Copertina
Autore Clara Gallini
Titolo Il ritorno delle croci
Edizionemanifestolibri, Roma, 2009, Esplorazioni , pag. 136, cop.fle., dim. 14,5x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-577-5
LettoreGiovanna Bacci, 2010
Classe religione , storia sociale , storia contemporanea d'Italia
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Indice


Restituzioni                                       7

I fatti di Stroppiana                             21

Poetico intermezzo                                47

La croce sul Campidoglio                          57

Il ritorno trionfante della croce nel Colosseo    83

Prosaici documenti                               109


 

 

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Restituzioni




            "Se fosse una roba che puzza, direi di no. Ma come ci
            sto io, ci può stare anche lui".


            Nel carcere di Turi, Antonio Gramsci avrebbe risposto
            con queste parole alla guardia che avendo ricevuto
            l'ordine di apporre il crocifisso nelle celle si era
            rivolta a lui "un po' impacciata".

            (Testimonianza resa da Ercole Piacentini, in: Gramsci
            l'ho visto così, di Gianni Amico e Giorgio Baratta,
            Rai3 1988).



Rimozioni e restituzioni

In Italia, i luoghi dove si forma il cittadino e si esercita la giustizia sono marcati dalla presenza, per legge obbligatoria, di un simbolo religioso che a molti sembra sia "da sempre lì". La storia che sto per ricostruire è ben diversa. Il crocifisso che vediamo campeggiare sui muri sopra le cattedre delle scuole e dei tribunali, la grande croce che troneggia sul Campidoglio o nel cuore del Colosseo, monumenti rappresentativi della Capitale, non sono "da sempre lì". Al contrario, furono "restituiti" al Regno d'Italia e alla città di Roma perché già erano stati rimossi o era in atto uno scontro politico, in un certo senso comparabile a quello cui stiamo assistendo ancora oggi.

"Restituzione" fu il termine correntemente impiegato tra il 1922 e il 1926 – gli anni della scalata del fascismo al potere – per indicare la natura di un gesto, che implicava l'idea che ci fosse un mal-tolto da far tornare nella piena legittimità. Ministeri emanarono norme di "restituzione", altre ne furono solennemente concelebrate in pubbliche cerimonie officiate da autorità civili e religiose: interventi tutti che furono capaci di rifondare un ordine simbolico per radicarlo sia nei principi obbliganti di una legge sia nel più o meno generalizzato consenso dei soggetti.

Le icone sacre – proprio perché "sacre" sono diventate in virtù di un gesto consacrante – hanno la caratteristica di presentarsi ai nostri occhi come sempre date: è sempre stato così, e non può essere diversamente. E il "per sempre" del loro messaggio può pesare come un macigno, perché sottolinea posizioni, inclusioni ed esclusioni. Eppure il loro statuto non è per sempre valido. Proprio in quanto intendono essere legittimanti, sono esse stesse sottoposte a prove di legittimazione, che ne discutono i fondamenti. E come sono entrate in scena, possono anche uscirne. Oppure, al contrario, uscirne per poi rientrare. Comunque, mai motu proprio: ci sono sempre persone dietro le immagini e le parole che ne definiscono la natura. E certe immagini possono essere imposte per legge.

Guardiamo allora alle "rimozioni", come momenti forti di rottura col passato, e ritroviamo in esse quelle ragioni che si vollero civili. Bersaglio primo delle "restituzioni" normative fu il diffondersi nelle scuole, nei tribunali, persino negli ospedali di una pratica ribellione nei confronti di una presenza considerata indebita per quanto legale: ribellione che non adottò quel linguaggio anticlericale pur presente e diffuso negli anni di cui stiamo parlando. Profonde ragioni etiche, politiche e pedagogiche portavano a disegnare un futuro di autonomia dei soggetti che avesse come pre-condizione la netta separazione di Chiesa e Stato, anche sul piano simbolico, in una società che già a quei tempi veniva segnalata come pluriconfessionale (e comprendente anche i non credenti). È una storia sommersa, di cui ho potuto ricostruire un episodio, fallimentare per diversi aspetti, persin tragico nelle sue conclusioni, ma proprio per questo rivelatore. Forse altre potrebbero riemergere da vecchi casellari giudiziari.

Vari indizi ci fanno ipotizzare che queste "rimozioni" non siano iscrivibili solo nell'effervescenza del primo dopoguerra e nella violenza degli scontri sociali che lo attraversarono. Ospedali e tribunali, ad esempio erano luoghi dove si operarono "restituzioni" normative che alludono a abbandoni non solo più antichi, ma anche avvenute senza tanti clamori e pacificamente tollerate per anni. Anche questa è una pagina di storia che varrebbe la pena di ricostruire, ricercando in archivi locali.

In questo quadro va collocato il senso di altre "restituzioni" di quegli anni che non imposero (o reimposero) norme di legge ma si presentarono, attraverso atti solenni, come gesti riparatori di "rimozioni" risalenti alla bellezza di cinquant'anni addietro. Appena Roma divenne capitale, i suoi siti simbolici per eccellenza, Campidoglio e Colosseo furono nei fatti dissacrati mediante delle "rimozioni" del simbolo cristiano: ma la definizione in termini di "restauro" aveva consentito a tali interventi di non essere interpretati come sacrileghi se non all'interno di qualche circolo strettamente legato alla curia. Una situazione per tanto tempo accettata con insignificanti resistenze, verrà ora denunciata clamorosamente come antica ferita aperta nella "questione romana" e come offesa da riparare.

I modi differenti con cui si realizzarono queste varie "rimozioni" non escludono l'esistenza di comuni bisogni di nuove autonomie dai simboli di un potere contestato. Ma sono anche indice di quanto diversi ne fossero attori e relativi discorsi, più o meno esposti, più o meno politicamente prudenti. Le "restituzioni" degli anni '20 azzereranno proprio queste diversità di origine, assegnando ai due grandi eventi della Capitale la funzione di avallo simbolico di tutta quella serie di atti normativi che andavano imponendo la "restituzione" dei crocifissi nelle scuole, nelle aule giudiziarie e nei luoghi pubblici di tutto il Regno.

Normative o cerimoniali che fossero, le "restituzioni" di quegli anni si iscrivono, in tutta evidenza, nella più grande storia dell'ascesa e del consolidarsi del fascismo come regime, storia che è stata oggetto di ricerche, spesso eccellenti, le quali non solo hanno affrontato anche la complessa tematica dei rapporti politici tra fascismo e chiesa cattolica, ma ci hanno avvicinato al fascismo come grande crogiuolo in cui si elaborarono complesse simbologie del potere. Specie nel linguaggio ufficiale, ma non solo in esso, alla più visibile ostensione di un lessico saturo di richiami alla romanità sottenderebbe la presenza di un lessico cristiano rielaborato in senso fascista: evidente, ad esempio, nel reimpiego di parole come "salvatore", "martire" o "sacrificio". Come interpretare queste ed altre risemantizzazioni? Come segno di una "lunga durata" culturale? O non piuttosto come risultato di una appropriazione, ambiguo esito di un rapporto di forze ancora da decidere? Un fatto è certo: che le nostre "restituzioni" dei crocifissi ci raccontano ancora un'altra storia – fatta non solo di appropriazioni ma anche di strategici e politici riconoscimenti. Strategici ed efficaci.


E oggi?

Vivo la storia come un luogo di confronto. I fatti di ieri mi pongono la semplice domanda: e oggi? Ma dall'oggi si deve sempre partire per riconsegnarli alla memoria.

Una volta "restituito" ai suoi luoghi di spettanza, il simbolo vi è rimasto, irremovibile e indiscusso per più di sessant'anni. Ma nello stesso tempo, altre e segrete "rimozioni" si andavano verificando, che non lasciavano tracce né inquietanti né solenni. Non si trattò allora di luoghi pubblici, ma di spazi privati come le nostre abitazioni domestiche. Profilatesi a partire dagli anni del boom economico, queste "rimozioni" hanno accompagnato i profondi mutamenti della nostra società e del nostro costume, lasciando forse traccia nelle memorie familiari: ma senza alcun pubblico dibattito e senza che nessuno insorgesse contro l'empietà di un gesto lesivo di un'icona simbolo delle nostre radici cristiane.

Si è perduta l'usanza di apporre a capoletto un crocifisso, che sacralizzava i momenti del nascere, del congiungersi e del morire. E nessun architetto marca più, com'era nel passato, i portoni di ingresso delle nostre case con un segno di croce che le difenda dagli assalti del maligno. Altre icone – di origine religiosa o mondana – sono venute ad apporre nei nostri spazi domestici i segni di una nuova privacy borghese, che sembra rifiutare di misurarsi con l'etica sacrificale del Dio-uomo morto in croce.

La mia ipotesi è che, oggi ancor più di ieri, a condizionare la natura della "questione dei crocifissi" non ne sia tanto una eventuale pregnanza di significati religiosi cristiani presenti (da sempre e immutati) nell'icona "di per sé", quanto piuttosto una pregnanza di significati istituzionali e quindi politici presenti nell'icona quando sia apposta in luoghi appunto istituzionali e per questo rinvianti ai grandi temi del potere e della sua gestione. La cornice politica che contorna i dibattiti sulla nostra "questione" non fa altro, a mio avviso, che fornire gli strumenti per una traduzione in discorsi espliciti di quanto sembra – per chi ci "crede" almeno – essere già contenuto dentro il vissuto di una percezione simbolica.

Qualche cenno sullo svolgersi degli eventi. La questione dei crocifissi nelle scuole e nei luoghi pubblici si prospetta nel nostro panorama culturale alla fine di un ciclo che non è più marcato dai segni di una cristianità domestica. Acquisterà vieppiù rilievo, anche in rapporto al crescere degli spazi riconosciuti alla chiesa cattolica come partner politico e all'imbarazzato silenzio di molta parte della sinistra divisa su quelle "questioni dei valori" che sembrerebbero comprendere anche quelli della laicità.

I primi episodi sono collocabili verso la fine degli anni '80, quando, in una scuola di Cuneo dove insegnava, Maria Vittoria Montagnana si ribellò togliendo il crocifisso dalla parete della sua classe. I giornali ne parlarono e Natalia Ginzburg scrisse su "L'Unità" un articolo che oscillava tra il riconoscimento delle buone ragioni della maestra e le perplessità di fronte a un gesto che – a suo avviso – violava un generalizzato sentimento di appartenenza. Consiglio di Stato e Ministero della Pubblica Istruzione immediatamente intervennero per ricondurre alla legge.

Laiche obiezioni, potremmo chiamarle. Gesti di singoli cittadini che subito incappano nei rigori della legge.

"M.M. veniva condannato dal pretore di Cuneo alla pena di lire 400.000 di multa per il reato di cui all'art. 108 d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, perché, designato in occasione delle elezioni politiche del marzo 1994 all'ufficio di scrutatore del seggio elettorale n. 71 presso l'ospedale S. Croce di Cuneo, all'atto dell'insediamento rifiutava di assumere l'ufficio senza giustificato motivo." La Corte di Cassazione respingerà il suo ricorso.

Percorso giudiziario tenace e in salita, è quello della cittadina S.L. che, nella primavera 2002, vede respinta dal Consiglio di Istituto della scuola media "Vittorino da Feltre" di Abano Terme frequentata dai figli un'istanza di rimozione dei simboli religiosi, motivata in base ai principi di laicità dello Stato e di imparzialità dell'istituzione scolastica. Inizia qui il suo percorso, punteggiato da ricorsi sistematicamente respinti – Tar del Veneto, Corte Costituzionale e infine Consiglio di Stato (febbraio 2006).

Non sempre gli attori di queste vicende intendevano fare emergere come pubblica una questione, che poteva essere contenuta entro i limiti delle singole coscienze individuali. Così non è stato almeno in due casi, peraltro diversi quanto alla natura dei protagonisti e dei rispettivi linguaggi.

Attorno alle clamorose insorgenze del giudice Luigi Tosti si stanno coalizzando forze laiche di diverso genere, molto visibili su Internet. Il giudice ha finalmente vinto un round di una battaglia che sta combattendo da sei anni: condannato a sette mesi di reclusione e un anno di interdizione dai pubblici uffici per "interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d'ufficio", in quanto aveva rifiutato di celebrare udienze nelle aule giudiziarie in cui era affisso il crocifisso, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione lo ha assolto "perché il fatto non sussiste". La notizia è stata diffusa con molto rilievo anche se sul giudice, che nel frattempo è stato sospeso per tre anni da funzioni e stipendio, pende ancora un procedimento disciplinare emesso dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Cittadino italiano e presidente di una fantomatica Unione Musulmani Italiani, Adel Smith entra prepotentemente in un dibattito nazionale segnalatore delle derive culturali di un paese in cui trovano sempre meno spazio le espressioni di un libero e meditato dissenso. Scenari comunicativi interrelati, stampa, televisione e Internet daranno spazio all'espressione delle più diverse posizioni. Ma diventeranno anche strumenti capaci di sollecitare tutta una serie di acting-out (fiaccolate, processioni) in cui agglomerati di origine diversa, più o meno effimeri o organizzati da scuole o parrocchie, verranno a coalizzarsi in gruppi di pressione. E Croce/Mezzaluna come radicale antitesi di valori tradurrà su schematici piani argomentativi la presa d'atto dell'inevitabile esistenza di una società multiculturale.

I fatti, in breve, sono questi. All'inizio dell'anno scolastico 2003, nella scuola dei suoi figli (Scuola materna ed elementare statale "Antonio Silveri" di Ofena) Adel Smith "autorizzato dalle maestre [...] ha affisso anche un quadretto riportante un versetto della Sura 112 del Corano, che è stato però rimosso il giorno successivo su disposizione del dirigente scolastico". Fa subito ricorso al Tribunale dell'Aquila, motivando che "il permanere dell'affissione del solo crocifisso costituirebbe lesione delle libertà di religione e di uguaglianza, costituzionalmente tutelati [...]". Con encomiabile celerità, il Tribunale accoglie il ricorso e ingiunge alla scuola di rimuovere il crocifisso. Ma la questione non si è chiusa lì, anche se si è spenta quella grottesca sceneggiata che ha fatto credere a molti di essere i crociati di una novella Lepanto.

Spentasi la fiammata mediatica, davanti ai laici superstiti si va disegnando un panorama opaco, costretto ad affidare le proprie domande a un sistema di deleghe che ne gestisca le risposte. Corti di giustizia dei più diversi ordini e gradi sono diventate il luogo elettivo dove si dibatte una questione attorno alla quale si è prodotto anche un consistente "sapere", col suo specifico linguaggio interno, contesto di riferimenti normativi, delibere, ordinanze. Insomma, un insieme di pratiche e discorsi che riducono a questione giuridica quella stessa questione che peraltro sono proprio i giudici ad essere i primi a riconoscere come questione di ordine culturale. Ministri dell'Istruzione e Commissioni Parlamentari si affretteranno a far propri questi linguaggi, divulgandoli nelle sedi di pertinenza.


Un fatto di antropologia culturale?

"La croce è un fatto di antropologia culturale, il suo profilo è radicato nella sensibilità comune", scriveva Umberto Eco all'epoca di Adel Smith. Forse, è proprio questa l'asserzione che noi antropologi sismo invitati a mettere in discussione.


Cultura. La retorica culturalista è entrata d'imperio proprio nel discorso prodotto da queste istanze, differenziandolo da quel binomio "fede – nazione" cui il fascismo aveva dato legale riconoscimento sulle pubbliche pareti.

Il crocifisso come simbolo della civiltà e della cultura cristiana è il primo argomento "ad essere stato evocato, dopo l'Accordo del 1984, come permanente fondamento dell'attuale normativa che prevede l'affissione del crocifisso nelle aule scolastiche".

Cultura: un termine che da decenni ormai gli antropologi hanno variamente interrogato, indicando la cultura come fonte di istituti, simboli e valori ma anche vedendo in essa quell'insieme mobile e processuale che non è solo condizione ma anche prodotto di continue interazioni di soggetti, la cui "libertà" va riconosciuta come necessità costitutiva dell'essere umano. È questa la concezione di cultura che ha consentito di pensare al mondo in modi diversi da quelli dei razzisti dell'età coloniale, che ritenevano l'uomo determinato dalla appartenenza di razza biologica, e anche diversa dai più moderni "culturalismi", che pensano l'uomo come un essere tutto determinato dalla appartenenza a una cultura esistente al di fuori e al di sopra di lui.

Mi interessano gli espedienti retorici, e in particolare le retoriche della negazione e quella degli slittamenti semantici. È tabù discriminare in nome della razza, ma lo si può fare in nome della cultura: e i simboli religiosi – si dice – stanno nella cultura. Ancora oggi non è più conveniente affermare che il cristianesimo è religione universale e superiore a tutte le altre – lo si è fatto per secoli ma ora ci sono troppe contestazioni in giro per il mondo. Meglio allora attribuire anche la religione cristiana a una cultura cristiana, meglio ancora a quella del nostro paese: in tal modo si prendono più di due piccioni con una fava. Primo: lo stato qualificato di cristiano viene attribuito a ciascuna persona che in detta cultura nasce cresce e muore. Come avveniva un tempo quando per dire "uomo" si diceva "cristiano". Secondo: si occulta il fatto che, proprio nel nostro paese, la religione cristiana è la religione cattolica, con tutta la complessità delle sue espressioni, che comprendono anche modi molto vari di interpretare uno stesso simbolo, e con tutta l'incombenza di una istituzione, che oggi più che mai tende ad essere riconosciuta politicamente proponendosi come istanza "etica" presente nel sociale.

"Ora è evidente che, in Italia, il crocifisso è atto a esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l'origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell'autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana". Quanto leggiamo nella sentenza del Consiglio di Stato ci restituisce appunto come evidenza il risultato degli occultamenti forse più decisivi: quelli che hanno trasformato, per appropriarsene, i risultati di tante lotte di libertà ed eguaglianza: lotte che, se costruirono il cristianesimo ai suoi inizi, per secoli si sono anche sviluppate sia "dentro" che "contro" di esso. Come, in fondo, pensava anche Gramsci, nella sua grande umanità.

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Ma ben altro insulto, in tempi non distanti, era toccato al luogo consacrato dal sangue dei martiri: "Nei giorni tremendi dell'anno 1858, nefasto per Roma", dunque nei giorni della Repubblica Romana, anche il Colosseo "ebbe la sua parte di profanazioni da quegli empi che tentarono di rovesciare giù dal trono il massimo Pontefice" e che invasero la cavea alle grida di: "Abbasso il Papa! Morte al tiranno!!".

L'azione che "imitava la testimonianza del genio maligno di quei secoli primitivi" fu dunque un'azione di dissenso politico che colloca gli attori sullo stesso piano del demonio e dei pagani.

I marcatori fisici della Passione di Cristo non sono ancora profanati. Ma nuova e diversa è la appropriazione del luogo, come civile appartenenza.

Inizia qui il secondo gruppo dei testi che abbiamo individuato nella biblioteca dell'Archivio Capitolino. Questa volta non ci parlano dell'installazione di un simbolo: al contrario, della sua demolizione. Un intervento che però comporta nuovi conferimenti di senso al "monumento" che lo racchiude.

Roma è appena diventata Capitale del Regno. Il Vaticano si è chiuso tra le mura. Ma in una città come questa, spartirsi i siti tra "sacro" e "profano" deve aver comportato non pochi problemi. Sta di fatto che subito si sarebbe creata una Regia Soprintendenza agli scavi delle antichità (diretta da Pietro Rosa) cui si affidò il compito del restauro e della conservazione dei siti indicati appunto come "antichità". Quanto al Colosseo, la sua ridefinizione come monumento – in un certo senso "alla Piranesi" – si sarebbe concretizzata nel progetto di restituire alla piena visibilità le parti più antiche e originali dell'edificio espungendo dall'orizzonte rappresentativo le tracce lasciate da ulteriori interventi, compresi i segni (relativamente recenti) della devozione cristiana.

Di fatto, ogni "monumentalizzazione" ha senso pieno ed efficace solo se trova la propria iscrizione in un quadro istituzionale che valorizzi le appartenenze vuoi nazionali vuoi locali o "etniche". Questo nesso è l'esito di una costruzione simbolica, che è sostanzialmente politica ma che risulta dall'incrocio di diversi vettori, non sempre privo di contrasti sia interni che esterni.

Da tempo, il Colosseo non era solo luogo di predicazioni e penitenze, ma anche monumento da visitare. Erede del Grand Tour, una pratica turistica ormai consolidata e diffusa tra la borghesia, vi convogliava visitatori dall'intera Europa. La scena di una cavea centrata attorno alla grande Croce che vi campeggia in primo piano è ancora restituita da alcuni dagherrotipi di Altobelli risalenti a qualche anno prima degli interventi demolitori di cui stiamo per parlare. Ma i soggetti-attori ripresi nella scena non sono pellegrini in abiti e atteggiamenti penitenziali. In uno scenario deserto, fanno la loro comparsa pochi personaggi in abito borghese. Passeggiano, conversano, leggono – forse una guida? Uno di loro si lascia perfino ritrarre tranquillamente seduto sul basamento della Croce: eppure, per un fedele, quel basamento dovrebbe rappresentare il Calvario!

C'è quasi un passaggio di consegne nella gestione dei significati. Gli archeologi se ne assumono il compito. All'epoca, condividevano un'idea di restauro delle antichità romane come opera di restituzione di un originale liberato da ogni ulteriore storica concrezione. Lo stesso criterio non valeva però, in quegli anni, per gli edifici medievali, che in ogni parte d'Italia potevano essere bellamente ricostruiti o reinventati in tutto e per tutto, alla Violet-Le-Duc. La liberazione di un monumento romano ha dunque tutte le caratteristiche di una scelta significativa e differenziante. Di qui sarebbe passato il nuovo senso dell'antico edificio dell'Anfiteatro Flavio quasi trasformato nell'emblema storico della nuova Capitale. Un senso implicitamente politico, che traspare anche dalla tempestività con cui si iniziarono i nuovi lavori: subito a ridosso del '70 si aprì il cantiere che avrebbe messo in luce l'arena, le cavee delle fiere, i criptoportici. Negli intenti di chi diresse ed eseguì i lavori, togliere le tarde edificazioni della Via Crucis poteva rispondere agli stessi criteri che presiedevano al disboscamento del sito, che venne ripulito delle oltre 400 specie vegetali che si erano propagate tra le sue pietre vetuste.

Gesto laico, di certo: un gesto che riposizionava nel transeunte i segni della religione cristiana e passava alla Roma "pagana" quell'attributo di città Eterna un tempo riservato alla città di Dio. Ma era anche un gesto forte, che non poteva essere sostenuto solo da un progetto tecnico di restauro. Altro restava da decostruire: ed era quel nesso tra sito e martirio che per secoli aveva funzionato come pilastro strutturante del "mito di fondazione" della sacralità del monumento. La critica storica ne avrebbe fornito gli strumenti.

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TESTO N. 1

"La Risaia", 11 dicembre 1920.

O.d.G. Angelo Fietti presentato e approvato al Congresso dei Comuni socialisti della provincia di Novara il 4 dicembre 1920.

Gli amministratori socialisti dei comuni della provincia di Novara, coerenti ai propri principi:

– deliberano che mai, per qualsiasi ragione, gli amministratori socialisti possono esporre emblemi contrastanti alle idee da loro professate;

– e considerato che, secondo le leggi ora vigenti, non è obbligatorio l'insegnamento religioso se non per quegli alunni i cui genitori lo richiedono, e anche per questo caso deve farsi all'infuori dell'orario scolastico, e quindi per logica conseguenza nelle scuole non si dovrebbe più esporre alcun simbolo religioso, anche quale suppellettile scolastica;

– considerato inoltre essere contrario ad una educazione sana e civile l'esporre continuamente allo sguardo del ragazzo, che deve anelare alla vita, il simbolo del dolore e della morte;

– mentre invitano il Gruppo Parlamentare Socialista a proporre l'abrogazione dell'art. 1 dello Statuto;

– deliberano intanto che in tutte le scuole dei Comuni amministrati dai socialisti vengano tolti simultaneamente, in un giorno designato dalla Federazione Provinciale, i crocifissi.

– L'ordine del giorno [...] è approvato dal Congresso.


TESTO N. 2

"La Risaia", 8 genaio 1921.

Circolare inviata dall'assessore alla PI., Angelo Fietti, ai maestri delle scuole elementari di Vercelli, il 3 gennaio 1921.

Ai signori insegnanti delle scuole municipali di Vercelli

La Giunta Municipale della nostra città, nell'affidarmi l'assessorato della Pubblica Istruzione, mi diede pure l'incarico di escogitare i mezzi atti a far rispettare negli allievi il sentimento religioso dei loro genitori, qualunque esso fosse. È allo scopo di ottemperare a questo mandato – che, oltre a seguire l'esempio delle amministrazioni precedenti, le quali abolirono l'insegnamento religioso nelle ore normali di scuola – sentimmo il dovere per completare lo spirito animante la legge, di togliere dalle aule scolastiche qualsiasi simbolo di religione.

Sarebbe ovvio far presente ai signori insegnanti che tutto ciò che viene esposto nella scuola è oggetto di esame e di discussione, quindi l'esposizione del crocifisso potrebbe attrarre l'attenzione del ragazzo e così dargli il diritto di fare delle domande, che possono mettere in imbarazzo l'insegnante, non essendo egli tenuto alla conoscenza del dogma cattolico, ed anche se egli avesse questa conoscenza, durante le lezioni non potrebbe, vietandolo il regolamento per le scuole elementari, dare su questioni religiose alcuna risposta.

Non è quindi vero che, come vanno blaterando i nostri avversari, noi abbiamo voluto togliere il crocifisso dalle aule scolastiche per recar offesa al sentimento religioso di parte dei cittadini, né perché misconosciamo l'opera grandiosa compiuta dal Nazzareno a favore delle classi derelitte e neppure per iconoclasticismo, ma unicamente per quel rispetto che noi abbiamo per tutte indistintamente le credenze religiose.

Né si deve dimenticare che nelle scuole pubbliche ad impartire l'insegnamento non vi sono solo dei maestri cattolici, ma ve ne sono pure di ebrei, di protestanti, di atei e di non curanti di qualsiasi religione, ai quali non si può imporre un simbolo, che sia contrario alle personali credenze dei medesimi.

Unicamente per questo, e per maggiore coerenza di coloro che prima di noi deliberarono con provvedimento radicale l'abolizione dell'insegnamento religioso per rendere la scuola libera, abbiamo sentito il dovere di togliere il crocefisso dalle aule scolastiche.

D'altronde la scuola deve essere al di sopra di tutte le competizioni religiose e politiche. Nelle scuole non vogliamo né la falce e martello, né lo scudo crociato, non Maometto, non Cristo, né Giordano Bruno. La scuola è di tutti e tutti in essa devono vedere rispettate le proprie credenze.

L'atto di pura formalità che noi abbiamo ordinato, dopo che nelle scuole municipali l'insegnamento religioso obbligatorio da una amministrazione liberale è stato abolito, non credo debba urtare la suscettibilità dei signori insegnanti, i quali per legge nella scuola devono impartire insegnamenti esclusivamente istruttivi ed educativi astrazion fatta da ogni dogma religioso.

Vercelli, 3 gennaio 1921

L'Assessore per la PI. F. A. Fietti

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