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| << | < | > | >> |IndicePrefazione all'edizione 2006 I Introduzione 7 1. Il capitalismo italiano alla fine della Seconda guerra mondiale 11 2. Come nasce uno gnomo 23 3. La sofferta gestazione di Mediobanca 44 4. La «grande svolta» dell'economia italiana e di Mediobanca 60 5. Provincializzazione dell'Italia e internazionalizzazione di Mediobanca 78 6. La nazionalizzazione elettrica e la «risposta Montedison» 90 7. Finanza laica e finanza cattolica 115 8. Reaganismo all'italiana 136 9. Corazzata inaffondabile e nave da crociera di lusso 157 10. L'agonia della Prima Repubblica e la resurrezione di Cuccia 181 11. Fin che dura il giorno, noi terremo alta la testa... 204 12. Capitalismo e democrazia 213 13. L'espansione della Galassia Mediobanca 235 Epilogo 246 Bibliografia 257 Indice analitico 261 |
| << | < | > | >> |Pagina I«Se Cuccia fosse ancora fra noi, forse...». Sono trascorsi sei anni dalla scomparsa (23 giugno 2000) di Enrico Cuccia, per unanime riconoscimento il Gran Banchiere dell'Italia del dopoguerra; un tempo sufficientemente lungo perché i ricordi si trasformino in un'ipocrita melassa. Invece, ai piani alti della Finanza, dell'Economia, financo della Politica, cioè in quell'ambiente che si usa definire establishment, la figura (o il fantasma vendicativo?) di quell'omino apparentemente minuto e fragile, in realtà dal polso di ferro e dall'ineguagliato cervello, che a dispetto dell'anagrafe (1907) e sfidando gli acciacchi ogni mattino entrava in ufficio alle 8,30 precise per uscirne a mezzanotte, incombe. Nel frattempo Mediobanca, l'adorata creatura di Cuccia, venuta alla luce (con il forcipe) il 10 aprile 1946, celebra le sue sessanta primavere. Per una banca d'affari, un blasone. Nella fattispecie la business community conta però le rughe che si celano dietro l'abile maquillage. Fuor di metafora: Donna Mediobanca si presenta bene, in carne, e più che in passato è generosa con i dividendi agli azionisti; ciononostante il suo «salotto buono» è sempre meno frequentato. Spiegazione terra terra: morto Cuccia, malamente defenestrato il delfino Vincenzo Maranghi, il carisma dell'Istituzione s'è, in non poca misura, se non totalmente dissolto, fortemente appannato. In che senso? Nel senso che i conti, gli affari più o meno trasparenti od opachi dell'Alta Finanza adesso si regolano altrove. In queste ultime stagioni, il nostro da sempre fragile «sistema» è stato devastato da un autentico tsunami. Non imprevedibile. Anzi, da taluni propiziato. Chi, infatti, avrebbe «osato» se Cuccia e il fido Maranghi fossero ancora stati lì, a presidiare gli ultimi bidoni vuoti dell'italico capitalismo? Per essere espliciti. È improbabile che il governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio avrebbe agito non da arbitro ma da protagonista, agevolando quella meteora che è stato il Giampiero Fiorani da Lodi, o lasciando carta bianca all'amico romano Cesare Geronzi di Capitalia (entrambi nel mirino della magistratura). Nemmeno si sarebbero lasciati sorprendere, Cuccia e Maranghi, dai «furbetti del quartierino», immobiliaristi con radici romane che hanno pensato di muovere all'assalto della Rcs-Corriere della Sera. Ancora: avrebbero gestito in ben altro modo, e con superiore autorevolezza, i rapporti con gli «stranieri». Avrebbero messo in riga i vari Consorte, e i Gnutti. Nemmeno avrebbero tollerato le oblique mosse della famiglia Agnelli per mantenere il controllo della Fiat-Ifil. Ecco spiegato il «se Cuccia fosse ancora tra noi...».
Ovviamente la storia, inclusa quella economico-finanziaria, prescinde dai
«se». Pertanto le recriminazioni sulla mancanza di «un Cuccia» possono
nascondere la ricerca di un alibi. Di un'attenuante specifica, si direbbe in
tribunale; di una spinta al «pentimento» in una società dalle radici
cattocomuniste in cui con un finto rimorso seguito da assoluzione (o da una
finta autocritica per i nipotini di Karl Marx) si resta in attesa che una
magistratura, in puntuale ritardo sulle sentenze per via di una legislazione
ultragarantista, finisca con il cancellare ogni colpa. Magica parola:
«prescrizione». Unita a una seconda, «patteggiamento», che ha consentito a tanti
nomi illustri di salvarsi in corner dai reati d'aggiotaggio o di insider
trading.
Nel momento in cui si ripropone nel suo testo integrale Il padrone dei padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano (nell'edizione del 1996, aggiornata rispetto a quella dell'anno precedente), il punto di partenza è il giudizio che ne diede il «Financial Times», designandolo finalista del Global Business Book Award: «Una storia del capitalismo italiano attraverso il filtro di Mediobanca». Infatti nell'Era Cuccia Mediobanca costituì la massima istituzione econonnio-finanziaria del paese. L'unica in grado di mettere alla stanga imprenditori e banchieri, costringendoli ad affrontare in campo aperto i cicli negativi e i terremoti provocati (con il centrosinistra e la nazionalizzazione elettrica) da un ceto politico più velleitario che capace. Rispettato e anche temuto per i suoi solidissimi legami internazionali, grazie al sodalizio con il mitico André Meyer della Lazard, Cuccia respinse non solo i tentativi di estrometterlo da Mediobanca da parte di alcuni settori della Dc (che avevano puntato sui Sindona-Calvi) e del Psi targato Bettino Craxi, ma pure ogni intromissione della Banca d'Italia, intuendo con largo anticipo le manovre di Antonio Fazio, che pretendeva ai suoi occhi di trasformarsi da arbitro in protagonista. Il che finì con il costargli carissimo; sino a far dire a quanti, ancora viventi, che gli furono vicini lungo il «viale del tramonto», che più del tumore fu il crepacuore a stroncarlo, allorché l'amatissima Comit venne inglobata nel Gruppo Intesa di Giovanni Bazoli. [...] Torniamo a Enrico Cuccia. Questa è la riedizione della biografia a lui dedicata, e se ricompare è perché in un immaginario (ma non troppo) calendario della finanza italiana s'è cominciato a scrivere: «Prima di Cuccia... Dopo Cuccia...». Confessione di chi fu il suo biografo, dapprima sgradito, poi subìto, quindi accettato, e infine... «Sarà il diluvio», mi sussurrò una domenica mattina, incontrandoci quasi fossimo congiurati alla libreria Feltrinelli di via Manzoni a Milano, a pochi mesi dalla sua dipartita terrena. In verità, le nubi avevano cominciato ad apparire nel cielo di via Filodrammatici sul finire degli anni Ottanta. Sia Carlo De Benedetti con la scalata alla Societé Generale de Belgique, sia Leopoldo Pirelli deciso a conquistare la tedesca Continental, sia lo scalpitante Raul Gardini erede della Dinastia Ferruzzi, avevano preteso di agire senza consultarsi con Mediobanca. Triplice disastro, e Cuccia che li riaccoglie all'ovile potrebbe vantarsene. Vittoria di Pirro, purtroppo, per il suo prestigio. Il 2 giugno 1992, sulla nave da crociera Britannia (incontro tuttora circonfuso di mistero), l'allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi, attuale governatore della Banca d'Italia, unitamente ad alcuni nostri esponenti dell'alta finanza, discute con i rappresentanti delle principali banche d'affari anglosassoni le modalità delle «privatizzazioni bancarie». Mediobanca è stata ignorata! In sostanza, Cuccia-Mediobanca cominciano a pagare il prezzo del loro orgoglioso isolamento. In quel momento il rimescolamento delle carte è totale, per via del ciclone giudiziario di Tangentopoli. Mediobanca è adamantina, ma lo stesso non può dirsi di alcuni fra i suoi storici soci: dalla Fiat guidata da Cesare Romiti a Raul Gardini, a Salvatore Ligresti. In più, Roma è lontana come non mai. Il governo di Giuliano Amato gli è poco amico (mai i socialisti avendo amato Mediobanca); Carlo Azeglio Ciampi, trasferitosi d'urgenza dalla Banca d'Italia a Palazzo Chigi per salvare la lira, ha sempre avuto con Cuccia rapporti poco più che formali. Può sembrare strano, venendo entrambi dal Partito d'azione; eppure così è. Talmente vero che alla presidenza dell'Iri viene richiamato Romano Prodi, cattolico atipico, democristiano ma non troppo. Ed economista con idee non d'accatto, frutto anche delle relazioni con le merchant bank anglosassoni. [...] A questo punto, è doveroso spendere almeno alcune righe sul rapporto fra il gran banchiere Enrico Cuccia e la politica italiana; nonché sulle relazioni fra Italia-Europa-Resto del Mondo. Cuccia, in gioventù tesoriere (occulto) del Partito d'azione, era, a differenza del maestro Raffaele Mattioli, graniticamente repubblicano e nel contempo indisponibile a patteggiamenti con i comunisti. Quanto ai socialisti, sempre li giudicò di una modestia progettuale estrema in quanto incapaci di liberarsi dai tabù (le nazionalizzazioni, in primis). Dopo le delusioni patite, teneva in scarso conto le destre, liberali di Malagodi inclusi. Idem per i confindustriali. Quanto ai democristiani, ne paventava il revanscismo che covava sotto le ceneri, dopo la scomparsa di Alcide De Gasperi. Andatosene Ugo La Malfa (1979), e con l'unico affettuoso e partecipe consenso di Antonio Maccanico (altro «reduce» del Partito d'azione), Enrico Cuccia si ritrovò politicamente isolato. In Roma-capitale lo temevano, ma non avevano il coraggio di muovergli guerra frontale. Craxi, alleatosi di volta in volta a Mario Schimberni e Raul Gardini ci rimetterà le penne. Beniamino Andreatta, investendo Giovanni Bazoli dell'incarico di salvare il Banco Ambrosiano del dopo Calvi-Marcinkus, ci riprovò. Cuccia era ormai sulla difensiva. Ed è incontestabile quanto in privato e nei lustri a venire andrà sostenendo il governatore Antonio Fazio: «Non fosse per la Legione Straniera...». Diamogliene atto: aveva ragione Fazio. Per un quarto di secolo, Enrico Cuccia è rimasto al timone di Mediobanca facendo pesare le sue relazioni internazionali (nel libro se ne chiariscono i motivi); ma non si tratta solo di questo. Cuccia, conoscendo i suoi polli, aveva modesta stima dell'italica imprenditorialità e dei banchieri che uno dopo l'altro s'affacciavano alla ribalta («Tutti professori, ma i banchieri non crescono nelle Università», m'ebbe a dire) e inseguiva un disegno: creare attorno a Mediobanca una galassia in grado di recitare senza complessi sul palcoscenico continentale. Infatti era «europeista», e non avrebbe potuto essere altrimenti per cultura e frequentazioni. In Fazio e nella Reconquista della finanza bianca vedeva invece pulsioni neo-autarchiche. Annotiamo però anche questo. Cuccia, sin dagli anni Novanta, aveva perso ogni iniziativa. E lo sapeva bene, da studioso delle strategie militari di Von Clausewitz: chi non contrattacca è perduto. Infatti. Ciò nulla toglie ai suoi pur discussi meriti. Sempre lavorò, con alterna fortuna, per la creazione di un grande banking italiano. Ora, dolorosamente prendendo atto che «La grande banca italiana non c'è», piaccia o meno, dobbiamo confrontarci con la sconcertante drammaticità del presente. Mario Draghi è stato chiamato d'urgenza in Banca d'Italia da Londra (dove ricopriva la carica di vicepresidente europeo della Goldman Sachs), in quanto non eravamo in grado di nominare qualcuno al di sopra della mischia, politica e affaristica. Antonio Fazio era malamente scivolato sulle bucce di banana del familismo e dell'egocentrismo che si nascondeva dietro le bandiere dell'«italianità». E la sua caduta ha spalancato le porte agli «stranieri». Ma vi è pure stata una caduta etica generale: e ciò sconforta. Che ne è di quella finanza bianca che aveva legittimato la Reconquista con altisonanti proclami per una finanza non più legata al capitalismo élitario, salottiero e avido di rendite senza rischi? L'Italia in panne non investe, non progetta, non rischia. E allora? Invocare un «nuovo Cuccia», rimpiangere la dipartita del «vecchio Cuccia», diviene pertanto esercizio retorico e inutile, un'ennesima testimonianza d'inadeguatezza. Inoltre, e detto fuori dai denti, Enrico Cuccia, che non ha mai amato né Romano Prodi («troppo professore») né Silvio Berlusconi («teatrante»), aveva una concezione mutuata da Montesquieu sulla divisione dei poteri, in un contesto di calvinistica laicità. Chiedendo, sempre a ciascuno, di fare il proprio mestiere. Malauguratamente, nell'Italia attuale e che non sembra volersi emendare, ogni medico, o medicastro che sia, pretende di avere ricette magiche. Con i politici che tengono bordone ai banchieri. Con i banchieri (si fa per dire) che cercano legittimità salendo sul carro del vincitore. Il rimpianto di Enrico Cuccia ha allora uno strano sapore: quello di un uomo che aveva «gli attributi» (più volgarmente «i coglioni»); e che, non fosse stato per lui, il declino dell'Italia sarebbe arrivato già decenni là. Rileggere la ricostruzione della sua straordinaria «Storia di vita», può aiutarci a capire perché lo tsunami economico-finanziario rischi di travolgerci. Giancarlo Galli aprile 2006 | << | < | > | >> |Pagina 204Non sono certo i «numeri» di Mediobanca ad angustiare il grande vecchio in occasione della turbolenta assemblea del 28 ottobre 1992. Francesco Cingano, presidente, e Vincenzo Maranghi, amministratore delegato, hanno presentato un florido rendiconto; ma tutt'altra sarebbe stata la musica se avessero dovuto redigere una «relazione morale». Nessuna delle ultime battaglie è stata coronata da successo, e il sogno di portare la libera imprenditorialità italiana in Europa fatica a materializzarsi. In più uno dei consiglieri, Salvatore Ligresti, si trova nel carcere di San Vittore e l'intero establishment è nel mirino della magistratura che non ha nemmeno risparmiato i fedelissimi del Partito repubblicano, da Antonio Del Pennino a Giorgio La Malfa. Il rosario da recitare è di quelli «dolorosi». Rinforzare la Pirelli Leopoldo Pirelli ha talmente patito, nell'infausta campagna di Sassonia, da dover essere sostituito col quarantenne Marco Tronchetti Provera. Cuccia è convinto di non avere responsabilità per il fallimento: gli avevano presentato cifre e prospettive manipolate. Ma il non saper «vigilare» è colpa gravissima per un banchiere; e cercare attenuanti sarebbe peggio: nella sua professione, gli errori non si ammettono! Ha forse fatto autocritica, il governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, per la svalutazione della lira e la precipitosa uscita dal Sistema monetario europeo? Ma che cosa è accaduto nell'avventura sassone della Pirelli? Per Mediobanca, i Pirelli sono ben più che «clienti». Proprio il giovane Leopoldo fu il primo degli industriali di alto lignaggio a entrare nel consiglio d'amministrazione di via Filodrammatici, nel lontano 1957. Con dolore, Cuccia ha da ammettere di essersi sbagliato. Non sull'uomo, ma sulla sua caratura imprenditoriale. Siamo infatti al terzo incidente professionale. Il primo si colloca a metà degli anni Settanta. Coinvolto in un pauroso incidente stradale (nel quale perse la vita il fratello Giovanni) mentre rientrava a Milano da una regata a Portofino, Leopoldo era propenso ad abbandonare un'azienda resa ingestibile dal sindacalismo selvaggio. Con il sostegno di André Meyer, Mediobanca propiziò il matrimonio Pirelli-Dunlop, che presto si trasformò in un mesto divorzio per l'incapacità del management italiano di adeguarsi alla prassi anglosassone. Don Enrico non lesinò le lavate di capo all'amico, ma gli conservò la fiducia. Rimboccandosi le maniche, rinunciando alle utopie delle relazioni industriali di stampo progressista, vendendo gioielli di famiglia (come il grattacielo di piazzale Duca d'Aosta in Milano, ceduto alla Regione Lombardia), Leopoldo parve risalire la china. Tuttavia il male oscuro dell'azienda permaneva: troppo grande per prosperare in qualche nicchia di mercato e troppo piccola per contrastare la francese Michelin e l'americana Goodyear. Da qui il tentativo di annettersi la statunitense Firestone. Le trattative giunsero sino all'Opa a Wall Street, provocando l'inattesa reazione dei giapponesi della Bridgestone, che rilanciarono spregiudicatamente sul prezzo: 70 dollari per azione contro i 58 offerti dalla Pirelli. Vincendo. Pur ordinato e dignitoso, sempre ripiegamento è. Nell'alta finanza si riprende a sussurrare il solito ritornello, che Enrico Cuccia non è più quello di una volta e che le sue antenne sono inadeguate a captare i nuovi segnali; in più, i giapponesi costituiscono un pianeta a lui estraneo.
Siamo alla fine degli anni Ottanta, e la Pirelli che pure si è data da fare
con acquisizioni marginali (la Metzeler in Germania, la Pneus Tropical in
Brasile, la Neumaticos in Venezuela) è scesa al quarto posto nella classifica
dei «signori della gomma». Con un azionariato estremamente frazionato, potrebbe
essere facile preda di qualche
raider.
Così Mediobanca organizza uno smazzo di azioni. A conclusione, pur disponendo
appena del 5,1 per cento del capitale attraverso la «finanziaria di famiglia»,
Leopoldo resterà al timone in virtù del gradimento di un sindacato di controllo
totalmente dipendente dal buon volere di Cuccia. A completare l'opera, lo gnomo
promuove la creazione della Pirelli Tyre Holding (PTH) con sede e quotazione ad
Amsterdam, alla quale vengono conferite, dopo una robusta rivalutazione, le
attività del settore pneumatici. La cosmesi incanta alcuni investitori
«istituzionali», che non tarderanno ad accorgersi di avere concluso un pessimo
affare, vista la discesa del titolo.
La débàcle con la Continental Arranca la Pirelli, ma arranca anche la tedesca Continental. Perché non trasformare due debolezze in una forza da 10.000 miliardi di lire di fatturato che ricollocherebbe il gruppo italiano fra i grandi? | << | < | > | >> |Pagina 213Rinnegare Montesquieu? Sostenevano Montesquieu e Tocqueville, padri spirituali delle moderne democrazie, che la libertà si ottiene con il rispetto della legge, ma è garantita dalla divisione dei poteri dello Stato. Il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario, cui si aggiunsero presto, ancorché impropriamente, la stampa (il cosiddetto quarto potere) e, con l'avvento della società industriale, quello economico. Solo un delicato gioco di contrappesi, fondato sull'indipendenza (almeno formale) di questi poteri, può appunto garantire la libertà di un «sistema politico». Non si tratta di enunciazioni teoriche. Ciò che ha segnato in Italia il biennio 1993-94, il periodo in cui la Prima Repubblica ha tentato di sopravvivere a se stessa in un trasformismo pericoloso per la stessa democrazia, è il conflitto che, cancellando ogni linea di demarcazione, ha contrapposto i diversi poteri, in uno scenario da fine della democrazia ben tratteggiato dallo studioso francese Jean-Marie Guéhenno: «...la battaglia di tutti contro tutti, una conflittualità dove la volontà di potenza di ogni individuo, di ogni polo di potere, non conosce altro limite che non sia la volontà di potenza del vicino. Ogni potere va all'estremo del proprio potere...». È quel che è accaduto. La magistratura, in più d'un caso, cercando la prova dei reati ha fatto uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. Legislativo (Parlamento) ed esecutivo (governo) privi di autorità o, addirittura, di legittimazione; la stampa spesso sottrattasi a ogni forma di deontologia, di rispetto delle persone; l'establishment economico determinato a trarre profitto dalla generale confusione per realizzare i propri, interessati disegni. L'anarchia fra i poteri ha toccato il suo culmine nella brevissima era Berlusconi. Moltissimi si sono chiesti i motivi per i quali il capo del governo, pur democraticamente eletto, è stato così duramente contrastato. Illuminante l'analisi di Marie-Claude Decamps su «Le Monde» (21 dicembre 1994), a commento del discorso alla Camera di Silvio Berlusconi: «Più che un discorso da presidente del Consiglio, l'arringa rivelava una sorta d'investitura medioevale (...) Confondendo la sua carica di primo ministro con quella di capo di partito per trarne una legittimazione assoluta, Berlusconi si appella al popolo, al di sopra del Parlamento e del presidente della Repubblica. Non è la prima volta che Berlusconi si pone al di sopra delle leggi e delle istituzioni. Già dopo il suo interrogatorio da parte dei giudici di Mani pulite che lo sospettavano di corruzione, aveva violentemente attaccato la giustizia...». Nella sua edizione natalizia (24-25 dicembre 1994) l'«Herald Tribune» rincara la dose per spiegare, in un editoriale di Alan Friedman, il prezzo altissimo pagato dall'Italia a causa dell'incapacità di Silvio Berlusconi di rassicurare la finanza internazionale sui suoi progetti: ulteriore svalutazione del 10 per cento per la lira; calo del 25 per cento in Borsa; fuga degli investitori stranieri che hanno ritirato oltre 10 miliardi di dollari; crescita abnorme del «rischio Italia», cosicché i nostri prestiti scontano un tasso d'interesse di sei punti superiore a quello tedesco. L'animosità della grande stampa mondiale marcia di pari passo con quella nazionale: i grandi gruppi economici, quelli che siedono attorno al tavolo di Mediobanca, manifestano attraverso i loro giornali l'insofferenza verso un premier che ha infranto la regola-base di separazione fra economia e politica. Perché il big-business i governi li ha sempre usati, rifiutando tuttavia d'identificarsi in essi. Soprattutto in prima persona. Si tratta di saggezza elementare: ed Enrico Cuccia, a quanto risulta, è stato fra i più tenaci sostenitori della campagna anti-Berlusconi.
Non stupisce che il preannuncio delle dimissioni di Silvio Berlusconi venga
salutato da un ingannevole rialzo della Borsa, mentre la lira sembra
interrompere la sua rovinosa caduta. Ma se Berlusconi ha potuto osare tanto, è
perche la democrazia italiana era già malata. Vittima di una malformazione
genetica che veniva da lontano. Sarà pertanto utile ricapitolare gli accadimenti
essenziali.
Magistratura e politica Le elezioni politiche dell'aprile 1992 hanno frustrato l'ultimo tentativo di restaurazione propugnato dal CAF, l'asse Craxi-Andreotti-Forlani, e la magistratura non trova più ostacoli sulla sua strada. Dopo avere messo sotto accusa le nomenklature locali dei partiti, si arriva alle incriminazioni di Bettino Craxi e Arnaldo Forlani per violazione della legge sul finanziamento ai partiti, e di Giulio Andreotti anche per concorso in associazione mafiosa. Nemmeno gli altri partiti vengono risparmiati, dai vertici del PDS al leader della Lega Umberto Bossi, ai repubblicani di Giorgio La Malfa, ma le loro colpe appaiono quasi veniali rispetto ai peccati mortali di DC-PSI. Scudocrociato e garofano sono allo sbando. Restano però abbarbicati al potere con il governo di Giuliano Amato, un professore di diritto con master in USA, già fidato consigliere di Bettino Craxi. Alla presidenza della Repubblica, scaduto il mandato di Francesco Cossiga che la partitocrazia detesta per le sue «picconate», viene eletto Oscar Luigi Scalfaro, considerato «cattolicissimo», «moderatissimo» e «onestissimo». Il governo Amato cerca di realizzare una restaurazione morbida del consociativismo, abilmente coinvolgendo le sinistre e il sindacato. Il suo capolavoro è l'accordo del 31 luglio con le confederazioni sindacali che prevede la sostanziale abolizione della scala mobile, e il blocco per un anno della contrattazione aziendale. È un provvedimento che chiaramente favorisce gli imprenditori, sebbene i sindacati ottengano in cambio la minimum tax per i lavoratori autonomi. Viene anche deciso il progressivo elevamento dell'età pensionabile da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne. Il gesto è però accompagnato da un'improvvida decisione che desta l'indignazione della finanza internazionale: il prelievo obbligatorio dello 0,6 per mille su tutti i depositi bancari viene considerato una «rapina» che non ha precedenti nelle democrazie. Cosicché le agenzie di rating internazionale Moody's e Standard & Poor declassano l'Italia. Ma il presidente della Repubblica Scalfaro afferma che il paese «non accetta pagelle». La risposta è l'attacco alla lira che a settembre è costretta a uscire dallo SME, il sistema monetario europeo. Il governo Amato però resiste, grazie al sostegno dei vecchi ceti politici e della Confindustria, che ha ottenuto piena assicurazione sulle privatizzazioni delle maggiori aziende pubbliche, e in particolare di Credit, Comit e STET. Enrico Cuccia, tramite il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Maccanico, ha trattato personalmente questo problema con Amato, ottenendo la promessa che verrà adottato il sistema dei «noccioli duri» (cioè pochi azionisti forti) e che si farà il possibile per far gestire le privatizzazioni stesse da Mediobanca. Vecchi politici e imprenditori pretendono tuttavia troppo dal «professore» socialista: vogliono che blocchi la magistratura. Il pool di Mani pulite ha incriminato tra gli altri Giampiero Pesenti, Francesco Paolo Mattioli (numero tre della FIAT), e Giuseppe Garofano, braccio destro di Raul Gardini. Il 6 marzo, con un decreto-legge che depenalizza i reati di finanziamento pubblico dei partiti si tenta il colpo di spugna. Di fronte alla reazione dell'opinione pubblica e di un duro messaggio letto alla TV dal procuratore di Milano, Saverio Borrelli, il presidente Scalfaro rifiuta la controfirma per un ripensamento dell'ultima ora. E per il governo Amato è la fine, sebbene resti in carica sino alla promulgazione dei risultati dei referendum del 18-19 aprile. | << | < | > | >> |Pagina 246Dove va l'Italia? Non una, ma cento volte l'interrogativo è rimbalzato, in queste ultime stagioni, fra le boiseries di via Filodrammatici. Ed Enrico Cuccia ha finito col convincersi che la nave finirà nel Mar dei Sargassi, poiché i vari nocchieri sono riusciti a bloccare ogni reale cambiamento, rimettendo la prua sulla rotta antica del consociativismo.
Le speranze di una Seconda Repubblica degna di questo nome sono cominciate
ad impallidire nel luglio 1995, allorché il PDS guidato da Massimo D'Alema, ex
dirigente del Pci nel quale era entrato in calzoni corti, ha celebrato il suo
Congresso in un'atmosfera surreale. C'erano «tutti», e «tutti» hanno ricevuto la
loro porzione di applausi: Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini inclusi. Gli
osservatori stranieri osservavano allibiti. Quando mai in USA una delegazione di
democratici ha partecipato ai Congressi repubblicani? Quando mai un
socialdemocratico tedesco è andato alle assise democristiane o un conservatore
inglese a quelle laburiste? Gli è che nella nostra Patria, al principio-guida
per cui chi vince comanda e chi perde sta all'opposizione, si preferisce un
consociativismo eterno ed immutabile: quello che i giornalisti, con vocabolo
quasi pornografico, definiranno «inciucio». Così, continuamente, ci si ripropone
di «fissare le regole». Non sono sufficienti quelle della democrazia in politica
e del mercato in economia? Evidentemente no. Assistiamo persino a un incredibile
accordo fra la Juventus degli Agnelli e il Milan di Berlusconi, per «mettere
ordine» nel mondo del calcio trasformatosi da sport a business anche televisivo,
sino all'arrivo di Vittorio Cecchi Gori, presidente della Fiorentina, senatore
del Ppi e proprietario di Telemontecarlo e Videomusic.
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