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| << | < | > | >> |IndiceI. Il mercato: istituzione di stato 3 1. La costruzione sociale del mercato, p. 3 2. Il mercato come sistema informativo e regolatore sociale, p. 8 3. Il fattore tecnologia. Dal mercato-luogo al ciber-mercato, p. 12 4. Mercato e mercati. Globalizzazione e localizzazione, p. 21 5. Stato, sovranità e mercato, p. 28 6. Mercato del lavoro e stratificazione sociale, p. 33 7. Globalizzazione dei gruppi di riferimento e migrazioni, p. 45 Note, p. 48 Bibliografia essenziale, p. 49 II. La stratificazione delle disuguaglianze nel mondo globalizzato 51 1. La stratificazione sociale, sistema di disuguaglianze, p. 51 2. Come si misura la stratificazione, p. 54 3. Perché le società sono formate da strati disuguali?, p. 63 4. Nel mondo globalizzato le disuguaglianze crescono, p. 67 5. Il ricambio degli individui che formano i diversi strati. La mobilità sociale, p. 76 6. Stratificazione sociale, marginalità ed esclusione, p. 85 7. Rappresentazioni collettive della stratificazione, p. 90 Note, p. 94 Bibliografia essenziale, p. 95 III.Globalizzazione, occupazione, sviluppo: dagli effetti perversi alla «governance»? 97 1. Le credenziali della globalizzazione: una verifica, p. 97 2. Le proposte dell'ONU per governare la globalizzazione, p. 106 3. Alcuni obiettivi per una «global governance» efficace, p. 108 4. Iniziative dal basso per una globalizzazione dal volto umano, p. 126 Note, p. 128 Bibliografia essenziale, p. 130 |
| << | < | > | >> |Pagina 214. Mercato e mercati. Globalizzazione e localizzazioneIl mercato, che da un punto di vista analitico è una istituzione che attraversa tutti i sotto-sistemi sociali e tutti gli individui che ne fanno parte, in concreto si presenta come uno spazio sociale di rapporti di scambio che varia essenzialmente lungo quattro dimensioni: a) la quantità di individui che vi sono coinvolti, b) l'ampiezza del territorio da questi occupato, c) la quantità di merci scambiata, d) la tipologia delle merci. Tale spazio è dunque atto a essere rappresentato da quattro vettori ortogonali: più è lungo ciascun vettore, maggiore è lo spazio complessivo occupato dal mercato. Nondimeno l'interno di tale spazio non ha una struttura omogenea. Si tratta piuttosto di una struttura affatto eterogenea, fatta di pieni e di vuoti, chiamati propriamente nicchie, ciascuna delle quali corrisponde a un particolare mercato. Una nicchia è piena quando qualcuno produce il tipo e la quantità di merci che una quantità corrispondente di individui è disposta ad acquistare. Si dice invece che essa è vuota se esistono individui disposti ad acquistare un certo bene - che, si noti, è possibile non esista ancora - ma non esiste chi lo produca. Il mercato come istituzione sociale è unico; ma entro di esso si formano di continuo, scompaiono e si ricostituiscono innumerevoli mercati. La sociologia del mercato mira a porre in luce i fattori e le condizioni sociali e culturali le quali fanno sì che un dato oggetto o processo entri a un certo momento nello spazio del mercato - ossia diventi in senso proprio una merce - oppure ne esca; e, insieme con essi, le conseguenze sociali che da ciò derivano. Durante il Medioevo la dottrina cristiana, definendo come peccato l'interesse sul prestito, impedì a lungo che il denaro fosse trattato come una merce; furono i banchieri toscani e poi del Nord Europa a far entrare definitivamente il denaro nello spazio del mercato. Per secoli la terra non fu una merce, se non in particolari luoghi e condizioni; lo diventò in modo generalizzato solamente con il crollo dell' ancien régime, ovvero con la caduta della classe sociale che vedeva nel mercato libero dei terreni un pericolo per la propria posizione sociale. Il lavoro comincia a essere trasformato in una merce durante la Rivoluzione industriale in Inghilterra, verso la fine del Settecento, e continua a esserlo dovunque nel mondo si afferma il modello tecnico e organizzativo dell'impresa capitalistica. L'ingresso nel mercato del denaro, della terra e del lavoro sono stati tra il XVI e il XIX secolo fenomeni sociali sconvolgenti, quelli che con maggiore radicalità hanno marcato la transizione tra età della tradizione ed età moderna. Classi sociali che comprendevano due terzi della popolazione (vedi oltre) sono state ridotte dal mercato a percentuali esigue, come la classe contadina; altre mai viste nella storia si sono formate e si sono imposte sulla sua scena, come la classe operaia. Le città, quali centri in cui chiunque ha la possibilità, o crede d'averla, di trovare un mercato per qualsiasi cosa, si sono ingigantite in tutti i paesi, sino alle megalopoli di 20 milioni e più di abitanti (São Paulo, Città del Messico) dei paesi emergenti. La struttura demografica, affettiva e politica della famiglia è stata trasformata alle radici dal mercato dei terreni e delle abitazioni non meno che dal mercato del lavoro. | << | < | > | >> |Pagina 26[...] La comprensione di questo fenomeno, la valutazione dei suoi costi sociali attuali e potenziali, l'articolazione di strategie internazionali volte a ridurli richiede una definizione minimamente rigorosa del concetto di competitività.Qualche cifra sarà utile per introdurre simile definizione. Secondo uno studio dell'Istituto dell'economia tedesco, ente sostenuto dall'Associazione industriali di quel paese, nel 1994 il costo del lavoro (oneri sociali inclusi) nell'industria manifatturiera nella Germania occidentale ammontava a 44 marchi all'ora. Nel medesimo anno esso era di 36 marchi in Giappone, 3,5 marchi in Polonia, e 1 (uno) in Indonesia. Se si ragiona con un concetto superficiale di competitività, è giocoforza dedurre da tali cifre che per rimanere competitiva - fermi restando altri fattori di costo - l'industria manifatturiera tedesca aveva esclusivamente dinanzi a sé, all'epoca, quattro strade (non essendo comunque esclusa la possibilità di combinarle tra loro): a) ridurre drasticamente il costo orario del lavoro; b) aumentare la produttività di 1,2 volte rispetto all'industria manifatturiera giapponese, 12,6 volte rispetto a quella polacca, e 44 volte rispetto a quella indonesiana; c) fabbricare prodotti con un contenuto tecnologico talmente alto da compensare, sui tanti mercati locali, le differenze di prezzo dovute al costo del lavoro; d) trasferire i propri stabilimenti nei paesi dove il costo del lavoro è notevolmente più basso, a cominciare dai vicini paesi dell'Europa orientale. La prima strada era impraticabile, per ragioni politiche e per l'opposizione sindacale. La seconda era improponibile: nessuna industria al mondo può pensare di recuperare simili differenziali di produttività. La terza stava diventando impervia, giacché anche le industrie dei paesi emergenti erano ormai giunte in quegli anni a fabbricare prodotti con un elevato contenuto tecnologico. Quale ovvia conseguenza, nel corso del 1995, al fine di restare competitiva, l'industria manifatturiera tedesca cominciò a percorrere decisamente la quarta strada, facendo salire i suoi investimenti diretti all'estero a 50.000 milioni di marchi (all'epoca 50.000 miliardi di lire, oggi 25.000 milioni di euro). La concezione della competitività soggiacente a simile equazione trascura però, a ben guardare, alcuni elementi di comparazione, quali: i lavoratori tedeschi stavano in fabbrica 1.600 ore l'anno, quelli giapponesi circa 2.000 e quelli indonesiani fino a 3.000; il sistema di protezione sociale (assistenza, previdenza, ammortizzatori sociali ecc.) era ed è tuttora assai sviluppato in Germania, mediamente sviluppato in Giappone e in Polonia, inesistente in Indonesia; il lavoro minorile e infantile quasi non esiste in Germania e in Giappone, è poco diffuso in Polonia, ma è diffusissimo in Indonesia; le leggi a tutela dell'ambiente sono severissime in Germania, severe in Giappone, di là da venire o inapplicate in Polonia e in Indonesia ecc. Solamente se si introducono tali elementi nella comparazione tra economie e settori produttivi il concetto di competitività risulta, oltre che scientificamente fondato, efficace nel guidare sia le politiche di impresa, sia le politiche sociali. | << | < | > | >> |Pagina 38L'aumento della quota di lavori che prospettano a chi li compie, e alle loro famiglie, un orizzonte di scarsa sicurezza per il futuro sarà probabilmente una caratteristica distintiva del mercato del lavoro mondiale per i prossimi decenni. È possibile che si tratti d'una fase obbligata per l'economia divenuta planetaria prima che essa raggiunga, in quali modi non è ancor dato prevedere, nuovi punti di equilibrio. Tuttavia chi pensa di rendere permanente, quale elemento naturale della nuova economia al tempo stesso globalizzante e localizzante, un tasso elevato di lavori in vario modo classificabili come insicuri perché temporanei, precari, non competitivi, dovrebbe riflettere sul fatto che il senso di insicurezza per il proprio destino individuale e familiare, unito al tasso di angoscia collettiva che ne deriva, è stato il motore di alcuni dei più violenti movimenti sociali della storia, di sinistra come di destra.| << | < | > | >> |Pagina 43Condizioni di lavoro.Un Rapporto della Banca mondiale sottolinea nel modo che segue la presenza di due fenomeni mondiali distinti, ma correlati, in cui si compendiano i due volti della globalizzazione. Essi sono «la riduzione degli interventi statali sui mercati e l'accresciuta integrazione del commercio, dei flussi di capitale e dello scambio d'informazioni e di tecnologie». Quindi il Rapporto prosegue: «In un simile clima di profondi mutamenti le decisioni riguardanti i lavoratori dipendenti e le condizioni di lavoro sono dettate da pressioni competitive mondiali». Avendo già toccato sopra elementi delle condizioni di lavoro quali i salari e il grado di sicurezza, ci limiteremo qui ad altri elementi di esse quali l'età di ingresso nelle forze di lavoro; il quadro istituzionale (il fatto cioè che un lavoro rientri o meno nell'economia formale); gli orari; gli ambienti di lavoro; le libertà sindacali. Questi diversi elementi appaiono strettamente correlati fra loro. In ogni paese, e in ogni settore produttivo, lo stato di uno di essi permette di predire con buona approssimazione lo stato di tutti gli altri. In base ai dati dell'ONU e del BIT si può affermare che: - da 100 a 200 milioni di bambini in età compresa tra i 6 e i 12 anni svolgono lavori pesanti (in miniere, cave, vetrerie, fabbriche di tappeti, costruzioni di strade) in condizioni ambientali pessime, orari superiori alle 12 ore al giorno, salari infimi (un dollaro al giorno o poco più), ovviamente al di fuori di ogni quadro giuridico e tutela sindacale; - un numero analogo di adolescenti, la gran maggioranza donne, lavora in condizioni simili, con salari di poco superiori, e però in settori differenti: abbigliamento, cancelleria, elettronica di consumo; - si stima che il lavoro non strutturato, ovvero svolto al di fuori di ogni regola istituzionale - base dell'economia che vien detta informale là dove il diritto del lavoro di fatto ancora non esiste, mentre viene definita invece invisibile, sotterranea, parallela, sommersa là dove le regole di diritto esistono ma sono disattese - comprenda i due terzi di tutti coloro che hanno un qualche tipo di occupazione nell'Africa sub-sahariana; la metà degli occupati in Asia; tra un terzo e la metà nell'America latina, un quinto in Europa e nel Nord America; - in complesso, nel Sud il 40 per cento del totale delle forze di lavoro è disoccupata, sotto-occupata od occupata in lavori assolutamente precari, da cui trae un reddito infimo. Concludere che simili dati siano o no il risultato di «pressioni competitive mondiali», secondo il passo succitato della Banca mondiale, dipende dai settori cui ci si riferisce, come pure da ciò che si intende per «pressioni competitive». Di certo l'industria tedesca, americana o francese non trae utili dal lavoro dei bambini che soffiano vetro in Thailandia o annodano tappeti nel Belucistan, né da quello delle ragazze che fabbricano stilografiche a Canton. Lo stesso lavoro è però utile allo sviluppo dei consumi individuali in Europa, in Giappone, negli Stati Uniti, in Canada; della struttura commerciale che li alimenta; della pubblicità che li stimola. Questi mercati coinvolgono complessivamente milioni di persone, e rappresentano quindi vastissimi interessi orientati a premere affinché il costo del lavoro nei paesi d'origine dei relativi prodotti sia mantenuto il più basso possibile. Le condizioni di lavoro sopra riassunte sono determinate e mantenute anche da tali pressioni. | << | < | > | >> |Pagina 97Globalizzazione, occupazione, sviluppo: dagli effetti perversi alla «governance»? 1. Le credenziali della globalizzazione: una verifica Al fine di ragionare in modo costruttivo sui rapporti tra globalizzazione, occupazione e sviluppo sembra opportuno procedere anzitutto a verificare le credenziali della prima, ovvero rivisitare la sua storia e le sue prestazioni recenti. Facendo questa verifica si scoprirà abbastanza agevolmente che dette credenziali corrispondono solamente in parte a quanto comunemente si afferma in tema di globalizzazione. Esistono certo basi teoriche e fattuali per affermare che attraverso il progresso e la diffusione delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, del libero movimento dei capitali e dell'espansione del commercio mondiale, la globalizzazione reca in sé importanti opportunità. Sono opportunità di crescita economica; di sviluppo sociale e personale; di riduzione della disoccupazione e della povertà; di miglioramento della qualità del lavoro e della vita. Tuttavia, esistono anche le basi per sostenere che al fine di realizzare tali potenzialità, la globalizzazione dovrebbe venir affrontata con modelli mentali e processi decisionali differenti da quelli sinora utilizzati dalla maggior parte degli attori politici ed economici in essa coinvolti. Un primo passo in tale direzione consiste nel verificare quali siano state finora le reali prestazioni della globalizzazione. [...] Della globalizzazione i media, le organizzazioni internazionali, gli esperti economici che aderiscono alla prima posizione concordano nel dire che essa favorisce a) la crescita economica, b) la riduzione della disoccupazione, c) l'aumento della produttività. In realtà, se si esaminano le serie storiche di questi indicatori, riferiti all'OCSE o più restrittivamente ai paesi oggi parte dell'UE, si constata che esse non sorreggono affatto simili affermazioni. A tal fine assumeremo come punto di svolta il 1980, poiché per diversi motivi è lecito affermare che giusto dall'inizio degli anni Ottanta il processo di globalizzazione abbia registrato una forte accelerazione. In base alle suddette affermazioni si dovrebbe quindi osservare che, sia pure tra alti e bassi, i tre indicatori migliorano in modo significativo negli anni successivi. Tuttavia le statistiche dicono che è avvenuto il contrario: dopo il 1980 tutt'e tre gli indicatori peggiorano in misura rilevante rispetto ai venti o trent'anni precedenti. | << | < | > | >> |Pagina 102All'affermazione che la crescita, l'occupazione e la produttività sono tangibilmente declinati, anziché aumentare come asserito dai suoi fautori a mano a mano che la globalizzazione avanzava, si può obiettare che ciò sarà stato vero per i paesi UE, ma non per gli Stati Uniti. I primi avrebbero semplicemente sofferto del fatto che la loro marcia verso la globalizzazione era ed è ancora incompleta. Sono i dati americani a dire il contrario. Se si divide il secondo dopoguerra in due periodi, 1946-73, e 1973-fine anni Novanta, si osserva che il primo è stato un periodo in cui i redditi sono rapidamente cresciuti, mentre i benefici della crescita economica erano ampiamente distribuiti. In tale periodo il salario reale dei lavoratori dipendenti è cresciuto di oltre l'80 per cento. Dal 1973 alla seconda metà degli anni Novanta, per contro, esso è diminuito del 20 per cento. Se l'aumento delle retribuzioni delineatosi nella seconda parte del decennio proseguirà, i lavoratori americani possono sperare di recuperare verso il 2010-2015 il medesimo potere d'acquisto di cui disponevano all'inizio degli anni Settanta.Molte fonti concordano anche sul fatto che la povertà e la disuguaglianza negli Stati Uniti sono considerevolmente aumentati negli ultimi decenni. Con una novità: non soltanto i disoccupati di lungo periodo, ma anche i salariati a tempo pieno sono scesi in gran numero sotto la soglia della povertà relativa. Di fatto, il 30 per cento dei salariati americani percepiva nel 1999 un salario inferiore ai due terzi del salario mediano. Ciò spiega verosimilmente come mai, grazie anche agli interventi ricompresi nella cosiddetta «guerra alla povertà», il tasso di bambini al di sotto della soglia della povertà fosse sceso dal 27 per cento del 1960 al 14 per cento nel 1973, mentre nel 1993 esso era risalito al 23 per cento. Inoltre quasi tutti gli aumenti di reddito derivanti dalla crescita economica nell'ultimo decennio sono andati al 5 per cento più ricco delle famiglie americane. In tal modo, secondo dati del Bureau of Census, il reddito di detto 5 per cento, che nel 1980 superava di 6,8 volte il reddito del 20 per cento più povero tra le famiglie americane, nel 1998 è arrivato a superarlo di 8,2 volte. La polarizzazione delle condizioni di vita, in effetti, sembra essere l'effetto più comune della globalizzazione. | << | < | > | >> |Pagina 104Al di là dell'aumento della disoccupazione, dei modesti tassi di crescita, della stasi della produttività e della riduzione dei salari reali, che hanno accompagnato la globalizzazione dagli anni Ottanta, altri suoi effetti vanno richiamati: il forte aumento delle disuguaglianze di reddito tra lo strato più ricco e lo strato più povero della popolazione mondiale, ricordato nei capitoli precedenti; nonché il degrado economico, sociale e culturale, e talora l'annichilimento fisico, di innumerevoli comunità locali, a causa sia del processo di inurbamento sopra ricordato, sia della situazione di pressoché totale dipendenza da processi internazionali esogeni in cui la globalizzazione le ha costrette, o di trasferimenti forzati nel quadro di progetti di modernizzazione. Per comodità ripetiamo qui un dato, tratto dal Rapporto ONU 1999 sullo sviluppo umano: nel 1997 il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale, quasi tutta concentrata nei paesi OCSE, si spartiva l'86 per cento del PIL del mondo; per contro al 20 per cento più povero toccava solamente l'1 per cento. Si noti: nel 1990 il rapporto tra il quintile più ricco e il quintile più povero era 60 : 1; mentre nel 1960 non superava il 30 : 1. Circa il declino indotto o la distruzione programmata di comunità locali, vanno anzitutto ricordati i milioni di contadini trasferiti a forza, o indotti a trasferirsi con artifici rivelatisi poi ingannevoli, per fare fronte ai grandi progetti finanziati dalla Banca mondiale, quali dighe, impianti idroelettrici, autostrade, o massicce deforestazioni per far luogo a impianti agroindustriali.| << | < | > | >> |Pagina 120Migliorare i contenuti qualitativi dello sviluppo economico, cominciando dalla loro misura.Lo stato della California spende ogni anno miliardi di dollari per accrescere la propria dotazione di penitenziari, una somma che a metà degli anni Novanta ha superato le spese per l'istruzione del medesimo soggetto. Il valore dei beni e dei servizi prodotti e destinati a tal fine sono computati nel PIL della California. Lo stato italiano spende ogni anno circa 50.000 miliardi di lire per gli indennizzi e le cure conseguenti agli incidenti sul lavoro, che nel 1999 sono stati 960.000, con 1.200 morti e decine di migliaia di feriti gravi e mutilati. Il valore dei premi assicurativi, dei servizi medici, dei prodotti farmaceutici, delle protesi acquistate con tali fondi sono collocate tra gli addendi del PIL dell'Italia. Nell'insieme dei paesi OCSE, gli incidenti stradali provocano ogni anno circa 100.000 morti, milioni di feriti gravi, e milioni di autoveicoli distrutti o gravemente danneggiati. Anche in questo caso i premi incassati dai superstiti o dalle vittime sopravvissute, il valore delle cure chirurgiche e delle protesi, e il costo delle sostituzioni o riparazioni dei veicoli vengono calcolati nel PIL dei rispettivi paesi. Viene naturale chiedersi quale sia il nesso fra tali componenti del computo del PIL e la globalizzazione. La risposta è che questa accentua fortemente le tradizionali distorsioni concettuali e sostanziali che portano a scorgere comunque nel mero aumento del PIL un segno positivo di sviluppo economico, a prescindere dal fatto che le sue componenti qualitative siano o no peggiorate; e al tempo stesso ne crea di nuove (nuove, almeno, per quanto concerne i paesi emergenti). Tipica è la distorsione per cui l'aumento del PIL pro-capite è assunto comunque quale indice di sviluppo d'un paese anche quando, causa l'aumento dei prezzi che si accompagna all'industrializzazione, il potere d'acquisto delle famiglie peggiora. Non meno tipica è la distorsione per cui nel computo del PIL viene inserito come dato positivo il valore di risorse non rinnovabili, o rinnovabili solo con grandi investimenti per lunghi periodi, mentre come dato negativo non compare in esso né - al caso - il debito che implicitamente un paese contrae per effettuare i necessari investimenti futuri, e nemmeno - nel caso alternativo - il costo derivante dal fatto che in realtà si è distrutto un capitale. Un caso esemplare al riguardo è il legname tratto dalle foreste pluviali del Sud-est asiatico, del Brasile, della California. Una distorsione di nuovo genere - nuova, va ancora notato, per i paesi emergenti, poiché in Europa intervenne uno o due secoli fa - tocca invece la contabilizzazione della forza lavoro da inserire nel PIL, a parità di volume di lavoro. Dieci ore giornaliere di lavoro agricolo nella comunità di villaggio, destinate all'autoconsumo della famiglia o agli scambi locali non monetizzati, non rientrano nel conto del PIL, anche quando producono risorse alimentari sufficienti a mantenere tre o quattro persone, oltre a quelle consumate dall'unità lavorativa considerata. Ma se la stessa unità lavorativa si trasferisce in città e viene assunta come operaio, con un orario di dieci ore al giorno, il reddito monetario che ne trae viene contabilizzato come un aumento del PIL pur nel caso in cui detto reddito sia appena sufficiente a mantenere la persona stessa, consegnando alla povertà i familiari rimasti al villaggio. Sono distorsioni di tal genere che alla fine degli anni Ottanta indussero le Nazioni Unite a lanciare un apposito programma, l'United Nations Development Programme (UNDP), che nel 1990 portò alla pubblicazione del primo Human Development Report (UDR). Da allora ogni anno l'UNDP ne pubblica una nuova edizione, di volta in volta centrata su un tema specifico: la globalizzazione è il tema al centro dello Human Development Report 1999. Rimane però costante nelle successive edizioni del Rapporto la classificazione dei paesi del mondo - nell'edizione del 1999 sono 174 - che viene stilata prendendo a riferimento un indicatore composito, definito Indice dello sviluppo umano (ISU). Via via perfezionato nella complessa metodologia di costruzione e misurazione, l'ISU è composto da varie dimensioni: la speranza di vita alla nascita; il tasso di alfabetizzazione degli adulti; la percentuale di iscritti a un dato livello di istruzione rispetto alla relativa fascia di età; il PIL reale pro-capite misurato in termini di Parità di potere d'acquisto (PPA). Il valore massimo che l'ISU può raggiungere è 1; il paese primo in classifica, il Canada, presentava nel 1997 un ISU pari a 0,93224. | << | < | > | >> |Pagina 1264. Iniziative dal basso per una globalizzazione dal volto umanoDinanzi alla proposta di una global governance capace di perseguire efficacemente obiettivi del genere che ho ricordato, sorge spontanea una domanda: quali sono i soggetti reali capaci di metterla in piedi, e con quali mezzi, per quali vie si può realizzarla? Credo che per costruire una risposta plausibile a simile domanda si debba dividerla in due. Se si chiede quali sarebbero le organizzazioni, quali gli strumenti operativi da mobilitare a tal fine, sembra ovvio che un ruolo importante dovrebbe spettare alle organizzazioni internazionali che già sono sulla scena: Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Banca per i regolamenti internazionali, Organizzazione mondiale per il commercio, Commissione europea. A esse se ne dovrebbero aggiungere altre a diversi livelli, regionale, nazionale e internazionale; ma, visto che le suddette organizzazioni sono comunque operanti, non si vede per quali motivi non si dovrebbe cominciare con esse.
Viene poi la seconda parte della domanda in
questione: chi spinge, chi sollecita le suddette organizzazioni affinché
cerchino di realizzare una
globalizzazione dal volto umano
(l'espressione è dell'ONU), una globalizzazione che persegua fini simili a
quelli sopra indicati, che sono ben diversi da quelli che dette organizzazioni
perseguono da almeno una trentina di anni? La risposta parrebbe ovvia:
dovrebbero essere i cittadini a farlo, gli imprenditori, gli amministratori
pubblici, i sindacati, le organizzazione non governative. Questa risposta è
talmente ovvia che finora non è stata nemmeno discussa. Ora se vi è qualcosa di
drammatico nei processi di globalizzazione, ciò
è appunto la mancanza di discussione; o, per esser più precisi, la mancanza di
partecipazione democratica. Decisioni di estrema importanza per noi e per i
nostri figli sono state prese nel corso di decenni da poche migliaia di persone
in tutto il mondo, dislocate a Washington (BM), Basilea (BRI), Ginevra (OMC),
Bruxelles (CE), Francoforte (BE) oppure Davos, sede, come tutti sanno, della
riunione annuale d'uno dei gruppi di interesse più potenti del mondo, il World
Economic Forum. Accordi commerciali, aggiustamenti strutturali, prestiti
internazionali per miliardi di dollari: tutto ciò è passato regolarmente sopra
la testa di associazioni di categoria, enti locali, operatori sociali ed
economici, organizzazioni non governative. Se davvero volessimo realizzare una
global governance,
la quale ci porti verso una globalizzazione dal volto umano,
è forse ora che le radici dell'erba, come dicono gli inglesi (nell'espressione
grassroots democracy),
la base formata da quei cittadini del mondo per i quali la democrazia vive di
partecipazione non meno che di rappresentanza, comincino a farsi sentire.
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