Copertina
Autore Jörg Friedrich
Titolo La Germania bombardata
SottotitoloLa popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati 1940-1945
EdizioneMondadori, Milano, 2004, Le Scie , pag. 520, dim. 145x224x35 mm , Isbn 978-88-04-52654-4
OriginaleDer Brand
EdizioneUllsteib Heyne List, München, 2002
TraduttoreM. Bosonetto, F. Pisani, C. Proto
LettorePiergiorgio Siena, 2006
Classe storia contemporanea , storia: Europa , paesi: Germania
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Indice


  3 ARMA

    L'avvicinamento al bersaglio, 5
    L'ingegneria dell'incendio, 11
    Il bombardiere pesante, 18
    Radar, 26
    L'equipaggio, 38

 49 STRATEGIA

    Verso il moral bombing, 51
    Verso il Reno, 103

155 TERRA

    Il Nord, 157
    L'Ovest, 209
    Il Sud, 269
    L'Est, 301

327 DIFESA

    La fuga nei rifugi, 329
    Fronte interno, 359
    L'assistenza, 383
    Evacuati, 401

409 NOI

    Morale basso, contegno fiero, 411
    Ritorsione, 424

433 IO

    I sensi, 435
    Le emozioni, 440
    L'esperienza, 445

453 PIETRA

    I beni immobili, 455
    Il trasferimento, 463
    I libri, 471

477 Nota editoriale 479
    Note 495
    Bibliografia 505
    Indice dei luoghi 513
    Indice dei nomi

 

 

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Pagina 5

L'avvicinamento al bersaglio



A seimila metri di altitudine una città come Wuppertal non è visibile nel campo di mira di un quadrimotore Lancaster. È iniziato l'oscuramento, un manto di caligine avvolge la valle. In un minuto, il pilota sorvola in lunghezza la distesa abitata: i sobborghi lo preoccupano poco. Sono passate due ore dal decollo dalla costa meridionale inglese e mancano dieci secondi al lancio sull'obiettivo più vicino: questa informazione viene fornita dai pathfinders che precedono il bombardiere di due chilometri. Inoltre, la bomba non deve essere sganciata quando l'apparecchio si trova sulla verticale del bersaglio: la traiettoria dell'ordigno è una parabola su cui agiscono l'inerzia e la gravità. Quando la bomba si schianta al suolo l'aereo è già a tre chilometri di distanza.

Il gruppo dei pathfinders, i velocissimi Mosquito imprendibili dagli intercettori tedeschi, era in ritardo di due minuti. Le postazioni di ascolto lo avevano individuato tre quarti d'ora prima sulla foce della Schelda e ne avevano seguito la rotta su Maastricht e Mönchenglad-bach. Alle 0.40 gli aerei superarono il Reno diretti a est, verso Solingen, e in quel momento Wuppertal divenne l'obiettivo più allettante. Nella Ruhr le sirene di allarme erano già suonate intorno alla mezzanotte, ma senza svegliare Wuppertal in quella notte di maggio del 1943. Fino ad allora i bombardieri britannici non erano riusciti a colpire quell'angolo della vallata della Wupper coperto di vapori industriali. Dall'alto si poteva scambiare il fumo per un lago, e così gli abitanti si cullavano nella leggenda del «rifugio antiaereo a cielo aperto». Si diceva inoltre che Wuppertal era una città timorata di Dio.

Il flusso principale dei bombardieri aveva deviato dalla rotta. Il vento, il fuoco dell'antiaerea o gli errori di navigazione lo avevano dirottato a sud, tant'è che adesso si avvicinava a Wuppertal passando erroneamente per Remscheid. I Mosquito del 109° gruppo furono i primi a raggiungere Wuppertal da nord, dal punto di raccolta di Rheine. In sei minuti delimitarono il quartiere di Barmen con i razzi rossi. Mille metri sopra l'obiettivo, le bombe usate per la segnalazione si scomponevano ciascuna in sessanta razzi illuminanti; i razzi scendevano a grappoli, brillando poi a terra per dieci minuti. Poco dopo entrò in azione il secondo gruppo di segnalatori, che contrassegnò Barmen di verde. Quindi arrivarono cinquantacinque fire raiser che lanciarono sostanze incendiarie nella spessa cortina colorata: sembrava l'alba. Ora il quartiere residenziale era ben segnalato. Il grosso dei bombardieri ricevette l'ordine di mirare alla zona rossa, se riuscivano ancora a distinguerla, altrimenti su quella verde. La massa degli aerei formava nel cielo un corpo solido e rombante che si estendeva per duecentoquaranta chilometri di lunghezza, dieci chilometri di larghezza e tre chilometri di profondità. Seicento aerei si liberarono del loro carico con una frequenza di dieci bombe al minuto.

La prima ondata, composta da quarantaquattro velivoli, sganciò solo bombe incendiarie; gli spezzoni caddero sibilando con il fragore di una cascata, in una quantità mai vista prima di quella notte: più di 300.000. Dall'alto sembrava che rotolassero lungo i pendii. All'1.20 Barmen era stretta in una morsa di fuoco, dal teatro fino al ponte Adler.

Le case di montagna con telaio in legno, le viuzze tortuose e strette, la conca valliva a forma di camino favorivano il divampare dell'incendio, aiutato anche dal vento insidioso che soffiava quella notte. Il fumo che si diffondeva ovunque, l'esplodere delle bombe-mina che spazzavano via intere case, il fragore dei tetti e delle facciate che crollavano, le fiamme che si propagavano a velocità folle rendevano impossibile riflettere su che cosa fosse ancora possibile salvare. Le famiglie ripararono nel fresco delle cantine, e le fiamme imperversarono, per tre, quattro ore, estendendosi per chilometri, casa dopo casa. A distanza di chilometri si udivano le case crollare: in alcune abitazioni cedeva solo il tetto, altre si schiantavano fino al pianoterra. Alle 2.30 circa gli incendi non si erano ancora congiunti. Poi le fiamme formarono un unico enorme braciere che non lasciava scampo, un forno che ingoiava qualsiasi cosa desse segni di vita.

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Hitler non aveva messo a punto alcun piano preliminare né per la guerra contro l'Inghilterra né per il bombardamento delle città inglesi. Tali eventi scaturirono dalle circostanze e dal modo peculiare di reazione del Führer. L'uccisione di 23.000 inglesi verso la fine del 1940 fu il risultato dello stallo nella battaglia contro i caccia della RAF, stallo che mandò a monte anche i propositi d'invasione, visto che la guerra aerea doveva preparare le operazioni di terra. Dato che le offerte di pace non portavano frutto, Hitler passò in rassegna i suoi armamenti e la sua scelta cadde sui bombardieri, non essendo disponibile alcun altro mezzo. Eppure fu uno scrupolo del tutto giustificato che lo indusse a tentennare in questa decisione: se il bombardiere avesse fallito, il suo progetto operativo sarebbe rimasto del tutto privo di altre risorse.

Secondo l'opinione del maresciallo dell'aria Saundby, vicecomandante del Bomber Command, la situazione analizzata dal punto di vista britannico era la seguente: l'offensiva contro gli apparecchi e le strutture di terra del Fighter Command rischiava di finire malissimo per la RAF. Alla fine di agosto si era sull'orlo del disastro. Le perdite di apparecchi superavano di gran lunga la produzione, e si temeva che con altre tre settimane le riserve di caccia potessero essere esaurite dalla guerra di logoramento. «Fu allora che il primo ministro decise di giocare una carta rischiosa (to play a bold card). Nella notte tra il 24 e il 25 agosto caddero su Londra le prime bombe tedesche dopo il 1918, e il governo ordinò per rappresaglia un pesante attacco su Berlino. Nella notte tra il 25 e il 26 agosto, 81 apparecchi del Bomber Command colpirono con successo la capitale tedesca, benché l'oscurità notturna si fosse rivelata appena sufficiente per compiere il viaggio di andata e ritorno. Il comando supremo della Wehrmacht reagì con violenza e nel giro di alcuni giorni dirottò i propri attacchi su Londra e altre città. La pressione sulle basi del Fighter Command, che metteva in pericolo il sistema di difesa britannico, si alleviò. Ciò significò grandi sofferenze per la popolazione civile, ma fu il punto di svolta della battaglia e accrebbe notevolmente le chance britanniche di vittoria.» Un'interpretazione condivisa dal capitano Liddell Hart, in seguito l'esperto più stimato di strategia militare del paese. Il sacrificio dei civili salvò un esercito semidistrutto.

Il sangue degli scudi umani macchiava ovviamente chi lo versava, la Luftwaffe di Göring. Nel frattempo veniva glorificata la capacità di sopportazione dei londinesi che, anziché prendersela con Churchill, resistevano accanto a lui pur in assenza di reali prospettive di vittoria. I tedeschi erano appena al di là della Manica, fra Russia e Germania era ancora in vigore il patto di non aggressione e negli Stati Uniti la percentuale di chi era favorevole all'entrata in guerra era del 7,7% mentre gli apertamente contrari erano cinque volte più numerosi. C'era anche un 19 per cento che si diceva propenso a intervenire se le democrazie europee non si fossero dimostrate in grado di resistere. Questa esigua fascia dell'opinione pubblica americana era l'ultima carta di Churchill, assieme alla rielezione di Roosevelt prevista per il 5 novembre. Il presidente americano garantiva già il proprio sostegno all'Inghilterra, ma prima che potesse decidere per un coinvolgimento diretto nel conflitto occorreva un cambio di clima politico.

Nella stessa settimana di fine agosto in cui ordinava misteriosamente di attaccare Berlino, Churchill affidava le sue armi più affilate alla Duchess of Richmond, il piroscafo con cui Henry Tizard partiva per gli Stati Uniti: con lui viaggiavano tutti i piani segreti e i brevetti da cui, nel giro di due anni e mezzo, sarebbe nata l'arma più terribile che fino a quel momento fosse stata indirizzata contro gli uomini, la flotta della Combined Strategie Bomber Offensive. Come anticipo sull'alleanza futura, Roosevelt ottenne la tecnica radar, le carlinghe MG per i B17, i motori Rolls Royce Merlin e i primi risultati delle ricerche dei fisici Peierls e Frisch. Costoro erano riusciti a misurare la massa critica necessaria a far sì che la scissione del nucleo di uranio desse luogo a una deflagrazione; anche le misurazioni sull'energia liberata da tale fenomeno avevano dato risultati molto interessanti. Tizard aveva già messo gli occhi sui giacimenti di uranio del Katanga, nel Congo belga, i più grandi del mondo. Le nuove armi, ancora in fase di ideazione, avrebbero dato vita a un purgatorio capace di abbattere e purificare l'impero del male.

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[...] Di per sé i gas furono l'arma che provocò meno morti durante la prima guerra mondiale, un'arma che non causava le orrende mutilazioni inferte dall'artiglieria pesante. Eppure suscitarono il massimo dell'orrore nelle truppe, forse perché non lasciavano scampo. Al posto delle oneste pallottole con cui si colpiva individualmente il nemico, entra in scena un nuovo principio, quello della distruzione generalizzata, un principio che trovò compiuta applicazione nella guerra successiva: l'atmosfera viene privata delle condizioni che consentono la vita, tramite il calore, le radiazioni o i gas venefici.

Con l'arma incendiaria così come con quella atomica, la scienza della seconda guerra mondiale mette in atto l'idea che la conoscenza delle leggi naturali possa essere utilizzata a fini di annientamento. La realtà cessa di essere la dimora dei viventi. Il Lebensraum (spazio vitale) diventa Tocteszone (zona mortale). Il padre dell'Operational Research, il professor B.S.M. Blankett, affermò che i custodi della «zona mortale» erano affetti da una sorta di «complesso di Giove». Gli Alleati avevano cominciato a comportarsi come divinità che fulminavano i nemici dal cielo. Un dio può scagliare tutte le piaghe che vuole perché non è sottoposto alla legge, anzi rappresenta la legge stessa. I mezzi del tutto discutibili impiegati nella campagna della Ruhr si possono ascrivere al genere della guerra ambientale, ancora poco sperimentata. Visto che era diventato possibile scatenare incendi, perché non tentare anche con gli allagamenti? I ricercatori si chiesero cosa poteva succedere se i fulmini alleati avessero colpito due dighe esistenti nel bacino della Ruhr. Molto probabilmente il risultato sarebbe stato un moderno diluvio universale a doppia azione: inondazione e conseguente mancanza d'acqua in tutta la regione.

Le dighe in questione si trovavano sui fiumi Möhne e Sorpe, a diciassette chilometri l'urta dall'altra, e creavano un'unità idrico-economica. Fornivano il 70 per cento dell'acqua a uso industriale impiegata dalle fabbriche della Ruhr e davano da bere a 4.500.000 persone. Sul fiume Eder, vicino a Kassel, c'era una diga ancora più grande, capace di contenere 202 milioni di metri cubi d'acqua. Gli economisti del ministero dell'Aviazione britannico calcolarono che la distruzione degli invasi sul Möhne e sul Sorpe nel loro momento di massima portata, a metà maggio, avrebbe costretto le industrie della Ruhr a fermarsi entro l'estate, provocando altresì grosse difficoltà di approvvigionamento idrico per la popolazione. Facendo esplodere la diga sull'Eder si sarebbe ottenuta la paralisi della navigazione fluviale sull'alto corso del Weser e l'inondazione di Kassel, causando gravi danni all'agricoltura per la conseguente siccità.

Per resistere alla pressione dell'acqua, le dighe avevano dimensioni colossali: quella sul Möhne, per esempio, era alta 45 metri e aveva uno spessore di 34 nella parte inferiore. Per farla saltare ci sarebbe voluta una bomba-mina da quattro tonnellate, simile nella forma a una colonna per affissioni. Il punto d'esplosione doveva essere venti metri sotto la superficie dell'acqua. Lo sgancio doveva avvenire diciotto metri sopra lo specchio d'acqua. Poco prima del lancio, bisognava imprimere alla bomba un movimento rotatorio in direzione contraria a quella del volo, in modo tale che una volta toccata l'acqua raggiungesse il muro di sbarramento in pochi salti superando elegantemente una rete di blocco. Dopodiché sarebbe precipitata verticalmente lungo il muro rotolando in contromarcia e sarebbe esplosa alla profondità desiderata grazie a una miccia a pressione idraulica.

La missione, cui si attribuiva un'importanza decisiva per l'esito della guerra, ebbe luogo nella notte di luna piena tra il 16 e il 17 maggio 1943. Due squadriglie volarono sul mare del Nord, una diretta al Möhne e all'Eder, l'altra al Sorpe. La prima s'imbattè nel fuoco della contraerea alle porte di Duisburg, si sparpagliò e tornò a riunirsi dopo la perdita di uno dei velivoli.

Al chiaro di luna, la diga sul Möhne si vedeva già a due chilometri di distanza. Una dozzina di tiratori della contraerea appostati lungo la scarpata del fiume fecero fuoco con armi leggere. Il comandante di stormo Guy Gibson entrò in azione per primo e sganciò la bomba volando a 385 chilometri orari. La bomba raggiunse la diga, e il bombardiere oltrepassò il parapetto. L'esplosione sollevò un'imponente massa d'acqua, ma il muro dello sbarramento resse. Allora passò all'attacco il secondo aereo, ma lo sgancio avvenne in ritardo: la bomba saltò al di là della diga ed esplose distruggendo il bombardiere stesso. Il terzo e il quarto apparecchio eseguono il lancio con precisione: montagne d'acqua si levano al cielo, ma la diga regge ancora. Il quinto bombardiere riesce a produrre una crepa nella muraglia. Poi si apre un vero e proprio squarcio mentre il sesto aereo raggiunge la posizione di attacco. Il muro esplode, e la squadriglia, con tre aerei ancora armati, si dirige verso il fiume Eder sorvolando il Sauerland. La diga sull'Eder, appena visibile nella foschia notturna, si crepa sin dalla prima esplosione, e l'ultima bomba, sganciata dal terzo apparecchio, riesce a produrre una breccia da cui l'acqua dell'invaso inonda la vallata. La squadriglia del Sorpe, invece, non ha successo, viene anzi quasi completamente annientata; i superstiti tentano invano di abbattere la diga di Schwelm.

L'attacco alle dighe resta una delle operazioni più brillanti nella storia dell'aviazione mondiale. Puntuale come un'esecuzione e devastante per un'area vastissima. La valle dell'Eder fu invasa da 160 milioni di metri cubi d'acqua, con onde alte fino a nove metri che rombavano in direzione di Kassel. I flutti investono Hemfurth, Affoldern, Bergheim, Giflitz e Mehlen. Non vi sono gommoni sufficienti per salvare le persone nelle case crollate. Il 18 maggio arrivano i genieri e s'immergono nelle stalle alla ricerca del bestiame morto. Il recupero richiede due ore per ogni capo, perché le carcasse sono sepolte o incastrate in punti inaccessibili. Affoldern lamenta le maggiori perdite di animali: 40 equini, 250 bovini, 290 suini. Il 21 maggio si seppelliscono 300 morti, identificati solo una volta deposti nelle bare. Ancora il 23 maggio ad Affoldern vengono ritrovati due corpi senza vita di bambini e quattro suini vivi. Nell'arco di un'ora, il crollo della diga sul Möhne libera nella vallata omonima e poi in quella della Ruhr 9000 metri cubi d'acqua al secondo. Dopo 36 ore sono defluiti 122 dei 132 milioni di metri cubi usciti dall'invaso. Lungo il medio corso della Ruhr, l'ondata di piena supera di due o tre metri l'altezza massima mai raggiunta dal fiume e prosegue verso il Reno, 150 chilometri a valle. Muoiono molte bestie, l'intera fauna ittica è distrutta. La città di Neheim Hüsten, otto chilometri a valle della diga sul Möhne, viene investita dai flutti al massimo della loro violenza: perdono la vita 859 persone. Nei pressi della città c'è anche un campo di Zwangsarbeiter, cittadini stranieri deportati in Germania e costretti al lavoro coatto, in prevalenza contadine ucraine: ne muoiono 750. Nei 210 milioni di tonnellate d'acqua fuoriusciti dalla diga sul Möhne annegano in tutto circa 1300 civili.

Bisogna attendere la guerra di Corea perché gli americani tornino a sperimentare la tattica del bombardamento delle dighe: l'ondata di piena trascina via il sottile strato argilloso necessario alla coltura del riso provocando così la carestia. Chi progetta un attacco ambientale esplora lo spazio alla ricerca di un sistema in equilibrio, naturale o artificiale che sia. Ciò che conta è individuare la pietra che regge l'edificio; scalzata chirurgicamente quest'ultima, segue il crollo del sistema: l'alluvione, la carestia, l'epidemia, l'invasione dei batteri e quant'altro. Nove mesi dopo l'attacco alle dighe tedesche, Lord Cherwell aggiornava Churchill sull'azione dei batteri del carbonchio. Dall'inverno del 1943 esisteva una bomba da 1,8 chilogrammi, di progettazione britannica e costruzione americana, riempita di spore di carbonchio. «Una mezza dozzina di bombardieri Lancaster potrebbe portarne con sé una quantità sufficiente a uccidere, se equamente distribuita, chiunque si trovi in un raggio di due chilometri e mezzo rendendo il territorio inabitabile.» Churchill rispose senza indugio - finalmente poteva essere archiviata la spinosa questione degli obiettivi mirati - e l'8 marzo 1944 richiese agli Stati Uniti mezzo milione di bombe al carbonchio. «Fatemi assolutamente sapere» scrisse al Comitato per la guerra batteriologica «quando saranno disponibili. La considereremo come una prima fornitura.»

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Come si sarebbe appurato in seguito, quando si parla di bombardamento sui civili la differenza tra popolo nemico e popolo amico non è determinante. La guerra moderna non sa che farsene di concetti arcaici come quello di inimicizia. Appartengono alla propaganda politica, mentre le misure militari seguono la convenienza. Spaatz si mostrava riluttante ad accettare una tale strategia e, in occasione degli attacchi che dovevano preparare lo sbarco in Normandia, scrisse a Eisenhower: «Queste operazioni provocheranno la morte di migliaia di francesi e la devastazione di molte città. Mi sento corresponsabile e vedo con terrore un'operazione militare che porterà la morte e la distruzione in paesi che non ci sono ostili, soprattutto quando non è stato dimostrato che i risultati che si possono ottenere da questi bombardamenti siano decisivi per la guerra».

Due giorni dopo, il 24 aprile 1944, i bombardieri americani attaccarono gli impianti ferroviari di Rouen, sede vescovile dal III secolo d.C, dal 912 capoluogo della Normandia e residenza ducale. La città, un gioiello di architettura medievale senza pari in Francia, perde l'area compresa fra la Senna e la cattedrale di Notre-Dame. Le bombe distruggono l'ala sud del duomo e il rosone del transetto settentrionale. Viene colpita in pieno l'elegante chiesetta tardo-gotica di Saint-Vincent, le cui vetrate, le più belle di Rouen, tempestivamente smontate, sono potute sopravvivere ai luoghi che un tempo illuminavano. La città aveva già ricevuto un avvertimento una settimana prima, quando 237 Lancaster avevano attaccato gli impianti ferroviari provocando danni notevoli ma non decisivi. Stavolta viene bombardato significativamente il Palais-de-Justice, iniziato nel 1499, con la bella Salle des Pas Perdus, il salone degli avvocati con le alte volte a travi. Tutto perduto. Crolla la casa di Diane de Poitiers, una struttura gotica in legno particolarmente rara, con la facciata decorata in stile rinascimentale, così come la Salle des Assises, il parlamento delle corporazioni del 1509, con il soffitto di quercia dorato. Muoiono inoltre 400 civili. Nella notte tra il 9 e il 10 aprile, un contingente di 239 apparecchi tra Halifax, Lancaster, Stirling e Mosquito, distrugge 2124 vagoni merci a Lille, ma anche la Cité des Cheminots, un quartiere di ferrovieri costituito da accoglienti casette monofamiliari. Muoiono 456 persone, soprattutto ferrovieri. I sopravvissuti, convinti dalla violenza dell'attacco che sia sopraggiunta la loro ultima ora, vagano tra i crateri prodotti dalle bombe e gridano: «Bastards, bastards». Nella notte successiva a Gand muoiono 428 belgi. Vengono distrutti o danneggiati seicento edifici, tra cui sette scuole, due conventi e un orfanotrofio. Gli attacchi notturni seguono la stessa modalità di quelli sulle città tedesche, con i pathfinders, la demarcazione luminosa delle aree da colpire e il susseguirsi terrificante dei bombardamenti.

Nella notte tra il 20 e il 21 aprile, 1115 apparecchi britannici entrano in azione nei dipartimenti costieri francesi. Il Bomber Command colpisce poi Lovanio in Belgio per due notti di fila, tra l'11 e il 13 maggio. Trent'anni prima, il mondo si era indignato per l'incendio dell'antica biblioteca locale, causato, volontariamente o no, dalle truppe del Kaiser, paragonate a un'orda di unni, convinte di essere sottoposte al fuoco dei cecchini; il trattato di Versailles aveva imposto alla Germania la ricostituzione della preziosa raccolta. Ora cadono in macerie cinque edifici dell'università come anche l'abbazia di Santa Gertrude risalente al XVI secolo, il cui coro era considerato l'opera d'intaglio più raffinata di tutto il Belgio, un capolavoro inimitabile. Muoiono 160 civili.

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Nel 1447, Soest aveva resistito all'assedio delle truppe dell'arcivescovo di Colonia nell'ambito della cosiddetta «contesa di Soest». La città si era coperta le spalle alleandosi con la Lega anseatica e con altre città della Vestfalia in conflitto con Colonia. Dopo il crollo del potere imperiale, il XIV e il XV secolo sono costellati da una catena di faide territoriali, durante le quali la Germania andò via via spezzettandosi. Così dalla contesa di Soest si passa a quella del collegio di Münster, sempre legata alle mire espansionistiche dell'arcivescovo di Colonia Dietrich von Moers. Con la battaglia di Variar, Münster precipita sull'orlo del baratro, secondo un destino che l'aveva già colpita in diverse occasioni della sua storia. Lotario III di Sassonia, nonno dell'irrequieto Enrico il Leone, nel 1121 aveva dato alle fiamme il castello del duomo di Münster, innescando un incendio che distrusse l'intero insediamento. Le circostanze dell'incendio sono poco chiare, come anche i suoi vantaggi militari. Ci si limitò a prenderne atto. Nel 1350 fu la volta della peste, in conseguenza della quale gli ebrei vennero banditi dalla città; invano, perché la peste tornò nel 1383, un anno dopo un incendio, senza cause belliche, che aveva messo in ginocchio la città, splendidamente rifiorita grazie all'attività commerciale all'interno della Lega anseatica dopo l'incendio precedente, risalente al 1197. Particolarmente fruttuoso fu il commercio con l'Inghilterra: l'arcivescovo si decise per l'unione monetaria e coniò una moneta sul modello della sterlina britannica.

Con la Riforma, nel 1534, Münster visse un periodo di delirio e terrore sotto il dominio degli anabattisti: la loro «nuova Sion» venne smantellata dai cattolici dopo un assedio di sedici mesi e la consistente fetta di popolazione protestante venne ricondotta con la forza all'antica fede. Le chiese e i conventi spogliati dagli anabattisti suscitarono un bisogno di fasto e ornamentazione, un «secolo d'oro» legato al periodo di fulgore dell'Hansa, di cui il Prinzipalmarkt ospita le testimonianze più significative, come per esempio l'interno del municipio, con la bellissima facciata gotica del XIV secolo. Questi capolavori, come le tante decorazioni dorate del Prinzipalmarkt, andarono distrutti nel battesimo del fuoco inflitto dai bombardieri alleati. L'elegante ingresso ovest del duomo, incorniciato dalle torri romaniche, fornì un punto di riferimento per il devastante attacco statunitense del 10 ottobre 1943.

«Ero il navigatore della 95a squadriglia bombardieri durante l'operazione su Münster» scrive Ellis B. Scripture. «Ricevemmo l'avviso di stare all'erta alle 22 di un sabato sera, nel mezzo di una festa. L'ordine di decollo arrivò per telescrivente. Ci fu comunicato che il nostro obiettivo era l'ingresso ovest del duomo di Münster. Mi ricordo che rimasi sbigottito quando venni a sapere che, per la prima volta dacché era cominciata la guerra, dei civili erano destinati a essere il bersaglio di un nostro bombardamento. Andai dal colonnello Gerhart e gli dissi che non ritenevo di poter eseguire gli ordini. La sua reazione fu esattamente quella che, ripensandoci in seguito, mi sarei dovuto aspettare da un ufficiale di carriera e da un ottimo comandante: "Ascolti maggiore, questa è la guerra: g-u-e-r-r-a, capisce? Siamo in una battaglia senza esclusione di colpi, per anni i tedeschi hanno ucciso persone innocenti in tutta Europa. Il nostro compito è farli a pezzi - e lo faremo. Ora, io sono a capo di questa missione, e lei è il mio navigatore, quindi verrà con me! Qualche domanda?". "Nossignore" risposi. La questione era chiusa.» La prima bomba cadde con estrema precisione sulla volta del quadrato occidentale.

Il 10 ottobre, a Münster, si celebrava la maternità di Maria; nel pomeriggio i fedeli andarono a fare una passeggiata nel sole autunnale, dirigendosi verso le torri con la copertura color verderame: era domenica, e sull'altare maggiore rilucevano le candele. I canonici del duomo si erano appena seduti negli stalli del coro, quando ulularono le sirene: erano le 14.55. Gli abitanti di Münster avevano già subito quattro attacchi molto pesanti nel luglio del 1941 e avevano una grande fiducia nei loro rifugi antiaerei, così la cattedrale si svuotò rapidamente. Il canonico capitolare Emmerich rimase a pregare nella navata laterale nord, e anche gli ultimi fedeli si radunarono sotto la torre nord, in corrispondenza delle scale che conducevano in cima alla torre o in basso nella camera del tesoro, accanto alla quale, quasi a proteggerla, si trovava la cappella battesimale. Quando si fece sentire il rombo dei motori, seguito dalle prime salve della contraerea, i sagrestani e i guardiani della cattedrale si infilarono nella camera del tesoro, altri fuggirono su per le scale a chiocciola, al riparo delle pareti della torre, che avevano settecento anni di storia. In una frazione di secondo l'ululato venne coperto da una detonazione: non era un rumore, piuttosto un tremito, un palo che si piantava nell'orecchio. Quelle mura solide come il firmamento tremarono, come anche le erculee colonne; la porta di ferro della camera del tesoro venne perforata dalla scheggia di una bomba e l'onda d'urto la divelse dai cardini; le volte del quadrato e del transetto precipitarono come sotto il peso di una montagna.

Le persone che si erano rifugiate nella torre e nella camera del tesoro finirono soffocate dalla polvere. Il vicario Leiwering impartì l'assoluzione generale. Quelli che tornarono in seguito a rifugiarsi nel corpo della torre incapparono proprio nella terza bomba. Antonius Gerhard, il figlio sedicenne del sagrestano, volontario della Luftwaffe, fu colpito alla tempia da un frammento di pietra e rimase a terra inerte; la pressione atmosferica toglieva il respiro alla moglie del sagrestano, mentre questi gridava a squarciagola in cerca di aiuto. Leiwering lo udì, accorse dal moribondo e recitò con i genitori le preghiere funebri. Poi fuggirono tutti di nuovo nella torre e nella camera del tesoro, poiché un brontolio sordo aveva annunciato la terza ondata di bombe.

Dopo venti minuti, l'VIII forza aerea se ne andò, e apparve il vescovo Clemens August, conte di Galen, detto il «Leone di Münster» da quando, nel 1941, aveva attaccato nelle sue prediche il programma di eutanasia voluto dai nazisti per i malati mentali e i portatori di handicap definendolo «un assassinio bello e buono». Il vescovo pronunciò queste parole dal pulpito il 3 agosto 1941, e aggiunse che avrebbe sporto denuncia in base all'articolo 21 del codice penale. Nessun altro nel Terzo Reich aveva osato tanto, solo un vescovo di Münster poteva permetterselo. Perfino Hitler non ebbe il coraggio di farlo arrestare: giurò di vendicarsi, questo sì, ma solo dopo la guerra.

Il conte di Galen osservò i danni provocati alla cattedrale dalle bombe dirompenti: il tetto di rame della torre nord era andato perduto, le pareti erano storte. Il fonte battesimale, la Pietà, l'Evangelista, il pulpito, gli altari, gli epitaffi, i rilievi parietali: non c'era nulla di intatto. Nel quadrato ovest erano accatastate le pietre delle volte, i blocchi delle mura e le travi.

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[...] Gli stormi di bombardieri non venivano fermati né dai caccia né dalla contraerea. Bisognava resistere ai bombardamenti, e alla maggior parte dei tedeschi non restava altra difesa che la loro cantina. Nei bombardamenti incendiari, i fedeli soffitti a volta passavano imprevedibilmente al nemico e diventavano micidiali. Le ripetute raccomandazioni a mettere al sicuro le scorte di carbone talvolta trovavano riscontro talaltra si scontravano con la semplice impossibilità di trovare un altro possibile luogo di deposito. Chi immaginava di morire a causa dei gas tossici sprigionati dalle proprie bricchette? La questione restava spesso irrisolta per pigrizia. Altra cosa è il problema del tiraggio delle cantine, di per sé irrisolvibile.

Se all'esterno ci sono esplosioni, schegge e fiamme, gli abitanti della casa scendono istintivamente in cantina. La frescura sotterranea, però, concede soltanto una dilazione. La cantina è un forno spento. L'isolato in fiamme è come un combustibile che trasmette il calore alla pietra della cantina, che lo trattiene. A volte le squadre di soccorso non potevano entrare nelle cantine surriscaldate e sepolte dalle macerie per giorni o settimane dopo l'incendio a tappeto. I corpi delle vittime, se non venivano aggrediti direttamente dalle fiamme, erano mummificati, e soltanto l'autopsia poteva stabilire se la morte era avvenuta per intossicazione da gas, mancanza di ossigeno o calore. Si voleva sapere la causa del decesso. Perché una stanza funzioni da forno, deve entrare l'aria.

A Dresda mancavano i bunker. Il reticolo catacombale delle cantine offriva riparo, gli Elbwiesen e il Grosser Garten garantivano aria e frescura. Il sistema non funzionò. La cantina trattenne gli occupanti facendone morire a migliaia, in ragione del tiraggio. I passaggi nel sottosuolo del centro storico consentivano l'ingresso e l'uscita. In base ai piani, si entrava quando cominciavano a cadere le bombe, si restava al riparo dalle schegge e dalle fiamme, poi si usciva quando gli aerei facevano dietrofront, di solito dopo 30-60 minuti. Nel frattempo le cantine rimanevano fresche. Se la pietra cominciava a incamerare gradualmente il calore degli incendi, si scappava all'aperto nelle aree verdi. I piani non prendevano in considerazione la possibilità che la cantina si comportasse come un forno né le reazioni delle persone una volta che se ne fossero rese conto.

Il fondo delle cantine del centro storico di Dresda presentava dislivelli fino a un metro e mezzo. Il reticolo di passaggi non era in piano, c'era anche lì un sopra e un sotto. Quando brucia un intero quartiere, il fuoco si estende in profondità, aggredisce le scorte, gli scaffali, l'assito, il carbone; si tratta di focolai isolati e facilmente domabili. Ma c'è dell'altro. La gente in cerca di riparo non entra tutta insieme. I passanti arrivano in ritardo correndo, trovano una porta o una botola, in salvo! La porta non viene richiusa come si deve, le aperture si spalancano, s'innesca l'effetto camino, i piccoli focolai vengono alimentati da varie fonti, divampano. L'aria calda vuole salire ed è un elemento che non si lascia fermare da curve e angoli, soffia attraverso la griglia di passaggio fino alla meta. Nelle cantine adiacenti ai passaggi più superficiali sale la temperatura. Qui muoiono più di cento persone, bollite o arrostite dall'aria calda.

L'agitazione spinge gli occupanti delle cantine ad aprire quasi tutte le brecce nei muri in pochi minuti, moltiplicando l'effetto risucchio. Calore, gas, fiamme e fumo percorrono l'intero labirinto. La gente in fuga converge verso i passaggi che portano su, i corridoi sono intasati di bagagli, carrozzine e persone in attesa. Tutta Dresda vecchia corre a stipare la stretta sezione trasversale delle gallerie, pensate per un deflusso tranquillo. Invece adesso le riempie una massa di persone in preda al panico, che sgomitano, si graffiano, si pigiano e si calpestano a morte. Ecco che cosa poteva accadere. I resoconti parlano di numerosi casi in cui gruppi di cinquanta persone finirono col morire insieme dopo avere bloccato completamente il passaggio, i corpi talmente incastrati gli uni negli altri da dover essere rimossi con la forza dalle squadre di soccorso.

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I libri



A dare impulso alla fama di Monaco come città d'arte fu innanzitutto Alberto V di Baviera (1550-1579). Questi chiamò al proprio servizio Johann Jacob Fugger, che si insediò a Monaco con due bibliotecari, un belga e un italiano. Il fondo messo insieme da Fugger era costituito principalmente da manoscritti e libri pubblicati prima del 1500, poi ribattezzati incunaboli. Ci sono stati trasmessi quarantamila titoli, che contengono tutto quanto si riteneva degno di lettura e memoria nel tardo Medioevo. I libri venivano stampati in duecento esemplari, se ne sono conservati circa mezzo milione.

Gli stampatori non volevano dimostrare lo sviluppo dell'arte tipografica, così imitavano i caratteri e le decorazioni dipinte dei manoscritti. All'inizio il rubricatore contrassegnava la stampa con il titolo dei capitoli e delle pagine o le iniziali. Il testo era illustrato con silografie o incisioni su lastre metalliche. I caratteri, specialmente quelli gotici, avevano molteplici fogge, secondo il gusto del realizzatore, che di solito, così come l'amanuense, indicava il luogo e l'anno di pubblicazione e il proprio nome nel colofon. Gli incunaboli vennero inventariati a partire dal 1904, e dal 1925 cominciò a uscirne il catalogo generale. Un primo repertorio dei tipi grafici fu pubblicato in cinque volumi dal 1905 al 1924, cosicché anche incunaboli non firmati poterono essere attribuiti alle loro officine di origine. La maggioranza degli incunaboli era custodita dalle biblioteche pubbliche.

Johann Jacob Fugger fondò a Monaco il nucleo centrale della Biblioteca di corte che, grazie al principe elettore Massimiliano I, amante della storiografia, si sarebbe trasformata da semplice collezione a fonte di documentazione per gli studiosi, un deposito del sapere dell'epoca e non solo. Per completare l'opera ci voleva un catalogo generale. Massimiliano commissionò ai monasteri, i luoghi di studio più antichi, la descrizione dei loro codici manoscritti, in modo tale da ottenere un indice completo delle biblioteche bavaresi. In teoria dal 1663 la Biblioteca di corte era in possesso di almeno una copia di ogni libro stampato in Baviera o scritto da un autore bavarese. Nel 1800 il suo fondo assommava a circa centomila volumi. Tre anni più tardi gli ordini monastici vennero soppressi e il loro patrimonio di manoscritti e libri stampati fu trasportato a Monaco, dove affluirono anche le collezioni dei centri bavaresi che fino a quel momento avevano conservato lo statuto autonomo di città sotto il dominio diretto della corona imperiale. In questo modo venne a formarsi la più ampia raccolta di libri in lingua tedesca esistente.

Nel XVIII secolo la Biblioteca di corte occupava 24 stanze del Palazzo Fugger. Quando con le nuove acquisizioni venne superato il limite del milione di volumi, si abbandonò la tipologia della biblioteca a sale in favore dell'immagazzinamento dei libri in un nuovo edificio monumentale nella Ludwigstraße che superò indenne le prime nove incursioni aeree su Monaco. Nella notte fra martedì 9 e mercoledì 10 marzo 1943, il Bomber Command rovesciò sulla città bavarese 70.000 bombe incendiarie. L'attacco ebbe inizio verso mezzanotte. Le sentinelle che pattugliavano il sottotetto gettarono subito via una trentina di spezzoni di termite ed electron, come prevedeva l'addestramento. Nel frattempo arrivò la notizia che era scoppiato un grosso incendio nel bel mezzo del complesso. Sembrava impossibile: le sentinelle erano passate di lì due minuti prima, e adesso c'era già un focolaio largo quindici metri. Nel giro di pochissimo, tutto il settore era in fiamme. Il calore fece saltare in aria il tetto vetrato, così potè innescarsi l'effetto camino: una fiamma a dardo alta quindici metri s'innalzò nel cielo notturno. Le bombe a liquido incendiario avevano colpito il punto debole del palazzo. La mezza dozzina di custodi si sforzarono in ogni modo di mantenere una linea di collegamento fra le due ali dell'edificio e di impedire che il fuoco si appiccasse anche al settore nordest. A tale scopo, però, dovette essere sacrificata la sala con la collezione teologica che era ubicata lungo l'asse della costruzione e conteneva una preziosa raccolta di Bibbie. Verso l'una di notte arrivò la prima autopompa dal Teatro nazionale. Il personale guidò i pompieri attraverso il labirinto di scale e passaggi e si dedicò a mettere in salvo i libri.

Dalle due in poi nei pressi della Biblioteca nazionale venne a formarsi una folla crescente di civili e militari; nelle prime ore del mattino si era arrivati a un migliaio di persone. Grazie a questi volontari fu possibile evacuare i manoscritti e gli incunaboli, la collezione musicale e il catalogo. Come deposito di fortuna si scelse la vicina Ludwigskirche. A giorno fatto, l'incendio sembrò esaurirsi. Il cortile interno era occupato da un groviglio di manichette, pompe e tubazioni che si infilavano nell'edificio e strisciavano ai diversi piani. Ma le fiamme ripresero vigore, tornarono ad alzarsi, puntarono verso l'ala nordoccidentale e divorarono l'intero primo piano. Il settore centrale fumava ancora, nubi scure s'innalzavano dal cortile, il rogo dell'ala nordovest divampava con intensi bagliori. La biblioteca in fiamme si stagliava sulla Ludwigstraße contro il cielo scuro. Prese a soffiare il vento da sud che spazzò la distesa di fiamme e sollevò brandelli di libri infuocati creando una bufera di neve di carta incandescente.

In strada, i volontari correvano fra la biblioteca e la Ludwigstraße con le braccia cariche di volumi e c'era il rischio che il fuoco attecchisse dai fogli ai loro vestiti. Intanto nella penombra della navata laterale della chiesa, nelle nicchie e sugli altari, crescevano le montagne di libri salvati. Verso le otto l'incendio tornò a placarsi, ma anche stavolta solo per ingannare i pompieri. Un focolaio di cui non si erano accorti rimase annidato in un doppio fondo sino al pomeriggio, quando divampò con forza, avvolse all'improvviso due sale al secondo piano dell'ala nordovest e divorò la geografia extraeuropea e la collezione nordamericana, considerate al sicuro.

Le ultime braci si spensero definitivamente solo quattro settimane più tardi. Nel cortile interno le macerie arrivavano fino al primo piano, per un totale di 35.000 metri cubi. Nelle prime ore del 10 marzo, la Biblioteca nazionale bavarese fu privata di mezzo milione di libri, il 23 per cento del suo catalogo. Ne fecero le spese soprattutto la filologia classica, gli studi antichi e la storia dell'arte, la teologia, la geografia extraeuropea. Una perdita insostituibile fu rappresentata dalla distruzione degli academica, le pubblicazioni delle accademie e delle società scientifiche. Si trattò di un vulnus paragonabile all'incendio della Biblioteca di Alessandria nel III secolo. Quattro mesi più tardi andarono perduti altri 625.000 volumi nella Biblioteca nazionale e in quella universitaria di Amburgo. La storia dell'umanità non aveva mai conosciuto un così imponente rogo di libri.

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