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| << | < | > | >> |IndiceI. Gli ambasciatori: l'incontro 7 II. Il potere dello sguardo 19 III. Il rebus 35 IV. A figura intera 61 V. Holbein e le sue città 71 VI. Holbein come Shakespeare 97 VII. L'esperienza del vivere, o lo sguardo allo specchio 111 VIII. Moria, More, Sapienza, Follia 131 IX. Totentanz 141 Note 157 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Gli ambasciatori di Holbein lo si vede entrando nella Room 2, Level 2 della National Gallery a Londra - enorme sul fondo, una tavola di due metri per due, e qualche centimetro. È appeso quasi a filo del pavimento, tanto che il pavimento pare proseguire dentro il quadro, entrarvi dentro. Contro un tendaggio di seta verde damascata stanno due uomini, disposti come colonne, o telamoni - anche se non sostengono il peso del quadro, lo possiedono, lo dominano. In realtà si appoggiano entrambi a uno scaffale; o piuttosto, una vetrina piena zeppa di oggetti e strumenti, che evocano l'equipaggiamento essenziale all'educazione dell'uomo colto dell'epoca. Liberi e chiari, i due uomini mi fissano con sguardo pensoso, diretto, estroflesso, eppure così interiore. Di dimensioni prossime a quelle reali, mi attraggono nel loro spazio privilegiato - è evidente, sono uomini di altissimo rango. Eretti, guardano chi li guarda, e oltre, guardano il mondo. Mi affascina l'inquietante e indefinibile aria di mistero e di silenziosa attesa dei loro occhi seri, intenti in qualche pensiero. Ferma davanti a loro, consisto nella mia distanza. | << | < | > | >> |Pagina 17Questo sarebbe dunque il senso della solenne composizione? Il dipinto sarebbe una grande vanitas? Un memento mori? Una natura morta, dal forte contenuto moraleggiante?Guardo ancora e mi convinco che è così. Profondamente teatrale, il quadro mette in scena un mistery play, che volge in dramma barocco. E trascina ogni significato nel verso del lutto. Se c'è nell'immagine un recto e un verso come nel caso del foglio, qui le due facce si squadernano e insieme si ricompongono nel contrasto. Sì che quasi ne fosse la trama, nel quadro affiora il disegno della stoffa di cui è fatto, intessuto, il destino dell'uomo, ambasciatore di verità. Ovvero, la relazione niente affatto dialettica, ma semmai aporetica, tra l'essere e l'apparire. Che Holbein rimodula invitando a una meditazione, che nella tonalità ironica anticipa la domanda di Amleto: essere, o non essere? To be, or not to be? È il grande tema di Amleto. E, aggiungo, l'eterna questione di ogni pittore. Intendo dire: risuona qui - o è una mia immaginazione? una anamorfosi del tutto privata, indotta dalla materia che studio da anni, il teatro di Shakespeare? - risuona, squilla forte in questo dipinto l'allerta di uno stato di disgiunzione, di schisi. Lo stesso denunciato da Amleto, quando avverte che il mondo è «fuor di sesto». Più precisamente, Amleto profetico annuncia: The time is out of joint. E intende proprio questo: il tempo, la sua epoca, il suo mondo s'è fatto turbolento. Profondo è il disordine sotto il cielo di Danimarca. | << | < | > | >> |Pagina 61I due uomini sono ritratti in tutto il vigore della giovinezza e nella sontuosità del loro rango sociale elevato. La scelta del ritratto a figura intera - di poca consuetudine al tempo, per lo più i ritratti essendo allora a mezzo busto, a meno che il soggetto non sia il Monarca - è un segno ulteriore dell'importanza dei due uomini, del loro fare parte dell'establishment. Quasi sicuramente Holbein fece posare i due protagonisti una sola volta, fatto in sé comprensibile: era gente importante, con molti incarichi, e poco tempo da dedicare allo svago. Se il volto di de Selve è più slavato, è forse anche per questo: il suo ricordo è più sfumato nella memoria di Holbein, quando torna a lavorare sul disegno, come su una specie di memo del quadro. Più netto e vigoroso è il volto di Dinteville. Meravigliosa è la sua camicia dal colore rosa brillante; splendido il medaglione all'antica che gli pende dal collo con l'effigie di San Michele che sconfigge il demonio, mentre alla cinta in vita sta appesa la spada, dall'elsa scura; preziosa oltre ogni dire la decorazione della fodera dorata del pugnale, così come la nappa appesa. Disinvolto, autorevole, è l'atteggiamento. Poggia un braccio al mobiletto rivelando una padronanza e una sicurezza di sé che rasenta la baldanza. Georges de Selve è vestito più sobriamente, come si conviene al suo stato di prelato. Ma pur nel tono sobrio l'eleganza sfavilla. Holbein era conosciuto per la bravura nello schizzare i personaggi in poco tempo, e afferrare all'istante il carattere, la luce particolare del suo soggetto, la cui identità suggerisce e fissa quasi sempre accostando al personaggio gli oggetti propri diciamo così del suo trade. O negozio, o commercio. Sì che il soggetto si oggettiva, alla lettera, negli oggetti che lo rappresentano. È un processo di vero e proprio embodiment, grazie al quale il corpo umano si esterna e cala nell'oggetto che lo rappresenta. Prende corpo così, in modo paratattico. Ed ecco che sullo sfondo di un tendaggio verde sui ripiani del mobile che li separa e li unisce, trovano posto una serie di «cose», che sono lì con l'intenzione di restituire più che l'identità mondana, il fantasma auratico della personalità dei due. Accostati in posizione metonimica, come vere e proprie sineddochi, riconosciamo accanto a Dinteville un mappamondo terrestre e un mappamondo con le indicazioni delle costellazioni. Accanto a de Selve un liuto, dei quadrati, bussole, astrolabi e anche un libro di aritmetica. Si vede anche un libro di musica. È chiaro a questo punto che il mobile a due piani serve a dividere gli oggetti in due distinte categorie - mondo celeste e mondo terrestre. E insieme a evocare la passione dei due uomini ritratti per entrambi. Ma è soprattutto evidente che gli oggetti sono lì non solo con l'intento di ricreare l'atmosfera del loro mondo, e illustrare l'identità dei personaggi, ma per evocare la loro funzione, diciamo così, storica. Per testimoniare l'impegno intellettuale e le competenze culturali dei due uomini. E collocarli con dignità nel ruolo di civil servants, impiegati al servizio dell'ordine politico. Anche il messo papale, de Selve, è a Londra, in realtà, per svolgere un impiego politico. | << | < | > | >> |Pagina 69Il 1533, ripeto, è la data del quadro. È anche l'anno in cui, il 7 settembre, nasce Elisabetta. Pochi mesi prima, il 25 gennaio, Enrico, dopo il divorzio da Caterina di Aragona, top del top nel genere aristocratico, ha sposato Anna Bolena, già gravida del futuro erede, che tutti sperano sia maschio. È per sete di progenie che in effetti Enrico s'è messo a corteggiare un'altra sposa. E s'è invaghito della locale, indigena fanciulla, fiore natio di una piccola nobiltà di provincia, in paragone alla stirpe aristocratica, alla dinastia regale degli spagnoli d'Aragona, Il 1° giugno, comunque, avendo il re perso la testa (in senso figurato lui, lei purtroppo sconterà la propria superbia in senso letterale), Anna Bolena viene incoronata regina nell'Abbazia di Westminster. Cerimonia che Enrico vuole particolarmente fastosa, se non altro per esibire con sprezzatura testarda la propria libertà da Roma.Su incarico dei mercanti dello Stahlhof, il fondaco della Lega Anseatica a Londra, a Holbein viene richiesto di progettare un arco di trionfo per l'ingresso solenne di Anna Bolena nella City of London. Alla festa dell'incoronazione partecipa Jean de Dinteville, indossando lo stesso abito che veste nel dipinto. | << | < | > | >> |Pagina 71Holbein è nato nell'inverno del 1497 ad Augusta, una città imperiale, orgogliosa e indipendente, un centro di commercio internazionale nella Germania del sud, guidato da una classe di industriali, mercanti e banchieri, aperti alle istanze del Rinascimento. Per energia e dinamismo vi domina la famiglia Függer, una specie di «Medici del Nord», che attende a multiformi imprese, e sperimenta le prime forme di capitalismo industriale e finanziario. Sono i Függer a progettare una nuova forma di social housing, così si direbbe oggi, ovvero di abitazioni popolari, che prendono appunto il nome di Fuggerei dal loro ideatore, Jacob, e sono ancora oggi lì a dimostrare come la ricchezza possa sposarsi alla coscienza dell'ingiustizia sociale e alla volontà di mitigarla. Certo è che se uno degli uomini più ricchi d'Europa allora fortemente volle, oltre che per sé un palazzo, case per i suoi operai, è perché in città era vivo il dibattito sulle diseguaglianze sociali. In questa atmosfera cresce il nostro pittore. | << | < | > | >> |Pagina 97Ma chi è l'uomo Holbein? In realtà, sappiamo poco dell'esistenza quotidiana del nostro pittore. Sappiamo che come Amleto ha lo stesso nome del padre, si chiama anche lui Hans. Della sua personalità, del suo carattere, come di quello di Shakespeare, tutto ci sfugge. A Londra vive da solo, lascia la moglie Elsbeth a Basilea. Come fa Shakespeare, che lascia la sua Anne a Stratford. Entrambe, sia Anne che Elsbeth, hanno qualche anno in più del marito artista. Come Shakespeare quando torna a Stratford, tornando a Basilea Holbein si compra una casa sulle rive del Reno, e poi un podere, non molto distante. Sono due artisti entrambi oculati, e investono con profitto i propri guadagni. Dal testamento redatto a Londra il 7 ottobre 1543 si evince che a Londra Holbein ha avuto dei figli illegittimi, ma di tali figli non viene nominata la madre, la quale forse al tempo era già morta. Mentre, sei anni dopo, alla morte della legittima moglie, scopriamo che Hans s'era comunque preoccupato della sua Elsbeth, la quale subito dopo il suo decesso aveva ricevuto da Londra un grosso baule con ricchi indumenti e molti disegni. Anche gli autoritratti non ci illuminano più che tanto sulla vita e i costumi dell'artista: l'autoritratto di Basilea lo ritrae come un maestro pittore indipendente, con tanto di berretto rosso sul cranio ossuto; mentre un disegno, ora alla Galleria degli Uffizi a Firenze, ci mostra un uomo dal viso largo, marcato, dai tratti pesanti - un po' come il volto del re di cui è amico - illuminato da uno sguardo serio, leggermente malinconico. Il cranio scoperto è vuoto di capelli, già un teschio. Morirà pochi mesi dopo nella peste che devastò Londra nell'autunno dell'anno 1543. Aetatis suae XLV. | << | < | > | >> |Pagina 123Come che sia, con Amleto siamo a Elsinore, in Danimarca, e un clima invernale impronta l'umore del principe, che si presenta non a caso vestito di nero, foschi i suoi pensieri, cupo il volto, rivolto a terra - in piena temperie malinconica. Nella posizione restia di quella figura femminile assorta, un po' folle, che Dürer ha fissato per sempre in quell'icona di un corpo-montagna, attorniato dagli stessi simboli del sapere, molti dei quali compaiono nel quadro di Holbein - dove però campeggiano esibiti in tronfio rigoglio nello scaffale-vetrina. Mentre intorno a lei giacevano inerti.Amleto, quanto a carattere, pencola, diciamo così, verso quella postura, e disposizione d'animo malinconica, piuttosto che verso l'orgoglio vanaglorioso. Superomistico. O comunque, conosce il pendolo. E tra sé e sé monologa: l'uomo sarà «grande», «un capolavoro... simile a un angelo... pari a un dio...». Ma a ben guardare, che cos'è davvero, se non «la quintessenza della polvere?». Ed ecco emergere nella sua riflessione, quasi fosse il san Gerolamo di Dürer, circondato com'è in effetti anche lui dagli stessi oggetti, che compaiono del resto anche nel quadro di Holbein, ecco emergere il teschio: il teschio di Yorick. Il canto di gloria tramuta in lamento. E dalla corte, dove l'uomo è in apoteosi nella figura del re in trono, ci ritroviamo con Amleto per l'appunto in una fossa, tra ossa che muteranno in cenere. Insomma, come tra i piedi i due ambasciatori si ritrovano un teschio, così Amleto inciampa nel teschio di Yorick. E non sarà tanto lo studio all'università di Wittenberg, da dove è appena tornato, qui a contare; sarà piuttosto il rozzo becchino a impartirgli gli insegnamenti necessari, onde giungere a comprendere il mistero della morte. Sì proprio lui, il becchino, maltrattato e malpagato com'è, gli farà da maestro, rivelandosi un funzionario meticoloso, un onesto impiegato, che meriterebbe ben altro blasone, che la vanga. Perché ha ragione, è vero ciò di cui si vanta; è la sua la costruzione che dura più a lungo di ogni altra opera umana. E soprattutto, lui è l'ambasciatore che annuncia l'eminenza del potere supremo di sua maestà, Mr Death. Se è vero, come Eraclito insegna, che Bios, oltre che il nome dell'arco, è il significante di «vita», sì che tale omonimia consente la fondatezza della metafora «l'arco della vita», con questa metafora che cosa descriviamo della vita, se non il suo fugace baleno? E che cosa sostiene quell'arco della vita, quale il suo ergon, e cioè, la sua opera, il suo affare, e daffare, il suo business, ciò intorno a cui si industria appunto il becchino, l'intraprendente apprendista, se non la potenza di Mr Death? Questa è la scoperta di Amleto. E l'invisibile graffio con cui Holbein firma il ritratto dei due ambasciatori. Con tutta la loro scienza, con tutto il loro potere, chi è che servono i due signori del quadro? Chi il loro vero padrone? La scienza? Il potere? O proprio come i becchini, non sono anche loro, i due signori, seppur civilissimi, e niente affatto rustici, per mandato e per vocazione servi anch'essi, pronti, addestrati a servire l'arco della vita? Senz'altro si industriano perché la vita sia buona, perché vi sia pace, perché il mondo non si divida tra cattolici e protestanti, perché la Francia e l'Inghilterra restino amiche.
Ma soprattutto,
Ecce homo,
dice Holbein: volevate vedere l'uomo? Eccovi l'uomo in
gloria, addobbato e rivestito di meriti; e poi,
voilà, ecco - un teschio.
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