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| << | < | > | >> |IndiceQuesto libro V L'autore V Ringraziamenti VI MEMORIA DEL FUOCO. I VOLTI E LE MASCHERE 1 Promessa d'America 5 1701. Valle di Salinas La pelle di Dio 6 1701. San Salvador de Bahia Parola d'America 6 1701. Parigi Tentazione d'America 7 Sentinella d'America 8 1701. Duro Preto Giochi di prestigio 9 1703. Lisbona L'oro, passeggero in transito 1O 1709. Isole di Juan Fernandez Robinson Crusoe 1O 1711. Paramaribo Esse tacquero 12 Esse portano la vita tra i capelli 13 Il cimarrón 13 1711. Murrí Non sono mai soli 14 1711. Palenque de San Basilio Il re nero, il santo bianco e la sua santa moglie 15 La mantide 16 1712. Santa Marta Dalla pirateria al contrabbando 16 1714. Duro Preto Il medico delle miniere 17 1714. Vila Nova do Principe 18 Jacinta 19 1716. Potosí Holguín 20 1716. Cuzco I creatori di immagini 21 Maria, Madre Terra 21 La Pachamama 22 Sirene 22 1717. Quebec L'uomo che non credeva nell'inverno 22 1717. Isle Dupas I fondatori 23 Polittico indiano 24 Canti degli indiani chippewa, della regione dei grandi laghi 25 [...] 1887. Chicago Ogni primo maggio verranno resuscitati 306 1889. Londra North 306 1889. Montevideo Il calcio 308 1890. Rio de la Plata I compagni 308 1890. Buenos Aires I conventillos 309 Il solitario 310 Tango 311 1890. Rartford Mark Twain 312 1890. Wounded Knee Vento di neve 313 Canto profetico dei sioux 313 1891. Santiago del Cile Balmaceda 314 1891. Washington L'altra America 315 1891. New York Il pensiero comincia ad essere nostro, pensa José Martí 316 1891. Guanajuato Cantarranas 34. Fotografia istantanea 317 1891. Purísima del Rincón Vite 318 1892. Parigi Lo scandalo del canale 319 1892. San José de Costa Rica Profezia di un giovane poeta del Nicaragua, chiamato Rubén Dario 319 1893. Canudos Antonio Conselheiro 320 1895. Cayo Rueso La libertà viaggia dentro un sigaro 321 1895. Playitas Lo sbarco 322 1895. Arroyo Rondo Nella sierra 323 1895. Accampamento di Dos Rios Il testamento di Martí 324 1895. Niquinohomo Si chiamerà Sandino 325 1896. Port-au-Prince Travestimenti 325 1896. Boca de Dos Rios Requiem 326 1896. Papeete Flora Tristán 327 1896. Bogotá José Asunción Silva 327 1896. Manaus L'albero che piange latte 328 1896. Manaus La dorata età della gomma 329 1897. Canudos Euclides da Cunha 330 1897. Canudos In ogni morto ci sono più pallottole che ossa, 331 1897. Rio de Janeiro Machado de Assís 332 1898. Coste di Cuba Questo frutto sta per cadere 333 1898. Washington Diecimila linciaggi 334 1898. Loma de San Juan Teddy Roosevelt 334 1898. Coste di Portorico Questo frutto sta cadendo 336 1898. Washington Il presidente McKinley spiega che gli Stati Uniti devono tenersi le Filippine per ordine diretto di Dio 336 1899. New York Mark Twain propone di cambiare la bandiera 337 1899. Roma Calamity Jane 338 1899. Roma L'impero nascente mostra i suoi muscoli 339 1899. Saint Louis Lontano 340 1899. Rio de Janeiro L'arte di curare uccidendo 341 1900. Huanuni Patiño 342 1900. Città del Messico Posada 342 1900. Città del Messico Porfirio Díaz 344 1900. Città del Messico I Flores Magón 345 1900. Mérida dello Yucatan L'agave 346 Dal corrido messicano del Ventottesimo Battaglione 347 1900. Tabi Il serpente di ferro 348 Il profeta 348 FONTI 351 |
| << | < | > | >> |Pagina VQuesto libroè il secondo volume della trilogia Memoria del fuoco. Non si tratta di un'antologia, ma di un'opera di creazione letteraria. L'autore si propone di narrare la storia dell'America, e soprattutto la storia dell'America Latina, di svelarne le molteplici dimensioni e di penetrarne i segreti. Il vasto mosaico arriverà, nel terzo volume, fino ai giorni nostri. I volti e le maschere abbraccia i secoli XVIII e XIX. All'inizio di ogni testo vengono indicati l'anno e il luogo in cui è accaduto l'episodio narrato. In calce, tra parentesi, i numeri indicano le principali opere che l'autore ha consultato in cerca di informazioni e quadri di riferimento. L'elenco delle fonti è presentato alla fine. Le trascrizioni letterali sono in corsivo. | << | < | > | >> |Pagina 12Gli olandesi tagliano il tendine d'Achille allo schiavo che fugge per la prima volta, e amputano la gamba destra a chi ci riprova; ma, nel Suriname, non c'è modo di evitare che si diffonda la peste della libertà. Il capitano Molinay scende lungo il fiume fino a Paramaribo. La sua spedizione fa ritorno con due teste. Fu necessario decapitare le prigioniere perché ormai non riuscivano più a muoversi intere attraverso la selva. Una si chiamava Flora, l'altra Sery. Tengono ancora lo sguardo fisso al cielo. Non aprirono bocca malgrado le frustate, il fuoco e le tenaglie roventi, ostinatamente mute come se non avessero pronunciato parola dal lontano giorno in cui le fecero ingrassare e le spalmarono d'olio e le raparono disegnando loro in testa stelle o mezze lune, per venderle bene al mercato di Paramaribo. Sempre mute, Flora e Sery, mentre i soldati chiedevano dove eran nascosti i negri fuggiaschi: guardavano il cielo senza batter ciglio, inseguendo nubi massicce come montagne che vagavano lassù, in alto, alla deriva.
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Per quanti negri crocifiggano o appendano a un gancio di ferro infilato tra le costole, le fughe dalle quattrocento piantagioni della costa del Suriname continuano senza sosta. All'interno della selva, un leone nero sventola sulla bandiera gialla dei cimarrones. In mancanza di proiettili, le armi sparano sassolini o bottoni d'osso; ma il folto impenetrabile è il migliore alleato contro i coloni olandesi. Prima di scappare, le schiave rubano chicchi di riso, di mais e di grano, fagioli e semi di zucca. Le loro enormi chiome fungono da granai. Quando arrivano ai rifugi scavati nella giungla, le donne scuotono la testa e fecondano, così, la terra libera. (173) | << | < | > | >> |Pagina 24Tra gli indiani del Canada non ce n'è uno che abbia la pancia o la gobba, dicono i frati e gli esploratori francesi. Se esiste qualche zoppo, o cieco, o guercio, è per ferite di guerra. Non conoscono la proprietà né l'invidia, racconta Pouchot, e chiamano il denaro serpente dei francesi. Considerano ridicolo obbedire a un loro simile, dice Lafitau. Eleggono capi che non hanno privilegio alcuno; e chi si rivela autoritario viene destituito. Le donne esprimono le proprie opinioni e decidono al pari degli uomini. L'ultima parola spetta ai consigli degli anziani e alle assemblee pubbliche; ma nessuna parola umana risuona più forte della voce dei sogni. Obbediscono ai sogni come i cristiani al mandato divino, osserva Brébeuf. Obbediscono ai sogni ogni giorno, perché attraverso i sogni l'anima parla ogni notte; e quando giunge la fine dell'inverno, e si rompono i ghiacci del mondo, celebrano una lunga festa consacrata ai sogni. Allora gli indiani si travestono ed è permessa qualsiasi pazzia. Mangiano quando hanno fame, annota Cartier. Non conoscono altro orologio che l'appetito. Sono libertini, avverte Le Jeune. Sia la donna che l'uomo possono rompere il matrimonio quando vogliono. La verginità non significa niente per loro. Champlain ha conosciuto vecchie che si erano sposate venti volte. Secondo Le Jeune, non amano per niente lavorare, ma, in compenso, adorano inventare bugie. Ignorano l'arte, qualsiasi arte che non sia quella di scuoiare crani di nemici. Sono vendicativi: per vendetta mangiano pidocchi e vermi e qualsiasi bestiolina a cui piaccia la carne umana. Non sono in grado, conferma Biard, di capire nessun concetto astratto. Secondo Brébeuf, gli indiani non riescono ad afferrare l'idea dell'inferno. Non avevano mai sentito parlare del castigo eterno. Quando i cristiani cercano di spaventarli con la minaccia dell'inferno, i selvaggi domandano: E all'inferno, ci saranno i miei amici? (97) | << | < | > | >> |Pagina 36Davanti a una grande assemblea di cimarrones, François Macandal tirò fuori un fazzoletto giallo da un bicchiere d'acqua: - Prima, c'erano gli indios. Poi, un fazzoletto bianco: - Ora, i bianchi sono i padroni. Quindi agitò un fazzoletto nero davanti agli occhi dei cimarrones e annunciò che era giunta l'ora di quelli arrivati dall'Africa. Agitò il fazzoletto con l'unica mano rimastagli, perché l'altra l'aveva perduta tra i denti di ferro dello zuccherificio. A Haiti, nelle pianure del nord, il monco Macandal era il padrone del fuoco e del veleno. A un suo cenno i canneti bruciavano; e per suo sortilegio cadevano a terra nel bel mezzo della cena, sputando bava e sangue, i signori dello zucchero. Sapeva trasformarsi in iguana, formica o mosca, vestito di squame, antenne o ali; ma lo hanno catturato e condannato. E lo stanno bruciando vivo. La folla intravede, tra le fiamme, il corpo che si contorce e si scuote, quando all'improvviso un urlo squarcia la terra, feroce grido di dolore e di giubilo, e Macandal si libera dal cippo e si scioglie dalla morte: urlando, fiammeggiando, attraversa il fumo e si dissolve nell'aria. Per gli schiavi, nessuna meraviglia. Sapevano che sarebbe rimasto ad Haiti, nel colore di ogni ombra, il vagabondo della notte. (63 e 115) | << | < | > | >> |Pagina 37Gli indios maya proclamano l'indipendenza dello Yucatan e annunciano la prossima indipendenza dell'America. - Solo sofferenze ci ha portato il potere della Spagna. Nient'altro che sofferenze. Jacinto Uc, colui che accarezzando foglie di alberi fa suonare le trombe, diventa re. Canek, serpente nero, è il nome che sceglie. Il re dello Yucatán si annoda al collo il mantello di Nostra Signora della Concezione e arringa gli indios. Hanno fatto rotolare per terra i chicchi di mais, hanno intonato i canti di guerra. I profeti, gli uomini dal caldo petto, gli illuminati dagli dei, avevano detto che si risveglierà chi muore combattendo. Dice Canek che non è re per amore del potere, che il potere vuole potere e ancora potere e l'acqua si versa quando si riempie la tazza. Dice che è re contro il potere dei potenti e annuncia la fine della servitù e dei cippi di flagellazione e degli indios in fila a baciare la mano del padrone. Non potranno legarci: non avranno corda abbastanza. Nel paese di Cisteil e in altri paesi si propagano gli echi, parole che diventano grida; e frati e capitani rotolano nel sangue. (67 e 144) | << | < | > | >> |Pagina 38Dopo molte morti, lo hanno catturato. San Giuseppe è stato il patrono dei coloni vittoriosi. Accusano Canek di aver frustato Cristo e di aver riempito di fieno la bocca di Cristo. Lo condannano. Lo faranno a pezzi da vivo, a colpi di spada, sulla piazza grande di Mérida. Entra Canek nella piazza, a dorso di mulo, il volto seminascosto sotto un'enorme corona di carta. Sulla corona è scritta la sua infamia: Ribelle contro Dio e contro il Re. Lo squartano brano a brano, senza regalargli il sollievo della morte, peggio di una bestia al mattatoio; e gettano via via i pezzi nel rogo. Una lunga ovazione accompagna la cerimonia. Sotto l'ovazione, si mormora che i servi metteranno vetro tritato nel pane dei padroni. (67 e 144) | << | < | > | >> |Pagina 39I carnefici lanciano in aria le ceneri di Canek, perché non possa resuscitare nel giorno del Giudizio. Otto dei suoi capi ricevono la morte dalla infame garrota e a duecento indios viene tagliato un orecchio. E, castigo dei castighi, profanando le cose più sacre, i soldati bruciano i campi di mais delle comunità ribelli. Il mais è vivo. Soffre se lo bruciano, si offende se lo calpestano. Forse il mais sogna gli indios, così come gli indios lo sognano. Il mais organizza lo spazio e il tempo e la storia della gente fatta di carne di mais. Quando Canek nacque, gli tagliarono l'ombelico su una pannocchia. In nome del neonato, seminarono i chicchi macchiati del suo sangue. Da quel campo ebbe cibo, e bevve acqua di rugiada, che contiene luce di stella; e crebbe. (1, 67, 144 e 228) | << | < | > | >> |Pagina 43Un quarto di secolo fa, Luis da Cunha propose al re del Portogallo di trasferirsi con tutta la corte da Lisbona a Rio de Janeiro e di proclamarsi in questa città Imperatore d'Occidente. La capitale dell'Impero doveva aver sede qui, nel centro dell'abbondanza, perché il Portogallo non potrebbe vivere senza le ricchezze del Brasile, ma il Brasile, avvertiva Luis da Cunha, vivrebbe facilmente senza il Portogallo. Il trono continua a stare, per ora, a Lisbona. Ma il centro della colonia si sposta dal nord al sud. Bahia, porto dello zucchero, lascia il posto a Rio de Janeiro, porto dell'oro e dei diamanti. Il Brasile cresce verso sud e verso ovest premendo contro le frontiere spagnole. La nuova capitale si trova nel luogo più bello del mondo. Qui i monti sembrano coppie di amanti, nell'aria ci sono profumi che fanno ridere e la brezza calda eccita gli uccelli. Le cose e le persone sono fatte di musica e dinanzi agli occhi il mare sfolgora in modo tale che sarebbe un piacere affogarsi. (48) | << | < | > | >> |Pagina 120L'America arde e gira, bruciata e stordita dai suoi soli, ma gli alberi giganteschi si abbracciano sopra i fiumi e nella loro ombra risplende la canoa dei sapienti. La canoa avanza inseguita dagli uccelli e da orde affamate di zanzare. Humboldt e Bonpland si difendono a manate dalle incessanti cariche dei lancieri, che trapassano i vestiti e la pelle e arrivano all'osso, mentre il tedesco studia l'anatomia del manatí, il grasso pesce con le mani, o l'elettricità dell'anguilla o la dentatura del piraña, e il francese raccoglie e classifica piante o misura un coccodrillo e ne calcola l'età. Insieme disegnano carte, registrano la temperatura dell'acqua e la pressione dell'aria, analizzano le placche di mica nella sabbia e i gusci delle conchiglie e il vagare delle tre marie per il cielo. Vogliono che l'America racconti loro tutto ciò che sa e in questi regni non c'è foglia né pietruzza che sia muta. Si sono accampati in una piccola insenatura, hanno sbarcato gli ingombranti strumenti. Hanno acceso il fuoco per scacciare le zanzare e per cucinare. A un tratto il cane prende ad abbaiare come per avvertirli che è in arrivo il giaguaro, e corre a nascondersi dietro le gambe di Bonpland. Il tucano che Humboldt tiene su una spalla gli becca, nervoso, la tuba, scricchiolano gli sterpi e tra gli alberi appare un uomo nudo, pelle di rame, faccia india, capelli africani: - Benvenuti nella mia terra, signori. E fa una riverenza: - Don Ignacio, per servirvi. Davanti al fornello improvvisato, don Ignacio fa una smorfia. I sapienti stanno arrostendo una capibara. - Questo è cibo da indios - dice, sdegnoso, e li invita nella sua casa a cenare con un magnifico cervo appena abbattuto con l'arco. La casa di don Ignacio consiste in tre reti tese fra gli alberi, non lontano dal fiume. Qui presenta loro sua moglie, donna Isabela, e sua figlia, donna Manuela, un po' meno nude di lui. Offre sigari ai viaggiatori. Mentre il cervo si indora, li tartassa di domande. Don Ignacio è avido di conoscere le novità della corte di Madrid e le ultime notizie su quelle guerre che non finiscono mai e che fanno tanto male all'Europa. (338) | << | < | > | >> |Pagina 178Simon Rodriguez, il maestro di Bolivar, ha fatto ritorno in America. Per un quarto di secolo Simon vagò sull'altra sponda del mare: là fu amico dei socialisti di Parigi, di Londra e di Ginevra; lavorò con i tipografi di Roma e con i chimici di Vienna e fu persino maestro elementare in un paesino della steppa russa. Dopo il lungo abbraccio di benvenuto, Bolivar lo nomina responsabile dell'istruzione nel paese appena fondato. Con una scuola modello a Chuquisaca, Simon Rodriguez inizia la sua opera contro le menzogne e le paure consacrate dalla tradizione. Strillano le beghine, gracchiano i dottori, abbaiano i cani dello scandalo. Orrore. Il pazzo Rodriguez si propone di mescolare i bambini di miglior lignaggio con i piccoli meticci che fino a iernotte dormivano per la strada. Che pretende? Vuole che gli orfani lo portino in cielo? O li corrompe perché lo accompagnino all'inferno? Nelle aule non si ascolta catechismo, né latino di sacrestia, né regole di grammatica, ma uno strepito di seghe e martelli insopportabile alle orecchie di frati e legulei, educati alla ripugnanza per il lavoro manuale. Una scuola di puttane e ladri! Coloro che credono che il corpo sia una colpa e la donna un ornamento, alzano le grida al cielo: nella scuola di don Simon, bambini e bambine si siedono accanto, tutti appiccicati; e addirittura, studiano giocando. Il prefetto di Chuquisaca capeggia la campagna contro il satiro che è venuto a corrompere la morale della gioventù. Poco tempo dopo, il maresciallo Sucre, presidente della Bolivia, chiede a Simon Rodriguez le dimissioni, perché non ha presentato i suoi conti con la dovuta accuratezza. (296 e 298) | << | < | > | >> |Pagina 179Fanno passare l'autore per pazzo. Gli si lascino trasmettere le sue pazzie ai padri che stanno per nascere. Tutti devono essere educati, senza distinzione di razza né di colore. Non ci illudiamo: senza educazione popolare, non ci sarà vera società. Istruire non è educare. Insegnate, e avrete chi sa; educate, e avrete chi fa. Far imparare a memoria ciò che non si capisce è allevare pappagalli. Non si ordini, in nessun caso, a un bambino di fare niente che non abbia il suo «perché» ben chiaro. Il bambino, abituato a vedere sempre la ragione appoggiare gli ordini che riceve, ne sente la mancanza quando non la vede, e chiede di lei dicendo: «perché?». Insegnate ai bambini a essere curiosi, in modo che, chiedendo il perché di ciò che si ordina loro di fare, si abituino a obbedire alla ragione: non all'autorità, come le persone limitate, né all'abitudine, come gli stupidi. Nelle scuole devono studiare insieme bambini e bambine. Primo, perché così fin da piccoli gli uomini imparino a rispettare le donne; secondo, perché le donne imparino a non aver paura degli uomini. I maschi devono imparare i tre mestieri principali: muratore, carpentiere e fabbro, perché con terra, legno e metallo si fanno le cose più necessarie. Si deve dare istruzione e mestiere alle donne, perché non si prostituiscano per necessità, né facciano del matrimonio una speculazione per assicurarsi la sussistenza. Colui che non sa, chiunque lo inganna. Colui che non ha, chiunque lo compra. (297) | << | < | > | >> |Pagina 260Come una grottesca chioma di alberello, infilata nella picca, la testa del Chacho Peñaloza, lunghi capelli e vincha, decorava il centro di una piazza. Il Chacho e il suo cavallo erano stati un solo muscolo: lo catturarono senza cavallo, e a tradimento lo decapitarono. Per placare la marmaglia esibirono la testa del guerriero gaucho delle pianure di La Rioja. Sarmiento si complimentò con i carnefici. La guerra contro il Paraguay è il prolungamento di un'altra guerra, che dura da mezzo secolo: la guerra di Buenos Aires, porto vampiro, contro le province. Venancio Flores, uruguayano, ha collaborato con Mitre e Sarmiento allo sterminio dei gauchos ribelli. Come ricompensa ha ottenuto la presidenza dell'Uruguay, imposto da navi brasiliane e armi argentine. L'invasione dell'Uruguay si era aperta la strada a partire dal bombardamento dell'indifesa città di Paysandú. Paysandú resistette per un mese, finché il capo della difesa, Leandro Gómez, cadde fucilato sulle sue macerie in fiamme. Oggi l'alleanza a due è diventata Triplice Alleanza. Con la benedizione inglese e i crediti inglesi, i governi di Argentina, Brasile e Uruguay si lanciano a redimere il Paraguay. Firmano un trattato. Fanno la guerra, dice il trattato, in nome della pace. Il Paraguay dovrà pagare le spese del suo stesso sterminio e i vincitori gli forniranno un governo adeguato. In nome del rispetto dell'integrità territoriale del Paraguay, il trattato garantisce al Brasile un terzo della sua superficie e aggiudica all'Argentina l'intero territorio di Misiones e il vasto Chaco. La guerra si fa anche in nome della libertà. Il Brasile, che ha due milioni di schiavi, promette libertà al Paraguay, che non ne ha nessuno. (47, 244 e 291) | << | < | > | >> |Pagina 282Gli erano appena spuntati i baffi quando fondò a L'Avana due giornali effimeri, «El diablo cojuelo» e «La patria libre»; e lo condannarono al carcere e ai lavori forzati, perché voleva l'indipendeza di Cuba, colonia della Spagna. Prima, ancora in piena infanzia, aveva voluto tradurre Shakespeare, e aveva incendiato parole, e aveva giurato vendetta davanti a uno schiavo negro appeso alla forca. Aveva indovinato, nei versi più precoci, che sarebbe morto a Cuba e per lei. Dalla prigione lo spedirono in esilio. Non gli si sono cancellati i segni dei ferri sulle caviglie. Nessuno più patriota cubano di questo figlio di un sergente spagnolo delle colonie. Nessuno più bambino di questo esiliato curioso, che intensamente si stupisce e si indigna del mondo. José Martí ha ventidue anni quando assiste, in Messico, alla prima manifestazione congiunta di studenti e lavoratori. I cappellai hanno dichiarato lo sciopero. Possono contare sulla solidarità della Società Fratellanza e Costanza dei Parrucchieri, della Società Fraterna dei Rilegatori, dei tipografi, dei sarti e degli intellettuali operai dell'Idea. Contemporaneamente, prende il via il primo sciopero universitario, contro l'espulsione di tre studenti di medicina. Martí organizza concerti a beneficio dei cappellai e nei suoi articoli descrive gli studenti, che marciano insieme agli operai per le strade di città del Messico, tenendosi tutti sottobraccio, tutti vestiti a festa: Questa gioventù entusiasta, scrive, ha ragione. Ma anche se si sbagliasse, la ameremmo lo stesso. (129,200 e 354) | << | < | > | >> |Pagina 283Le pianure del Sud erano tappezzate di bufali, che si moltiplicavano come l'erba alta, quando l'uomo bianco arrivò dal Kansas. Ora il vento puzza di marcio. I bufali giacciono scuoiati nelle praterie. Milioni di pelli sono partite verso l'Europa orientale. Lo sterminio del bufalo non dà solo denaro: è anche, spiega il generale Sheridan, l'unico modo di raggiungere una pace duratura e di fare largo all'avanzare della civiltà. Gli indiani kiowas e comanches non trovano più bufali nel territorio della riserva di Fort Sill. Invano invocano buona caccia le danze al dio sole. Le razioni del governo federale, razioni miserabili, non bastano per mangiare. Gli indiani fuggono nel lontano canyon di Palo Duro, l'ultima località dove ci sono ancora bufali nelle pianure del Sud. Là trovano cibo e tutto il resto: trasformano le pelli in abitazioni, coperte e vestiti; le corna e gli ossi in cucchiai, coltelli e punte di freccia; i nervi e i tendini in corde e reti e le vesciche in recipienti per l'acqua. Ben presto arrivano i soldati, tra nubi di polvere e di polvere da sparo. Bruciano capanne e viveri, uccidono mille cavalli e riconducono a forza gli indiani alla loro prigionia. Alcuni kiowas riescono a fuggire. Vagano per le pianure finché li vince la fame. Si consegnano a Fort Sill. Lì i soldati li mettono in un recinto e ogni giorno gettano loro pezzi di carne cruda.
(51 e 229)
I bufali dell'ultimo branco del Sud si riuniscono in assemblea. La discussione non va per le lunghe. Tutto è già stato detto e la notte continua. I bufali sanno di non essere più in grado di proteggere gli indiani. Quando dal fiume sorge l'alba, una donna kiowa vede passare l'ultimo branco attraverso la nebbia. Il capo marcia a passo lento, seguito dalle femmine e dai cuccioli e dai pochi maschi ancora vivi. Arrivati ai piedi del monte Scott, si fermano ad aspettare, immobili, a capo chino. Allora il monte apre la bocca e i bufali entrano. Là dentro il mondo è verde e fresco. I bufali sono passati. Il monte si chiude. (198) | << | < | > | >> |Pagina 285Quando parla, nessuna parola si stanca né cade. Basta con le menzogne, dice. Otto anni fa il governo degli Stati Uniti garantì ai sioux, con un solenne trattato, che sarebbero stati per sempre padroni delle Montagne Nere, il loro centro del mondo, il luogo dove i guerrieri parlano con gli dei. Due anni fa in queste terre venne scoperto l'oro. L'anno scorso il governo ordinò ai sioux di abbandonare i campi di caccia dove i cercatori andavano a caccia di oro nelle rocce e nelle sorgenti. Ho detto abbastanza. Basta con le menzogne. Toro Seduto, capo dei capi, ha riunito diverse migliaia di guerrieri delle pianure, sioux, cheyennes, arapahos. Ha danzato tre giorni e tre notti. Ha fissato gli occhi nel sole. Sa. Si sveglia prima dell'alba. I suoi piedi nudi si bagnano nella rugiada e ricevono i palpiti della terra. All'alba, alza lo sguardo oltre le colline. Arriva il generale Custer. Arriva il Settimo Cavalleggeri. (51 e 206) | << | < | > | >> |Pagina 285A nove anni, udì le voci. Seppe che noi tutti esseri con gambe, ali o radici siamo figli dello stesso padre sole e della stessa madre terra che ci ha allattati. Le voci gli predissero che avrebbe fatto fiorire il sacro bastone, l'albero della vita piantato nel centro della terra dei sioux, e che a cavallo di una nube di tormenta avrebbe ucciso la siccità. Gli annunciarono anche guerre e sofferenze. A dieci anni incontrò per la prima volta un uomo bianco. Pensò che si trattasse di un malato. A tredici anni Alce Nero sta facendo il bagno nel fiume Little Big Horn quando le grida lo avvertono dell'arrivo dei soldati. Si arrampica su una collina e da lì vede un'immensa nube di polvere piena di scoppi e di urla, e dalla nube fuggono molti cavalli con le selle vuote. (51 e 230) | << | < | > | >> |Pagina 286Anfora Nera, il capo cheyenne, lo aveva avvisato quando avevano fumato insieme la pipa della pace. Custer sarebbe morto se avesse tradito le sue promesse, e nessun indiano si sarebbe sporcato le mani per scuoiare il suo cranio. Poi Custer incendiò quell'accampamento e il capo Anfora Nera fu crivellato di colpi tra le fiamme. Ora il generale George Armstrong Custer è uno fra i tanti morti del Settimo Cavalleggeri, che gli indiani hanno massacrato sulle rive del fiume Little Big Horn. La notte precedente, Custer si era fatto radere la dorata capigliatura. Il suo cranio rapato brilla intatto e ha ancora quella faccia piuttosto stupida degli uomini che non sono mai stati sconfitti. (51, 91 e 198) | << | < | > | >> |Pagina 287Poco dopo la sconfitta di Little Big Horn, alcuni soldati si scagliano sugli indiani cheyennes accampati sulle rive di un fiumiciattolo, e cade nella sparatoria il capo Mano Gialla. Buffallo Bill è il primo ad arrivare. Con un taglio netto strappa il cuoio capelluto del capo cheyenne e al galoppo vola verso i palcoscenici di lontane città. A mano a mano che si compie, la storia del West sta diventando uno spettacolo. La battaglia non è ancora finita che già lo scorticatore sta vendendo la sua epica impresa nei teatri di Filadelfia, Baltimora, Washington e New York. In memoria e vendetta del generale Custer, Buffalo Bill leva alte le braccia davanti alle platee straripanti: da una mano spunta il coltello e dall'altra, insieme a uno scalpo intriso di sangue, penzola una cascata di piume multicolori. L'eroe indossa un costume messicano pieno di ornamenti, e porta un paio di revolver nella cintola e, a tracolla, il winchester da quindici colpi. Ben presto questa scena illustrerà la copertina dei racconti di cow-boys che circolano in tutto il paese. Buffalo Bill, il più celebre dei mandriani, non ha mai condotto una vacca in vita sua. Il simbolo vivente della conquista del West, immortale superuomo, è diventato famoso sterminando indiani e bufali e parlando ininterrottamente del suo coraggio e della sua mira. Lo battezzarono Buffallo Bill quando lavorava per la ferrovia della Kansas Pacific: lui dice che in un anno e mezzo sparò 4280 colpi e uccise 4280 bufali, benché le donne gli impedissero di lavorare a pieno ritmo. (157) | << | < | > | >> |Pagina 309Il tango, malinconico figlio dell'allegra milonga, è nato nei recinti suburbani e nei cortili dei conventillos. Sulle due rive del Plata è musica malfamata. La ballano, su pavimenti di terra battuta, operai e malfattori, uomini di martello o coltello, maschio con maschio se la donna non è capace di seguire il passo troppo audace e spezzato o se considera cosa da puttane l'abbraccio così corpo a corpo; la coppia scivola, si dondola, si distende e fiorisce in figure e virtuosismi. Il tango viene dalle canzoni gauche dell'interno e viene dal mare, dalle ballate marinare. Viene dagli schiavi dell'Africa e dai gitani dell'Andalusia. Dalla Spagna portò la chitarra, dalla Germania la fisarmonica e dall'Italia il mandolino. Il cocchiere del tranvai a cavalli gli prestò il suo corno di bue e l'operaio emigrante la sua armonica, compagna della solitudine. Con passo rattenuto, il tango attraversò caserme e osterie, maneggi di circhi ambulanti e cortili di postriboli di periferia. Ora gli organetti lo portano per le strade dei sobborghi di Buenos Aires e di Montevideo, verso il centro, e le navi se lo portano a folleggiare a Parigi. (257, 293 e 350) | << | < | > | >> |Pagina 315Sono dieci anni che José Martí vive negli Stati Uniti. Sono tante le cose che ammira di questo paese multiforme e vigoroso, dove il nuovo non fa paura; ma denuncia anche, nei suoi articoli, le ambizioni imperialistiche della giovane nazione, l'elevazione della cupidigia alla categoria di diritto divino e l'atroce razzismo che stermina indiani, umilia negri e disprezza latini. A sud del Rio Bravo, dice Martí, c'è un'altra America, la nostra America, terra che balbetta, che non riconosce pienamente il proprio volto né nello specchio europeo né in quello nordamericano. È la patria ispanoamericana, dice, che reclama Cuba per completarsi con essa, mentre nel Nord la reclamano per divorarla. Gli interessi dell'una e dell'altra America non coincidono. Conviene all'America Latina - chiede Martí - l'unione politica ed economica con gli Stati Uniti? E risponde: Due avvoltoi, o due agnelli, si uniscono con meno pericolo di un avvoltoio e un agnello. L'anno passato venne celebrata a Washington la prima conferenza panamericana e ora Martí assiste, come delegato dell'Uruguay, al proseguimento del dialogo. Chi dice unione economica, dice unione politica. Il popolo che compra, comanda. Il popolo che vende, serve... Il popolo che vuole morire, vende a un popolo solo, e quello che vuole salvarsi, vende a più d'uno... Il popolo che voglia essere libero, deve distribuire i suoi affari tra paesi ugualmente forti. Se deve preferirne uno, preferisca quello che ne ha meno bisogno, quello che meno lo disprezza... Martí ha consacrato la sua vita a quell'America altra: vuole resuscitarla in tutto ciò che le fu ucciso dalla conquista in avanti, e vuole rivelarla e farla ribellare, perché la sua occultata e tradita identità non verrà rivelata senza la liberazione. - Quale errore potrà rinfacciarmi la mia grande madre America? Figlio di europei ma figlio d'America, cubano patriota della grande patria, Martí sente che scorre nelle sue vene il sangue dei popoli feriti che nacquero da semi di palma o di mais e che chiamavano la Via Lattea cammino delle anime e la luna sole di notte o sole addormentato. Per questo scrive, rispondendo a Sarmiento, innamorato delle cose altrui: Non si tratta di battaglia tra civiltà e barbarie, ma tra la falsa erudizione e la natura. (112 e 354) | << | < | > | >> |Pagina 317L'artigliere, incappucciato, si china e prende la mira. La vittima, un nobile gentiluomo di Guanajuato, non sorride, non batte ciglio, non respira. Non ha scampo: alle sue spalle è calato il fondale, frondoso paesaggio di gesso dipinto, e la scalinata di scena conduce verso il vuoto. Rinchiuso tra fiori di carta, circondato da colonne e balaustre di cartone, il severo nobiluomo appoggia la mano sulla spalliera di una sedia e con dignità affronta la bocca di cannone della macchina a soffietto. Tutta Guanajuato si lascia fucilare nello studio della via Cantarranas 34. Romualdo Garcia fotografa i signori dai molti titoli e le loro mogli e figli, bambini che sembrano nani sprofondati in grandi gilè con orologio da taschino, e bambine austere come nonne schiacciate da grandi cappelli sovraccarichi di sete e di nastri. Fotografa i grassi frati e i militari in uniforme di gala, i comunicandi e gli sposi novelli; e anche i poveri, che vengono da lontano e danno anche ciò che non hanno pur di posare, ben pettinati, ben stirati, sfoggiando il vestito migliore, davanti alla macchina dell'artista messicano premiato a Parigi. Il mago Romualdo Garcia trasforma le persone in statue e vende l'eternità ai mortali. (58) | << | < | > | >> |Pagina 334In nome dei negri degli Stati Uniti Ida Wells denuncia davanti al presidente McKinley i diecimila linciaggi verificatisi negli ultimi vent'anni. Se il governo non protegge i cittadini nordamericani all'interno dei confini nazionali, chiede Ida Wells, con quale diritto invoca quella stessa protezione come pretesto per invadere altri paesi? Forse che i negri non sono cittadini? O la Costituzione garantisce loro solo il diritto di morire bruciati? Folle di energumeni, eccitati dalla stampa e dal pulpito, strappano i negri dalle carceri, li legano agli alberi e li bruciano vivi. Poi i carnefici fanno festa nei bar e si vantano delle loro imprese per le strade. La caccia al negro utilizza come alibi l'oltraggio a donne bianche, in un paese dove lo stupro di una negra da parte di un bianco è considerato normale, ma nella grande maggioranza dei casi i negri bruciati non sono colpevoli di altro delitto che la cattiva reputazione, il sospetto di furto o l'insolenza. Il presidente McKinley promette di occuparsi del caso. (12) | << | < | > | >> |Pagina 334Brandendo il cappello, Teddy Roosevelt galoppa alla testa dei suoi rudi cavalieri; e quando scende dalla collina di San Juan ha nel pugno, sgualcita, una bandiera spagnola. Sarà lui a prendersi tutta la gloria di questa battaglia che apre la strada verso Santiago de Cuba. Dei cubani, che pure hanno combattuto, nessun giornalista parlerà. Teddy crede nella grandezza del destino imperiale e nella forza dei propri pugni. Imparò a tirare di boxe a New York, per salvarsi dalle botte e dalle umiliazioni che subiva da bambino perché era malaticcio, asmatico e molto miope; e da adulto incrocia i guantoni con i campioni, caccia il puma, prende tori al lazo, scrive libri e ruggisce discorsi. Nei suoi scritti e nei suoi comizi esalta le virtù delle razze forti, nate per dominare, razze guerriere come la sua, e proclama che in nove casi su dieci non c'è miglior indiano dell'indiano morto (e il decimo caso, aggiunge, andrebbe esaminato più da vicino). Volontario di tutte le guerre, adora le supreme qualità del soldato che nell'euforia della battaglia sente un lupo nel cuore, e disprezza i generali sentimentaloidi che si angosciano per la perdita di un paio di migliaia di uomini. Per liquidare in un baleno la guerra di Cuba, Teddy ha proposto che la flotta nordamericana rada al suolo Cadice e Barcellona a cannonate, ma la Spagna, estenuata dalla lunga guerra contro i cubani, si arrende in meno di quattro mesi. Dalla collina di San Juan, il vittorioso Teddy Roosevelt galoppa ventre a terra verso il governatorato di New York e verso la presidenza degli Stati Uniti. Questo fanatico devoto di un Dio che preferisce la polvere da sparo all'incenso, si concede una pausa per scrivere: Nessun trionfo pacifico è così grandioso come il supremo trionfo della guerra. Tra qualche anno riceverà il Premio Nobel per la Pace. (114 e 161) | << | < | > | >> |Pagina 336Ramón Emeterio Betances, lunga barba bianca, occhi di malinconia, agonizza a Parigi, in esilio. - Non voglio la colonia - dice. - Né con la Spagna, né con gli Stati Uniti. Mentre il patriarca dell'indipendenza di Portorico si affaccia alla morte, i soldati del generale Miles entrano cantando dal litorale di Guánica. Con il fucile a tracolla e lo spazzolino da denti infilato nel cappello, marciano i soldati davanti allo sguardo impassibile dei contadini della canna da zucchero e del caffè. Ed Eugenio Maria de Hostos, che voleva a sua volta una patria, contempla le colline di Portorico dal ponte di una nave e sente tristezza e vergogna nel vederle passare da un padrone all'altro. (141 e 192) | << | < | > | >> |Pagina 336Camminavo per la Casa Bianca, notte dopo notte, fino a mezzanotte; e non provo vergogna nel riconoscere che più di una notte sono caduto in ginocchio e ho implorato Dio onnipotente di essermi luce e guida. E una notte, sul tardi, ricevetti il Suo consiglio - non so come, ma lo ricevetti: primo, che non dobbiamo restituire le Filippine alla Spagna, perché sarebbe un atto codardo e disonorevole; secondo, che non dobbiamo consegnarle alla Francia né alla Germania, nostre rivali commerciali in oriente, perché sarebbe un atto indegno e un cattivo affare; terzo, che non dobbiamo lasciarle ai filippini, perché non sono preparati ad autogovernarsi e presto soffrirebbero disordine e anarchia peggiori che al tempo della Spagna; e quarto, che non abbiamo altra alternativa che raccogliere tutti i filippini ed educarli ed elevarli e civilizzarli e cristianizzarli, e con la grazia di Dio fare tutto ciò che possiamo per loro, poiché anch'essi fanno parte del nostro prossimo e fu anche per loro che Cristo morì. E allora tornai a letto e dormii profondamente. |