera del 10 maggio rituali esorcistici ebbero luogo in gran parte delle città universitarie della Germania. Oltre ventimila libri vennero bruciati a Berlino, e dai due ai tremila in ogni altra grande città tedesca. A Berlino fu acceso un enorme falò dinanzi al Teatro dell'Opera Kroll, e Goebbels fu uno degli oratori. Nella capitale come in altre città, al termine dei discorsi la folla di partecipanti prese a intonare slogan contro gli autori messi al bando via via che le pile di libri malefici (di Karl Marx, Ferdinand Lassalle, Sigmund Freud, Maximilian Harden e Kurt Tucholsky tra gli altri) venivano lanciate una dopo l'altra nelle fiamme. «I grandi riflettori puntati sulla Piazza dell'Opera», scrisse il «Jüdische Rundschau» «spandevano la loro luce anche sull'abisso in cui sprofondavano la nostra esistenza e il nostro destino. Non sono stati accusati solo ebrei, ma anche uomini di puro sangue tedesco. Questi ultimi vengono giudicati esclusivamente per le loro azioni. Per gli ebrei, invece, non c'è bisogno di nessun motivo specifico; come recita l'antico detto: "l'ebreo finirà bruciato"».

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Capitolo 4
Il nuovo ghetto



«Cella 6; alta circa cinque metri, una finestra di circa 40 x 70 cm a una altezza di quattro metri, come in un sotterraneo. ... Un tavolaccio di legno con un materasso di paglia e due coperte, un secchio di legno, una brocca, un bacile, sapone, un asciugamano, niente specchio, né spazzolino, né pettine, niente tavolo, nessun libro dal 12 gennaio 1935 fino alla mia partenza il 18 settembre; niente giornali dal 12 gennaio al 17 agosto; niente bagno né doccia dal 12 gennaio al 10 agosto; mai uscito di cella, salvo che per gli interrogatori, dal 12 gennaio al 1° luglio. Detenzione in una cella buia dal 16 aprile al 1° maggio, poi dal 15 maggio al 27 agosto, per un totale di 119 giorni».

Chi scrive è il commerciante di vini Leopold Obermayer che racconta il primo dei suoi internamenti a Dachau in un memoriale di diciassette pagine datato 10 ottobre 1935, che riuscì a far pervenire clandestinamente al suo avvocato. Il memoriale fu sequestrato dalla Gestapo e trovato dopo la guerra nei loro schedari di Würzburg. Obermayer aveva un dottorato in legge (ottenuto all'università di Francoforte), era ebreo praticante e cittadino svizzero. Il 29 ottobre 1934 si era lamentato con la polizia di Würzburg perché la sua posta veniva aperta. Due giorni dopo, convocato in centrale per riferire, fu arrestato. Da allora in poi egli divenne un caso speciale per il capo della Gestapo locale, Josef Gerum, un nazista della prima ora con una pessima fama perfino tra i suoi colleghi. Gerum accusò Obermayer di diffondere critiche al nuovo regime. Poco tempo dopo, nella cassaforte di Obermayer furono trovati dei nudi fotografici di suoi amanti maschi. Ebreo e omosessuale: davvero un bel colpo per Gerum.

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Capitolo 6
Crociate e schedari



All'inizio del 1937, nel corso di una riunione sui rapporti con la chiesa, Hitler dette nuovamente sfogo alla propria visione storica del mondo: «Il Führer», annotò Goebbels nel suo diario, «spiega il Cristianesimo e Cristo. Anche lui [Cristo] intese agire contro la dominazione ebraica del mondo. Gli ebrei lo crocifissero. Ma Paolo falsificò la sua dottrina e incancrenì le radici di Roma antica. L'ebreo nel cristianesimo. La stessa cosa fece Marx con lo spirito della comunità tedesca, con il socialismo». Il 30 novembre dello stesso anno, le annotazioni contenute nel diario di Goebbels suonavano molto più sinistre: «Lunga discussione [con Hitler] sulla questione degli ebrei. ... Gli ebrei devono sloggiare dalla Germania, anzi da tutta l'Europa. Ci vorrà ancora del tempo, ma deve accadere, e accadrà. Su questo il Fiihrer è assolutamente determinato». Al pari della sua dichiarazione del settembre 1935 a Walter Gross, la profezia di Hitler del 1937 implicava una possibile deflagrazione militare. Essa, infatti, avrebbe potuto avverarsi soltanto in un contesto bellico.


Il 7 marzo 1936 la Wehrmacht era entrata in Renania, segnando in tal modo una nuova fase della storia europea, una fase caratterizzata da una reiterata serie di violazioni di trattati di pace e di aggressioni da parte tedesca e che, tre anni dopo, sarebbe sfociata in una nuova conflagrazione.

La smilitarizzazione della riva sinistra del Reno era stata garantita dai Trattati di Versailles e di Locarno. I garanti dello status quo erano Gran Bretagna e Italia, mentre la Francia era il paese più direttamente minacciato dall'iniziativa tedesca. L'Italia, tuttavia, si schierò ora al fianco della Germania, conseguenza del tentativo delle nazioni democratiche di imporre sanzioni al governo italiano per la guerra in Abissinia. In linea teorica, tuttavia, la Francia continuava ad avere il più forte esercito d'Europa. Sappiamo oggi che una reazione militare francese avrebbe costretto le unità tedesche a ritirarsi al di là del Reno, un rovescio dalle conseguenze imprevedibili per il regime di Hitler. Pur minacciando l'intervento, tuttavia, il governo francese, guidato dal primo ministro socialista radicale Albert Sarrault, non fece nulla. I britannici, dal canto loro, si astennero finanche dal ricorrere alle minacce: in fin dei conti Hitler si stava semplicemente riprendendo il proprio «cortile di casa», come si era soliti dire. La politica di appeasament di Francia e Gran Bretagna andava ormai prendendo il sopravvento.

In Francia, le elezioni del 1936 portarono al potere il Fronte popolare di centrosinistra, e per un ampio segmento della società francese la minaccia della rivoluzione e dell'ascesa al potere dei comunisti divenne un incubo e un'ossessione. Pochi mesi prima, l'elettorato spagnolo aveva portato al potere un governo di sinistra. Fu questa, tuttavia, una vittoria quanto mai effimera: nel luglio del 1936 le unità dell'esercito spagnolo di stanza in Africa, guidate dal generale Francisco Franco, si ribellarono al nuovo governo repubblicano e rientrarono in Spagna. Iniziava così la guerra civile spagnola, un conflitto destinato ben presto a diventare una lotta fratricida tra due ideali politici, entrambi sostenuti da un massiccio afflusso di armi, di contingenti di eserciti stranieri e di volontari. Tra l'estate del 1936 e la primavera del 1939 i due opposti versanti del fronte spagnolo costituirono i taciti ed espliciti punti di riferimento per lo scontro ideologico in atto a quell'epoca.

Sulla scena internazionale, il patto anti-Comintern siglato da Germania e Giappone il 25 novembre 1936 e al quale si aggiunse l'Italia un anno dopo, divenne, quanto meno al livello simbolico, espressione della lotta che si sarebbe presto scatenata tra i regimi anticomunisti e il bolscevismo. Nei paesi dell'Europa centrorientale (con l'eccezione della Cecoslovacchia) e dei Balcani, erano giunti al potere governi di destra. La loro caratterizzazione ideologica comprendeva tre postulati di base: autoritarismo, nazionalismo e anticomunismo. Dalle rive dell'Atlantico ai confini sovietici, essi avevano anche un altro elemento comune; l'antisemitismo. Per la destra europea, antisemitismo e antibolscevismo erano spesso sinonimi.

L'anno 1936 segna anche nettamente l'inizio di una nuova fase nella scena politica interna tedesca. Durante il periodo precedente (1933-36) la necessità di stabilizzare il regime, scongiurare azioni preventive straniere e sostenere la crescita economica e il ritorno alla piena occupazione avevano imposto in alcuni campi una relativa moderazione. Nel 1936 era stata raggiunta la piena occupazione, e la debolezza del fronte antitedesco appariva ormai evidente. Divenne dunque possibile avviare un'ulteriore radicalizzazione politica e la mobilitazione delle risorse interne: Himmler fu nommato capo di tutte le forze di polizia tedesche e Göring responsabile di un nuovo piano economico quadriennale il cui obiettivo segreto era preparare il paese alla guerra.

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Il 5 novembre 1937, Hitler convocò un folto gruppo di esperti di affari esteri, militari ed economici per informarli dei suoi piani strategici per i successivi cinque anni. Nell'immediato futuro Hitler prevedeva di agire contro la Cecoslovacchia e l'Austria (nell'ordine), alla luce dell'evidente mancanza di determinazione delle democrazie occidentali. In realtà, toccò prima all'Austria, grazie ad un'imprevista serie di circostanze abilmente sfruttate da Hitler.

Nel trattato austro-tedesco del 1936, il cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg aveva promesso di includere alcuni ministri nazisti nel suo gabinetto. Poiché, secondo i nazisti, Schuschnigg non provvedeva con la dovuta decisione e rapidità a soddisfare le loro richieste, nel febbraio 1938 Hitler lo convocò a Berchtesgaden. Sotto minaccia di un intervento militare, Schuschnigg accettò le richieste del dittatore tedesco. Tornato a Vienna, tuttavia, tentò di superare Hitler in astuzia annunciando un referendum plebiscitario sull'indipendenza austriaca. Hitler rispose minacciando l'invasione immediata dell'Austria in caso di mancato annullamento del referendum. Le ulteriori richieste di Berlino - comprese le dimissioni di Schuschnigg e la sua sostituzione con un nazista austriaco, Arthur Seyss-Inquart furono tutte accettate. Ma ormai Hitler aveva deciso: il 12 marzo 1938 la Wehrmacht attraversò i confini austriaci, e il giorno successivo l'Austria fu annessa al Reich. Il 15 marzo Hitler parlò dalla balconata dell'Hofburg a centinaia di migliaia di viennesi entusiasti riunitisi all'Heldenplatz. Le sue parole conclusive furono incomparabili: «In qualità di Fuhrer e cancelliere della nazione tedesca e del Reich, annuncio alla storia che la mia madrepatria è entrata a far parte del Reich tedesco».

Il 16 marzo, in procinto di essere arrestato dalla Gestapo, il drammaturgo e storico della cultura ebreo Egon Friedell si suicidò gettandosi dalla finestra del suo appartamento viennese. Cinque ebrei si suicidarono a Vienna nel gennaio 1938, e quattro a febbraio. Nella seconda metà di marzo, si tolsero la vita settantanove ebrei viennesi.

In Piazza degli eroi, l'ultimo dramma dell'autore austriaco Thomas Bernhard, il professore ebreo Robert Schuster, originario di Vienna, ritorna da Oxford nella capitale austriaca un giorno qualsiasi degli anni Ottanta. E lì scopre come, sia per lui che per la moglie, il passato continua a restare tormentosamente presente:

    Mio fratello Josef può dirsi fortunato
    che gli sia venuta bene un'uscita così spontanea
    Io ho sempre ammirato i suicidi
    non avrei mai pensato che mio fratello ne fosse capace...

Poi allude a sua moglie:

    Da mesi lei si sente di nuovo in modo davvero inquietante
    le masse gridare nelle Heldenplatz
    Come loro sanno il quindici marzo
    Hitler fa la sua entrata nella Piazza degli Eroi...

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Capitolo 8
Un modello austriaco?



Il 4 giugno 1938, l'ottantaduenne Sigmund Freud ebbe il permesso di lasciare Vienna, dove viveva dall'età di quattro anni. Il suo appartamento era stato perquisito due volte dalla Gestapo, e sua figlia Anna era stata convocata per essere interrogata. Alla fine, dopo aver confiscato parte dei suoi beni e imposto la tassa di emigrazione, i nazisti gli ingiunsero di firmare una dichiarazione attestante che non aveva subìto maltrattamenti. Freud obbedì e aggiunse: «Posso caldamente raccomandare la Gestapo a chiunque». Gli uomini della Gestapo erano troppo ottusi per capire finanche un sarcasmo così pesante, ma il rischio corso con un simile commento fu notevole, tanto da chiedersi «se non ci fosse qualcosa in Freud che lo spingeva a rimanere, e a morire, a Vienna».

In seguito all'Anschluss, altri 190.000 ebrei erano caduti nelle mani dei nazisti. La persecuzione in Austria, e particolarmente a Vienna, fu più accentuata che nel Reich. L'umiliazione pubblica fu più flagrante e sadica; l'espropriazione meglio organizzata; l'emigrazione coatta più rapida. Gli austriaci - il loro paese fu ribattezzato Ostmark e posto sotto l'autorità del Gauleiter Josef Bürckel, che assunse il titolo di Commissario del Reich per la riunificazione dell'Austria al Reich - sembravano più avidi di iniziative antiebraiche rispetto ai cittadini di quello che ora era diventato il Vecchio Reich (Altreich). La violenza era scoppiata già prima che la Wehrmacht attraversasse il confine, e nonostante gli sforzi ufficiali per contenerne gli aspetti più caotici ed esagitati, durò diverse settimane. Il popolino mostrava di gradire gli spettacoli di pubblica umiliazione; innumerevoli delinquenti di tutti i ceti sociali, in uniforme di partito o semplicemente esibendo improvvisate fasce con la svastica, perpetravano minacce ed estorsioni su vasta scala: soldi, gioielli, mobili, macchine, appartamenti e aziende vennero depredati ai loro atterriti proprietari ebrei.

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Capitolo 9
L'assalto



«Alle otto di mattina del 10 novembre 1938, l'agricoltore e capo delle SA di Eberstadt, Adolf Heinrich Frey, accompagnato da un manipolo di scagnozzi, bussò alla porta di casa dell'ottantunenne vedova ebrea Susannah Stern. Secondo la versione di Frey, la vedova Stern ci mise un bel po' prima di aprire, e quando lo vide sorrise «provocatoriamente» e disse: «Che visita importante, stamane». Frey le ordinò di vestirsi e di seguirli. La donna si sedette sul divano e dichiarò che non si sarebbe vestita e non avrebbe lasciato la casa; che le facessero pure quello che volevano. Frey riferì che la stessa scena si ripeté per cinque o sei volte e allorché la donna ripeté ancora una volta che potevano fare ciò che volevano, Frey impugnò la pistola e le sparò al petto. «Al primo colpo, la Stern crollò sul divano. Era riversa all'indietro, con le mani sul petto. Sparai immediatamente una seconda volta, questa volta mirando alla testa. La Stern cadde dal divano e si girò. Giaceva vicino al divano con la testa rivolta a sinistra, in direzione della finestra. Dava ancora segni di vita. Ogni tanto emetteva un rantolo, poi smetteva. Non gridò, né disse una parola. Il mio compagno C. D. le girò la testa per vedere dov'era stata colpita. Gli dissi che non c'era motivo di restare; ciò che dovevamo fare era serrare la porta e buttare le chiavi. Ma per essere sicuro che la Stern fosse morta le sparai in piena fronte da una distanza di circa dieci centimetri. Quindi, chiudemmo la porta di casa, dopodiché chiamai il Kreisleiter Ullmer dall'ufficio telefonico pubblico di Elberstadt e riferii l'accaduto». Il procedimento contro Frey fu archiviato il 10 ottobre 1940 su decisione del Ministero della Giustizia.

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Il 15 novembre tutti i bambini ebrei ancora presenti nelle scuole tedesche furono espulsi. Quello stesso giorno, in una lettera indirizzata a tutte le organizzazioni di Stato e di partito, il segretario di Stato Zschintsch spiegò la decisione del ministro dell'Educazione: «Dopo l'efferato omicidio di Parigi non si può chiedere agli insegnanti tedeschi di continuare a insegnare a studenti ebrei. E anche evidente come sia insopportabile per gli scolari tedeschi sedere nella stessa classe con bambini ebrei. La separazione razziale nelle scuole è già stata realizzata in generale nel corso degli ultimi anni, ma resta ancora nelle scuole tedesche un certo numero di bambini ebrei, la cui frequentazione a stretto contatto di gomito con bambini e bambine tedesche non può più essere consentita. ... Ordino pertanto con decorrenza immediata che la frequentazione delle scuole tedesche non sia più permessa a bambini ebrei, i quali possono frequentare esclusivamente scuole ebraiche. Nella misura in cui ciò non si è ancora verificato, tutti gli scolari ebrei che attualmente frequentano una scuola tedesca devono essere immediatamente espulsi».

Il 19 novembre gli ebrei furono esclusi dal sistema nazionale di previdenza sociale. Il 28 novembre il ministro degli Interni informò i presidenti di tutti gli stati federali che alcune aree potevano essere proibite agli ebrei e che il loro diritto di accesso a luoghi pubblici poteva anch'esso essere limitato a poche ore al giorno. Non ci volle molto perché la polizia di Berlino muovesse nuovi passi. Il 6 dicembre gli ebrei della città vennero banditi da tutti i teatri, cinema, cabaret, sale per concerti e conferenze, musei, fiere, esibizioni e impianti sportivi (incluse le piste di pattinaggio sul ghiaccio), nonché da tutte le piscine pubbliche e private. Gli ebrei vennero inoltre esclusi dai quartieri in cui si trovavano la gran parte degli uffici governativi e i più importanti monumenti e istituzioni culturali: «la Wilhelmstrasse dalla Peipzigerstrasse all'Unter den Linden, compresi la Wilhelmsplatz, la Vosstrasse dall'Hermann Göring-Strasse alla Wilhelmstrasse, il Monumento commemorativo del Reich compreso il marciapiede settentrionale dell'Unter den Linden dall'Università all'Arsenale». L'annuncio indicava che nel prossimo futuro la messa al bando degli ebrei sarebbe stata probabilmente applicata a «un gran numero di strade di Berlino».

Il 3 dicembre, su ordine di Himmler, agli ebrei venne ritirata la patente di guida. L'8 dicembre fu revocata l'autorizzazione speciale per l'accesso alle biblioteche universitarie a tutti gli studiosi ebrei che ne erano in possesso. Il 20 dicembre gli ebrei non poterono più fare apprendistato come farmacisti e il giorno dopo le donne ebree non poterono più esercitare la professione di ostetriche. Il ventotto, oltre ad ulteriori misure di segregazione (quel giorno fu loro proibito l'accesso ai vagoni ristorante o ai vagoni letto sui treni, nonché alle piscine e agli alberghi pubblici solitamente frequentati da membri di partito), apparvero le prime indicazioni di una possibile concentrazione fisica degli ebrei (di cui discuteremo in seguito). Il 29 novembre il ministro degli Interni proibì agli ebrei il possesso di piccioni viaggiatori.

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La crisi polacca andò dispiegandosi per tutta la primavera e l'estate del 1939. Questa volta, tuttavia, le richieste tedesche incontrarono il netto rifiuto dei polacchi nonché, dopo l'occupazione della Boemia e Moravia, la ferma presa di posizione della Gran Bretagna. Il 17 marzo, a Birmingham, Chamberlain promise pubblicamente che il suo governo non avrebbe consentito ulteriori conquiste da parte della Germania. Il 31 marzo la Gran Bretagna si erse a garante dei confini polacchi nonché di quelli di tutta una serie di paesi esteuropei. L'11 aprile Hitler ordinò alla Wehrmacht di prepararsi per l'«Operazione Bianco», il nome in codice per l'attacco alla Polonia.

Il 22 maggio, Germania e Italia firmarono un trattato di difesa, il Patto d'acciaio. Contemporaneamente, mentre Francia e Gran Bretagna portavano avanti esitanti e vaghi negoziati con l'Unione Sovietica, con una sorprendente mossa politica anche Hitler avviò dei negoziati con Stalin. Il dittatore sovietico aveva sottilmente indicato la sua propensione a un accordo con la Germania nazista in un discorso pronunciato ai primi di marzo, subito seguito da un atto simbolico: la destituzione (2 maggio) del ministro egli Esteri Maxim Litvinov e la sua sostituzione con Vjaceslav Molotov. Litvinov era stato l'apostolo della sicurezza collettiva, vale a dire di un fronte comune contro il nazismo. In più, era ebreo.

Il patto di non aggressione sovietico-tedesco fu firmato il 23 agosto; un protocollo segreto allegato divideva una grande parte dell'Europa orientale in aree da essere in seguito occupate e controllate dai due paesi in caso di guerra. Hitler era convinto che, in conseguenza del suo colpo a sorpresa, Francia e Gran Bretagna si sarebbero astenute da qualsiasi intervento militare. Il 10 settembre la Germania sferrò l'attacco alla Polonia. Dopo qualche esitazione, le due democrazie decisero di sostenere il proprio alleato, e il 3 settembre Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania. Iniziava la Seconda guerra mondiale.


Nel frattempo, altri eventi andavano susseguendosi nel Reich hitleriano. Subito dopo che Knauer, il ragazzino handicappato, fu messo a morte a Lipsia, Hitler istruì il proprio medico personale, Karl Brandt (che aveva eseguito l'eutanasia) e il capo della sua cancelleria personale, Philipp Bouhler, di provvedere all'identificazione di tutti gli infanti nati con una certa serie di difetti fisici e mentali. Preparativi in tal senso furono condotti, nella massima segretezza, durante la primavera del 1939. Il 18 agosto, fu ordinato a medici ed ostetriche di registrare tutti i bambini nati con i difetti compresi in un elenco formulato da tre esperti del Comitato per le questioni di salute ereditaria del Reich. Tutti questi neonati dovevano morire.

Contemporaneamente fu presa un'altra iniziativa sulla quale, come abbiamo già visto, le autorità religiose avevano inizialmente mantenuto un prudente riserbo. In qualche momento precedente al luglio 1939, alla presenza di Bormann e Lammers, Hitler istruì il segretario di Stato Leonardo Conti a iniziare i preparativi per l'eutanasia agli adulti. Brandt e Bouhler riuscirono rapidamente a estromettere Conti e, con l'assenso di Hitler, assunsero il comando dell'intero programma. Entrambi gli omicidi di massa, quello dei bambini handicappati e quello dei malati mentali adulti, erano stati decisi da Hitler ed entrambe le operazioni furono dirette in segreto dalla Cancelleria del Führer.

Niente di tutto ciò avrebbe tuttavia avuto alcun impatto sul fervore popolare che circondava Hitler o sull'ardente adesione delle masse a molti degli obiettivi del regime. L'ascesa al potere di Hitler sarebbe stata ricordata dalla maggioranza dei tedeschi come l'inizio di un periodo di «bei tempi». Ciò che rimase maggiormente impresso nella coscienza e nella memoria della società tedesca nel suo complesso non fu la sequenza cronologica del processo di persecuzione, segregazione, emigrazione ed espulsione degli ebrei, la sequela di umiliazioni e di violenze, di lutti e privazioni che caratterizzò i ricordi degli ebrei di Germania dal 1933 al 1939. «La gente visse la straordinaria velocità della rinascita tedesca sul piano economico e di politica estera come una sorta di frenesia», scrive lo storico tedesco Norbert Frei. «Con sorprendente rapidità, molti si identificarono con il desiderio sociale di costruire una Volksgemeinschaft che escludesse qualsivoglia posizione critica o di perplessità. ... Essi furono ingannati dall'estetica delle adunate di Norimberga e rapiti dalle vittorie degli atleti tedeschi alle Olimpiadi di Berlino. I successi di Hitler in politica estera produssero vere e proprie esplosioni di entusiasmo. ... Nei brevi momenti rimasti tra le esigenze del lavoro e quelli della sempre crescente giungla di organizzazioni naziste, essi sperimentarono un modesto benessere e una condizione di felicità personale».

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