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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione Per un'etnografia minimalista 7 Cyberspiders. Un'etnologa nella rete 17 Immagini da cerimonia. Album e videocassette da matrimonio 69 Ostensioni televisive 91 Icone autentiche e firmate. Bernadette e l'Immacolata 103 Il corpo invisibile dell'interprete 121 Impossibili telefonici congiungimenti 135 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Una raccolta di saggi è sempre un ibrido bisognoso di coerenza. Ma questo suo irrisolto oscillare tra frammentazione e unità - come dato di fatto, la prima, come aspirazione, la seconda - può essere anche assunto in senso positivo, come una dialettica tra modalità distinte di accostarsi al reale. Da un lato, una etnografia di casi singoli e minuti, piccole porzioni di mondi che per uscire dall'opacità e rendersi intelligibili richiedono la messa in atto, e forse l'invenzione, di strumentari simili a quelli, miniaturizzati e non invasivi, che governano i movimenti di un laser. Minimalista definirei questo tipo di etnografia, caratterizzato per il rivalutare quella dimensione del «concreto», che è insita in ogni modalità espressiva delle persone all'interno di ciascun momento del loro relazionarsi, assieme pratico e simbolico, con altre persone e con le cose. Per questo non è né paradossale né contraddittorio ritenere che proprio un approccio minimalista metta in questione quegli stessi criteri distintivi tra grande e piccolo che gli approcci di altre scienze sociali, a partire dalla statistica, definiscono in termini di scala. Anzi, verrebbe da dire che quella minimalista è una dimensione da cui nessuna etnografia può prescindere. Esercitarsi nel minimalismo può anche essere interpretato come il segnale dei profondi disorientamenti sofferti da chi si trovi oggi a navigare tra i frammenti di una galassia esplosa in mille direzioni sconosciute. Oppure (il che non smentirebbe la prima interpretazione) come il corollario della crisi di quei paradigmi «forti» che, dopo essersi succeduti l'un l'altro per oltre un secolo, ora sembrano flettersi di fronte alla vastità e alla varietà di forme di un reale sempre più incontenibile in un modello unitario. Oppure come il segnale di una crisi salutare, da cui comunque emerga la consapevolezza che ogni interrogazione antropologica definisce il proprio oggetto nel corso stesso del suo interrogarsi rispetto all'oggetto e rispetto a se stessa. Tra questi diversi «oppure» qualsiasi presa di posizione radicale da parte di chi scrive è quantomeno prematura, dal momento che il vaglio imprescindibile è rappresentato dal passaggio attraverso la lettura critica di chi leggerà il libro. Lo studio di singoli casi presenta il grande vantaggio di attenersi, come si diceva, al concreto delle situazioni, ma corre anche il rischio di lasciare i diversi casi irrelati, dunque privi di quella parte di significato che appunto dalla relazione si può trarre. Penso alla singolarità di una ricerca come a un viaggio destinato a rimanere «nella propria stanza» se non ci si muovesse anche verso l'apertura di una o più finestre, che consentano di affacciarsi su panorami diversi e più vasti. E penso alla relazione tra le ricerche come all'apertura di diverse finestre che affaccino su panorami in apparenza diversi ma in realtà guardati da punti di vista diversi. La metafora presenta comunque dei limiti, dal momento che ogni casa è dentro il paesaggio e il paesaggio dentro ogni casa, rispecchiato e trasformato in ogni gesto e ogni parola dei suoi abitanti. In termini molto generali e approssimativi, potremmo dire che il panorama in cui insistono i diversi casi selezionati per la presente raccolta è quello della comunicazione simbolica, una comunicazione intesa nella sua duplice dimensione pratica e rappresentativa. Dentro questo panorama stanno situazioni diverse, e dentro ciascuna di esse stanno i soggetti, coi loro gesti, le loro parole, i loro corpi. Possono stare i mezzi: un telefono, una macchina fotografica o una telecamera, un computer collegato a Internet... Stanno sopratutto le relazioni tra gli uni e gli altri, persone e media, in combinazioni e con esiti molto variabili, ma anche comparabili per differenza o per affinità. Sarà il nostro sguardo, appuntato alla lettura di casi minuti, a ritrovare in ciascuno di essi una varietà di spunti che disegnino possibili percorsi interpretativi, ora rispettivamente autonomi, ora paralleli o intrecciati, all'interno di quel più vasto panorama, che rimane ancora indecifrato nella sua eventuale esistenza coerente e sistematica. | << | < | > | >> |Pagina 17IRRETIMENTI Al centro della rete, il ragno tesse la sua tela trasparente, delimitata entro confini ben definiti sui quali lui solo esercita il controllo. Alcune mosche, improvvide, ci si infilano e lui le immobilizza pian piano avvolgendole tra spire mortali. Poi se le succhia. L'idea che una rete possa essere una trappola è estranea alla pacificante metafora informatica, che rappresenta il net come mobile inter-nessione di punti e di linee riannodantisi e disfacentisi di continuo, lungo spazi infiniti, privi di centro e di confini. Se è vero che ogni metafora è buona per pensare attraverso il confronto delle diverse realtà di cui ciascuna di essa è l'immagine, ci chiederemo se mai possa esistere qualche cyberspider capace di tradurre l'una forma di rete nell'altra, mettendo a frutto le compatibilità dei rispettivi costrutti. Una di queste vorrei suggerire. Cominciamo a pensare al virtuale non tanto come una realtà a se stante (così esso tende ad autorappresentarsi) ma come al piano di interazioni finzionali che si realizzano attraverso quel mascheramento dei soggetti, che è caratteristica intrinseca a ogni forma di comunicazione. Veniamo dunque all'occasione che ha dato origine a una mia temeraria e improvvida incursione in un terreno sino ad allora mai praticato. A partire dall'ottobre del 2002 ho cominciato a ricevere - non tanto al mio indirizzo personale quanto a quello dell'Università e della Associazione Ernesto de Martino - alcune e/mail dal genere per me sino ad allora sconosciuto. Redatte da sedicenti africani, sempre di alto livello sociale ed economico (dirigenti d'impresa, di banche, di ministeri, vedove, figli, congiunti o avvocati di grandi capi politici o militari), stilate in un inglese talvolta corretto talvolta plausibile talora anche sgrammaticato, mi offrivano di entrare in un affare strettamente basato sulla reciproca segretezza e fiducia personale e caratterizzato dalla rapidità e sicurezza della transazione: c'era un mucchio favoloso di denaro - venti, trenta milioni di dollari Usa - immobilizzato in un qualche deposito bancario o assicurativo e che, a causa di svariati impedimenti legislativi, solo uno straniero poteva svincolare. Quello straniero ero io. Bastava che acconsentissi a trasferire il malloppo sul mio conto corrente, trattenendomi il 25%, 30%, per il disturbo, e rinviassi il resto ai miei confidenti partner. Lettere-trappola, dunque, il cui mittente inviava la proposta di ingresso in un gioco, che il destinatario poteva accettare o rifiutare. Nessun indizio, in esse, di come, alla fine, la trappola potesse scattare trasformando l'incauto corrispondente in mosca da avvolgersi in più o meno lenti viluppi. Di fatto, neppure sappiamo se siano tutti africani gli autori che stanno in agguato dietro queste mail, o se per caso il mittente non possa essere anche il nostro vicino del piano di sopra. Ma la questione concerne anzitutto l'immagine che dell'Africa e dello straniero queste lettere ci restituiscono, come redazione moderna e telematica di quella biunivoca coppia di opposizioni (complementari ma gerarchiche) le cui variazioni si sono snodate nel corso plurisecolare del colonialismo e di quanto ad esso è succeduto. Di qui, l'interesse antropologico che hanno ridestato in me, al loro primo apparire, queste lettere, che sembravano segnalare la presenza di nuovi e diversi modi di rappresentare l'Africa e, per suo tramite, lo straniero. A prima vista, queste lettere apparivano patacche evidenti, la cui struttura fondamentale mi ricordava da vicino altre sceneggiate, di cui, a suo tempo, in Italia, erano state vittime persone spesso anziane, comunque nel pieno del loro vigore intellettuale, come fu anche il caso della grande filologa Maria Corti. Ne ho sentito vari racconti, dalle stesse vittime, altri li ho appresi dai resoconti della cronaca nera. In ogni caso, si trattava di una sorta di teatro di strada, giocato da almeno due attori oltre alla vittima. Il copione comportava molte varianti, basate comunque tutte sulla messa in scena di uno stato di emergenza e di necessità di danaro liquido. La situazione poteva essere risolta solo grazie all'intervento, tempestivo e salvifico, della vittima predestinata, ma anche a suo vantaggio, dal momento che dopo la consegna del denaro il benefattore (o la benefattrice) avrebbe potuto avere in restituzione il denaro stesso, ma maggiorato, oppure gioielli ecc. Il compenso poteva anche essere del tutto simbolico: liberare un'anima purgante, salvare un malato bisognoso di un intervento urgente, ecc. Per chi cercasse di interpretare psicologicamente questo tipo di episodi ha sempre fatto problema il contraddittorio divario tra l'assurdità della proposta e il fiducioso abbandono di una vittima, peraltro conosciuta come persona di tutta avvedutezza, anche nei confronti del proprio denaro. E si è spesso ricorsi all'ipotesi dell'ipnosi per dar ragione di questo effetto di soggiogamento. L'ipotesi - che mi ha sempre trovato dubbiosa - non è certo applicabile alle cyber-truffe di cui stiamo cominciando ad occuparci, dal momento che l'induzione di ipnosi è una vera e propria tecnica esercitata attraverso un diretto contatto tra due persone, mentre la natura puramente virtuale delle nostre lettere prescinde da queste condizioni. È piuttosto un contatto fantasmatico quello che si viene a stabilire - semmai si stabilisce - tra due attori invisibili, fino all'eventuale esito catastrofico. L'induzione del soggiogamento via e/mail dovrebbe dunque operare secondo tecniche e strategie di ordine diverso da quelle dell'ipnosi. Semmai, si sarebbe trattato di capire attraverso quali procedimenti si possa attivare uno scambio di messaggi virtuali che abbia per effetto una azione pratica di una certa consistenza economica. Redatto nella forma di una lettera urgente e strettamente personalizzata, il contenuto dei testi che mi stavano pervenendo poteva, grosso modo, essere diviso in due parti: 1. una narrazione nel cui corso il mittente presentava se stesso e le proprie credenziali per informare circa l'origine e la localizzazione del denaro e le ragioni per cui il ritiro del suddetto denaro poteva essere effettuato esclusivamente da uno straniero, 2. una proposta di entrare nell'affare ritirando l'intera somma per poi restituirne il 70-75% ai proponenti riservandosene il 30-25% come compenso per il disturbo e segno di riconoscenza. I temi della rapidità e facilità della transazione nonché della fiducia reciproca necessaria per condurla a buon termine attraversano diagonalmente l'intera stesura di queste missive caratterizzandone la sottintesa retorica: attenzione, questa può essere l'occasione della tua vita! | << | < | > | >> |Pagina 66CONCLUSIONI?Non ce n'è da tirare. L'etnografia su Internet ci ha condotti fino a un certo punto. Chi sia S.K., se sia uno o trino, dove sia - se alle Maldive, a Londra, a Washington o magari al piano di sopra di casa mia - resta sempre un mistero, eventualmente da indagare ricorrendo ad altri strumenti. Varrebbe la pena di provarsi. Ma se continuaste a navigare in rete - sempre tenendo ben saldo il vostro timone - potreste anche imbattervi nell'ultima mail che vi suggeriamo qui in calce, come morale della favola: Dear Sir/Madam I am the widow of the late president George W. Bush of the United States of America. I am writing you this letter in confidence regarding my current circumstances. I escaped the United States ahead of death squads with my husband and two children Jenna and Frank, moving first to England and then, when my husband's political ennemies took power there, to Austria. All of our wealth, obtained legitimately through baseball, oil drilling and insider trading, was seized by the new governement of the Usa under the despotic regime of (dr.) Noam Chomsky, except for the contents of a few swiss bank Account, which contain social security lock-box funds and the bulk of the 2002 budjet surplus, could not be accessed by me or my children, due to agreements of the Usa and swiss bank regulators. They seized our ranch in Crawford, Texas, and now use it to teach homosexual propaganda to schoolchildren Forse anche gli anonimi estensori di questa mail parodistica hanno avuto l'intuizione che il mondo dello scan sia assieme una metafora e una speranza. | << | < | > | >> |Pagina 69FOTOGRAFARSI E FILMARSI Da qualche anno, l'abitudine di fotografarsi o filmarsi (in super/8, in elettronico) si è diffusa in misura tanto vistosa, da far parte ormai, senza dubbio, di quegli usi e costumi sociali che di solito sono indicati - anche se in modo inadeguato - come «di massa». Raccolte di immagini più o meno organizzate in album personali o di famiglia fan parte, per molti di noi, di una storia individuale, che si sciorina sotto gli occhi dell'altro come strumento di reciproca conoscenza e amicizia. Filmini che illustrano i progressi deambulatori dell'infante o le avventure di una vacanza tra Rimini e le Maldive punteggiano la vita di ciascuno di noi, contribuendo a definirne l'identità. Ritratti di ogni genere - di vivi o di morti, presenti o assenti - fan bella mostra di sé sui ripiani dei cassettoni, per essere quotidianamente curati da mani di donna che tolgono nello stesso tempo la polvere materiale e quella della memoria... . Davanti a statue delle Vergini o dei Santi taumaturghi, ex-voto imili a strisce di fotoromanzo illustrano la ricostruzione di un incidente di macchina, di un intervento chirurgico, mentre a decine si accumulano i ritratti «ufficiali», formato tessera, di quegli stessi offerenti il cui ritratto farà la comparsa - presto o tardi, comunque inevitabilmente - sulla penultima pagina di un giornale di provincia, a fianco di un annuncio di morte... per finire poi, tradotto in smalto lucente, tra le due braccia di una croce cimiteriale... E ancora, ritratti di familiari che, sollevandoli ben in alto in direzione dell'altare, si espongono collettivamente agli influssi della benedizione speciale di un vescovo-esorcista. Ma anche ritratti segretamente sottratti al proprietario, perché il mago - veggente, medium, guaritore, ecc. - li «lavori» per il bene o per il male... Insomma, riprendere ed essere ripresi, costruire immagini, montarle e smontarle sembrano essere diventati pratiche comunicative che marcano i più diversi aspetti del nostro ciclo della vita individuale e sociale: pratiche da analizzarsi non solo rispetto alla loro traduzione finale in immagini, ma anche e soprattutto rispetto ai modi attraverso i quali i soggetti sono arrivati a produrle, rispondendo a ruoli e circostanze e utilizzando strumenti dotati di caratteristiche e significati propri. | << | < | > | >> |Pagina 79CULTURA DI MASSA E DISTINZIONIA questo punto, sarà necessario introdurre qualche osservazione di ordine più generale e anche qualche precisazione a proposito di un insieme di pratiche simboliche la cui appartenenza a una cosiddetta «cultura di massa» non esclude affatto 1'esistenza, al loro interno, di una considerevole proliferazione di procedure di ordine distintivo. Anzi, piuttosto le sollecita e favorisce (BOURDIEU 1979). Chi di noi - per noi intendo: lettori che si pongano dallo stesso punto di vista di chi prende una distanza - non ha sfogliato almeno una volta un album o assistito a una proiezione di una videocassetta da matrimonio, senza provare la sensazione del più totale distacco culturale, pur avendo la piena coscienza di trovarsi davanti a un prodotto di una buona fattura tecnica? Mi è perfino capitato di assistere a discussioni tra fidanzati di una piccola borghesia impiegatizia, nelle quali lui esprimeva tutte le sue proteste, altrettanto violente quanto inefficaci, nei confronti di un oggetto che riteneva inutile, ma la cui bellezza e utilità sociale erano rivendicate dalla fidanzata, alleata su questo punto coi familiari. Il rigetto culturale si fonda in genere su un duplice ordine di argomenti: il costo elevato del prodotto e la stereotipia di immagini che, per il loro convenzionalismo e il loro «falso romanticismo», soffocherebbero 1'espressione di veri sentimenti d'amore, rivelandosi prodromi di una vita di coppia senza orizzonti al di fuori di quelli delle mura domestiche. Al contrario, questi album e videocassette non vengono affatto considerati dai loro utenti come qualcosa di orribile e di glaciale. Sono anzi così importanti che il loro alto costo è considerato una parte essenziale delle pratiche simboliche che ruotano attorno al rito nuziale vero e proprio. Elementi di una nuova cultura non elitaria, non dovremo cercare di comprenderne il significato ancor prima di giudicarli sul metro di valori diversi? È un fenomeno generale della cultura l'esistenza di uno scarto tra un sistema simbolico, come modello astratto di riferimenti, e la realtà attuale dei singoli comportamenti. Ma i modi con cui l'uno si riferisce all'altra sono molto variabili e dipendono anch'essi dai più generali condizionamenti culturali. Proprio il momento del matrimonio è venuto ad assumere un carattere di sempre maggiore visibilità, che lo ha reso occasione centrale per tutta una escalation nella ricerca delle modalità di resa spettacolare della cerimonia attraverso varie espressioni di uno «stile» proprio e distintivo: scelta della chiesa, del suo addobbo, delle musiche, scelta degli abiti e dei mezzi di trasporto (dalla fuoriserie bianca al cocchio dorato, modello nozze dei reali d'Inghilterra), del ristorante e del menu, ecc. Dietro la «personalizzazione» delle modalità stilistiche scelte per la propria rappresentazione c'è anche questo: uno sforzo di costruzione di una coerenza stilistica tra tutti i più piccoli particolari del proprio, personalissimo rito-spettacolo, che si sa unico e si vuole unico. Ma ci saranno sempre anche coppie che decideranno di sposarsi senza apparati, nella piena solitudine di un eremo. Vediamo allora come si produce, nel nostro caso, la distinzione. Nella generalità dei casi che stiamo considerando, abbiamo a che fare con un'articolazione molto complessa tra un ipotetico modello generale («chiunque si sposi si deve far fotografare») e traduzione di questo modello in un tratto di stile distintivo. In altri termini: esiste un forte scarto tra standardizzazione e personalizzazione. Rare eccezioni a parte, tutti i matrimoni sono ormai segnati dalla presenza di fotografi o di operatori, sia dilettanti che professionisti: ma la prima, e fondamentale, distinzione che si instaura all'interno di questa pratica è appunto quella che caratterizza le persone che decidono di rappresentare le loro nozze seguendo modalità apparentemente meno formali e coloro che decidono di intraprendere la strada, più formalizzata ma anche più standardizzata, che abbiamo cominciato a delineare. La prima scelta sembrerebbe marcare il gusto di ambienti borghesi e intellettuali, la seconda è popolare, nel senso moderno di questo termine, ormai riferibile alla divulgazione di orientamenti e valori connessi alla cosiddetta cultura di massa: una attività culturale, comunque, che da un lato sembra flettersi ai poteri forti dei mass-media (con le relative tecnologie e i relativi significati simbolici), dall'altro si dimostra capace di produrre e riprodurre all'interno del sistema una ricchissima serie di variazioni significanti. Se si considerano questi album e videocassette «popolari», possiamo dunque cominciare a leggerli come marcatori di appartenenze «distintive», dotate di un linguaggio relativamente specifico e capaci anche di definirsi in termini contrastivi rispetto all'universo simbolico di coloro che, al contrario, tendono ad autorappresentarsi seguendo modalità «alte» e ad esprimersi in termini di manifesta polemica o di divertito disprezzo nei confronti di coloro che seguirebbero una moda «bassa». | << | < | > | >> |Pagina 91ETNOGRAFIA DI UNA SANTIFICAZIONE TELEVISIVA La calura dissocia le menti e rende faticoso concentrarsi su un unico evento. Entrata in ritardo nella celebrazione televisiva di quella mattina di domenica, in cui si celebra la santificazione di Padre Pio (è il 16 giugno 2002), non ho le forze di compiere quei gesti che costituiscono il doveroso preludio di ogni etnografia televisiva: mettere una videocassetta per la registrazione e prendere anche taccuino e matita per appuntare le prime osservazioni. Quanto mi accingo a scrivere saranno dunque annotazioni sparse, frammentate, appena un inizio per cominciare a riflettere sui modi con cui si dovrebbe osservare la produzione di quanto chiamerei «sacro televisivo»: un piano in cui si incontrano antiche pratiche liturgiche e moderne forme di comunicazione mediatica, dando luogo a esiti ibridi, di reciproco compromesso ma anche - e forse ancora di più - di reciproco rafforzamento. Di questa spirale poco si parla, e anche per questo può valer la pena di cominciare a guardarne il funzionamento in un singolo caso, prima di addentrarsi in qualsiasi prematura generalizzazione sulle reciproche responsabilità nella produzione di quanto ormai usa chiamare «rinascita del sacro». Va anche premesso che di questa co-produzione noi vediamo solo l'esito finale, cioè quanto viene rappresentato sullo schermo. Ma una corretta pratica etnografica dovrebbe indirizzarsi al disvelamento e all'analisi delle complesse strategie al cui interno si muovono i rapporti tra attori visibili e attori invisibili, che fanno muovere la grande macchina di quanto viene dato a vedere. Non ho ragione di dubitare circa l'enorme difficoltà che si parerebbe davanti a ciascuno di noi se ci presentassimo alla Rai o al Vaticano chiedendo di fare osservazione etnografica: certi ambienti sono a priori in disponibili. Possiamo, al contrario, mettere in atto delle forme di lettura di quanto ci è dato da vedere, per scoprirne sia le logiche simboliche palesi sia le strategie seguite dai possibili attori sociali, ancorché invisibili, nell'utilizzo di un determinato mezzo di produzione e riproduzione di immagini. Hans Belting ha adottato un procedimento simile nella sua analisi di statue in pietra, dipinti e fotografie. Ritengo stia indicando una strada utilmente percorribile (BELTING 2001). Come si è trasformato il linguaggio della liturgia in quello della televisione? Potrebbe essere una prima domanda, che però a mio avviso dovrebbe essere riformulata nel modo seguente: in che modo, attraverso quali procedure, i due diversi linguaggi si trovano ad incontrare, per condividere intenti e modalità espressive produttrici di effetti di «sacralizzazione»? Nel nostro caso un evidente, percepibile unisono di pratiche e di intenti informava quella diretta televisiva e rinviava a profonde concordanze non solo tra i tecnici - cameramen, fonici, elettricisti ecc. - i registi e gli autori dei testi, ma anche i funzionari Rai e i prelati del Vaticano. Unisono e controllo della scena: entrate e uscite in perfetta sincronia, impeccabili passaggi da persone in carne ed ossa ad icone venerabili ma dipinte concorrevano a confondere la terra col cielo, il reale col virtuale, per produrre una forma di «sublime» che ad un occhio disincantato potrà anche apparire kitsch, se non addirittura pericolosa, ma di cui va comunque compreso il grado di efficacia. Per la nostra analisi sceglierò alcune linee di concordanza-intersezione-traduzione che nel corso dell'osservazione televisiva mi sono sembrate le più evidenti. | << | < | > | >> |Pagina 95CORPI SANTIStorie di corpi, materie di corpi che danno o ricevono la grazia, miracoli e reliquie hanno ritrovato nel cattolicesimo woityliano spazi di riconoscimento che si erano di molto ridotti nel corso della seconda metà del Novecento. Come questo complesso dispositivo simbolico ha potuto trovare la sua traduzione nel linguaggio televisivo? Cominciamo dalla teca contenente una reliquia di Padre Pio: la sua immagine è stata ripresa in primo piano, per decine di volte nel corso della trasmissione, a ribadire la presenza del Santo tra gli uomini e sopra di loro. L'iterazione di questa immagine si accorda dunque alla stessa logica costruttiva di un più generale piano metastorico che essa contribuisce a costruire, trasformando in icona sacra l'immagine storica di una persona. Andrebbe meglio verificato quali momenti, liturgici ed extraliturgici, essa venga a sottolineare e se in particolare si associ alle scene rappresentative del miracolo, che comunque essa ribadisce. Diverso trattamento viene riservato alle due persone che la Chiesa ha definito miracolate da Padre Pio. Un ruolo relativamente secondario, di testimone, viene attribuito alla donna che ha ricevuto il primo miracolo, necessario per il processo di beatificazione: essa fa il suo ingresso scenico alla fine dell'intera cerimonia, che si chiude con una sfilata di personaggi illustri della politica e della cultura (purtroppo non ne ho trascritto l'elenco!) i quali prendono commiato dal Papa, inchinandosi ed eventualmente baciandogli l'anello. Protagonista della scena del miracolo è invece il bambino, e a ragione: il riconoscimento del suo miracolo ha reso possibile il passaggio di Padre Pio dal livello di beato a quello di santo. Che questa giovane creatura sia il figlio di un medico dell'Ospedale di San Giovanni Rotondo voluto da Padre Pio e a lui intitolato, è questione che dà molto da riflettere circa le possibili strategie messe in atto ai fini della costruzione di un miracolo. Ma questo è altro discorso, di cui sulla scena vediamo solo i risultati. | << | < | > | >> |Pagina 98La linea prescelta, tra le tante possibili all'interno dello stesso cattolicesimo, punta su un ambito quantomeno inquietante. Alla proclamazione di un santo - atto pubblico e come tale politico - la chiesa perviene dopo che un proprio giurì interno ha riconosciuto che una data persona non solo ha praticato una vita impeccabile, ma anche ha compiuto almeno un miracolo, che nella sostanza risulta essere quasi sempre un miracolo guarigione. Dietro l'immagine del nuovo Santo del giorno che campeggia sulla scena delle grandi piazze del mondo - Roma, Città del Messico, San Giovanni Rotondo... - stanno dunque anche questi due concetti di base: che i miracoli esistono, come realtà e come promessa, e che è la Chiesa a gestirne il rapporto con gli uomini.Politica del miracolo e relativa spettacolanzzazione mediatica caratterizzano gli anni del presente pontificato in modi e misure che richiedono riflessione. Niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire. Ma non è esattamente così. Il dispositivo è relativamente recente e la sua irresistibile ascesa è sotto gli occhi di ciascuno di noi. Ci furono anni in cui il potere democristiano era stato capace di intervenire a tutti i livelli della produzione televisiva, fino a quello dell'uso di semplici parole, come «gambe del tavolo» che venivano censurate. Eppure a quei tempi santi e miracoli non godevano di quella enorme visibilità che è loro concessa oggi. Era vero piuttosto il contrario, e nel complesso la Chiesa si dimostrava molto prudente nel compiere quegli atti pubblici di «proclamazione» di un miracolo che non trovavano più un credito generalizzato anche perché sembravano incongrui allo spirito della modernità. Come comprendere, come interpretare i mutamenti dell'oggi? È sufficiente la lettura che attribuisce al disfacimento di un partito (la Dc) la fine di una mediazione tra Vaticano e società civile e la conseguente attivazione di una presenza diretta della Chiesa cattolica sulla scena politica e mediatica? Ma quanto di culturale resta fuori da questa pur condivisibile ipotesi politica? Perché il ritorno in grande delle gerarchie cattoliche si rappresenta proprio in termini di santi e di miracoli? Perché, a differenza dei tempi in cui regnava la Dc, questo tipo di rappresentazione non viene più percepito come inattuale, anzi, al contrario, come consono a quello dei tempi in cui viviamo? Parliamo allora di New Age, intendendola come una forma di cultura che si rappresenta come new trend del postmoderno. Questa invasione di extraterrestri copre ormai l'intero pianeta, declinandosi però in modi adattabili ai diversi contesti nazionali. L'Italia cattolica ha di certo una sua particolarità, che ne rende specifica la variante. Sotto l'etichetta New Age possiamo mettere un po' di tutto, purchè il relativo linguaggio alluda all'esistenza di piani della realtà caratterizzati dal «mistero», cioè dall'inconoscibile secondo i normali percorsi della ragione. Attingere questi piani comporterebbe la riconversione della persona, nelle diverse componenti psico-fisiche che la costituiscono. Definizioni così generalistiche sono di certo utili per intenderci, in primissima approssimazione circa il territorio di cui stiamo parlando, anche perché questo territorio ci viene costruito, ribadito, rappresentato su tutti gli schermi come unitario nella pur sua grande articolazione interna: se andate nelle grandi librerie di una qualsiasi metropoli europea o americana, troverete sempre lo scaffale New Age, imponente, identico a se stesso, ricchissimo di testi che vanno da Antinea almeno fino a Ufologia passando attraverso antroposofia, astrologia, cartomanzia, occultismo, piramidi egizie, psicografia, spiritismo, ecc.ecc. per congiungersi poi, secondo evidenti affinità, a un altro immane settore: quello delle Medicine alternative. Logiche analoghe relazionano tra loro gli argomenti di contenitori televisivi, che sotto il titolo di «misteri», «miracoli», o quant'altri mai affastellano pranoterapeuti e druidi, dinosauri e veggenti, predicazioni di Sai Bhaba e profumi di santi guaritori, ecc.ecc. Di fronte a queste galassie rese coerenti da parole così perentorie e seduttive, colpisce peraltro l'estrema varietà degli oggetti, degli argomenti che si aprono al brivido dell'occulto e delle stesse tecniche e quindi delle scuole attivate per il suo possibile raggiungimento. E con questa galassia che in Italia anche la Chiesa cattolica - così almeno mi sembra - si sta misurando per un recupero di egemonia, che passa anche attraverso il patteggiamento di discorsi. Ma, se di frammenti di discorso si tratta, che cosa si è frammentato? E se nuove galassie si sono ridisegnate o si vanno ridisegnando, chi ne sono gli architetti? Quali, infine, le poste in gioco?
Diverse interpretazioni cominciano a delinearsi,
anche opposte tra loro. Si può denunciare la «crisi» di una ragione, intesa come
lume eclissato e fonte di oscurantismi - posizioni tacciabili di veteromarxismo,
ma che conservano pure una parte di verità. Oppure, si può individuare nell'idea
di ragione la presenza di un paradigma in crisi e bisognoso di decostruzione -
posizioni tutte rispettabilissime e che si richiamano a grandi filosofi del
postmoderno, se non fosse che proprio da questi frantumi ha anche attinto la
grande marea della vulgata discorsiva caratteristica di
New Age.
Ancora (ed è la posizione che mi è più congeniale), si può guardare più da
vicino alla condizione dei soggetti, al loro inquieto ripiegamento su se stessi,
il proprio corpo, il proprio desiderio, autoreferenziali proprio nel momento in
cui si rappresentano come frattali, microcosmi di macrocosmi attraversati da
campi di forze occulte...
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