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| << | < | > | >> |IndicePiano dell'edizione 4 Sommario 9 Le meraviglie d'Italia Parte prima Una mattinata ai macelli 19 Alla Borsa di Milano 31 Mercato di frutta e verdura 38 Ville verso l'Adda 52 Pianta di Milano - Decoro dei palazzi 57 Nella notte 61 Cronaca della serata 63 Casi ed uomini in un mondo che dura quindici giorni 67 Una tigre nel parco 74 Sul Neptunia 80 Libello 87 Ronda al Castello 97 Frammento - Sostando nella necropoli comunale 102 Parte seconda Da Buenos Aires a Resistencia 105 Un cantiere nelle solitudini 111 Il pozzo numero quattordici 118 Parte terza La funivia della neve 127 Apologo del Gran Sasso d'Italia 133 Fatti e miti della Marsica nelle fortune de' suoi antichi patroni 139 Un romanzo giallo nella geologia 145 Genti e terre d'Abruzzo 152 Le tre rose di Collemaggio 160 Parte quarta Dalle mondine, in risaia 169 Carraria 175 Il carbone dell'Arsa 181 Arsia. Viaggio nel profondo 186 Sull'Alpe di marmo 194 Gli anni Il viaggio delle acque 205 Terra lombarda 211 Spume sotto i Piani d'Invrea 215 Del Duomo di Como 219 Dalle specchiere dei laghi 225 Carabattole a Porta Ludovica 231 Verso Teramo 235 Tecnica e poesia 239 L'uomo e la macchina 255 Anastomosi 263 Verso la Certosa A Raffaele Mattioli dedicando queste pagine 277 Il viaggio delle acque 281 Terra lombarda 287 [...] I viaggi la morte Parte prima Come lavoro 427 Meditazione breve circa il dire e il fare 444 Psicanalisi e letteratura 455 Tecnica e poesia 474 [...] Scritti dispersi Un libro di poesia: «Il Re Pensieroso» di Ugo Betti 671 Apologia manzoniana 679 Ugo Betti, «Caino e altre novelle» 687 Luigi Tonelli, «Manzoni» 689 La «Scienza Nuova» 691 Un narratore: Bonaventura Tecchi 698 [...] Note ai testi Le meraviglie d'Italia 1229 di Liliana Orlando Gli anni 1251 di Liliana Orlando Verso la Certosa 1269 di Liliana Orlando I viaggi la morte 1297 di Clelia Martignoni Scritti dispersi 1329 di Dante Isella |
| << | < | > | >> |Pagina 57L'Uggia disse un giorno al Cattivo Gusto: «Fabbrichiamo una città dove poter imperare senza contrasti: tu sarai re, ed io la regina». Detto fatto, messero in piedi alcune scuole di capimastri: e crearono un magistrato a cura del quale fosse imposto un sigillo di ceralacca su ogni piano o disegno che quei capimastri esibivano. I capimastri, quando le loro madri se li portavano ancora, alle dette madri gli si fecero vedere dei cammelli, dei canguri e delle giraffe. Venuti dopo alcuni mesi alla vita e dopo alcuni anni alla capimastrìa, e preso il diploma, essi levarono moltissime case di quella città dell'Uggia, a sei e sette piani: le quali case si riscontra che tengono alcunché della giraffa e alcunché del cammello: e un poco anche del dromedario. L'Uggia non le pareva vero e il Cattivo Gusto sentiva che un regno più saldo e più fedeli ministri mai non avrebbe incontrato sulla terra. E per meglio radicare la loro podestà, già grandissima, deliberarono altresì di mutuo consenso, tanto il Cattivo Gusto re che l'Uggia sua consorte e regina: primo: tutti gli alberi maggiori di cinque anni venissero adibiti a far legna; secondo: non una piazza fosse quadrata o rotonda, ma tutte bislacche; terzo: l'angolo di sessanta gradi, quello di novanta e i loro mezzi fossero banditi dai piani, e così pure ogni allineata o rettilineo; quarto: non una casa fosse pari in altezza alla casa contigua, specie nei nuovi fori e vie nuove; quinto: i muri scialbati e senza finestra delle fiancate si levassero ovunque, conferendo alla città urbanizzata la sua «fisionomia architettonica»; sesto: i tetti fossero combinati alla meglio, e con ogni aggeggio: pentoloni, caminacci, fette di panettone, canne da pesca, parafulmini arrugginiti, disposti scientemente in visuale ed in fuga. Nessun architetto fu mandato mai allo studio delle architetture di essa Pisa, Roma, Siena, Fiorenza e Perugia né degli infamati Angioini e Normanni, né dei Visconti infamatissimi, né della Signoria Veneta, o a veder Palladio a Vicenza: ma tutti ebbero in sola ed intera venerazione quella capimastria basilare, le di cui giraffe vennero costituite in «exemplum» o canone obbligativo a tutti i costruttori di quella beata città. I più insulsi poggioli, i più macrocefali timpanoni di chiesa, i più cionchi e stenti aborti di dromedarii che il secolo abbi mai visto, quelli vi vengono tenuti in onor grande come fossero Baldassar Peruzzi o Antonio di Sangallo: i muri, scialbati di tetraggine, delle fiancature senza finestra; l'alto e il basso, il va e il vieni, il tira e non l'imbrocchi, e sopratutto «el tri e cinquanta», «el düu e votanta» e l'«ah! già che l'è vera! gh'avevi minga pensàa!». E fecero anche alcuni dromedarii con tre gobbe, vanto eterno della industre città. Tutto vi era talmente uggioso, che la regina propose al re la istituzione di un ordine cavalleresco per insignire i più scialbi e noiosi architetti del regno e i più orecchiuti ciuchi della scuola di capimastrìa, e indicarli alla emulazione dei rimanenti. Così venne creato l'ordine detto R. R. cioè del Rettangoluzzo Razionale, con cinque gradi o classi di distinzione, massimo il Gran Cordone del Bolli-Barbella, minima la Croce di Cavaliere del Düu e Votantòtt. Eppure, e non ostante il gran da fare della regina, in certi quartieri della città s'incontrano tuttavia dei ribelli; e magari ne' più impreveduti cantoni: vivono con il nemico nella intelligenza più stretta, e il nemico, in loro confidando, asserra l'oste alle porte. Chi è il nemico? Quali le sue milizie? Direi che sono la verità di natura, le semplici e continuate necessità degli umani: esse tuttavia conferiscono alla città dell'Uggia il tono malioso della vita, vi promuovono il circolo degli umori di vita: questo fiotto di buon sangue e di buon senso che pur seguita a correre le grigie contrade, non ostante ogni intoppo frappostovi dai razionali edili. Colori, forme, aspetti della natura e della industria han potuto penetrare l'arce ricinta. Derrate e stoffe, càvoli e cavalli. Polli e turbine a vapore, pomidoro e cavatappi. Buoni letti all'antica, buoni elastici, muri del vecchio mattone, e la vecchia frusta sul culo, ahimé, dei cavalli. Ecco il nemico. E dove egli ha schierato le orade e le sogliole, le tinche e le trote, e dove boccheggiano i cefali, le aragoste, le anguille, dove agonizzano in una sociale poltiglia i calamari o le seppioline intinte nella loro foschia, ivi si sprigiona una marina delizia (o lacustre o fluviale) che mette in fuga gli eserciti del Cattivo Gusto e dell'Uggia: nel nostro animo si accendono, traverso le nari, fantasie di fiumi e di fontane e di docce, e i cori gocciolanti dei tritoni e delle nereidi, con codazzo infinito di pesci d'ogni freschezza e sapore, d'ogni sale e d'ogni melma, ed assai birichini nei colpi che danno, con ventolare di continuo, come fanno, quella loro coda squisita. E dove sono sul marmo od appiccati in negozio dei polli, che cari, gallinelle, tacchini, faraonette ed argentati fagiani, o tordi, o beccaccini bene avviati a sentire, tu allora ti senti l'uggia vaporar via come a un colpo di vento; e come venire incontro, in sua vece, la faggeta e la selva, o la pioppaia del Ticino o la risaia appena velata delle sue nebbie: e vi fruscia in folle fuga la légora, o vi vedi il pointer a procedere levando alta la zampa, inzaccherato e fremente: o lo vedi fermo che fiuta e che punta: e odi il guazzo degli stivali in pantano, e gli spari mattutini della caccia, una nuvoletta appena appena, in volata di canna. E dove poi ùrlano questi guai del pittore, con la mano alla bocca des ghèi a l'eto, des ghèi a l'eto, fermi con il carretto a un cantone e traboccanti di verze e di sedani, ivi ci dimentichiamo d'ogni capomastro. Oh! il disegno dei frutti, che fa la natura, è assai rubello alle leggi dell'Uggia. Ne strizzi un succo. E una ghirlanda di castagne di Cuneo reca tanta letizia e buone feste ai passanti, quanta non ne avranno mai dalla sciocca sterilità del Kremlino. | << | < | > | >> |Pagina 363Perché, amici, perché richiedere una voce stentorea qual'è la mia di recitare le lodi di Versilia? la bella ninfa che prima dell'auto e dell'elettrico fu già signora del querceto e del pineto, dagli strapiombi della Tambura al vivagno bianco e spumoso del mare? La mia voce di pedante è la meno adatta a un così gentile incarico. Aggiungete che il mio abituale malumore, quest'anno, si è esasperato nel delirio d'un ricoverabile d'urgenza, d'un tipo «socialmente pericoloso». I colpi di sole sulla nuca che il cielo di Firenze mi ha inferto, i «cinque gradi in più» che il cielo di Firenze m'ha regalato per un mese e mezzo - in più dei trentaquattro d'ogni cielo d'Italia - i cinque cari gradi in più... hanno ridotto a pappa la ragione vagellante, sconturbato il circolo, capovolto il sistema vasale, gonfiato il cuore di parolacce... Qui, al quarto platano del Battifredo, gli amici dall'alto intelletto, onorandomi della loro conversazione, mi assistono misericordi, confederati in una specie di crocerossa balnearia: Pea, Carrà, De Robertis, Angioletti, Caretti, Anna Banti, Bigongiari, Piccioni, Roberto Longhi, gli altri tutti, le gentilissime lor donne. Il caffè, al quarto platano è ottimo: non inferiore a quello di Mokambo. Pea mi ha fatto sottoscrivere una petizione alla Sovraintendenza di Pisa: una petizione per la salvezza del quarto platano, e di tutti i suoi fratelli, di tutti i platani del Battifredo: minacciati da platanocida scure, a quel che pare. Pessimo sottoscrittore in genere, e recalcitrante alle ideali «adesioni», qui, trattandosi di platani, ho sottoscritto convinto, gonfio di tutto il mio amore per il «paese» d'Italia. Ho sempre amato i platani, insino dall'infanzia, e nello stagnare della calure e nelle burrasche d'autunno, o quando nella nevicata sono scheletri chiari, sereni. Ai crocchianti mucchi delle lor foglie, a gennaio, gli spazzini del municipio gli dànno fuoco, per far più presto. I platani non mi fanno paura, non sono motociclista. Me ne sono deliziato a Como, a Monza, a Vicenza, a Padova, a Lucca, al Beldosso, a Cividale, a viale Giulio Cesare; hanno teneramente assistito la mia infanzia, circondato di speranze la mia adolescenza: i platani del parco di Milano sono miei coetanei, sono cresciuti con me. Nella parte inedita del Pasticciaccio, in una inquadratura a via Merulana, c'è mezza pagina in onor loro, in onore della corteccia, bianca, verdepisello e nocciola: ma «vi si sente lo sforzo», come dicono certi miei lettori. Moravia, ne La Romana, mi ha preceduto per le stampe con alcune rapide e bellissime righe, a definire appunto la corteccia: e il suo sereno cromatismo. Qui al Battifredo, e a Viareggio, a Massa, alle Focette, a Monsummano, a Montecatini, a Lucca, sono un po' come la persistente memoria, la continuità coerente del tempo, di un tempo estivo e caldo, e lietamente civile e polveroso, di cui la cicala novera i battiti, come la terza sfera i secondi: ci fanno pensare alla Baciocchi, sì, all'Elisa, al «rifiorire delle arti e delle scienze» da lei patrocinato e promosso: e quel tanto di civico, di napoleonico e di statale ch'essi contengono e spirano ci pare che segni lo svariare dell'epoche e degli anni: dai signoreschi lecci della Toscana granducale, siamo venuti ai platani di Elisa. Escogitate a' lumi del progresso dal novello Giasone, gonfie di «speme» nei destini umani, fatte lievi dall'interna fiamma, tra i clamori della festa se ne sono dipartite mongolfiere ascendenti, per l'ascesa al trono di sublimi personaggi: detronizzati pochi anni dopo. E i platani, allora, sono la voce d'un vecchio tempo un tantino assonnato, pieno di zanzare, di sudori, di colli d'amido, di abiti accollati nell'agosto, neri: privo, se Dio voleva, di motori, l'agosto: con radi spacci di tabacco e di chinino dello Stato sulla via polverosa, dove gli onesti cavalli pungolati dai tafàni trainavano tentennanti giardiniere, cigolanti e dondolanti carri e barocci con su il conduttore sdraiato, assopito oltre i fiocchi rossi a dispetto del sonàgliolo: e regalavano alla polvere gli onesti residui della digestione. Qui, parallela al lido di Versilia, tra querci e pini, la strada: la litorale: o, più su, l'Aurelia. Per la litorale, ai Ronchi, l'improvvisa apparita delle tamerici sul turchese del mare, scarmigliate verso il mare. Il Battifredo d'Ugliancalda, sapete, è il nome che Riccardo Bacchelli ha dato al Forte dei Marmi nel suo mirabile romanzo Il fiore della Mirabilis: dove celebra, di Versilia, la dura vita, la forte gente e il paese: e le carene e le vele, e il pericoloso peso dell'ancora e i calafati, i mozzi, le donne: e la Zaira! la Zaira! la bagnina-cuoca-lavandaia che con altro nome è realmente vissuta, dispensatrice di forte gioia ai forti sull'umidore della rena, nelle notti di settembre. Il «raggio verde» al tramonto, per quanto scrutassi, in tanti anni, ahimè, ancora non l'ho visto. Ma ho patito egualmente tutta la dolce malia delle sere, a fine agosto, quando il sole nel cielo ha già raccorciato il suo cammino e decade in un incendio dietro la Palmaria come dietro un paravento che ci nasconde la sua fine. Sì, erano vaniti i tempi, così poveri e meravigliosi, del Moscardino di Pea. E, prima ancora, c'era stata la poverissima culla del Carducci, a Val di Castello. Uscita dalla forra come da una bùccina, la raffica investiva fragorosa i castani. Ahimè! la guerra, la tedesca guerra è atrocemente passata su questa piaggia versiliese. Oggi risorte e, co' soldarelli delle bagnature e de' bagnanti (milionucci), ridipinte le case: è rifiorita la spiaggia d'ombrelloni a fungo, interminabile fungaia. Da Viareggio a Sarzana, Corbellini consule, i locomotori del Tecnomasio di nuovo corrono i loro argentati binari nel plenilunio, con lampi color pervinca alla fronte se il rullo del pantografo sussulta. Un pedante dalla penna incatramata non può dimenticare il sonetto versiliese del Carducci, le «rupi ardue di bianchi marmi»: né l'oleandro, né l'otre, né il cervo, né il centauro, né Cinosura, né il trotto del quadrupedante cavallo sul tappeto d'aghi del pineto, né la pioggia per entro il medesimo del divino Gabriele: l'onda di crisopazio è d'altro lido certo, scoglioso, roccioso, inostricato, nero, ligure o labrònico lido. Qui Gabriele poetò, amò, nuotò, cavalcò. Odo, odo il trotto del suo caval sauro irrompere dai lecci e dalle querci della Versiliana - la splendida e vasta villa che lo ospitava dentro il parco principesco alla marina di Pietrasanta - tòc tòc tòc fino al traghetto del Magra, di là dal Cinquale e dal Frigido e dal Poveromo, di là da tutte le gore e da tutti i fiumiciattoli senz'acqua ne' quali egli è riuscito a nuotare, co' suoi «bicipiti», o almeno con la fantasia: e, all'ingiù, verso la foce zanzarosa del Fiumetto, verso il Tònfano. I pini superstiti (alla lottizzazione e alla guerra) eccoli, come allora invece nel folto, scagliosi ed irti: le ginestre, i mirti, i ginepri puntuati di coccole: le tamerici, non meno di allora, salmastre ed arse nel libeccio o nello spiro di maestro: maledettamente arse, quest'anno, lungo lo stradale a mare dove gli scrittori cinquantottenni vanno in bicicletta in tenuta da bebè, e in auto gli «industriali» e le belle. No, non il caval sauro, per noi, ma una volgare bicicletta noleggiata da Beppino, quaranta lire all'ora. Non le sessanta camere e sale della Versiliana, né l'annesso parco vicereale di centosettanta ettari: per noi una cameruccia da forno crematorio: - il rapporto fra il nostro alloggio e quello del Poeta eguaglia il rapporto fra il nostro lavoro e il suo: giustizia è resa davanti la Tambura, e la Pània. Dalla Burlamacca di Viareggio il superbo viale di asfalto arriva, per trenta chilometri, alla marina di Carrara: vespe e lambrette lo signoreggiano, oggi: i meno imprudenti ciclisti sogliono scampare sul viale interno, qua e là ombrato di pini, sul viale «ammiraglio Morin». Ivi, ancor prima del Forte, gli ortolani, i parrucchieri per signora, le stiratrici, i vinai: nettezza e marmi: e danaro alla mano. Il Forte, il Battifredo, è stato ancora chiamato con altri nomi da grandissimi scrittori che sono venuti a temperarvi l'anima, non dirò la penna, di già temperata per sé: Torre di Venere da Thomas Mann, per esempio, nel suo in sulle prime acidetto racconto Mario und der Zauberer (1930): dove si stizzisce d'una contravvenzione che la polizia del Predappio gli ha «elevato», a torto secondo lui. Tutto preso d'idee nudiste, e ardendo nel culto del sole del Sud come un sacerdote di Mitra, affidava i suoi ragazzi alla spiaggia, maschi e femmine, in tenuta da Adamo ed Eva. Nel clima d'Italia, si sa, dove «tutto si risolve nel compromesso» (secondo i puri del Nord), poco tira aria per certe storie, per certi integralismi: indi proteste delle mamme. Indi guardie (in tenuta immacolata), ammonimento e multa: «inde irae». Aldous Huxley lo chiama invece il Forte, nel romanzo Those barren Leaves (1925), col più semplice toponimo di Marina di Vezza (aferesi probabile da Serravezza). Il viale interno, il viale «ammiraglio Morin»; il viale a mare, oggi trenta chilometri d'asfalto, di tamerici nel vento. Allora, ma quando? non facciamo date! Allora erano i tempi di Hildebrand, il geniale e direi classico-neoclassico modellatore e scultore: la sua villa alquanto boeckliniana era solitaria sul mare, al margine «soffiato» del pineto: erano le estati sudate della Telegramma, della Roncolina. La Telegramma, secondo ne rimemora il nome, era scarpinante portatrice di pieghi gialli con imprevedute notizie, succinta come Artemide alla caccia mentre la falce della luna si aggela: ma polacchi alti con ventotto fori per le stringhe, tutti infarinati dalla polvere: alta ed ossuta: con la cinghia a tracolla e la busta di cuoio in sull'anca, e il berretto a visiera d'incerato dei Regi Telegrafi. La Roncolina, che veniva forse dai Ronchi dove aveva botteguccia di merciaia, forse, era venditrice ambulante di spilli di tele di rocchetti di filo di fettucce (che allora usavano) alle massaie, nelle casine e nei capanni sperduti, fra le radure coltivate a granoturco. E, andando a ritroso con la memoria... sì, c'erano stati altri tempi, altri giorni. C'erano passati il Byron, lo Shelley. Il «poeta del liberato mondo», come lo chiama per l'appunto il Carducci, era approdato cadavere sulla spiaggia, in una funebre sera. Travolti al largo da una repentina libecciata il piccolo scafo e la vela, il corpo era stato ghermito e risospinto dalla corrente del Magra che descrive un ampio arco nel mare, e viene a battere a Viareggio, con quella opposta del Serchio: colma, di anno in anno, l'insenatura tra lo sbocco del canale della Burlamacca e la Fossa dell'Abate. Ivi, stando alle memorie dei vecchi, ivi, il diradare del pineto sulla spiaggia, il rogo funebre: la fiamma che distrugge crepitando le spoglie, e si ricusa distruggere il cuore, il solo cuore del poeta. No: il «cuore dei cuori», come lo chiamarono deducendo da Shakespeare le ammiratrici appassionate, non andò incenerito fra le pigne: è tuttora sotto spirito, in un vaso di vetro, in un'ampolla, non só dove, non domandatemi dove, in qualche vetrina di museo universitario, mi pare. Ora, qui, è il turno delle lambrette, delle sedie a sdraio, dei coni gelati, dei tubi al neon, degli ombrelloni a fungo, dei prendisole dolcemente eloquenti, meravigliosamente reticenti. Ora la capannina a mare, dall'orchestra notturna: le capannine: lo Strudel dell'ungherese del Cinquale e lo studio di Carrà sotto ai pini, e il suo bernoccoluto pallaio, vale a dire gioco delle bocce, sotto ai pini, tra i pini, con gli aghi dei pini. Infiniti giornali, infinita gente, infinite tasse di soggiorno, infiniti pullman: infinite biciclette, ora: e l'oblioso ozio, nel giorno, d'una gente che sguazza, si cura i piedi, cuoce, cuoce sotto il sole: vestita di quel nulla che potremmo ascrivere, appunto, al «senso del compromesso tipico dello spirito latino». Quanto basta, comunque, perché le signore guardie non s'abbiano a scomodare un'altra volta. | << | < | > | >> |Pagina 369L'approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Carolina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente «sbramato», cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d'una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po' più scuro, è vero, dopo e nonostante l'aurato battesimo dello zafferano. Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, e la ovale pure, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del «rame» o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bassano, non ha trascurato di noverarla ne' suoi poetici «interni», ove i lucidi rami più d'una volta figurano sull'ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito dagli umani il pranzo, concocto prandio, decede. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l'alluminio. La casseruola, tenuta al fuoco pel manico e per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente brodo al foco, e di manzo: e burro lodigiano di classe. Burro, quantum prodest, udito il numero de' commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propra «personalità»: non impastarsi e neppure aggrumarsi. Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l'aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po' per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella «marginale», che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè. Il brodo zafferanato dovrà per tal modo aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po' meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà un giallo chiaro canarino. Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dèi e reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro «risotto alla milanese» ingredienti di prima qualità: il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), e i suddetti spicchi di cipolle tenere; per il brodo, un lesso di manzo con carote sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta! Non ingannare gli dèi, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadambio. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano Casalbuttano Soresina; Melzo, Casalpusterlengo; tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all'Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no! Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all'incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ancora), con cui si adempia all'ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione. Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po' più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de' suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe spiacevole. Del parmigiano grattugiato è appena ammesso, dai buoni risonai; è una cordializzazione della sobrietà e dell'eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo San Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetta-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese. | << | < | > | >> |Pagina 373La casa degli umani si trasforma. La nostra casa, oggi, non è più quella di trent'anni fa. Le ragioni? Ragioni tecniche, ragioni economiche: escluderei affatto le ragioni morali. L'Ottocento aveva introdotto le poutrelles, rare tuttavia in Italia fino al nuovo secolo: ma i muri e i tetti erano combinati ancora all'antica: fondazioni, strutture portanti, copertura: pilastri e volte: malte di calce, muri di mattone o di pietrame, embrici e tegoli. Questi ultimi decenni hanno «rivoluzionato» la tecnica edilizia, e però la struttura della casa. Alla rivoluzione che chiamerò inevitabile, quella che stringenti motivi tecnici ed economici hanno imposto, s'è accompagnata la rivoluzione che chiamerò inutile o addirittura balorda, regalataci in molti casi dal truculento guappismo dei novatori coûte que coûte, dallo sconsiderato padreternismo dei tira linee quattordicenni: sì: età mentale quattordici. Buttando a mare come insopportabile zavorra tutta la esperienza edile e tutta l'arte (nel senso toscano di perizia: e di mestiere) e tutta la capacità d'intendere e di eseguire le cose che fu avvedutezza e acuità mentale del passato, abbiamo a volte creduto di poter disconoscere l'ordine del mondo e dei secoli e riprincipiar da capo, con rinnovate ragioni: che si palesarono essere, in definitiva, le ragioni dei quattordicenni: mentre il 77 per cento delle ragioni e dei motivi fisici del mondo sono rimasti gli stessi: gravità, clima, sole, neve, pioggia, vento, scarichi di fogna, acqua potabile, zanzare, tifo, bronchite, catarro, gravidanza, silenzio. La rivoluzione che ho chiamata inevitabile ha recato agli abitatori della nuova casa vantaggi, ma anche svantaggi. La nuova tecnica del calcestruzzo armato, dei muri di mattoni vuoti con armature ferrocemento, la eliminazione del tetto a lastre di ardesia o a tegoli di cotto, pesante e costoso, l'adozione di pali portanti per fondare in terreno molle, tutto ciò ha consentito strutture economicamente antisismiche o, in genere, staticamente valide a parità di costo: e magari per un costo minore. Il carattere sintattico-unitario della struttura, purché i carichi sulle palificazioni siano distribuiti a dovere, e le opere siano eseguite con onestà e scrupolo tecnico, diminuisce, a parità di resistenza, il costo complessivo dell'edificio. (Ma lo scrupolo non sempre sussiste ed agisce, come la cronaca del rovinio de' cementi può dimostrare d'anno in anno.) Ecco in ogni modo i vantaggi. Molti, per altro, gli svantaggi, gli inconvenienti.
Il muro di mattoni vuoti, o «forati» che dir si vogliano,
viene a difettare di «massa» e però di inerzia. Il più comune
tramestio, un urto, una percussione si ripercote ne' pavimenti soffitti e nelle
travature e pilastri, l'alzata o la scesa delle
taparelle avvolgibili del terzo piano fa traballare tutta la parete fino al
settimo. Ma, sopra ogni cosa, lo svantaggio termico: le stanze si raffreddano e
si riscaldano al variare della temperatura esterna con le ore del giorno: il
sorgere del sole è percepito attraverso la scemenza dei forati dall'inquilino a
levante, la bestiale autorità del sole estivo delle sedici diciotto
è patita attraverso la inefficienza dei forati dalla indifesa agonia e dal
sudore turco dell'inquilino a ponente.
Terzo, e principe, lo svantaggio acustico. La casa ci accoglie anche per il necessario, per il vivificante riposo: quello che gli energetici fasulli si dànno l'aria di reprobare come pratica maledetta da Dio, salvo concederne a se stessi di nascosto una razione tripla non appena gli venga fatto: come l'emiro Mustafà, che aveva istruito i bidelli a lasciare accese le luci del suo palazzo di Bagdad fino alle prime luci dell'alba, a ciò che i rari vagabondi urbani lo ritenessero anche dopo le nove uno «spirito insonne», vigilante circa le fortune della Patria. La casa ci protegge, ci difende e ci deve difendere, nel raccoglimento, «contro il logorio della vita moderna». Il riposo, il sonno, a chi opera, a chi lavora, è altrettanto necessario del cibo, e dell'aria da respirare: a chi nella fatica del vivere o nella rabbia del contender l'anima al Tartaro minuto per minuto impegna senza risparmio il suo sistema neuro-encefàlico: midollo spinale e cervello. Or ecco: la casa di oggi, la casa riformata, la casa trasformata è impotente a preservare e a difendere, dall'oltraggioso logorio di cui sopra, gli abitatori e i lor nervi. La struttura in cemento ferro, in laterizi forati, specie nelle parti «tese» (soffittature portanti), risuona come pelle tesa di tamburo al minimo bottoncino che rotola. Scatolone di cemento ferro forati vuol dire: «dovrò porgere orecchio, mio malgrado, a tutti i rumori della casa, a tutte le note e le sillabe del falansterio». | << | < | > | >> |Pagina 489A mio avviso, può, chi scrive, discettare con una tal quale curiosità, se pure con incerto profitto, intorno ai problemi dell'idioma: è bene che la materia dell'arte sia conosciuta e analizzata (oltreché tentata, sperimentata) da chi se ne vale ad esprimersi. Il legno dal falegname, la lega ferrosa dal siderurgista.
Nego, in ogni modo, che la materia dell'arte sia cosa trascurabile: e che
l'espressione, le più volte, pervenga a costituire
verità e bellezza per sé, identica soltanto a se stessa, prescindendo l'artefice
dalla materia. Opino tuttavia che il profitto
normativo di uno studio estrinseco (dei problemi idiomatici)
non sarà grande, ai fini delle opere, per questo: le facoltà che
dall'arte si esercitano sulla propria materia sono piuttosto
istintive e i mezzi e i processi alquanto surgivi e reconditi,
piuttosto che non razionali o dialettici o apertamente raddrizzabili con
manifestata ortopedia. Una felice espressione o dizione (in senso lato, p. e. un
capitolo di storiografia) si raggiunge, a quanto sembra, più veramente lungo i
misteriosi cammini di una sintesi inconscia, che non per grammaticali o
lessicologiche deliberazioni. Certe inimitabili pagine del Cellini, che cozzano
a piene corna, stupendamente, contro ogni preventivo. Non è per filologicale
senatoconsulto che possono venir fatti al poeta i due versi
Questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Non tanto il dibattito estetico o filologico (in senso stretto) può venirci al soccorso, quanto un amoroso praticare l'idioma, per lettura e per discorso: e per esercizio d'inchiostri. Sì, esercizio. E mandare molti versi a memoria, il Dante, poi, non parliamone. Ciò posto, mi richiamo (da dilettante, da praticone, da treccone) ai problemi sfiorati o dibattuti nella perspicua nota di Bruno Migliorini, ai quali han già portato i contributi della loro analisi e della loro scienza studiosi come Giacomo Devoto e Gianfranco Contini. È ovvio, per me, che la lingua d'uso non può tener da sola il campo della umana conversazione. Bello, bello da rimanerci, è udire il mi' lattaio fiorentino a discorrere: e talora lo sto ad ascoltare incantato: e mi dico: «impara, impara, o ciuco». Ma una nazione non può ridursi al brio ancheggiante delle sue fanti chiantine, o all'estasi delle madonnine di Valdarno: per quanto vividamente, stupendamente, o miracolosamente parlanti. Nemmeno può ridursi agli stenti iperborei di certi suoi lucumoni o druidi, che asineggiano sopra scolaresche di zucche.
È superstizione romantica (pervenutaci dal romanticismo)
il darci a credere che la lingua nasca o debba nascere soltanto
dal popolo. Nasce dal popolo come nasce anche dai cavalli,
che col loro verso ci hanno suggerito il verbo nitrire, e i cani
guaiolare e uggiolare. La lingua, specchio del totale essere, e
del totale pensiero, viene da una cospirazione di forze, intellettive o
spontanee, razionali o istintive, che promanano da
tutta la universa vita della società, e dai generali e talora urgenti e
angosciosi moti e interessi della società. Può darsi che
il monello di porta a Pisa l'abbi più pronta la botta in cima
della lingua: non per questo dovremo tappar la bocca ad Antonio Rosmini. E più
facile notare un descensus dalla lingua colta all'uso, che non il processo
inverso.
I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d'uso corrente, o d'uso raro rarissimo. Sicché dò palla nera alla proposta del sommo e venerato Alessandro, che vorrebbe nientedimeno potare, ecc. ecc.: per unificare e codificare: «d'entro le leggi, trassi il troppo e 'l vano». Non esistono il troppo né il vano, per una lingua. Le variazioni lessicali (sinonimi) e le varianti ortoepiche (riescire e riuscire; adacquare e dacquare, in aferesi) mi vengono buone secondo collocazione per varare al meglio o per varare all'ottimo la clausola prosodica. Fra l'altro. Così al vetturino e al cavallante vengon buoni i dimolti fagotti e baligie di vario formato, onde riesce a inzeppare lo spazio del bagagliaio, a colmare i suoi vuoti. L'Omero è pieno di zeppe monosillabiche, se non esclusivamente ascritte a ragioni di misura. E in lingua nostra, che la parola si può stirare, contrarre e metastatare (palude, padule: femminile e maschile) secondo libidine, come la fusse una pasticca tra i denti, ecco qua: si potrebb'essere Omero senza le zeppe. Dò palla bianca a una collazione e a un uso ragionevole di tutte le varianti ortoepiche: non voglio mollare né palude né padule, né il femminile né il maschile: e mi riserbo di usare d'entrambe le forme (lessicali). Che lingua letteraria e lingua d'uso si scostino di qualche poco, e talora d'una pertica buona, poco mi ci struggo: ma davvero: e non sarà la fin del mondo. Anche le gonne d'una marchesa diversificano a chiare note da quelle della Marianna, pur essendo catalogabili entro i termini dell'idea «gonne» le une e le altre. Il Migliorini, con gli esempi «discrezionale», «cambiario», «coalizione», e con le note storiche relative (pag. 224), accenna al fatto per cui un vocabolo di mencia statura o di origine barbara piovuto appena tra i galantuomini, poco di poi si affaccia per una finestruola della locanda al gran Foro della lingua. Indi siffatti meteci ottengono cittadinanza: e si insinuano come scherzare nella lista dei padri e coscritti. Qui dovrebbe valere il criterio: se insostituibili, si accolgano, vincendo la ripugnanza: se c'è già il corrispettivo paesano, si respingano. Ma in pratica un tal criterio non vale, o non arriva a poter sempre valere. Ritrovalo tu, codesto caro paesano, che si nasconde col suo vincastro e le pecora in cima alla montagna del Casentino. Io sto per essere deversato dal mio tram in via Tommaso Grossi. Arrivederci domani. E certi, strapazzoni, allora, ti camuffano lo straniero, o il gobbo dal piè di cavallo: lì per lì: te lo rivestono da italiota aborigenato, alla meno peggio, e con un buon calcio di dietro te lo sparano giù, dalla sua locanda, nel fondaco matto delle bellurie e della disinvoltura cittadina. Ne nasce quella tipica lingua da parrucchiere per signore, a cui tutti dovremmo abbrancarci disperatamente, come a un salvagente, per non essere sommersi dal flutto. Dal mare dell'anticaglia e dello stile togato. Talora il vocabolo è caduto in desuetudine in questa soltanto, o in quell'altra parte del bel paese: che Appennino parte, ohimè, e non mai così duramente lo parte come in fatto di partiture lessicali. O presso una categoria di persone, non presso un'altra. Certo è che l'ultima delle sguattere d'una trattoria pistoiese parla un meglio italiano che non la prima delle marchese di porta Ticinese. Con tutto ciò, il popolo non deve essere idolatrato: e nemmeno la lingua del popolo. Amato sì. E ammirato e seguito là dov'e' ci assegna la misura, la bellezza, la grazia, la esattezza, la puntuale esattezza! la forza: il che avviene, ahi noi!, dimolto ma dimolto più spesso uno scrittore tronfio non creda. Altrove non può il popolo, e nemmeno il toscano, fornirci lume del suo, dato che la intrinseca ragione e direi il meccanismo del pensiero, fatto, o da farsi, è al di là della sua cognitiva, sopravvanza l'avventato e l'improvvido, e richiede una disciplina allungata e pertinace, un corso di perfezionamento, di hautes études. Devo rimandare ad altra sede alcuni appunti sulle questioni laterali: 1) Vita storica del vocabolo e del modo espressivo. Impossibilità di astrarre da un riferimento storico della lingua parlata e scritta. 2) I dialetti. Il diritto di alcuni modi più ricchi, o più vigorosi, de' dialetti stessi... a entrare nell'elenco dei padri e coscritti. Dò palla bianca ai meteci e inserisco in una mia prosa il ligure galuppare (per sciroppare, francese bouffer) e il romanesco gargarozzo. Giungo persino a fare qualche scandalosa concessione alle due grandi lingue sorelle, francese e spagnola. 3) La lingua scritta (il Devoto giustamente vi insiste) dà tempo e modo per architettarla e forbirla (polirla, direbbe Gabriele): non così quattro battute spicce licenziate in qualche modo davanti il treno che parte. 4) L'uso specioso che talora si fa della lingua e della sua sintassi in poesia, l'accezione «spastica» della parola, suggerita da Orazio nell'arte poetica e praticata da tutte le scuole un po', fino ai dì nostri. 5) Il vario stato culturale e l'indole e la disposizione de' parlanti comporta varie gradazioni di colore, toni specifici, toni preferenziali nella scelta istintiva del vocabolo, nella pratica del linguaggio. Sono d'accordo con Migliorini sullo schema di pag. 226 (zone di soprapposizione e zone di esclusiva delle «diverse» lingue). Per mia parte, bracconiere di frodo, voglio libera la bandita in tutte quante le zone, secondo opportunità. Circa gli apporti espressivi delle tecniche ebbi a scrivere molt'anni fa in «Solaria», e dirò in altra sede. Avvezzano lo scrivente a una particolare disciplina della notazione (giure, scienze fisiche, scienze mediche, storiografia, ecc.) e immettono nel gran fiume della lingua da un lato il frasario gergale de' pratici, che a poco a poco si deposita in una moda normativa, di largo uso: dall'altro il frasario di lontana o rinnovata discendenza illustre, che coglie l'etimo alla sua viva (per quanto illustre) ed antica radice: italiana classica, latina, greca e neo-greca scientifica. E allora vocabolari speciali, trattatistica, repertori delle arti. Ogni praticante, ogni maestro ha cooperato a provvedere d'un idioma la società delle anime. Ogni sommo lucumone dell'idioma potrebbe chiedere al corpo vivo della sua gente di aprirgli le anime: «da mihi animas, coetera tolle». Così la Bestia raggiunge la dignità di un linguaggio. I filosofi, i giuristi, hanno definito concetti e creato vocaboli, usando a volta in particolare accezione i vocaboli del comune discorso. Noi non possiamo ripudiare il suggerimento e il soccorso de' maggiori, i doni e gli apporti. Valga dunque Aristotele come Ulpiano, ognuno pel suo. [...] | << | < | > | >> |Pagina 1181Se per «ritorno fascista» si intende una repentina eversione delle leggi di vita associata che assistono e confortano lo sviluppo umano e lo stato democratico definito costituzionalmente, tanto più quando una siffatta eversione venga operata con violenza sopraffattrice da un gruppo di cittadini per sottrarsi alla disciplina pubblica liberamente accettata dalla nazione, è certo che gli avvenimenti di Algeri e di Parigi inducono ad amaramente riflettere. Voglio concedere ai sovvertitori l'attenuante di aver agito ai fini di difesa della organizzazione territoriale Francia + Algeria, ad altri la discriminazione dell'età minore o della sconsideratezza minorile: ma certo il caso dimostra che un ritorno della violenza e dell'arbitrio è tuttavia possibile (e non soltanto in Francia o in Italia) ove non sia contrastato a tempo da una ferma volontà di resistervi. I giovani, gli «arditi», gli spregiudicati corrono facilmente alle vie e alle armi, come coloro che dalla sorte delle armi hanno tutto da guadagnare, e non hanno nulla da perdere: come coloro che amano le armi, e l'impiego di esse amano considerare prodezze: date una carabina a un ragazzo, e in capo a un'ora avrà già sparato a sua sorella, a sua madre, al migliore de' suoi amici.
È necessario vincere il fascismo in noi stessi, in tutti gli
animi dei concittadini: con lo spregiare, condannare, deridere e avere a schifo
in noi il culto della prepotenza, il prevalere iniquo dell'io, l'ambizione
«fisica» di essere al disopra degli altri e la «fede», tipicamente fascista, in
una presunta nostra capacità di disporre del destino comune e di condurre al
«trionfo» certe idee di potenza che inverdiscono soltanto,
quasi un'erbaccia in un orto negletto, nella nostra capoccia di
superuomini cretini o addirittura malati di malattia mentale.
Così una perenne attività logica, una seria preparazione alla
vita associata, una scuola efficiente, il culto del «dovere»,
il rispetto del vicino e del prossimo, una onestà naturale e nativa serbata
nell'animo a dispetto del costume e del tempo mi sembrano i mezzi di cui lo
scrittore e il cittadino in genere dispongono per
non dare «via libera» al fascismo:
per combatterne la diffusione, così come si combattono e si prevengono con
cautele d'ogni momento (igieniche, tecniche, assicurative) i mali disgregatori
e lo «sfacelo» dei traumi non preventivati. Il cattivo esempio è letale quanto
la peste, il buon esempio della disciplina civile è la sola salvezza che noi
possiamo offrire ai giovani contro la tentazione di ogni violenza sopraffattrice
di tipo fascista.
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