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| << | < | > | >> |IndiceEsordio V MEMORIA DEL FUOCO 1 Prime voci 5 La creazione 7 Il tempo 7 Il sole e la luna 8 Le nubi 10 Il vento 10 La pioggia 11 L'arcobaleno 11 Il giorno 13 La notte 13 Le stelle 14 La via lattea 15 Venere 16 Il linguaggio 16 Il fuoco 17 La selva 17 Il cedro 18 Il guayacan 18 I colori 19 L'amore 19 I fiumi e il mare 20 Le maree 21 La neve 21 Il diluvio 22 La tartaruga 23 Il pappagallo 23 Il colibrí 24 L'urutaú 25 L'hornero 26 Il corvo 26 Il condor 27 Il giaguaro 28 L'orso 28 Il caimano 29 Il tatú 30 Il coniglio 30 Il serpente 32 La rana 32 Il pipistrello 33 Le zanzare 34 Il miele 34 I semi 34 Il mais 35 Il tabacco 36 L'erba mate 36 La yuca 37 La patata 38 La cucina 38 La musica 39 La morte 40 La resurrezione 41 La magia 42 Il riso 42 La paura 43 L'autorità 43 Il potere 44 La guerra 45 La festa 46 La coscienza 46 La città sacra 47 I pellegrini 48 La terra promessa 48 I pericoli 49 La ragnatela 50 Il profeta 50 Vecchio Nuovo Mondo 51 1492. Il mare oceano La rotta del sole verso le Indie 53 1492. Guanahaní Colombo 54 1493. Barcellona Giorno di gloria 55 1493. Roma Il testamento di Adamo 56 1493. Huexotzingo Dove risiede il vero, ciò che ha radici? 57 1493. Pasto Tutti contribuenti 58 1493. Isola di Santa Cruz Un'esperienza di Michele da Cuneo, nativo di Savona 58 1495. Salamanca La prima parola venuta dall'America 59 1495. La Isabela Caonabó 60 1496. La Concepción Il sacrilegio 61 1498. Santo Domingo Il Paradiso Terrestre 61 La lingua del Paradiso 62 1499. Granada Quali sono gli Spagnoli? 63 1500. Firenze Leonardo 63 [...] 1650. Città del Messico I vincitori e i vinti 293 Dal canto nahuatl sulla vita effimera 294 1654. Oaxaca Medicina e stregoneria 295 1655. San Miguel de Nepantla Juana a quattro anni 296 1656. Santiago de la Vega Gage 296 1658. San Miguel de Nepantla Juana a sette anni 297 Un sogno di Juana 298 1663. Guatemala antigua Arriva la stampa 298 1663. Rive del fiume Paraiba La libertà 299 Canzone di Palmares 300 1663. Serra da Barriga Palmares 300 1665. Madrid Carlo II 302 1666. Nuova Amsterdam New York 303 1666. Londra I servi bianchi 303 1666. Isola Tortuga Polittico dei pirati 304 1667. Città del Messico Juana a sedici anni 305 1668. Isola Tortuga I cani 307 1669. Villa de Gibraltar Tutta la ricchezza del mondo 307 1669. Maracaibo Esplosione 308 1670. Lima «Abbi pietà di noi» 309 1670. San Juan Atitlan Un intruso sull'altare 310 1670. Masaya «Il Güegüence» 311 1670. Cuzco Il Lunarejo 312 1671. Città di Panama Sulla puntualità agli appuntamenti313 1672. Londra Il carico dell'uomo bianco 314 Canzone dell'uccello dell'amore del popolo mandinga315 1674. Port Royal Morgan 316 1674. Potosí Claudia, la fattucchiera 317 1674. Yorktown I destrieri dell'Olimpo 318 1676. Valle del Connecticut L'ascia di guerra 319 1676. Plymouth Metacom 319 1677. Old Road Town Muoiono qui, rinascono là 320 1677. Porto Calvo Il capitano promette terre, schiavi e onori 321 1678. Recife Ganga Zumba 321 Sortilegio yoruba contro il nemico 322 1680. Santa Fe del Nuovo Messico La croce rossa e la croce bianca 323 1681. Città del Messico Juana a trent'anni 324 1681. Città del Messico Sigüenza y Góngora 325 1682. Accra Tutta l'Europa vende carne umana 326 1682. Remedios Per ordine del Diavolo 327 1682. Remedios Ma restano 328 1682. Remedios Per ordine di Dio 330 1688. L'Avana Per ordine del re 331 1691. Remedios Ma di qui non si muovono 332 1691. Città del Messico Juana a quarant'anni 333 1691. Placentia Adario, capo degli indios uroni, parla al barone di Lahontan, colonizzatore francese di Terranova 335 1692. Salem Village Le streghe di Salem 336 1692. Guapulo La nazionalizzazione dell'arte popolare 338 1693. Città del Messico Juana a quarantadue anni 339 1693. Santa Fe del Nuovo Mesico L'indipendenza è durata tredici anni 339 Canto all'immagine che svanisce dalla sabbia, degli indios del Nuovo Messico 340 1694. Macacos L'ultima spedizione contro Palmares 341 Lamento del popolo azande 342 1695. Serra Dois Irmaos Zumbí 343 1695. San Salvador de Bahia La capitale del Brasile 344 1696. Regla Madonna negra, dea negra 345 1697. Cap Français Ducasse 346 1699. Madrid Lo Stregato 346 1699. Macouba Una dimostrazione pratica 347 1700. Ouro Preto Tutto il Brasile verso il sud 348 1700. Isola di Santo Tomas Colui che fa parlare le cose 349 Canto del fuoco del popolo bantu 350 1700. Madrid Penombra d'autunno 351 FONTI 353 |
| << | < | > | >> |Pagina VEsordioSono stato un pessimo studente di storia. Le lezioni di storia erano come visite al Museo delle Cere o alla Regione dei Morti. Il passato era fermo, vuoto, muto. Ci insegnavano il tempo passato perché ci rassegnassimo, coscienze svuotate, al tempo presente: non per fare la storia, che era già fatta, ma per accettarla. La povera storia aveva smesso di respirare: tradita nei testi accademici, falsificata nelle aule, addormentata nei discorsi di effemeridi, l'avevano imprigionata nei musei e l'avevano sepolta, con omaggi floreali, sotto il bronzo delle statue e il marmo dei monumenti. Possa Memoria del fuoco aiutare a restituire alla storia il respiro, la libertà e la parola. Attraverso i secoli, l'America Latina non ha sofferto solo il saccheggio dell'oro e dell'argento, del salnitro e del caucciù, del rame e del petrolio: ha sofferto anche l'usurpazione della memoria. Molto presto è stata condannata all'amnesia da coloro che le hanno impedito di essere. La storia ufficiale latinoamericana si riduce a una sfilata di notabili con uniformi appena uscite dalla tintoria. Io non sono uno storico. Sono uno scrittore che vorrebbe contribuire al riscatto della memoria sequestrata di tutta l'America, ma soprattutto dell'America Latina, terra disprezzata e adorata: vorrei conversare con lei, condividerne i segreti, chiederle da quali diversi fanghi nacque, da quali atti d'amore e da quali violenze discende. Ignoro a quale genere letterario appartenga questa voce di voci. Memoria del fuoco non è un'antologia, no di certo; ma non so se sia romanzo o saggio o poesia epica o testimonianza o cronaca o... Non perdo certo il sonno per appurarlo. Non credo nelle frontiere che, secondo i doganieri della letteratura, separano i generi. Non ho voluto scrivere un'opera obiettiva. Non ho voluto né ci riuscirei. Questa narrazione della storia non ha nulla di neutrale. Incapace di prendere le distanze, prendo partito: lo confesso e non mi pento. Tuttavia ogni frammento di questo vasto mosaico poggia su una solida base documentale. Ciò che qui racconto è accaduto; anche se lo racconto a modo mio. | << | < | > | >> |Pagina 7La donna e l'uomo sognavano che Dio li stava sognando. Dio li sognava mentre cantava e agitava le sue maracas, avvolto in fumo di tabacco, e si sentiva felice e insieme turbato dal dubbio e dal mistero. Gli indios makiritare sanno che, se Dio sogna cibo, fruttifica e dà da mangiare. Se Dio sogna la vita, nasce e dà la nascita. La donna e l'uomo sognavano che nel sogno di Dio c'era un grande uovo splendente. Dentro all'uovo essi cantavano e ballavano e facevano un gran baccano, perché erano pazzi di voglia di nascere. Sognavano che nel sogno di Dio la gioia era più forte del dubbio e del mistero; e Dio, sognando, li creava, e cantando diceva: - Rompo quest'uovo e nasce la donna e nasce l'uomo. E insieme vivranno e moriranno. Ma nasceranno nuovamente. Nasceranno e torneranno a morire un'altra volta. E mai cesseranno di nascere, perché la morte è menzogna. (48) | << | < | > | >> |Pagina 7Il tempo dei maya nacque ed ebbe nome quando il cielo non esisteva né s'era destata la terra. I giorni partirono da oriente e si misero in cammino. Il primo giorno si cavò dalle viscere il cielo e la terra. Il secondo giorno costruì la scala di dove scende la pioggia. Opera del terzo furono i cicli del mare e della terra e la moltitudine delle cose. Per volontà del quarto giorno, terra e cielo si inclinarono così da potersi incontrare. Il quinto giorno stabilì che tutti avrebbero lavorato. Dal sesto uscì la prima luce. I luoghi dove non c'era nulla, il settimo giorno li riempì di terra. L'ottavo affondò nella terra le mani e i piedi. Il nono giorno creò i mondi inferi. Il decimo giorno destinò i mondi inferi a chi ha veleno nell'anima. Dentro il sole, l'undicesimo giorno modellò la pietra e l'albero. Fu il dodicesimo che fece il vento. Soffiò vento e lo chiamò spirito perché non c'era morte dentro di lui. Il tredicesimo giorno bagnò la terra e col fango impastò un corpo come il nostro. Così si ricorda nello Yucatan. (208) | << | < | > | >> |Pagina 53I venti sono dolci e leggeri, come in una primavera di Siviglia, e il mare sembra un fiume Guadalquivir; ma non appena la marea monta, li assale la nausea, e vomitano, ammassati nei castelli di prora, gli uomini che solcano, su tre navicelle rattoppate, il mare ignoto. Mare senza confini. Uomini, piccole gocce al vento. E se il mare non li amasse? Scende la notte sulle caravelle. Dove li getterà il vento? Salta a bordo un'orata, che inseguiva un pesce volante, e si moltiplica il panico. Non sente, la ciurma, il sapido aroma del mare un po' increspato, né ascolta il vocio dei gabbiani e dei pellicani che vengono da ponente. All'orizzonte, comincia l'abisso? All'orizzonte, finisce il mare? Occhi febbricitanti di marinai induriti da mille viaggi, occhi ardenti di prigionieri strappati alle carceri andaluse e imbarcati a forza: non vedono gli occhi quei riflessi annunciatori d'oro e d'argento nella schiuma delle onde, né gli uccelli di terra e di fiume che volano senza posa sulle navi, né i giunchi verdi e i rami foderati di conchiglie che vanno alla deriva attraverso i sargassi. In fondo all'abisso, arde l'inferno? In quali fauci i venti alisei getteranno questi omiciattoli? Indagano le stelle, in cerca di Dio, ma il cielo non è meno imperscrutabile di questo mare mai navigato. Ascoltano ruggire il mare, la mare, la madre mare, voce roca che rimanda al vento frasi di eterna condanna, tamburi del mistero risonanti dalle profondità: si fanno il segno della croce e vogliono pregare e balbettano: «Questa notte cadiamo dal mondo, questa notte cadiamo dal mondo». (49) | << | < | > | >> |Pagina 54Cade in ginocchio, piange, bacia la terra. Avanza barcollando, perché è da più di un mese che dorme poco o niente, e abbattendo rami a colpi di spada. Poi alza lo stendardo. Inginocchiato, gli occhi al cielo, pronuncia per tre volte i nomi di Isabella e Ferdinando. Al suo fianco il notaio Rodrigo de Escobedo, uomo lento di penna, redige l'atto. Da oggi tutto appartiene a quei re lontani: il mare di coralli, la sabbia, le rocce verdissime di muschio, i boschi, i pappagalli e questi uomini dalla pelle d'alloro che non conoscono ancora i vestiti, la colpa e il denaro e che contemplano attoniti la scena. Luis de Torres traduce in ebraico le domande di Cristoforo Colombo: - Conoscete voi il Regno del Gran Kahn? Da dove viene l'oro che portate appeso al naso e alle orecchie? Gli uomini nudi lo guardano, a bocca aperta, e l'interprete tenta miglior sorte con l'idioma caldeo, di cui conosce qualcosa: - Oro? Templi? Palazzi? Re dei re? Oro? E poi prova con l'arabo, quel poco che sa: - Giappone? Cina? Oro? L'interprete si scusa con Colombo nella lingua di Castiglia. Colombo impreca in genovese e scaraventa al suolo le lettere credenziali, scritte in latino e dirette al Gran Kahn. Gli uomini nudi assistono alla collera del forestiero dai capelli rossi e dalla pelle cruda, che porta un mantello di velluto e vesti sfarzose. Presto si spargerà la voce per le isole: - Venite a vedere gli uomini che sono arrivati dal cielo! Portate loro da mangiare e da bere! (49) | << | < | > | >> |Pagina 61Bartolomeo Colombo, fratello e luogotenente di Cristoforo, assiste all'incendio di carne umana. Sei uomini inaugurano il rogo di Haiti. Il fumo fa tossire. I sei stanno bruciando per punizione ed esempio: hanno sepolto sotto terra le immagini di Cristo e della Vergine che fra' Ramón Pane aveva lasciato loro a protezione e conforto. Fra' Ramón aveva insegnato loro a pregare in ginocchio, a dire Avemaria e Paternoster e ad invocare il nome di Gesù di fronte alla tentazione, alla sofferenza e alla morte. Nessuno ha domandato loro perché avessero sepolto le immagini. Speravano che i nuovi dei rendessero fertili i campi di mais, yuca, patate dolci e fagioli. Il fuoco aggiunge caldo al caldo umido, appiccicoso, presagio di violenta pioggia. (103) | << | < | > | >> |Pagina 68In queste isole, in questi luoghi di umiliazione, sono molti quelli che scelgono la morte, impiccandosi o bevendo veleno insieme ai propri figli. Gli invasori non possono evitare questa vendetta, però sanno spiegarla: gli indios, tanto selvaggi da pensare che tutto sia in comune, dirà Oviedo, sono gente per sua natura oziosa e viziosa e di poco lavoro... Molti di loro, per passatempo, si uccisero col veleno per non lavorare, e altri si impiccarono con le proprie stesse mani. Hatuey, capo indio della regione della Guahaba, non si è suicidato. Fuggì da Haiti in canoa, insieme ai suoi, e si rifugiò nelle grotte e fra i monti della parte orientale di Cuba. Lì indicò una cesta piena d'oro e disse: - Questo è il dio dei cristiani. Per lui ci perseguitano. A causa sua sono morti i nostri padri e i nostri fratelli. Balliamo per lui. Se la nostra danza gli piacerà, questo dio ordinerà che non ci maltrattino. Lo catturano tre mesi più tardi. Lo legano a un palo. Prima di accendere il fuoco che lo ridurrà carbone e cenere, un sacerdote gli promette gloria ed eterno riposo se accetta il battesimo. Hatuey chiede: - In questo cielo, ci sono i cristiani? - Sì. Hatuey sceglie l'inferno e la legna comincia a crepitare. (102, 103 e 166) | << | < | > | >> |Pagina 73Gonzalo Fernández de Oviedo, arrivato da poco, assaggia la frutta del Nuovo Mondo. La guayaba gli sembra molto superiore alla mela. La guanábana è bella da vedere ed offre una polpa bianca, acquosa, di morigerato sapore; per quanto se ne mangi, non dà difficoltà di digestione. Il mamey ha un sapore da leccarsi i baffi e un buonissimo profumo. Non esiste niente di meglio, afferma. Ma morde una nespola e gli inonda la testa un aroma che nemmeno quello del muschio riesce a uguagliare. La nespola è il frutto migliore, corregge, e non esiste cosa che le si possa comparare. Sbuccia, allora, un ananas. Il dorato ananas profuma come vorrebbero le pesche e riesce a stuzzicare l'appetito anche a chi della voglia di mangiare non ha più neppure il ricordo. Oviedo non conosce parole che siano degne di descrivere le sue virtù. Gli si rallegrano gli occhi, il naso, le dita, la lingua. Questo supera tutti, sentenzia, come le piumè del pavone risplendono più di quelle di qualsiasi uccello. (166) | << | < | > | >> |Pagina 81Ammutoliti dalla bellezza, i conquistatori cavalcano sulla strada lastricata. Tenochtitlán sembra uscita dalle pagine di Amadigi, cose mai udite, mai viste, e neanche sognate... Il sole si leva dietro i vulcani, penetra nella laguna e rompe in frange la nebbia che galleggia. La città, strade, canali, templi dalle alte torri, si dispiega e sfolgora. Una folla esce ad accogliere gli invasori, in silenzio e senza fretta, mentre infinite canoe scavano solchi nelle acque di cobalto. Montezuma arriva in portantina, seduto su una morbida pelle di giaguaro, sotto un baldacchino d'oro, perle e piume verdi. I signori del regno spazzano il suolo che calpesterà. Dà il benvenuto al dio Quetzalcóatl: - Sei venuto a sederti sul tuo trono - gli dice. - Sei venuto tra nubi, tra nebbie. Non ti vedo in sogno, non sto sognando. Sei arrivato nella tua terra... Coloro che accompagnano Quetzalcóatl ricevono ghirlande di magnolie, rose e girasoli, collane di fiori al collo, alle braccia, intorno al petto: il fiore dello scudo e il fiore del cuore, il fiore dal buon profumo e quello molto giallo. Quetzalcóatl nacque in Estremadura e sbarcò in terra d'America con un fagotto di vestiti sulle spalle e un paio di monete nella borsa. Aveva diciannove anni quando mise piede sulle pietre del molo di Santo Domingo e chiese: Dov'è l'oro? Ora ne ha compiuti trentaquattro ed è capitano di grande ventura. Veste un'armatura di ferro nero e conduce un esercito di cavalieri, lanceri, balestrieri, fucilieri e cani feroci. Ha promesso ai suoi soldati: Io farò di voi, in brevissimo tempo, gli uomini più ricchi che siano mai venuti nelle Indie. L'imperatore Montezuma, che apre le porte di Tenochtitlán, soccomberà presto. Di qui a non molto sarà chiamato donna degli spagnoli, e la sua gente lo ucciderà a sassate. Il giovane Cuauhtémoc prenderà il suo posto. Lui lotterà. (60 e 62) | << | < | > | >> |Pagina 83Hermán Cortés passa in rivista i pochi superstiti del suo esercito, mentre la Malinche cuce le bandiere rotte. Tenochtitlán è rimasta alle spalle. Alle spalle è rimasta la colonna di fumo che il vulcano Popocatépetl ha buttato dalla bocca, come dicendo addio, e che nessun vento riusciva a deviare. Gli aztechi hanno recuperato la loro città. Le terrazze si fecero irte di archi e lance e la laguna si coprì di canoe in battaglia. I conquistatori fuggirono disordinatamente, inseguiti da una tempesta di frecce e pietre, mentre i tamburi di guerra, gli urli e le imprecazioni assordavano la notte. Questi feriti, questi mutilati, questi moribondi che Cortés sta ora contando, si salvarono passando sopra i cadaveri che servirono da ponte: passarono sull'altra sponda calpestando i cavalli che erano scivolati e sprofondati, e soldati uccisi a colpi di frecce e di pietre o affogati per il peso dei sacchi pieni d'oro che non si rassegnavano a lasciare. (62 e 200) | << | < | > | >> |Pagina 88La rivolta, la prima rivolta degli schiavi negri in America, è stata schiacciata. Era scoppiata nelle raffinerie di zucchero di Diego Colombo, il figlio dello scopritore. L'incendio si era propagato alle fabbriche e alle piantagioni di tutta l'isola. Si erano ribellati i negri e i pochi indios ancora vivi, armati di pietre e pali e lance di canna che si spezzavano, furiose, inutili, contro le armature. Dalle forche, sparse per le strade, penzolano ora donne e uomini, giovani e vecchi. All'altezza degli occhi del viandante pendono i piedi. Dai piedi il viandante potrà riconoscere i castigati, indovinare com'erano prima che arrivasse la morte. Tra questi piedi di cuoio, tagliuzzati dal lavoro e dalle marce, ci sono piedi del tempo e piedi del contrattempo; piedi prigionieri e piedi che ballano, ancora, amando la terra e chiamando alla guerra. (166) | << | < | > | >> |Pagina 103Si comprime le tempie cercando le parole che si affacciano e scappano: Non guardate la bassezza del mio essere e la rozzezza del mio dire, supplica, ma la volontà che mi spinge a dirlo. Fra' Bartolomé de las Casas scrive al Consiglio delle Indie. Sarebbe stato meglio per gli indios, sostiene, andarsene all'inferno con la loro infedeltà, il loro poco a poco e da soli, che essere salvati dai cristiani. Giungono già al cielo le grida di tanto sangue umano sparso: quelli arsi vivi o arrostiti su graticole, quelli buttati ai cani feroci... Si alza, cammina. Tra nugoli di polvere sventola l'abito bianco. Poi si siede sul bordo della sedia borchiata. Con la penna d'oca si gratta il lungo naso. La mano ossuta scrive. Perché in America si salvino gli indios e si compia la legge di Dio, fra' Bartolomé propone che la croce comandi la spada. Che le guarnigioni si sottomettano ai vescovi; e che vengano inviati coloni per coltivare la terra al riparo delle piazzeforti. I coloni, dice, potrebbero portare schiavi negri o mori o di altre specie, per farsi servire, o vivere del proprio lavoro, o in altra maniera che non fosse pregiudizievole per gli indios... (27) | << | < | > | >> |Pagina 184Da quando i banditori hanno diffuso l'editto delle delazioni, sono piovute le denunce contro eretici, bigami, streghe e blasfemi. L'autodafé si celebra la prima domenica di Quaresima. Dal sorgere del sole allo spuntar della notte, il Tribunale del Sant'Uffizio dell'Inquisizione pronuncia le sentenze contro le spaventevoli larve strappate alle celle e alle camere di tortura. I carnefici lavorano nella parte alta del sontuoso patibolo, entro un cerchio di lance e di ovazioni della folla. Non si ha memoria di una simile moltitudine che sia mai accorsa a nessun giubilo pubblico né ad altra cosa di grandissima solennità che si sia avuta sulla terra, dice il viceré della Nuova Spagna, che assiste allo spettacolo su una poltrona di velluto e con un cuscino ai piedi. Si applica il castigo della candela, della corda, della mordacchia, l'abiura de levi e si comminano tra le cento e le duecento frustate a un argentiere, a un coltellinaio, a un doratore, a un copista e a un calzolaio per aver detto che la semplice fornicazione non era peccato mortale. Analoghe pene sono inflitte a vari bigami, e tra questi al frate agostiniano Juan Sarmiento, che con la schiena ridotta a carne viva se ne va per cinque anni a remare sulle galere. Cento frustate ricevono il negro Domingo, nato qui, perché ha l'abitudine di rinnegare Dio, e Miguel Franco, meticcio, perché faceva in modo che sua moglie si confessasse con lui. Altre cento il farmacista sivigliano Gaspar de los Reyes, per aver detto che era meglio essere concubini che sposati e che ai poveri e agli afflitti era lecito spergiurare per denaro. A remare sulle galere, duro carcere dei turbolenti, vanno parecchi luterani ed ebrei che hanno succhiato col latte la loro eresia, alcuni inglesi della flotta del pirata John Hawkins e un francese che chiamava fannulloni il Papa e il Re. Sul rogo terminano i loro eretici giorni un inglese delle miniere di Guanajuato e un barbiere francese dello Yucatán. (139) | << | < | > | >> |Pagina 211Scoppia la rivolta sulle coste dei Caraibi e i tuoni squassano la sierra Nevada. Gli indios si ribellano per la libertà dell'amore. Nella festa della luna piena, gli dei ballano nel corpo del capo Cuchacique e conferiscono magia alle sue braccia. Dai villaggi di Jeriboca e Bonda, le voci della guerra svegliano l'intera terra degli indios tairona e scuotono Masinga e Masinguilla, Zaca e Mamazaca, Mendiguaca e Rotama, Buritaca e Tairama, Maroma, Taironaca, Guachaca, Chonea, Cinto e Nahuanje, Mamatoco, Ciénaga, Dursino e Gairaca, Origua e Durama, Dibocaca, Daona, Chengue e Masaca, Daodama, Sacasa, Cominca, Guarinea, Mauracataca, Choquenca e Masanga. Il capo Cuchacique veste la pelle del giaguaro. Frecce che sibilano, frecce che bruciano, frecce che avvelenano: i tairona incendiano cappelle, rompono croci e uccidono frati, combattendo contro il dio nemico che proibisce le loro abitudini. Fin dai tempi più remoti, in queste terre divorziava chi voleva e facevano l'amore i fratelli, se ne avevano voglia, e la donna con l'uomo o l'uomo con l'uomo o la donna con la donna. Così fu in queste terre finché arrivarono gli uomini in nero e gli uomini di ferro, che gettano ai cani quelli che amano come amavano gli antenati. I tairona celebrano le prime vittorie. Nei loro templi, che il nemico chiama case del Diavolo, suonano il flauto nelle ossa dei vinti, bevono vino di mais e danzano al suono dei tamburi e delle trombe di conchiglia. I guerrieri hanno chiuso tutti i passi e le strade verso Santa Marta e si preparano all'assalto finale. (189) | << | < | > | >> |Pagina 216Le carrozze sono tornate sulle larghe strade di Città del Messico. Più di vent'anni fa, l'ascetico Filippo II le aveva proibite. Il decreto diceva che l'uso della vettura fa impoltrire gli uomini e li abitua ad una vita comoda e pigra; e che così perdono forze per l'arte della guerra. Morto Filippo II, le carrozze regnano nuovamente in questa città. Dentro, sete e cristalli; fuori, oro e tartaruga e lo stemma sullo sportello. Sprigionano un aroma di legno fine e rotolano con movimenti di gondole e dondolii di culle; dietro le tendine saluta e sorride la nobiltà coloniale. Sull'alta cassetta, tra frange e fiocchi di seta, si erge il cocchiere, sdegnoso, quasi un re; e i cavalli calzano ferrature d'argento. Le carrozze continuano ad essere proibite per gli indios, le puttane e per coloro che sono stati puniti dall'Inquisizione. (213) | << | < | > | >> |Pagina 216Sono vent'anni che la Spagna regna sul Portogallo e su tutte le sue colonie, di modo che uno spagnolo può passeggiare per il mondo senza mai calpestare terra straniera. Ma la Spagna è la nazione più cara d'Europa: produce sempre meno cose e sempre più monete. Dei trentacinque milioni di scudi nati sei anni fa non resta neanche l'ombra. Non sono incoraggianti i dati che ha appena pubblicato qui don Martin Gonzales de Cellorigo nel suo Memorial de la politica necesaria: per opera del caso o dell'eredità, ogni spagnolo che lavora ne mantiene trenta. Per chi vive di rendita, lavorare è peccato. I nobili hanno l'alcova per campo di battaglia; e in Spagna crescono meno alberi che frati e mendicanti. Le galere cariche dell'argento d'America fanno rotta su Genova. Dei metalli che arrivano dal Messico e dal Perú, non rimane in Spagna nemmeno il profumo. Sembrerebbe che l'impresa della conquista sia stata compiuta dai mercanti e dai banchieri tedeschi, genovesi, francesi e fiamminghi. A Valladolid vive un ragazzo zoppo e miope, puro di sangue, e di spada e di lingua assai taglienti. La notte, mentre il paggio gli toglie gli stivali, medita versi. La mattina seguente strisciano i serpenti di sotto i portoni del palazzo reale. Con la testa sprofondata nel cuscino, il giovane Francisco de Quevedo y Villegas pensa a colui che fa diventare il vigliacco un guerriero e intenerisce il giudice più severo; e maledicendo questo mestiere di poeta si tira su sul letto, si sfrega gli occhi, avvicina la lampada e tutti in una volta si cava fuori i versi che non lo lasciano dormire. I versi parlano di don Denaro, che nasce nelle Indie onorato, dove il mondo lo accompagna, viene a morire in Spagna e a Genova è sotterrato.
(64, 183 e 218)
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