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| << | < | > | >> |IndicePrefazione dell'autrice 7 Al di là del ponte e altri racconti 29 La moglie musulmana (1976) 31 Al di là del ponte (1993) 99 La remissione (1979) 151 L'estate di uno scapolo (1963) 223 Notizie su Mavis Gallant 265 |
| << | < | > | >> |Pagina 31La moglie musulmanaNel sud della Francia, nell'ufficio di un albergo piuttosto vicino alla casa dove Katherine Mansfield (di cui nessuno in quell'albergo aveva mai sentito parlare) stava scrivendo «Le figlie del defunto colonnello», il padre di Netta Asher annunciò che in Europa non ci sarebbe mai più stata una catastrofe causata dall'uomo. I morti della recente guerra e la fatale insensatezza dei bolscevichi russi avevano finalmente inculcato un po' di buon senso nella testa degli europei. Ciò che la gente voleva adesso era continuare la propria vita. E quando lui diceva «vita», intendeva le attività commerciali che questa comporta. Chi avrebbe osato contraddire il signor Asher? Di sicuro non Netta. Non capiva cosa suo padre intendesse, almeno non con la stessa perspicacia che il suo avvocato francese sembrava mostrare, eppure ascoltava con estremo interesse e rispetto, osservandolo poi firmare delle carte che, come sapeva, riguardavano la sua vita. Il padre stava rinnovando il contratto di affitto che la famiglia deteneva sull'Hotel Prince Albert and Albion. Netta aveva undici anni, allora. Una proroga di cento anni le sarebbe bastata almeno fino alla giovinezza, disse il signor Asher, scherzando solo in parte, perché ovviamente credeva che la sua progenie fosse immortale. Netta immaginava di arrivare con facilità oltre il secolo, e comunque di vivere per molti e molti anni. Sapeva che suo padre non voleva si sposasse prima dei ventisei anni, e che poi avrebbe avuto due figli, il primo dei quali un maschio. Netta, suo padre e l'avvocato francese suggellarono il contratto stringendosi la mano, e le fu offerto il suo primo bicchiere di champagne. La data sulla bottiglia diceva 1909, l'anno della sua nascita. Netta decretò con coraggio che il vino era delizioso, ma suo padre disse che con il tempo avrebbe avuto modo di gustare annate assai migliori. Netta ricordava la stretta di mano ma forse non i termini. Quando il contratto di affitto aveva davanti a sé altri ottantotto anni di validità, Netta sposò suo cugino di primo grado, Jack Ross, il quale non era affatto ciò che suo padre aveva in mente. Né arrivò l'opportuna coppia di bambini: Jack non li sopportava. Come Netta, veniva da una famiglia di albergatori che considerava i ragazzi una rovina. Fino ad allora Netta non aveva mai mostrato un briciolo di senso materno, ma il signor Asher pensava che Jack avrebbe potuto essere un genitore affettuoso, almeno gentile. Netta consolò in parte il signor Asher assumendosi la responsabilità dell'albergo mentre lui era ancora in vita. Quella dell'albergo era per Netta una vita naturale e così, quando in punto di morte suo padre disse «Si comporta proprio come volevo io», aveva ragione riguardo alla serietà del comportamento di Netta, ma si sbagliava in quanto alla direzione. | << | < | > | >> |Pagina 99Al di là del ponteCamminavamo sul ponte che parte da Place de la Concorde, io e mia madre, a braccetto, come due sorelle che non litigano mai. Lei teneva gli inviti per il mio matrimonio in una borsa di cuoio per la spesa: stavo per sposare Arnaud Pons. Il cugino di primo grado di mio padre, Gaston Castelli, deputato di un distretto del sud, aveva acconsentito ad affrancare le buste. Ci stava aspettando al Palais Bourbon, all'altro capo del ponte. Il suo ufficetto non aveva un panorama degno di interesse, solo un muro e qualche finestra. Una dattilografa che sembrava non lavorasse per nessuno in particolare sedeva fuori della porta. Il cugino Gaston era convinto che la ragazza fosse lì per spiarlo, e per quel motivo aveva detto a mia madre di non tenere in vista gli inviti. Mi avevano portato a fargli visita lì una o due volte. Sul muro c'erano due fotografie di Vincent Auriol, presidente della Repubblica, una delle quali autografata, e un dipinto del ristorante dove Jean Jaurès era stato assassinato con un colpo di pistola: si vedevano la facciata e i camerieri in strada, con indosso i loro lunghi grembiuli bianchi. La stanza era ammobiliata con una poltrona Luigi Filippo, con tutte e quattro le gambe incerottate, un divano bitorzoluto con sopra una coperta e, per i visitatori, un paio di traballanti sedie verniciate che erano state trafugate da un'altra stanza. Quando l'Assemblea era in sessione, lui dormiva sul divano. (In realtà non era previsto che i deputati vivessero negli uffici, ma ad alcuni di quelli che venivano da fuori città piaceva risparmiare sui conti d'albergo.) Suo figlio Julien stava combattendo in Indocina. Mia madre mi aveva già avvertito di domandare come se la stava cavando e quando pensava che la guerra sarebbe finita. Solo pochi mesi prima avrebbe forse alluso a un matrimonio con Julien una volta che fosse tornato, magari scherzandoci su, ma ora era troppo tardi per le insinuazioni: ero a un passo dall'altare con qualcun altro. Quello del mio matrimonio con Julien era un pensiero che i miei genitori e il cugino Gaston avevano considerato. In un certo senso, saremmo rimasti per sempre i loro bambini. Quando il cugino Gaston veniva a cena da noi, lui e papà parlavano dei parenti di Nizza e del decadente stato della Francia. Non era previsto che le donne partecipassero alla conversazione: la mamma trovava sempre un motivo per andarsene in cucina e discutere con Claudine, una ragazza di campagna originaria della Normandia che aveva istruito a cucinare e servire. Claudine aveva circa la mia età, ma la mamma sembrava molto più in libertà con lei che con me; dava per scontato che Claudine conoscesse tutte le strade e le svolte. Non avendo scuse per allontanarmi da tavola, studiavo l'argenteria, il disegno stampato sul piatto disposto per la cena, le mie mani. Gli uomini, nel frattempo, continuavano a parlare di quanto si fossero abbassati i principi morali e di come la classe media mancasse di fegato. Non erano d'accordo riguardo a ciò che andava fatto: nostro cugino era un socialista, sebbene non dei più accaniti. Guardava con speranza alla nuova classe dirigente, che leggeva Marx senza sfociare nel dogmatismo, mentre mio padre credeva che gli intelligenti uomini del dopoguerra sarebbero stati trascinati via come tutti gli altri. | << | < | > | >> |Pagina 151La remissioneQuando apparve chiaro che era assai più malato di quanto si fossero presi la briga di comunicargli, Alec Webb decise di rompere con la sua vita inglese e scese a morire sulla Riviera. Erano i primi tempi del regno della nuova Elisabetta, e la gente lo faceva ancora: migrare senza altro scopo che la speranza di un cielo misericordioso. L'alternativa (disse Alec alla sua unica sorella) era mettersi in fila per morire a carico del Servizio Sanitario Nazionale inglese, disteso sul materasso e telo di gomma regolamentari, ad ascoltare il fiato di altri moribondi. Alec — come avrebbero poi scritto sui necrologi — era marito di Barbara, padre di Will, Molly e James. Non venne in mente né a lui né a nessun altro che il distacco dall'Inghilterra era un atto di forza inconsueta, capace di squarciare e lacerare la vita dei suoi figli così come la sua. La differenza era che la loro vita spuntava appena da terra e non era ancora in fiore. I cinque Webb arrivarono in una proprietà chiamata Lou Mas durante un settembre particolarmente torrido. La misteriosa Lou Mas, fino a quel momento solo un nome su un atto di vendita, si materializzò come una casa rosa infilata sul fianco di una collina, tra una strada carrozzabile e il mare. Alec ne identificò lo stile come edoardiano-rivierasco. Barbara immaginò si riferisse alla profusione di balconi e parapetti, e alle snelle colonne del giardino, che non sorreggevano nulla. Nella nuova luce del sud tutto le sembrava brillante e rorido, come colore appena uscito da una scatola di tempere. Uno dei primi gesti di Alec fu sollevare il braccio e schermarsi gli occhi da tutta quella luminosità. Il viaggio lo aveva estenuato, pensò la moglie. Le era stato annunciato in sogno che quel loro cambio di clima sarebbe stato irreversibile; non solo Alec, ma nessuno di loro avrebbe potuto tornare indietro. Non glielo disse, sebbene in tempi migliori la cosa avrebbe interessato quella parte della sua mente che lasciava inutilizzata: da uomo assolutamente razionale quale era, nutriva un cauto rispetto nei confronti della preveggenza. I bambini non erano mai stati in una casa di quelle dimensioni. Si rincorsero e scivolarono sui pavimenti finché Alec li pregò, con tatto, di giocare fuori, sebbene una delle ragioni per cui aveva voluto andare lì fosse proprio passare in loro compagnia il tempo che gli restava da vivere. Spediti su un patio lastricato davanti a casa, i bambini si sporsero a guardare le terrazze cariche di olivi, la linea ferroviaria, e poi il mare. Tra gli alberi c'era un cottage isolato e deserto che Barbara aveva proibito loro di esplorare. I bambini avevano dieci, undici e dodici anni, la secondogenita era una femmina. Poiché non avevano scuole da frequentare, e non conoscevano nessuno di quelli che vivevano nei paraggi, e poiché la loro madre era troppo impegnata a inventare qualcosa di interessante da fargli fare, si appoggiarono su una balaustra di pietra per salutare e chiamare i treni, sperando di ottenere un gesto di risposta e magari assistere a una decapitazione. Erano stati spesso ammoniti di guardarsi dai passeggeri stupidi e dalle cose peggiori che potevano accadere. La madre uscì e abbracciò Will, il più grande. Lo baciò sulla testa. «Guardate un po' il mare» disse. «Siamo o non siamo fortunati?» Guardarono, ma quel mare vasto e piatto era una linea che chiunque di loro avrebbe saputo tracciare su un foglio di carta. Era lì, ma niente di più; meglio i treni, e meglio anche il cottage in rovina. Nel giro di una settimana James si era già tagliato una mano con un vetro nel tentativo di intrufolarvisi, ma ormai Barbara aveva dimenticato il divieto. | << | < | > | >> |Pagina 223L'estate di uno scapoloLa rispettabile età dell'alta società invernale che Walter Henderson frequenta sulla Riviera francese lo fa sembrare giovane ai suoi occhi e un ragazzo a quelli dei suoi amici. In un mondo di anziane vedove la sua relativa giovinezza appare una virtù, il suo celibato una condizione preziosa. Per tutto l'inverno guida la sua piccola Singer sportiva su strade deserte, diretto a feste in quel di Beaulieu, o Roquebrune, oppure Cap Ferrat. Visti dal mare, lui e la sua auto devono assomigliare a due insetti disegnati: una lucciola e una pulce. Guida allegramente, come se fosse estate. È spesso in ritardo. Ha un modo disarmante di aggiustarsi i capelli con un gesto mentre porge le sue scuse. Talvolta la giustificazione ha a che fare con Angelo, il suo spassosissimo e imprevedibile domestico. Oppure si tratta di madame Rossi, la femme de ménage, che magari ha avuto una giornataccia. Anche Guglielmo d'Orange, il grosso e vecchio gatto fulvo di Walter, rientra nel quadro. Per come descrive la sua casa, Walter è vittima di servitù e animali domestici, è l'attore principale di un imbroglio infinito di intrighi, raggiri e corna — il tutto molto divertente, s'intende; Molière non ci ha forse fatto ridere? «Walter, tesoro» gli ha spesso detto la sua grande amica, la signora Wiggott. «Queste cose succedono solo a te.» Racconta le sue storie in tranquille sale da pranzo, rivolto a un circolo di visi amorevoli e attenti. È circondato da volti di donna. I loro occhi sono ciecamente fissi sui suoi, ma in omaggio a un altro uomo; un giovane amore ucciso nella guerra del 1914, un figlio adorato ma infedele. «Birichino di un Walter» mormora la signora Wiggott. «Ragazzaccio.» Walter dev'essere per forza cattivo, dato che il ricordo di ogni marito scomparso, o amante, o figlio è l'impronta della sua crudeltà. Le anziane amiche di Walter si leccano le ferite del cuore. Quelle della signora Wiggott abbracciano quattro mariti, contati su quattro dita artritiche: il giocatore d'azzardo, il dipsomane, l'italospagnolo, e il povero Wiggott, che una mattina fece una bella colazione per poi attraversare i binari dritto davanti a un treno. «Nessuno dei miei mariti apparteneva al mio stesso ceto sociale» ha detto la signora Wiggott a Walter. «Ho fatto grossi errori con gli uomini, cercando di innalzarli al mio livello. Ho spesso pensato, Walter, se solo avessi conosciuto te quarant'anni fa!» «Già, proprio così» dice Walter con partecipazione, lisciandosi i capelli. Hanno perso il senso del tempo in questo clima così dolce: quando la signora Wiggott era alla ricerca di un secondo marito, quarant'anni fa, Walter aveva cinque anni.
«Se una volta arrivato ai quarantacinque anni, la tua vita non è esattamente
come la vuoi» diceva il padre di Walter, per il quale lui nutriva profonda
ammirazione, «non ha molto senso andare avanti. Tanto vale impiccarsi.» Diceva
anche: «Il ruolo di genitori è sacro. Non andartene in giro a procreare figli a
destra e a manca», questo quando Walter aveva dodici anni. La nonna irlandese di
Walter diceva: «Non toccare le cameriere» che almeno era un consiglio pratico.
«Io resto fedele alle donne che mi rispettano e mi ammirano» dichiarava il suo
padrino. Era celibe, un grande frequentatore di ristoranti. «A che giova la
bellezza in un ragazzo?» lamentava la madre di Walter. «Ho una figliola così
scialba, povera piccola Eve. Non si poteva fare a metà?» «Non c'è niente che
svanisca tanto in fretta quanto la bellezza di un ragazzo.» Questo Walter l'ha
letto, ma non ricorda dove.
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