Copertina
Autore Carlo Galli
Titolo Sinistra
SottotitoloPer il lavoro, per la democrazia
EdizioneMondadori, Milano, 2013, Saggi , pag. 166, cop.ril.sov., dim. 15x22,3x1,8 cm , Isbn 978-88-04-62520-9
LettoreFlo Bertelli, 2013
Classe destra-sinistra , politica , movimenti , paesi: Italia: 2010
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Indice


          Introduzione
  3       Sinistra. Una parola, molti problemi

 13    I  Preludio filosofico — Tre tradizioni moderne

 37   II  Il secolo delle quattro rivoluzioni

 64  III  Il Pci e la strategia della doppiezza

 99   IV  La Parte fra politica e antipolitica

132    V  La politica del lavoro, il lavoro della politica


161       Bibliografia

163       Indice dei nomi


 

 

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Pagina 3

Introduzione
Sinistra. Una parola, molti problemi



                                La facilità con cui lo Spirito oggi si appaga dà
                                la misura della grandezza di ciò che ha perduto.

                                GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL,
                                La fenomenologia dello Spirito, 1807



A chi gli chiedeva se fosse liberale Carl Schmitt rispondeva «chiedetelo a mia moglie», a significare che il liberalismo poteva essere per lui, al massimo, una virtù privata di tolleranza e di ragionevolezza dialogante e non certo una forza politica. Allo stesso modo oggi - nell'età del neoliberismo - «comunista» vale come insulto personale (visto da destra, s'intende) o come dato biografico (solitamente nella formula «non mi vergogno di essere stato comunista»; ma anche nella variante negazionistica «mai stato comunista»), o come confessione di una sorta di dato caratteriale, di una tendenza antropologica innata, di un orientamento esistenziale; la sostanza storico-politica sembra perdersi nella dimensione della memoria, affermata o rifiutata, o della psicologia.

E quasi lo stesso vale per «sinistra» - il genere prossimo rispetto alla differenza specifica del comunismo; nessuna parte politica che abbia peso significativo, oggi, in Italia, si dichiara senz'altro di sinistra; e parecchi di coloro che oggi ancora di sinistra si sentono conducono vita nomade in un mondo divenuto inospitale, che non reca quasi più tracce significative degli antichi fasti: cattedre universitarie, tribune parlamentari, redazioni illustri, case editrici prestigiose, riviste intellettuali di avanguardia, premi letterari, festival. Spazi che si sono chiusi, o che hanno perduto peso sociale, o in cui si entra più per cordate che per schieramenti. Soprattutto, non c'è più neppure l'ombra di un'egemonia culturale di sinistra - in qualsiasi accezione la si voglia intendere - nel Paese; né negli ambiti scientifici né nel senso comune intellettuale e giornalistico.

Eppure, uno sguardo al passato consente di ricostruire una vasta fenomenologia degli universi di sinistra, in Italia. Che annovera una sinistra borghese, laica e repubblicana, che va dai giacobini ai mazziniani ai radicali; massoni e anticlericali, progressisti e proprietari, moralisti e spavaldi, legalitari e costituzionali, sono oggi confluiti nei ceti medi riflessivi e nelle loro più o meno influenti imprese intellettuali, nei girotondi e nei club. Accanto a questa, e spesso contro questa, una sinistra sociale o di classe, dalla storia complessa e contraddittoria. La storia dei socialisti, dei comunisti, dei socialdemocratici e dei movimentisti, degli estremisti, degli anarchici, cioè la storia di una sinistra legata in vario modo al socialismo o al marxismo che ha progressivamente assunto un peso schiacciante rispetto alla sinistra borghese. E all'interno di questa, peso preponderante anche se non esclusivo ha avuto quella specifica forma organizzata di sinistra che è stato il Pci.

Θ, questa, la sinistra di Guido Rossa e delle Br, di Stalin e di Trockij, dei trinariciuti di Guareschi e degli intellettuali sofisticati, degli agitatori e dei professori, dei politici e degli amministratori, dei militanti e dei quadri di partito, dei sindacalisti pugnaci e dei solidi e accorti cooperatori (e anche di parecchi padroncini). Θ una sinistra di molteplici identità e di differenziati e opposti mondi vitali, di diverse bandiere e di variegati luoghi comuni: i riti e i miti di un popolo, nutrito di idoli polemici e di orgogliose appartenenze. L'aristocrazia operaia e il bracciantato, il corteo e la biblioteca, le canzoni (da Fischia il vento a Per i morti di Reggio Emilia a Contessa) e i bar delle Case del Popolo, le lotte operaie e civili dove si esprimeva il potere di una Classe - le occupazioni delle terre e delle fabbriche, gli scioperi, i comizi oceanici - insieme alle sue sconfitte; la Patria e l'internazionalismo, il senso dell'uguaglianza e l'orgoglio acutissimo della differenza; le Feste dell'Unità, i salotti e le piazze, le Tesi di Benjamin e il vernacolo, Berio, i concerti di San Giovanni e il liscio, il Sol dell'avvenire e il senso della storia progressiva insieme all'attimo fuggente, il paternalismo e il femminismo, l'autorità più arcigna e catafratta e il libertarismo più aperto e speranzoso, lo scontro di civiltà alternative e il compromesso storico, la questione morale e il consociativismo, i fronti unitari e le divisioni più sanguinose e settarie, i «carristi» e quelli che dai carri finivano schiacciati. Intellettuale e popolare, atea e cattolica, umile e arrogante, risentita e pentita, solidale e rissosa, velleitaria e rinunciataria, di governo e di testimonianza e di alternativa, la sinistra ha realizzato una complexio di formidabile potenza, o, secondo i punti di vista, di drammatica confusione. Un orizzonte di ordine e di disordine, di esperienza e di speranza, di soggezione e di ribellione, di ragioni e passioni, di vittorie e sconfitte, di scienza, di illusioni e di mitologia, di società e di comunità. L'epica, la lirica, la tragedia, il romanzo, la commedia, di centocinquant'anni.


Passata dalla troppa profondità alla troppa leggerezza e al troppo pragmatismo, dal fiancheggiamento del totalitarismo (o almeno dalla cecità davanti a esso) al progressismo critico e infine alla sindrome di Peter Pan (la stagione del «ma anche», del non scegliere, del non crescere, della perenne adolescenza e delle illimitate possibilità - ciò che Schmitt definiva «romanticismo politico»), quella che fu la sinistra - vetero, nuova, post - vive oggi una vita stentata e segmentata nei suoi disiecta membra, nei centri sociali e nelle associazioni di ex partigiani, e in generale nei movimenti, o meglio in ciò che di questi resta: no logo e no global, ecologisti, pacifisti, libertari, antagonisti, sindacalisti, quelli che promuovono i beni comuni e quelli che lottano per i diritti dei migranti. E anche, va detto, in parte del Pd, e in alcune forze a sinistra del Pd.

La difficile collocazione istituzionale e politica di questi pezzi di sinistra va di pari passo con la loro altrettanto difficile definizione: chi si dice di sinistra, oggi, lotta per un mondo diverso o fa solo resistenza, è un eversore o un intransigente giustizialista legalista? Θ un progressista o un conservatore di ciò che resta del passato, in un mondo divenuto ostile e incomprensibile? I ruoli fra destra e sinistra, fra reazione e progresso, si sono forse invertiti? Il movimento in avanti che era della sinistra, è stato catturato dalla destra che lo ha fatto proprio, mentre il freno, la reazione, che era della destra, ha permeato di sé la sinistra?

E, soprattutto, lo scontro fra vecchio e nuovo, tra le faglie delle età contrapposte – quello scontro che è la spinta propulsiva della storia moderna –, si dà ancora? Descrive ancora, quello scontro, la nostra epoca oltremoderna? E, in caso affermativo, in quello scontro, che cosa è sinistra? Quali sono i suoi fines, i suoi confini e le sue finalità? Solo quello di essere un sistema di riferimenti rifiutato da chi potrebbe bene o male esserne l'erede, mentre vive nell'esagerazione propagandistica di una destra che lo risuscita per fare fremere di odio e di paura i moderati? Un monstrum da Wunderkammer da guardare con curiosità, un mammut ibernato, al massimo un patetico «come eravamo», per gli uni; mentre per gli altri lungi dall'essere estinto quel mostro è ancora incombente e pericoloso?

Poiché di politica stiamo parlando, il problema dell'esistenza della sinistra va posto insieme a quello della sua essenza: ovvero, per capire che cosa, eventualmente, può essere si deve capire che cosa, eventualmente, può fare. Ma a tal fine è necessario mettere un po' d'ordine concettuale nella vasta e complessa fenomenologia della sinistra, di ieri e di oggi. A cominciare dal fatto che la sinistra è attraversata da ricorrenti dilemmi storici, politici e teorici, che la collocano in irrisolta tensione fra responsabilità ed estremismo, fra legalità e antagonismo, fra partito e movimento, fra ordine e conflitto, fra soggetto e totalità, fra disciplina e spontaneità, fra austerità e festa, fra logiche sistemiche ed eccedenza, fra conservazione di una storia e suo oltrepassamento, fra la consapevolezza di sé come Parte e un invincibile orientamento alla dimensione dell'universale, del Tutto, fra organizzazione e rivoluzione. Dilemmi riconducibili alla tensione fra contingenza (come limite, ma anche come occasione di potenza) e necessità (come destino ma anche come coazione), dentro cui la sinistra (soprattutto marxista) è nata.


La prima tesi di questo libro è che la genealogia, la comprensione dell'origine di questo dualismo, di questa duplicità – che non è semplicemente «doppiezza» tattica ma è costitutiva della sua storia –, è il primo passo attraverso il quale la sinistra può capire la propria plausibilità, il proprio ruolo, e le proprie prospettive future. E che per comprendere questo aspetto cruciale della tradizione della sinistra è necessario retrocedere a interpretare sia alcune grandi linee della filosofia moderna sia le vicende politiche del XX secolo. La seconda tesi è che in quel dualismo, che la storia ha divaricato, la sinistra deve collocarsi, conservando e non disperdendo la tensione politica fra storia e critica, fra potere ed eccedenza, fra responsabilità e immaginazione, fra resistenza e iniziativa, fra Parte e Tutto. La terza, infine, è che il luogo in cui questa tensione ha avuto origine e si è propagata è il nesso fra soggettività, lavoro, libertà, politica. E che dunque qui si deve fare il punto; e da qui si deve – realisticamente e innovativamente – ripartire, con una proposta politica al tempo stesso particolare e universale, materialmente pesante e intellettualmente lucida e nitida: che consiste nell'affermare, contro la cattiva neutralizzazione, le ragioni di una buona parzialità, ovvero di una neutralizzazione attiva; nel suscitare energie che vadano oltre lo sguardo corto, la memoria corta, la responsabilità ristretta solo al raggio brevissimo della famiglia, di uomini e di donne implosi nell'anomia, increduli di tutto, e quindi creduli di tutto, pronti a transitare da un'illusione a un'altra, da una semplificazione all'altra, inferociti verso tutto e in realtà incuranti di tutto se non di una sopravvivenza che del resto, nel tempo della crisi, è sempre più difficile; e anche – senza che venga meno il realismo – oltre un modello di sviluppo che ha organizzato un'economia che sembra divorare l'umanità. La proposta politica della sinistra deve muovere queste ragioni e queste energie a organizzare un universale, un ordine politico e sociale, che sia politicamente orientato e che al tempo stesso renda possibile a tutte le Parti farsi liberamente valere.

La sinistra a cui si pensa, qui, sa che il lavoro è il terreno su cui ha manifestato la propria massima potenza, e anche il terreno su cui è stata sconfitta; una sinistra che si riprende la politica e il lavoro perché è consapevole dell'intrinseca politicità del lavoro, oggi; perché sa che le questioni del lavoro oggi sono questioni di democrazia.

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Pagina 10

Del quale si forniscono poche avvertenze per l'uso.

La prima è che è un libro provocatorio e inattuale, perché parla di politica come di una cosa seria, sottratta al ghigno e al vituperio, allo scandalismo e alla faciloneria, agli slogan e alla superficiale mancanza di concettualità che la caratterizza da tempo.

La seconda è che è un libro di uno studioso che pratica la filosofia politica in una dimensione storica, e con interessi politici. E che quindi è un libro che si avvale di più strumenti, di filosofia (prevalentemente il primo capitolo), di storia (il secondo e il terzo), e di politica (il quarto e il quinto). In particolare, la discesa in campo della filosofia non vuol dare una patina di necessità alla politica, né istituire meccaniche deduzioni di questa da quella. Chi fa politica non aderisce a una linea filosofica prima di agire. Eppure, se non si padroneggia anche il registro della filosofia, il livello della teoria, non si capisce ciò che si fa: in generale, il presente ha radici lunghe; in particolare, la storia della sinistra è un dramma che può esser compreso solo se inserito in un vasto orizzonte intellettuale. Allo stesso modo, la presenza della storia non ha alcunché di deterministico, di storicistico; alla storia, qui, non si riconosce neppure quella che Pasolini chiamava «la scandalosa forza rivoluzionaria del passato». In realtà, tra passato e futuro, lo sappiamo da Hannah Arendt , c'è una lacuna: il presente, tutto contingente e carico di rischiose possibilità. E nel presente e dal presente, dalle sue interrogazioni spesso implicite, che questo libro trae occasione, motivazione e senso.

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Pagina 12

Quell'orientamento è il realismo, su cui si deve spendere un'ultima parola. Realismo qui significa accettare il presente, riconoscerne la genesi, ma rifiutare le alternative poste dal presente. E dunque la tesi del libro non è riconducibile al realismo nel senso filosofico. «Realtà», qui, significa «contesto», cioè l'insieme delle cause, degli effetti e dei valori in competizione, non «sostanza esterna». Ci sono «cose», là fuori, certo; e c'è quindi oggettività; ma sono cose fatte da noi, da esseri umani in rapporti asimmetrici di potere fra di loro; l'oggettività non è un fascio di leggi ferree. Ciò che conta, in politica, è sapere chi ha fatto le «cose», e perché, e come le si può cambiare.

Realismo, insomma, è tutt'altro che sinonimo di piatta aderenza al presente; è semmai il punto da cui ci si può porre le domande di Kant: «Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?». Realismo è prospettiva d'interrogazione e d'azione. E fa parte del realismo anche ammettere che la sinistra di cui si parla qui dovrebbe esserci — di ciò vi sono ragionevoli evidenze —, ma potrebbe anche non esserci; ovvero, che potrebbe essere un posto vuoto nel sistema politico italiano. Realismo è anche esprimere un'esigenza che per il fatto di essere reale non è però immediatamente soddisfatta.

Ed è questo il motivo per cui questo libro coniuga il realismo con l'immaginazione, e si indirizza a uno spazio che sta fra partiti, movimenti, e scontenti; e si rivolge agli intellettuali che vogliano pensare responsabilmente — il che non vuol dire timidamente, ma certo neppure gratuitamente; ma soprattutto è pensato per tutti coloro che non hanno già deciso, nel loro cuore, che la sinistra è fatta, come diceva Prospero, such stuff as dreams are made on, della materia dei sogni.

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Pagina 132

V
La politica del lavoro, il lavoro della politica



                                Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo.
                                Bene, ora si divora da solo.

                                CHARLES BUKOWSKI,
                                Il capitano è fuori a pranzo, 1991


                                L'uomo ha il dovere di lavorare: ma non come un
                                animale da soma che sotto il peso del suo
                                fardello cade in un sonno dal quale, non appena
                                ristorata nel modo più precario la forza
                                spossata, viene di nuovo strappato per essere
                                caricato del medesimo fardello. Egli deve
                                lavorare senza angoscia, con gioia e letizia, e
                                avere tempo libero per innalzare il suo spirito
                                e il suo occhio a quel cielo per la cui
                                contemplazione egli è stato creato. Non deve
                                mangiare dalla stessa greppia delle sue bestie
                                da soma; il suo cibo e la sua abitazione devono
                                essere altrettanto diverse dal foraggio e dalla
                                stalla di esse, quanto dalla struttura fisica di
                                quelle è diversa la struttura fisica sua. Ciò è
                                il suo diritto poiché egli è un uomo.

                                JOHANN GOTTLIEB FICHTE,
                                Lo Stato commerciale chiuso, 1800



Dal cuore della filosofia classica tedesca ci giunge un ammonimento: l'uomo non può essere il soggetto assoggettato, l'oggetto d'allevamento del biopotere. Più di due secoli fa era già chiaro al filosofo ciò che oggi deve tornare a essere chiaro alla sinistra.


I dati, da innumerevoli fonti, sono univoci nel mostrare, per gli ultimi trent'anni, uno spostamento imponente di ricchezza dai salari al profitto, una crescente disuguaglianza dei redditi che ha generato una società divaricatissima (l'esito della distruzione tendenziale del ceto medio) fra pochi ricchi e un numero crescente di poveri e poverissimi, e un'accumulazione realizzata attraverso lo svilimento del lavoro, particolarmente giovanile. In Italia metà delle persone che hanno meno di quarant'anni non lavora, e della metà che lavora solo metà ha un lavoro stabile. Solo una famiglia su tre gode di redditi dignitosi. Disoccupazione, non occupazione, precariato, subalternità sociale, quindi, individuano una maggioranza, in quest'ambito. Ma anche chi passa la soglia dei quarant'anni, chi ha un lavoro «sicuro», è sotto scacco; la difesa del posto di lavoro è stata fatta passare come un obiettivo reazionario, mentre progressista è la mobilità, la flessibilità. Di fatto, ciò significa mano libera a ogni iniziativa del capitale, e la fine del protagonismo del lavoro sociale e politico.

La Parte concreta che, senza essere ontologicamente privilegiata, è tuttavia capace di un alto tasso di universalità, o almeno di trasversalità, è quindi facilmente individuata: tutto il lavoro dipendente, e anche tutti i piccolissimi artigiani e imprenditori individuali che sono sostanzialmente indifesi davanti allo strapotere del capitale e delle sue istituzioni; e naturalmente tutti i disoccupati, i non occupati, i precari, i licenziati, i cassintegrati. La Parte concreta è quella di tutti coloro che abitano un mondo del quale sono la Parte passiva; di coloro, cioè, che non avendo se non scarso controllo sul proprio lavoro non l'hanno neppure sulla propria vita, che vedono del tutto sussunta nei meccanismi del capitale e del tutto svalorizzata e precarizzata; di coloro che non possono fare altro che vendere a sempre minor prezzo la propria forza lavoro e sperare che non risulti superflua, priva di valore, indesiderata, e che quindi non resti inutilizzata. La spersonalizzazione del lavoro, i suicidi per il fallimento nel trovare il lavoro e per la sua perdita, la vita interamente consegnata a un'economia che sovranamente decide se volerla o rifiutarla; tutto ciò mostra che non era giustificata l'euforia di quanti, come Beck , vedevano nella fine del lavoro l'occasione per affidarne la parte pesante alle macchine e la parte creativa a uomini liberati dalla fatica.

Il lavoro in questo senso non solo non è un Tutto – e non è neppure un 99% – ma è una Parte a sua volta costituita di Parti, che possono essere fra di loro anche in contraddizione; e possono anche essere individui atomizzati, soli, privi di relazione significativa con gli altri. Dentro il lavoro si apre il conflitto dei garantiti contro i non garantiti, o meglio dei pericolanti contro i precipitati, degli insider contro gli outsider. Nessuna di queste Parti ha la forza da sola di rovesciare l'assetto neoliberale; nessuna è privilegiata. Il lavoro non individua una classe, non è una parte «migliore», un'aristocrazia di massa: è solo la parte maggiore; la parte di coloro che a causa della subalternità del lavoro, della sua precarietà o della sua mancanza sono separati da se stessi, dalla propria vita, dagli altri. Una platea di persone che ora fornisce molte truppe all'antipolitica, e che invece attende una politica che ne valorizzi la parzialità, la soggettività, che non cerchi la divisione ma l'unione, che la sottragga alla genericità della protesta, e che in questa moltitudine colga qualcosa se non di universale almeno di trasversale.

Il lavoro è la Parte che consente di comprendere le dinamiche del Tutto; perché è l'inizio materiale ed esistenziale della progettazione della vita; perché, nonostante il neoliberismo abbia fatto di ciò un dogma, non è un fatto privato, perché è l'inizio della vita individuale e sociale per una grande parte delle donne e degli uomini; una Parte che è venuto il momento riconosca se stessa appunto come Parte, come soggettività che del resto è stata da sempre individuata come tale dal neoliberismo, che da sempre le ha dichiarato guerra. Il lavoro non forma e non plasma tutto l'individuo, ma ne è la base di riproduzione materiale; se questa base è asservita, l'individuo non è autonomo, e non c'è democrazia. Il lavoro è la Parte da cui iniziare la politica perché il lavoro si colloca là dove il potere ha origine: nel sistema economico. E perché, infine, il lavoro anche senza essere un bene comune in senso stretto - anche cioè se si mantiene l'impostazione moderna per cui il lavoro è una proprietà del soggetto, che dà diritto, in certe circostanze e secondo certe regole, ad altre proprietà - è in ogni caso un'attività personale ma non privata, e apre la sfera dell'economico verso il sociale e il politico. Il lavoro è politico, e ha in sé una domanda di politica, di riconoscimento.


L'espressione politica del disagio delle vite frantumate e offese può prendere le forme unificanti ma transitorie dell'indignazione, della rabbia (in Italia più spesso contro la politica che contro il capitale) o quella della radicale messa in discussione della categoria del profitto (e quindi della proprietà, e quindi del soggetto-persona) - un'ipotesi francamente troppo ambiziosa, nell'immediato. Tuttavia, come si può e si deve uscire dall'ideologia che vuole il capitale capace di autoregolazione (e che consegna le questioni poste dal lavoro alle «leggi naturali dell'economia» - da assecondare nella speranza che le crisi passino, mentre i vinti sono da affidare alla compassione, o all'assistenza), così si può e si deve uscire dall'ideologia che vede solo nella disonestà personale dei politici la causa dei mali della società; e allo stesso modo si può e si deve uscire dall'ideologia che affida alla sola soggettività ribelle la soluzione dei problemi; si può e si deve, insomma, trasformare le contraddizioni interne alla Parte del lavoro in unità un po' più che transitoria, volgere la rabbia in energia politica, lo scontento e il ritrarsi in impegno e in progetto, il desiderio in volontà, la soggettività precaria in soggettività che si è conquistata nuovo appaesamento in un ordinamento più riconducibile alle esigenze umane di quanto non sia l'ansimante neoliberismo. Coniugare indignazione e organizzazione è politica di sinistra; è la politica della vita che si emancipa dalla biopolitica e dalla bioeconomia del neoliberismo; e a questo fine si richiede non solo l'immediatezza, la bruciante espressione della protesta, ma anche il periplo dell'analisi, della riflessione, della mediazione. Non avere posto l'accento sul lavoro con sufficiente convinzione, avere accettato la subalternità del lavoro e le disuguaglianze sociali, è stata una delle maggiori cause di debolezza della sinistra.

Se si fa politica con la morale, con la giustizia, con i diritti, con la sessualità, con la comunicazione, con la cultura, con la Costituzione, con l'indignazione, non si vede perché non si possa fare una politica del lavoro. Ovvero, perché non si possa immaginare una traduzione del lavoro in politica, una proposta di indirizzo e di governo politico dell'economia - male assoluto, suprema follia, per il neoliberismo, che lo equipara senz'altro all'economia di comando sovietica. La posta in gioco, per la sinistra, è la capacità di governare democraticamente i processi economici, obiettivo per il quale è necessario ricostruire le condizioni del governo stesso, di rifondare lo spazio pubblico, di operare nell'emergenza in vista di un nuovo ordine.

Della cui esigenza, certo, si è accorta, grazie a una crisi che ha aspetti di incontrollabilità, anche la destra più lucida; ed è su questo terreno di ri-costituzione dell'ordine e della stabilità che si apre la sfida con la sinistra - la quale a sua volta deve evitare di farsi sfilare l'iniziativa politica dall'antipolitica populista. La sinistra deve lottare allo stesso titolo contro l'antipolitica e contro l'antilavoro; quella, del resto, deriva da questo, è la reazione sbagliata a questo.

Trasformare la politica implicita nel lavoro - la sua valenza politica che è anche una domanda di politica - in politica esplicita, nel lavoro serio e impegnativo della politica, è il compito della sinistra; e nell'attuale situazione di crisi del neoliberismo ciò implica mettere in moto processi di valorizzazione del lavoro perché esso sia di nuovo collegato alla dignità delle persone, e sia matrice di un legame sociale non fuori controllo.

Θ questo il prodromo di ogni nuovo modello di sviluppo: uno spostamento di potere (preceduto e reso possibile da uno spostamento di accenti del sapere). Non è sufficiente che cambino gli obiettivi e le tecnologie della produzione economica. Ri-orientare il cuore dei cicli produttivi verso la green economy non basta, di per sé: la subalternità del lavoratore può perdurare anche in una fabbrica di pannelli solari. Ciò che è decisivo sono i rapporti di potere fra capitale e lavoro. Più che riportare la politica al comando (c'è sempre, in varie forme e figure), si tratta di cambiare le Parti al comando, di modificare i rapporti di forza.

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La quarta rivoluzione in realtà si fonda - oltre che su un'ideologia individualistica che distrugge gli individui, su un utilitarismo che si rovescia nel danno per la maggior parte, su un'idea di proprietà che culmina nell'universale espropriazione - anche su una sorta di accumulazione finanziaria, su una bolla speculativa che accompagna e sostiene lo sforzo di ricercare maggiori profitti per unità di lavoro, cioè di comprimere i salari e di tagliare le spese pubbliche. La finanza, oltre che fornire occasione di profitti speculativi grazie alla deregulation, ha avuto anche un paradossale effetto di supplenza, poiché l'indebitamento delle famiglie, relativamente facile, è stato una delle vie attraverso le quali si è potuto far fronte al venir meno delle prestazioni dello Stato sociale e all'impatto negativo sui salari della great moderation. La crescita del neoliberismo è stata insomma drogata dai debiti privati e pubblici, che hanno coperto lo squilibrio della bilancia dei pagamenti e la mancata crescita dei salari. In questa società mondiale finanziarizzata - nella quale ha grande ruolo anche l'economia criminale su scala globale -, quando le bolle speculative internazionali (sulle case, sulle materie prime, e così via) sono scoppiate, le banche creditrici sono andate a rischio di fallire, si è dovuto immettere in esse denaro pubblico (solo in Europa, circa 4600 miliardi di euro) per limitare i danni. Si è trattato di un palliativo: le banche hanno ridotto il credito alle famiglie e alle imprese, ma continuano nelle loro rischiosissime operazioni - in pratica, impacchettano e vendono debiti, generando una massa mostruosa di titoli finanziari derivati, moltissimi «tossici», cioè vuoti, inesigibili ma non riconoscibili, che ammontano a parecchie volte il Pil del pianeta.

In Europa la crisi del neoliberismo, la sua incapacità di dar vita a un qualsivoglia ordine spontaneo o ad alcun disordine creativo - che ha portato Alan Greenspan ad affermare nel 2008, davanti a una commissione parlamentare Usa, «ho trovato un errore nella mia ideologia, nel modello che io vedevo come la struttura operativa fondamentale che definisce come funziona il mondo» -, si è sommata con le difficoltà dell'euro, cioè di una moneta non fondata sulla sovranità politica ma sul rispetto di alcuni parametri macroeconomici e di bilancio da parte degli Stati dell'eurozona, sanciti da trattati via via aggiornati in senso neoliberista.

In realtà l'interna frammentazione dell'area euro - gli spread, sui quali interviene la speculazione finanziaria -, che produce una differente possibilità di accesso al credito nelle diverse realtà statali, è dovuta meno al differenziale di debito pubblico (Francia e Germania hanno un debito analogo a quello italiano) che alla diversa competitività fra le varie aree. In ogni caso, la cura a base di austerity (di tagli alla spesa pubblica) per abbassare gli spread ha avuto costi sociali enormi, che si sono sommati a quelli della contrazione del credito, e ha dato risultati recessivi (l'effettiva diminuzione dello spread italiano è dovuta a una decisione di tipo «federale» della Bce, l'annuncio del possibile acquisto illimitato di bond): l'esito di questi interventi dovrebbe essere di rendere tutta l'eurozona simile alla Germania, ossia un Paese fortemente esportatore, che usa la bilancia dei pagamenti per accumulare ricchezza. Essendo la germanizzazione attiva dell'intera eurozona un'ipotesi ovviamente impossibile da realizzare, quello che ne risulta è una germanizzazione passiva: ovvero, il Paese forte (per storia, demografia, base produttiva, coesione sociale, organizzazione del lavoro, capacità di riformare consensualmente il modello d'impresa) e i suoi satelliti economici (Austria, Olanda, Finlandia, e pochi altri) attrae a sé i capitali stranieri in cerca di sicurezza (disposti, in cambio, anche a godere di una minore redditività) e diviene lo Stato realmente dominante, sotto il profilo economico, nel vecchio continente, tanto da potersi permettere, in prospettiva, di acquisire rilevanti quote dell'industria dei Paesi più deboli, ridotti al rango di economie di supporto del colosso tedesco.

L'alternativa praticabile alla germanizzazione passiva dell'Europa - che implica da parte degli Stati una cessione di quote di sovranità, senza che ne possano trarre alcun vantaggio «federale»; una perdita secca, quindi - sarebbe un vero federalismo. Che richiederebbe la messa in comune (in qualche misura) dei debiti sovrani, ovvero l'impianto di automatismi in grado di portare gli spread tendenzialmente a zero (come all'interno degli Usa il dollaro costa allo stesso modo tanto nelle aree depresse quanto in quelle sviluppate); ossia, una sovranità politica federale sulla moneta. Questa soluzione, costosa soprattutto (ma non solo) per la Germania, conferirebbe ai tedeschi un'egemonia diretta e politicamente visibile sull'Europa federale, di cui sarebbero il nucleo. Ed è proprio qui il problema; nel fatto, cioè, che la Germania (una parte delle sue élites, quanto meno, e gran parte dei cittadini) teme di dover esercitare un'aperta leadership politica sull'Europa federale, e rifugge le decisioni politiche dalle quali sarebbe inevitabilmente investita. Per evidenti ragioni storiche, la Germania ha barattato le ambizioni di grande politica con la grande stabilità sociale ed economica, sostituendo i vecchi sogni di predominio politico diretto sull'Europa con la potenza del marco; e non a caso ha preteso che l'euro fosse identico alla sua vecchia moneta quanto ai parametri macroeconomici di riferimento.

Pronta a trarre vantaggio economico (ora calante, data la crisi generalizzata dell'eurozona) dall'essere lo Stato nazionale più ricco di un'Europa politicamente poco integrata, la Germania è riluttante a essere il leader politico di un'Europa federale. Le politiche neoliberiste che impone all'Europa (tagli alle spese pubbliche, pareggi di bilancio) nascono da una cultura che esprime un'esigenza non di rischio ma di stabilità. Al di là delle divergenze interne alle stesse classi dirigenti tedesche (divise - e neppure lungo linee partitiche - sul grado di intransigenza con cui chiedere l'applicazione delle misure di austerity, e sulla maggiore o minore cautela con cui parlare di rafforzamento politico delle strutture della Ue), non a caso il nemico giurato dei tedeschi è l'inflazione, l'indebolimento della moneta; e non perché ci sia un collegamento fra l'inflazione e il nazismo (la vera rovina della Germania, dell'Europa, e del mondo), il quale semmai sorse dalla deflazione della crisi del 1929, ma perché l'inflazione (che effettivamente tormentò la Germania nel 1921-23 e nel 1946-48, ma che fu sconfitta in entrambi i casi col cambio di moneta) è un attentato contro l'ultima fede tedesca, la stabilità monetaria. La società del rischio vale per gli altri; per la Germania, invece, Sicherheit όber Alles: sicurezza sopra ogni cosa. Un agire sovrano, cioè non collaborativo, per timore della politica in grande stile: anche questa è antipolitica, dopo tutto. Ancora una volta - come ricordava Carl Schmitt in Amleto o Ecuba - la Germania è l'Amleto d'Europa, che amletizza l'Europa. Ma se ora la sua antipolitica non va al di là della gestione contingente dello status quo, può facilmente diventare una cattiva politica.

C'è, infatti, un rischio in questa prospettiva. Un rischio che la Germania suppone di poter calcolare; o che, invece, ignora, o reputa non rilevante. Il rischio di un'incontrollata crescita dei populismi, dei movimenti antieuro, e dei nazionalismi; il rischio di una saldatura delle insofferenze - anche di quelle tedesche, se l'economia germanica entra in recessione - che istituisca un cleavage della politica continentale che rimetta in discussione non solo l'euro ma anche l'idea democratica di Europa. Esiste un rischio 2013 com'è esistito un rischio 1914: anche un secolo fa per un errore di calcolo delle cancellerie la catastrofe si abbatté sul vecchio continente.

Θ chiaro, allora, che il ruolo della sinistra è di non lasciare il campo politico a due destre, a quella neoliberista (più o meno corretta da iniezioni di realismo e di sobrietà), e a quella populista e neonazionalista. Il ruolo, cioè, di portare in salvo tanto l'euro quanto la Ue quanto la democrazia.

L'orizzonte della crisi (del neoliberismo, dell'Europa e dell'euro) può essere un'opportunità per la sinistra: la discontinuità dei cicli economici può diventare discontinuità dei cicli politici. Al progressivo disallineamento fra Stato, mercato, nazione, partiti, movimenti - fra poteri dominanti e democrazia - si può rispondere rilanciando il modello sociale europeo e la civiltà del lavoro su scala, appunto, europea. Si può chiudere la quarta rivoluzione e gestire il cambiamento - la quinta rivoluzione, la prima del XXI secolo - all'altezza delle trasformazioni intercorse, senza tentare impossibili restaurazioni del modello statalistico socialdemocratico e senza lasciare l'iniziativa a una destra che, nella fine dell'ideologia neoliberale, non riesce a creare nuova egemonia e non sa andare oltre il modello tecnocratico di gestione «sobria» delle contraddizioni «ebbre» del capitale, e senza lasciare spazio al populismo neonazionalistico del risentimento (ipotesi, quest'ultima, senz'altro di destra, ma che ha appeal anche a sinistra). Ci si può insomma porre l'obiettivo di riarticolare il rapporto fra le Parti e il Tutto, di ripotenziare la politica, dall'alto e dal basso, perché non è certo grazie all'ordine spontaneo del neoliberismo ma è solo grazie alla politica - al potere della politica contrapposto al potere del capitale - che si può immaginare di approssimarsi a quella che Gramsci chiamava la «società regolata», ovvero a una vita civile sottratta alla casualità e all'arbitrarietà, e naturalmente non trasformata in una caserma.

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La prospettiva di transitare dalla giungla alla società regolata implica un nuovo umanesimo e un nuovo realismo. Di quest'ultimo si è già detto: consiste, in pratica, non tanto nell'aderire alla realtà come si presenta e alle alternative che pone (o neoliberismo più o meno «sobrio», o le due sinistre, o una o l'altra forma di antipolitica) ma nell'essere all'altezza delle sfide che essa contiene, del dover-essere che vi si può leggere. Cioè nell'immaginare e nel perseguire un punto di contatto e di incrocio - non di convergenza sistematica - fra partiti e movimenti (o fra settori degli uni e degli altri); un reciproco accostamento analitico e propositivo, all'insegna di una consapevolezza della complessità e della rilevanza della politica, e della necessità del potere democratico, della politicità delle istituzioni. E nello stabilire, di lì, un rapporto con la parte più consapevole e meno riluttante del mondo imprenditoriale. La centralità politica del lavoro, e di conseguenza la politica come lavoro, è quindi un vasto compito, non uno spot.


Il nuovo umanesimo, poi, è l'individuare nel lavoro e nel suo soggetto, la persona, il luogo del bisogno e dell'emancipazione, della libertà e della potenza, secondo coordinate che siano significative per le tradizioni intellettuali e filosofiche che sia pure per via indiretta innervano l'esperienza politica e la rendono interpretabile. Θ il decostruire nel pensiero e nella pratica l'autorappresentazione neoliberale; il che può avvenire lungo tre linee: quella del razionalismo (fondata sui diritti individuali, e sullo spirito dei Principi fondamentali della Costituzione), del pensiero dialettico (pensare per Parti, in vista di un oltrepassamento del presente a partire dal presente, cioè dalla società di mercato e dallo Stato di mercato), e del pensiero negativo nella sua versione non solo di decostruzione e di narrazione (un nuovo discorso pubblico è di fatto indispensabile a ogni egemonia) ma anche di grande decisione, di un gesto di volontà collettiva e di consapevolezza delle élites.

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