Copertina
Autore Fabio Galvano
Titolo Indians
SottotitoloStorie di un popolo perduto
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2006 , pag. 392, ill., cop.ril.sov., dim. 15,5x23,6x3,3 cm , Isbn 978-88-02-07476-4
LettoreLuca Vita, 2007
Classe storia moderna , storia contemporanea , storia: America , storia criminale
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Indice

VII Introduzione

  5 Capitolo 1     POCAHONTAS
    Una principessa alla corte d'Inghilterra

 20 Capitolo 2     METACOM
    New England, terra crudele

 32 Capitolo 3     PONTIAC
    Dalle guerre coloniali al dominio inglese

 53 Capitolo 4     TECUMSEH
    Il sogno di una nazione indiana

 71 Capitolo 5     SEQUOYAH
    Il sentiero delle lacrime

 86 Capitolo 6     PICCOLO CORVO
    La grande rivolta del Minnesota

104 Capitolo 7     BLACK KETTLE
    Un pacifista nel West

129 Capitolo 8     CAPTAIN JACK
    Ribellione nella California dell'oro

139 Capitolo 9     QUANAH PARKER
    Furie rosse per il bisonte

159 Capitolo 10    ORSO BIANCO
    Una guerra disperata

176 Capitolo 11    CAPO GIUSEPPE
    La grande ritirata del «Napoleone rosso»

196 Capitolo 12    COLTELLO SPUNTATO
    L'autunno tragico della grande marcia

210 Capitolo 13    CODA MACULATA
    Sioux alleato, Sioux abbindolato

230 Capitolo 14    NUVOLA ROSSA
    Il generale che sconfisse i visi pallidi

249 Capitolo 15    CAVALLO PAZZO
    Dal capo più amato la vittoria più bella

272 Capitolo 16    TORO SEDUTO
    Il più grande dei grandi, un sogno finito

299 Capitolo 17    COCHISE
    Terrore Apache sotto la luna piena

317 Capitolo 18    GERONIMO
    L'ultimo guerriero

335 Capitolo 19    ALCE NERO
    La memoria del misticismo indiano

353 Capitolo 20    MINNEHAHA
    I danni della fiction: da Cooper a Hollywood,
    passando per Salgari

367 Epilogo
373 Bibliografia
381 Indice degli argomenti
383 Indice dei nomi

 

 

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Pagina VII

Introduzione



Quali Indians? Ci sono quelli dei film e dei romanzi, dei nostri giochi d'infanzia; anche se le ultime generazioni li hanno un po' traditi, optando piuttosto per guerre stellari e giochi di computer. Tutti «veri», per chi ha sognato almeno una volta di essere Toro Seduto o Cavallo Pazzo o Geronimo, o ne ha seguito le appassionanti vicende sullo schermo, fra ululati di battaglia e cavalli al galoppo. Ma certamente non concreti come i protagonisti di una storiografia che a più riprese ha cercato – sovente con fatica, non sempre con successo – di guardarli con il dovuto distacco, rinunciando agli stereotipi e ai luoghi comuni fioriti fra gli eccessi e le semplificazioni hollywoodiani. Negli ultimi trenta o quarant'anni, poi, in un diffuso affiato revisionista si è finito per tradire sul fronte opposto il rigore storico (e anche qui la nuova Hollywood ci ha messo lo zampino) e per rivalutare a ogni costo, tacendone se necessario gli aspetti più scomodi, il «nobile selvaggio», filone già tanto caro a taluni fra i primi esploratori e a una parte della letteratura dell'Ottocento.

Questo libro non è un romanzo, né una storia romanzata. Non deve esserlo, né potrebbe. Non vuole neppure essere una storia organica e completa degli indiani d'America, che richiederebbe non uno ma svariati volumi. Del saggio ha la forma e il rigore, questo sì, ma non lo spirito. È nato piuttosto come un tentativo, fatta salva una pignola ricostruzione storica, di riscoprire e indagare con semplicità di linguaggio e con immediatezza di stampo giornalistico, attraverso taluni dei personaggi più noti, quanto di quel mito affondasse le radici nella realtà, quale fosse insomma la storia vera, una volta purgata degli stereotipi che hanno incessantemente condizionato la divulgazione hollywoodiana (e, perché no?, anche l'opera di un James Fenimore Cooper, di uno Zane Gray o di un Emilio Salgari): toccando attraverso quelle figure í principali capitoli di una drammatica e cruenta storia che in poco più di tre secoli ha plasmato con un impasto di terra e sangue il nuovo continente nordamericano. Salvo poi rendermi conto che la mia sarebbe stata una storia monca se, accanto a quelle di Nuvola Rossa o di Cochise, non avessi affrontato le vicende di personaggi forse meno noti - meno «compagni di giochi» e meno complici di letture giovanili, per intendere - ma fondamentali nella storia della più grande tragedia americana lungo l'arco del rapporto - talora devastante, sempre molto difficile e insidioso - con l'uomo bianco. Mi riferisco a figure come quella, per esempio, di Pocahontas: popolarizzata da Walt Disney, quindi da non ignorare quando si affronta il tema del primo impatto fra i natives e i coloni, ma sconosciuta fino a pochi anni fa; anzi, da affrontare proprio per restituirle un po' di onestà storica dopo la favola disneyana, come la stessa Hollywood ha recentemente tentato di fare, purtroppo senza grande successo. E poi Metacom, Pontiac, Tecumseh, fino a Captain Jack e Capo Giuseppe.

È stato un impegno per comprendere come e perché i personaggi delle nostre giovanissime fantasie e dei nostri giochi - e con loro i Buffalo Bill, i Custer, i Kit Carson, ma anche fra i militari più tremendi i Miles e i Chivington, insomma la controparte bianca di tali vicende - abbiano lasciato un solco profondo nella storia del nostro pianeta, con centinaia di tribù destinate nella macina della storia a un tragico costante genocidio e, in molti casi, alla scomparsa. Senza cadere in due tranelli assai pericolosi: il fascino dell'avventura e del gesto eroico fine a se stessi, da una parte; e dall'altra la moda - oggi purtroppo imperante e talvolta castrante - del politically correct.

Tale moda induce addirittura a non parlare di «indiani» - parola cui qualcuno attribuisce una venatura razzista - ma di Native American: più che «nativi americani» noi dovremmo dire «indigeni americani». Mi sembra, quell'espressione, una delicatezza contro natura (sovente il politically correct lo è); mi scusino quindi coloro che credono in tali distinguo, ma da bambini giocavamo «ai cowboy e agli indiani», non «ai bovari e ai nativi». D'altra parte proprio gli indiani d'oggi vanno fieri di quella loro denominazione e se ne sono riappropriati in chiave storica; quelli di uno o due secoli fa accettavano addirittura l'ignorante deformazione inglese che li faceva Injuns. Comunque gli stessi indiani non avevano un nome per se stessi. I nomi con i quali le tribù si designavano, nella maggior parte dei casi, significavano semplicemente «popolo» o «uomini» o «popolo degli uomini»; e i nomi con cui ancora oggi conosciamo quelle tribù erano quelli dati loro dalle altre tribù o dall'uomo bianco. La parola Sioux, tanto per citare il caso più celebre, non è che la contrazione e corruzione francese del termine con cui gli indiani Ojibwa chiamavano i Dakota e i Lakota: nadowe-is-iw, parola che significava tanto «vipera» quanto «nemico» (dah-kota significava invece «alleanza di amici»). Indios li chiamarono prima Colombo, poi gli spagnoli; quindi, a seconda della lingua dei coloni, furono Indien, Indianer, Indian. Il nome è rimasto, dopo cinque secoli. Furono i francesi a introdurre il termine sauvages – colpevole di avere assunto in secoli successivi una connotazione dispregiativa – e poi quello di peaux-rouges (pellirosse, termine ancora oggi in voga, sebbene non gradito). I primi coloni inglesi li chiamarono – molto correttamente – Americans. Già: ma come distinguerli poi dai nuovi americani, quelli della colonizzazione europea? A conferma del fatto che il politically correct non è invenzione d'oggi, ci fu chi – oltre un secolo fa – tentò senza grande successo di introdurre nel linguaggio ufficiale e poi anche in quello comune la parola Amerind, contrazione di American Indians; e amerindi vale ancora oggi, seppure come termine scientifico.

È un terreno incerto: persino l'espressione «viso pallido» (pale face) sono stati i coloni stessi a fornirla agli indiani, che chiamavano l'uomo bianco nei modi più disparati: «pelo giallo» o «di pelle bianca» gli Arapaho, «lui del petto villoso» i Miami, «persona dal sale» (e cioè venuta dal mare) i Delaware, «belagana» (deformazione dello spagnolo americano) i Navajo, «lui che fa le accette» gli Irochesi, «la gente della luce del mattino» i Wyandot, «bocche irsute » e «orecchie a sventola» i Kiowa, «di dove nasce il sole» i Comanche, «fabbricanti di ferro» o «gente ricca» i Sioux, che durante le guerre del XIX secolo avrebbero adottato per i soldati un altro termine divenuto poi d'uso comune, mila hanska, «lunghi coltelli». E l'America, il loro continente? Molto sbrigativi, i Chinook la chiamarono come la colonia fondata dagli inglesi, Boston. Per i Micmac era Bostoon. Non una grande differenza. Finì che anche nel West, fra gli indiani delle grandi pianure, il nome Boston rimase per indicare l'intero continente.

Chi pensava allora all'esistenza di regole? Chiamiamoli allora, tranquillamente, senza alcuna arrière pensée, «indiani».

C'è un abisso tra l'indiano maestro di civiltà, di amore familiare, di profondo senso della natura, di culto della terra e del cielo, addirittura – se vogliamo – ecologista ante litteram, e l'indiano del quale si diceva che «l'unico buono è quello morto». Ed è proprio attraverso quell'abisso che ho tentato di gettare un ponte, talora scopendo gentilezza e buon senso nelle parole di figure da sempre descritte nella loro versione stereotipata come feroci e sanguinarie, o al contrario umane miserie – testardaggine, presunzione, magari anche un tocco truffaldino – in altre che avevamo immaginato purissime: senza la presunzione di voler dire l'ultima parola su una storia sovente così controversa, ma nel tentativo – per certi versi molto più umile - di dare una dimensione corretta agli eroi della nostra infanzia, restituendo loro, attraverso le avventure che li ebbero protagonisti, un segmento di verità di loro stretta competenza, che valga anche a ripercorrere per sommi capi la straziante ecatombe delle tribù in quella pagina americana che passa sotto il glorioso titolo di «conquista del West».

L'avventura; ma anche, quindi, la grande immensa tragedia di un'intera popolazione piegata con la forza superiore delle armi e decimata. Genocidio? Certamente. La conquista europea dei continenti americani fu forse il più capillare e intenzionale genocidio della storia umana, ben più grave dei tremendi avvenimenti del XX secolo. Non esistono ovviamente dati certi. Ma nel bilancio dei morti si indica, attraverso quattro secoli di conflitto, una cifra da capogiro: 92 milioni di persone, tutte vittime della cupidigia europea. Limitiamoci però agli indiani del Nord America. Si calcola che, all'arrivo dei primi esploratori europei, la popolazione indiana del continente americano a Nord del Messico, in quelli che sono oggi Stati Uniti e Canada, contasse fra 8 e 12 milioni di persone. Alla fine delle guerre indiane — e come riferimento si fa il 1890, con il massacro di Wounded Knee che piegò l'ultima resistenza dei Sioux — ne restavano al massimo 400 mila. È una cifra approssimativa per eccesso. C'è chi afferma, infatti, che già nel 1860 gli indiani non fossero più di 300 mila, e molti meno nel 1890, l'anno di Wounded Knee, al termine di un trentennio che attraverso la «conquista del West» — anni di distruzione da una parte, di mito dall'altra — segnò la fine della fine: 237 mila, si dice. Nella sola California, fra il 1852 e il 1890, la popolazione indiana scese da 85 mila unità a 15 mila.

Battaglie, angherie, uccisioni immotivate, ma anche schiavitù, deportazioni in massa: l'equazione del massacro ha molte componenti. Talora — maestri gli spagnoli, che un passato di guerre con i Mori aveva bene addestrato — gli europei erano protagonisti di efferatezze inaudite, di torture, di spietate cacce all'indiano (disarmato, ovviamente) con i cani, di mutilazioni orrende per puro divertimento o semplicesemplicemente per punteggiare la sopraffazione. Il via al massacro delle Americhe era stato dato da Colombo: nella sola Hispaniola l'intera popolazione di 8 milioni fu praticamente sterminata nel giro di una generazione. Non bastarono tali massacri, né i morti delle cosiddette «guerre indiane» degli Stati Uniti: secondo lo U.S. Census Bureau nella quarantina di conflitti combattuti fra il 1775 e il 1890 morirono sul campo 45 mila indiani e 19 mila fra militari e coloni, più un altro buon numero — rispettivamente 8500 e 5 mila — in quelli che si definiscono «episodi individuali», cioè non in azioni propriamente belliche (scorrerie, agguati, rapine, vendette).

È vero che ci furono guerre e massacri anche prima del 1775, tanto che qualcuno porta il bilancio globale degli scontri fra indiani del Nord America e invasori europei a 500 mila unità. Eppure, paradossalmente, più che gli scontri fra bianchi e indiani, a provocare la grande ecatombe fu la vampata di malattie portate dall'uomo bianco: dal 1500 alla fine dell'Ottocento ci furono 93 pandemie, che decimarono quel mondo indifeso. Anche mali relativamente blandi — dalla tosse convulsa al morbillo — fecero stragi; per non parlare di vaiolo, colera, scarlattina, difterite, tifo, peste bubbonica, tubercolosi, sifilide, tutte malattie che gli indiani non conoscevano e contro le quali il loro organismo non aveva alcuna protezione. La tribù dei Massachusett — un esempio, uno di mille — fu ridotta del 90 per cento da un'epidemia di vaiolo durata tre anni, dal 1616 al 1619: non sopravvissero che mille persone su diecimila. In tempi successivi, durante le «guerre indiane», un'epidemia di colera dimezzò nel 1849 la nazione Cheyenne.

Intere tribù furono annientate, cancellate, in una moria che in qualche caso venne interpretata dalle stesse vittime come una specie di volere divino. Senza contare altri fattori come il whisky, sovente di perfida qualità — metanolo puro — o la rimozione forzata di numerose nazioni indiane in terre poco ospitali (le riserve) che distrusse un modello di vita e privò gli indiani delle loro risorse naturali (il bisonte, per esempio, vittima anche di una moltitudine di Buffalo Bill: ce n'erano ancora 40 milioni di capi nel 1800, meno di un secolo dopo era praticamente estinto, con 900 capi raminghi nelle praterie). C'è voluto più di un secolo di pace, anche se sovente segnato dall'umiliazione e dalle ristrettezze delle riserve, in un'America che ancora oggi fatica a trovare la giusta collocazione per i suoi primi abitanti, a ridare fiato a quella popolazione: negli Stati Uniti gli indiani purosangue, secondo l'ultimo censimento svolto nel 2000 dallo U.S. Census Bureau, erano quasi 2 milioni, su una popolazione che si avvicinava ai 300 milioni.

Che dire poi delle inumane atrocità commesse in tre secoli e mezzo di guerre? Non si possono tacere vicende come il cranio di Piccolo Corvo portato trionfalmente nelle vie di St. Paul, le teste di grandi capi come Metacom (King Philip), Delshay, Mangas Coloradas usate come ornamento, il cadavere di Kintpuash (Captain Jack, capo dei Modoc della California) messo in bella mostra nelle fiere di paese. Oltre, naturalmente, alle storie di ordinaria perfidia, di vergognosa crudeltà, che spingevano i latori della «civiltà bianca» a indicibili mutilazioni: a scuoiare i Creek sconfitti per farne briglie per i cavalli, per esempio, o a mutilare non solo i guerrieri, ma anche le donne e i bambini per creare turpi trofei di guerra. Dopo il massacro di Sand Creek, vittime nel 1864 gli Cheyenne del Sud, tutto il 3° Cavalleria fu protagonista a Denver di una parata trionfale, fra due alí di folla plaudente, che si concluse sul palcoscenico del locale teatro con l'esibizione di scalpi, mani mozzate, parti intime di uomini e donne (lo scroto dell'indiano ucciso diventava sovente borsa per il tabacco, le parti femminili servivano invece come nastro per cappelli).

Una storia disperata, quella degli indiani. E fa rabbrividire che anno dopo anno nulla si facesse per frenare le angherie e i soprusi dei quali si macchiò la conquista del West, sebbene ne fossero bene a conoscenza i governi americani negli anni della colonizzazione: protettori a parole degli indifesi indiani, complici nei fatti dell'inarrestabile massa di coloni disperati alla ricerca di fortuna. Drammatico, per esempio, il quadro offerto nel 1869 dal Board of Indian Commissioners, nominato dal presidente Ulysses Grant, nel suo rapporto alla Casa Bianca: «La storia del rapporto fra l'uomo bianco della frontiera e gli indiani è una stomachevole sfilza di uccisioni, oltraggi, furti e torti commessi generalmente dal primo, ed eccezionalmente di occasionali eruzioni selvagge e di indicibili atti barbarici di rappresaglia da parte di questi. [...] La testimonianza di alcuni dei più alti quadri militari degli Stati Uniti registra che, nelle guerre indiane, quasi senza eccezione, la prima aggressione è stata opera dell'uomo bianco, e tale asserzione è confermata da ogni civile di buona reputazione che abbia esaminato la questione». Lo stesso documento osservava come ci fosse «un vasto gruppo di persone che si dichiarano per bene ma che usano ogni mezzo a loro disposizione per provocare guerre indiane, pensando agli utili che possono derivare dalla presenza di truppe e dalla spesa di fondi governativi. In ogni frangente essi minacciano di morte gli indiani, a voce e sui giornali, senza fare distinzione fra innocenti e colpevoli. Incitano gli uomini della peggior risma a perpetrare i gesti più nefandi contro le loro vittime e, giudici e giurati, li proteggono dalla giustizia per i loro delitti. Ogni delitto commesso da un uomo bianco ai danni di un indiano – proseguiva questo illuminante quanto disatteso documento governativo – è celato o giustificato; ogni reato commesso da un indiano contro un bianco è lanciato sulle ali della posta o del telegrafo fino ai più remoti angoli della terra, addobbato di tutti gli orrori di cui possono dotarlo realtà o fantasia. [...] Nei suoi vizi più selvaggi il peggiore indiano non è che l'imitatore dei malvagi uomini bianchi della frontiera» .

Era il 1869, ma per altri vent'anni quella denuncia sarebbe rimasta lettera morta, di fronte ad altri soprusi, altre violenze, altre distruzioni. Finché anche Toro Seduto e Geronimo furono costretti alla resa, loro e le loro tribù.

Molti importanti personaggi hanno un ruolo apparentemente secondario fra gli Indians di questo libro. Era inevitabile. Ma una cosa ho cercato di far salva: l'esistenza di un filo conduttore – talora forte come una gomena, altre volte molto sottile – che collega diverse nazioni indiane e diversi momenti storici in una sequenza quanto possibile cronologica, talora geografica, per formare in definitiva, anche attraverso la storia di una ventina di singoli personaggi e delle loro gesta, l'evoluzione di quella che è stata al tempo stesso epopea e tragedia degli indiani d'America. È un filo conduttore, purtroppo, intriso di sangue. Ma ancor più intriso, come sovente accade nei conflitti, di reciproco sospetto e del concetto – oggi così drammaticamente attuale – di guerra preventiva: uccidere gli indiani per il timore che prima o poi, privati delle loro terre e cacciati dall'uomo bianco, essi si sarebbero ribellati con la spaventosa forza della disperazione.

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Pagina 32

Capitolo 3
Pontiac
Ottawa (c. 1720 — 20 aprile 1769)


Dalle guerre coloniali al dominio inglese




                    «È necessario cacciare dal nostro paese
                  quel popolo che si è posto come obiettivo
                la nostra rovina. Come me dovete capire che
              non potrete più a lungo vivere come si poteva
                  con i nostri padri francesi. [...] Perciò
                         dobbiamo distruggere gli inglesi».

                                                    Pontiac



Sarebbe passato quasi un secolo, dalla fallita rivolta di Metacom contro gli inglesi, prima che una coalizione indiana sfidasse nuovamente il crescente potere di Londra nelle colonie americane. A provarci fu, poco dopo la metà del XVIII secolo, un personaggio che le cronache del tempo descrivono alto, con un fisico possente, il gusto del comando nelle vene, orgoglioso ma anche estremamente permaloso; soprattutto paziente, astuto e, a tratti, crudele. Aveva carnagione più scura della media e – a differenza della maggior parte dei suoi guerrieri – portava i capelli corti, con una acconciatura di guerra composta da poche penne. Si chiamava Pontiac ed era capo degli Ottawa, abitanti delle regioni orientali del Michigan e delle adiacenti parti dell'Ohio e dell'Ontario (la regione, insomma, dei Grandi Laghi): una tribù dedita essenzialmente al commercio di mais, olio di girasole, pelli e pellicce, stuoie, tabacco ed erbe medicinali, tanto che il suo nome deriva dalla parola Cree adawe, che significa «barattare», «scambiare».

Pontiac, a cui l'America avrebbe tributato il dubbio onore di dare il suo nome a una marca di automobili, fu protagonista di una ribellione che durò due anni, dal 1763 al 1765, in cui gli inglesi furono ripetutamente messi in serie difficoltà; ma alla fine dovette arrendersi, abbandonato da alleati indiani che avevano più a cuore il lucroso commercio con i bianchi che la loro indipendenza. Il suo errore principale, forse, fu di appoggiarsi ai francesi, per i quali aveva combattuto nelle ultime due delle quattro «guerre coloniali», i conflitti con cui Inghilterra e Francia, anche attraverso alleanze con varie tribù indiane e talora come riflesso di conflitti europei, si erano contese fra il 1689 e il 1763 il dominio del continente nordamericano. Non capì che opporsi agli inglesi giostrando fra le due potenze europee, ora che i francesi erano stati costretti a battere in ritirata, poteva essere un gioco molto pericoloso. E infatti quando ebbe bisogno di aiuto, durante l'assedio di Detroit, nessuno dei francesi che gli avevano promesso il loro appoggio mosse un dito.

In effetti Pontiac fu vittima a scoppio ritardato, oltre che protagonista, di quelle «guerre coloniali» che così a fondo avevano coinvolto le tribù indiane. Non si può quindi raccontare la sua storia senza fare un salto a ritroso nel tempo, alle radici della colonizzazione francese, al suo sviluppo e al successivo inevitabile conflitto con gli inglesi: tutti elementi che condizionarono a lungo i rapporti dei bianchi con le tribù indiane e quelli non meno facili fra le varie tribù.

Pontiac, di fatto, era figlio di un Nordamerica che aveva già conosciuto, fra il XVI e il XVII secolo, cinque diverse colonizzazioni. La prima, piccola e dimenticata, era stata svedese, lungo il fiume Delaware; ma presto agli svedesi si erano sovrapposti, nel 1655, gli olandesi, e a questi gli inglesi. Alla Spagna poco interessava andare oltre la Florida. Soltanto la Francia, oltre all'Inghilterra, aveva desiderio e risorse per rivendicare la costa atlantica e le ricche regioni interne. I francesi si erano concentrati sui territori lungo il fiume St. Lawrence (avevano fondato Québec nel 1608 e Montréal nel 1641). Si erano spinti oltre i Grandi Laghi e fino al fiume Ottawa: esploratori, missionari, mercanti di pellicce. Avevano toccato il Wisconsin e il Dakota, erano scesi lungo i fiumi Ohio e Mississippi. Gli inglesi invece erano rimasti soprattutto sulla costa, più a Sud, dal New England al North Carolina.

Ce n'era per tutti. Ma le cose erano cambiate nel 1664 quando gli inglesi, sovrapponendosi agli olandesi, si erano appropriati delle grandi vie — i fiumi Hudson e Mohawk — che avrebbero dato loro accesso ai Grandi Laghi e quindi alle tribù indiane che commerciavano in pelli con i francesi. Gli scontri fra inglesi e francesi, anche come riflesso delle vicende europee, erano inevitabili come le guerre fra indiani: tutte portate a quel minimo comune denominatore che furono le Beaver Wars, le guerre del castoro, che come risultato definitivo avrebbero avuto lo spopolamento del Castor canadensis in tutti i corsi d'acqua del Nord, a Sud dei Grandi Laghi. Il castoro, nel prezioso ecosistema del Nordamerica rimasto immutato per millenni, fu la prima grande vittima, come in seguito sarebbe stato il bisonte. Gli indiani coltivavano il culto del castoro, lo celebravano nei loro canti e nelle loro storie. Erano addirittura convinti che i castori pensassero come gli uomini: che vivessero in tribù, ciascuna con un capo, le sue leggi, la sua lingua. Lo cacciavano, ma sempre senza infrangere i delicati equilibri dell'ecosistema, e ne utilizzavano ogni parte, persino la carne. I denti taglienti, per esempio, venivano legati a un pezzo di legno e servivano come arma o come attrezzo. Poi si erano accorti che l'uomo bianco ambiva alla pelliccia del castoro, che quindi era improvvisamente diventata una valida merce di scambio. Era stato l'avvio del massacro. Ma c'è anche chi afferma che il Castor canadensis fu lo stimolo più importante per l'esplorazione europea del Nordamerica: prima nelle regioni orientali, poi — all'inizio del XIX secolo — quando cominciò la corsa verso le Grandi Pianure e le Montagne Rocciose. Si stima che negli «anni d'oro» del commercio delle pellicce, tra il 1800 e il 1850, si uccidessero fra 100 e 500 mila castori ogni anno. Sarebbe stato un banale cambiamento della moda (la seta sostituì la pelliccia per i cappelli) a salvare l'animale dall'estinzione. Ai tempi di Pontiac il massacro non era così assoluto, tuttavia era sufficiente a motivare guerre che erano essenzialmente d'interesse commerciale.

La rivoluzione inglese del 1688 (la Glorious Revolution), con la successiva alleanza fra Londra e Guglielmo d'Orange per resistere nella Guerra della Lega di Augusta alle sfrenate ambizioni europee di Luigi XIV di Francia (il Re Sole), aveva fatto precipitare la situazione. Nella prima delle quattro guerre coloniali – la King William's War, 1689-97, detta anche Guerra Abenaki dal nome della tribù indiana alleata dei francesi – ciascuno, indiani compresi, aveva combattuto per i propri interessi, sovente perdendo d'occhio gli obiettivi europei del conflitto. D'altra parte il sostegno di Londra e Parigi ai loro rispettivi coloni era stato più nelle parole che nei fatti. E se a questo si aggiunge la frammentazione delle colonie inglesi – in un rapporto numerico di dieci a uno su quelle francesi, ma disunite – si può capire come, di fatto, quella guerra non avesse risolto nulla e ce ne fossero volute altre tre, sull'arco di settant'anni, per sancire il dominio inglese.

Numericamente inferiori, strategicamente limitati dall'avere nel St. Lawrence l'unica via di comunicazione con l'Atlantico e con la Francia, i francesi avevano rimediato trovando più alleanze fra gli indiani, con i quali riuscivano ad andare d'accordo decisamente più degli inglesi. I coloni francesi, rispetto agli inglesi, avevano un rapporto più umano con i peaux-rouges. Gli inglesi, dagli indiani, volevano le terre (e le rubavano); i francesi si accontentavano di un lucroso commercio delle pellicce e senza la spocchia dei britannici erano propensi in taluni casi anche a fraternizzare con gli indiani, a vivere con loro, a sposare le loro donne. Fu una costante, questa, lungo tutta la storia della colonizzazione francese del Nordamerica. E, come tutte le costanti che si rispettano, aveva avuto e avrebbe avuto qualche eccezione.

La più clamorosa era stata, fra il 1729 e il 1730, la guerra dei Natchez, dal nome della tribù che abitava nella regione del basso Mississippi: una delle più potenti della zona, dedita a un culto del sole che comportava sacrifici umani (il loro capo era sovrano assoluto, il Grande Sole, e quando moriva le sue mogli venivano uccise perché lo accompagnassero nell'aldilà), offesa nel 1714 dal rifiuto di un suo gesto d'ospitalità da parte del governatore Antoine Cadillac (ecco un'altra automobile), ma anche dall'eccessiva confidenza con cui alcuni coloni francesi trattavano le loro squaw, peraltro piuttosto note (o notorie) per la loro estrema promiscuità. C'erano state sanguinose schermaglie a partire dal 1723 e, di fronte a piani sempre più precisi di pulizia etnica, i Natchez avevano preso l'iniziativa nel novembre 1729, con un attacco a Fort Rosaltc in cui 300 francesi erano stati uccisi e 400 fatti prigionieri. Sebbene aiutati dagli Yazoo, i Natchez sarebbero stati da quel momento oggetto di una caccia senza quartiere, per la quale i francesi si sarebbero appoggiati ai Choctaw: 450 di loro, compresi tutti i capi, sarebbeia stati fatti prigionieri e venduti come schiavi nelle Indie Occidentali a Santo Domingo; gli altri si sarebbero visti costretti a rifugiarsi a piccoli gruppi presso altre tribù (Cherokee, Chickasaw, Creek). Nel 1743 sarebbero stati classificati come «culturalmente estinti».

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Capitolo 4
Tecumseh
Shawnee (1768 — 5 ottobre 1813)


Il sogno di una nazione indiana



                        «Dove sono oggi i Pequot? Dove sono
                    i Narragansett, i Mohicani, i Pokanoket
            e molte altre potenti tribù della nostra gente?
                    Sono svanite di fronte alla cupidigia e
                     all'oppressione dell'uomo bianco, come
                  la neve al sole dell'estate. Ci lasceremo
                    distruggere anche noi senza combattere,
                   rinunciando alle nostre case, alle terre
           che ci ha lasciato il Grande Spirito, alle tombe
               dei nostri morti e a tutto ciò che ci è caro
             e sacro? So che con me griderete: "Mai! Mai!"»

                                                   Tecumseh



La storia degli indiani è resa celebre da nomi come Toro Seduto e Geronimo, Orso Bianco e Nuvola Rossa; ma è sovente a Tecumseh che gli storici indiani pensano quando si chiede loro di indicare il personaggio più significativo della loro storia. Capo degli Shawnee, tribù Algonchina il cui nome significava «del Sud», il suo sogno era quello di creare un'unica grande nazione indiana nella regione dei Grandi Laghi e della valle dell'Ohio, unendo le numerose tribù della zona sotto il suo comando. Ma non furono soltanto le sue capacità di mediazione fra tribù di diversa cultura, diversa lingua e diverse realtà – qualità che oggi si direbbero «di statista» – a metterlo in luce. Tecumseh si distinse anche, infatti, per le sue straordinarie qualità umane. In un mondo in cui per molti versi la parola «selvaggio» era quanto mai appropriata, seppe far valere nuove considerazioni di rispetto umano all'interno della sua tribù; riuscì, per esempio, a convincere gli Shawnee che era venuto il momento di abbandonare una delle loro più consolidate tradizioni, quella di torturare i prigionieri.

Tecumseh era figlio del capo Puckeshinwau, morto nella battaglia di Point Pleasance (Guerra di Dunmore), e di Methoataaskee, una forte donna Creek che al figlio aveva chiesto di vendicare la morte del padre e dei fratelli: «I tuoi piedi saranno veloci come il lampo, il tuo braccio sarà come il tuono, il tuo animo senza paura come la cascata che cade dal precipizio... Presto ti coprirai di gloria con la forza del tuo coraggio e i tuoi nemici tremeranno, udendo da lontano il tuo nome». Era nato nel 1768 – l'anno prima che Pontiac, ormai sconfitto, venisse ucciso – presso quella che è oggi la città di Springfield, nell'Ohio: per l'esattezza nel villaggio di Piqua, in seguito raso al suolo dai coloni del Kentucky. Il suo nome indiano – Tikamthi o Tecumtha – indicava la sua appartenenza al clan della «grande medicina» della Pantera, e significava «pantera accovacciata». Seppe opporsi con ogni energia all'avanzata dei bianchi e soprattutto negò il diritto del governo americano di acquistare terra da una singola tribù, sostenendo che la terra apparteneva in modo indissolubile a tutte le tribù. Già: il governo americano e non più gli inglesi erano il grande nemico. Vi aveva provveduto, fra il 1775 e il 1783, cioè negli anni successivi alla ribellione di Pontiac, la Rivoluzione ingaggiata dai coloni, insofferenti del lontano ma scomodo dominio di Londra, delle leggi che li privavano della loro libertà d'azione (cioè ostacolavano la colonizzazione del West), delle gabelle. Era bastata una generazione e ogni quadro di riferimento era cambiato.

Tecumseh tentò quindi di formare una confederazione di tutte le tribù dell'Ovest e del Sud, sobbarcandosi di persona il peso di quei contatti e quindi di quei viaggi che lo portarono dalla Florida al Missouri: una serie straordinaria di missioni, se si considerano le distanze e soprattutto i mezzi di comunicazione – essenzialmente il cavallo – dell'epoca, ma anche la scarsa conoscenza geografica che lo costringeva a passare sulla base di indicazioni orali da una tribù all'altra. Ma mentre egli organizzava gli indiani per il suo grande sogno di uno Stato indiano, suo fratello Tenskwatawa, il «Profeta», gli sconvolgeva i piani affrontando i bianchi nella battaglia di Tippecanoe, dove gli Shawnee furono pesantemente sconfitti nel 1811. Tecumseh riparò allora in Canada; e lì era, nel 1812, quando ebbe avvio la guerra anglo-americana, durata poi tre anni, con la quale Londra cercò – peraltro senza eccessiva convinzione – di riprendersi le colonie. Al comando di duemila guerrieri appartenenti alle tribù che avevano scelto il campo inglese, sperando di ottenere benefici che il governo americano ormai negava loro esplicitamente, fu protagonista di numerose battaglie e in una di quelle – la battaglia del Thames – morì il 5 ottobre 1813.

Per capire íl significato dell'azione di Tecumseh, che a differenza di Pontiac non ha nemmeno dato il nome a un'automobile ma soltanto a un motore per tosaerba, occorre fare un piccolo passo indietro: alla Rivoluzione – o Guerra d'Indipendenza – con cui i coloni americani si erano sciolti dal fardello del dominio britannico, da quella stessa madrepatria che attraverso loro – con la vittoria sui francesi – aveva acquisito il controllo delle regioni nordamericane (Messico escluso) fino ad allora colonizzate e occupate a vario titolo. La guerra, in realtà, aveva avuto ben poco a che vedere con i pretesti sovente addotti a posteriori: la tassa sul tè, l'assalto ai carichi nel porto di Boston, la questione del no taxation without representation. Le sue radici erano state piuttosto nelle politiche imperiali adottate da Londra nel 1763, che di fatto frenavano l'espansione degli insediamenti e, agli occhi dei coloni, sembravano favorire a loro danno i mercanti di pellicce, gli indiani e persino gli speculatori. In quella guerra gli indiani non erano stati semplici spettatori. Anzi. Ma alla fine avrebbero scoperto che quel conflitto aveva scardinato i precari equilibri di intere popolazioni, con dolorose frammentazioni e ricompattamenti d'obbligo, per non parlare dei numerosi casi in cui una stessa tribù si era spaccata e aveva combattuto sui due fronti, fratelli contro fratelli.

Le nazioni indiane a Est del Mississippi potevano mettere in campo circa 35 mila guerrieri: è ovvio quindi che i due contendenti cercassero di assicurarsi preziose alleanze fra i natives. La maggior parte degli storici sono concordi nell'ipotizzare in 18 mila (8 mila a Nord e 10 mila a Sud del fiume Ohio) il numero di guerrieri che di fatto presero parte ai combattimenti al fianco dell'Inghilterra; anche se molti, scottati dalle loro precedenti esperienze con l'uomo bianco, avevano mirato essenzialmente a una forma di neutralità. Non a caso, di questa guerra, le prime grandi vittime erano stati gli Irochesi.

La loro Confederazione, che in quel momento raggruppava sei nazioni, già era stata protagonista, direttamente o indirettamente, delle guerre coloniali. Democraticamente, come era nelle loro consuetudini, gli Irochesi avevano deciso che nella Rivoluzione ogni tribù combattesse con chi voleva. Tranne gli Oneida e una parte dei Tuscarora, che avrebbero mantenuto una sorta di neutralità e in qualche caso si sarebbero addirittura affiancati ai ribelli americani, tutti gli altri – Seneca, Mohawk, Cayuga e Onondaga – erano rimasti con gli inglesi: una scelta sbagliata, la prima in oltre un secolo di rapporti con i bianchi, dettata però dalla convinzione che la vittoria dei coloni americani avrebbe rappresentato una minaccia per i loro territori, quindi per la loro integrità tribale. In questo avevano ragione.

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Capitolo 15
Cavallo Pazzo
(Tasunka Witko — Crazy Horse)
Lakota Oglala (c. 1841 — 1877)


Dal capo più amato la vittoria più bella




                 «Coraggio, Lakota! È un bel giorno per morire».

                                Cavallo Pazzo (a Little Bighorn)


                «Non si vende la terra su cui la gente cammina».

                                                   Cavallo Pazzo



Il nome di Cavallo Pazzo è indelebilmente legato alla battaglia di Little Bighorn: il più grave rovescio degli Stati Uniti lungo l'arco delle loro guerre indiane, in cui nel 1876 il 7° Cavalleria fu annientato dai Sioux e il suo comandante George Armstrong Custer — colonnello, non generale — fu ucciso. Il suo è anche un nome che va di paro con quello di un altro grandissimo capo Sioux, appartenente però al sottogruppo degli Hunkpapa anziché a quello degli Oglala: Tatanka Yotanka, Toro Seduto. Le loro gesta rappresentarono l'ultimo grande sogno indiano di resistenza all'uomo bianco e alle sue armi di distruzione, alla sua disordinata e crudele invasione, ai soprusi e agli inganni ammantati di legalità e avvolti nell' ethos della «conquista del West». Parlare dell'uno senza parlare dell'altro è praticamente impossibile. Insieme scesero sul sentiero di guerra nel 1875, quando era ormai tramontata la stella di Nuvola Rossa, per resistere all'invasione dei cercatori d'oro che avevano invaso le Paha Sapa, le Colline Nere, territorio sacro per i Sioux, dove i giovani guerrieri andavano in meditazione per parlare con il Grande Spirito, ottenere una «visione» e dare un senso mistico e magico alla loro esistenza. Ma dopo l'inevitabile sconfitta, fortemente voluta da Washington per vendicare il massacro di Little Bighorn, Toro Seduto riuscì a fuggire e sarebbe stato protagonista fino alla fine dell'epopea dei Sioux. Cavallo Pazzo, invece, dovette arrendersi nella primavera del 1877. Poco dopo, accusato di voler fomentare un'altra guerra, fu arrestato e portato a Fort Robinson, dove un soldato — credendo forse che Cavallo Pazzo cercasse di fuggire — lo uccise.

Anzitutto il nome: Tasunka Witko in realtà significa «il suo cavallo è pazzo». Ma gli americani trovarono più comodo tradurre male, senza sapere che con il loro Crazy Horse stavano creando un mito. Quel nome, comunque, era già stato di suo padre, Oglala della banda Hunkpatila e sciamano di una certa rilevanza, che se l'era conquistato dardeggiando con il suo cavallo durante una battaglia con un'altra tribù, e con cui aveva sostituito — come era usanza fra i Sioux — il suo nome d'origine, sicuramente meno leggiadro: Verme. Sua madre era una Minneconjou, Donna della Coperta a Sonagli, sorella del grande capo Corno Solitario, che a sua volta era zio di guerrieri celebri come Naso Romano e Rana. Quando la madre si uccise, impiccandosi, in seguito a una battaglia con i Corvi in cui erano caduti numerosi membri della sua famiglia, Verme si risposò con due sorelle di Coda Maculata, da una delle quali nacque Piccolo Falco che fu amatissimo fratellastro di Cavallo Pazzo. Era una rete di parentele di non poco conto.

Nato a Bear Butte (South Dakota) nel 1841 — l'anno in cui Nuvola Rossa già uccideva Falco Bianco provocando l'insanabile scissione degli Oglala — o addirittura nel 1842 secondo altre fonti, il giovane Cavallo Pazzo — all'inizio si chiamava Capelli Chiari o anche Ricciuto — si era subito distinto come guerriero indomito, nelle migliori tradizioni della sua tribù. Ma anche lui, come il padre, credeva molto nella magia — gli indiani la chiamavano però «medicina», noi diremmo piuttosto superstizione – e non c'era battaglia a cui si accingesse senza avere prima consultato i suoi oracoli e pronunciato le formule di rito. Poi si spogliava, rimanendo in perizoma; si pitturava e non lo fermava più nessuno. Alto di statura, imponente, ma sempre misurato nei gesti e nelle parole: la tradizione, in assenza di fotografie attendibilmente sue, ce lo ricorda come un bell'uomo, anche se non proprio un apollo, dotato – in termini indiani – di buona cultura e perfetta educazione. Tutto quello che bastava, insomma, per farne un capo, con un'aureola quasi mistica.

Superstizione voleva che la sua acconciatura fosse sempre la stessa, per ogni battaglia: un piccolo falco rosso impagliato e legato dietro la testa e una sola penna fra i capelli. Con chicchi di grandine disegnati sul corpo, quest'immagine era stata al centro della «visione» che avrebbe influenzato tutta la sua vita futura, all'insegna di una spiritualità punteggiata di malinconia. In quella «visione» appariva un giovane guerriero con i capelli lunghi e chiari, in cui naturalmente il giovanissimo Capelli Chiari si identificò, che si lanciava a cavallo fra i nemici, circondato da una folla del suo popolo che cercava di afferrarlo mentre lui continuava a lottare contro le ombre nemiche senza che pallottole o frecce lo colpissero. La sua prima spedizione di guerra fu nel luglio 1855 contro gli Omaha del fiume Loup, nel Nebraska: in quell'occasione uccise una squaw e la scotennò: impresa molto gloriosa in quanto, se una donna veniva uccisa dal nemico, la vergogna ricadeva sui guerrieri del suo campo che non avevano saputo proteggerla.

La sua «visione» parve avverarsi durante una spedizione contro la tribù del fiume Wind. Da solo caricò a cavallo il nemico che si trovava in cima a una collina e uccise un guerriero con una freccia, sfuggendo alle pallottole. Si riunì ai compagni e ripeté la carica, uccidendo un altro nemico. Scese da cavallo per scotennare le sue due vittime, ma un colpo di fucile lo ferì a una gamba. Completò allora l'immagine della sua «visione», decidendo che non doveva prendere scalpi. E infatti mai più scotennò un nemico, né indiano né bianco. Fu dopo quell'impresa che il padre lo ribattezzò con il proprio nome. Altra grande impresa fu, nel 1861, la battaglia di Sweetwater contro gli Shoshone del capo Washakie, che avevano invaso il territorio di caccia degli Oglala e che subirono in quell'occasione una pesante sconfitta.

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