Copertina
Autore Rita Gambescia
Titolo Il villaggio dove avevano tutti un cane
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2006 , pag. 94, cop.fle., dim. 138x210x10 mm , Isbn 978-88-7937-366-1
LettoreGiorgia Pezzali, 2006
Classe narrativa italiana
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Pagina 5

I



Quando Piero arrivò al cancello, la prima cosa che notò fu il corvo nero. Stava appollaiato sul pesco e lui ricordò di averlo già visto in pittura. Il quadro era davanti ai suoi occhi, ma non era più pittura, era realtà. L'albero, la colonnina neoclassica, il capitello. Ciao, corvo. Che quell'amico lo stesse aspettando era un buon segno.

Il medico era stato gentile e accorto. «Lei deve lasciare tutto per un po'». Lo aveva detto in tono grave, dopo averlo ascoltato per più di un'ora. Gli era stato consigliato dal suo farmacista: «Un sacco di gente ci va, sono disturbi passeggeri, magari ha solo bisogno di una cura ricostituente, di qualche farmaco, di un po' di riposo».

Il dottore era sembrato meno disposto a sdrammatizzare, ma la serietà con cui aveva preso in esame il suo caso aveva tranquillizzato Piero anziché allarmarlo. «Finalmente qualcuno che mi ascolta con attenzione», aveva pensato. Gli era sembrato di potersi fidare.

«Che cosa significa che devo lasciare tutto per un po', dottore? Fare un viaggio, prendermi un'aspettativa dal lavoro...».

Il medico di mezza età in camice bianco si alzò e andò a guardare fuori dalla finestra, con lo sguardo assorto: «No, sto pensando a qualcos'altro. Vede, lei ha bisogno di un altro regime di vita. Certo, le sarà utile anche qualche tranquillante di notte e qualche eccitante di giorno ma, essenzialmente, deve ricreare un equilibrio. Per far ciò deve vivere in un posto che le dia tranquillità. Non basta una pausa qualsiasi, e non serve un luogo lontano, straniero. Rimanga qui, nella sua città, ma lontano dal suo ambiente. Conosco un posto molto bello...».

Piero sentiva un dolce torpore. La voce del dottore era carezzevole.

«Questo posto si chiama Thuja, è un posto magnifico ma pochi lo conoscono. Se vuole, le dirò a chi rivolgersi per ottenere una casa in affitto. Le farò un certificato di malattia. Faccia il trasloco, al più presto. Mi creda, è una terapia, insieme ai farmaci di questa ricetta».

Non aveva comunicato a nessuno la sua decisione. Anche questo gli aveva raccomandato il dottore. «Ci sono momenti in cui dobbiamo essere padroni assoluti di noi stessi. Escludendo gli altri lei avrà già compiuto il primo passo verso la liberazione». Liberazione? Il medico aveva uno sguardo decisamente indulgente: «Sì, liberazione da tante cose che la infastidiscono, che lei ormai accetta per abitudine, da cui non si difende nemmeno più; liberazione da preoccupazioni che non sono le sue ma che altri le instillano per loro tornaconto, come fa il suo principale; liberazione da... ma lo capirà da solo da che cosa, non è questo il suo nuovo compito?».

«Ho un nuovo compito», si ripeté Piero, e già gli sembrava di sentirsi meglio. «Ho un nuovo lavoro, un lavoro che giova soltanto a me stesso».

La casa gli era stata concessa subito da un ometto magro e puntiglioso che in un ufficietto aveva visionato diverse carte fino a pescare l'appartamento giusto per Piero.

«Tre stanze più servizi imbiancati di recente, giardinetto privato. L'affitto lo verserà al custode, è lui che pensa a tutto».

A tutto?... L'ornino grigio lo fissò da dietro gli occhialetti con lo stesso, ineffabile sorriso del dottore.

«Sì, a tutto. Noi vogliamo che i nostri inquilini siano sgravati da stupidi problemi. Ci interessa solo che paghino e che andando via lascino le cose in ordine. Noi li agevoliamo il più possibile e loro se ne stanno tranquilli. È un buon patto, no?».

Buonissimo, pensò Piero, e annuì vigorosamente. E per le bollette?

«Anche a quelle pensa il portiere».

Beh, da tempo non sono più così viziato, pensò ancora Piero.

«Se lei ha questa casa — seguitò l'uomo quasi in risposta ai suoi pensieri – è perché qualcuno lo ha molto, caldamente raccomandato. Non tutti hanno questa fortuna, sa? Sappia proteggerla, anche usando della discrezione. Un consiglio: non ne parli in giro, almeno fino a quando non si sarà sistemato a dovere. Sapesse quanto la invidio...». E l'omino rituffò gli occhialetti dentro il contratto prima di farglielo firmare.

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Pagina 14

III



Furono i suoi dirimpettai a fare il primo passo. Lo invitarono per un the. Era una coppia sui settant'anni. Piccola, nervosa e loquace lei. Alto, impacciato e taciturno lui.

Leonardo, il marito, stava seduto su una poltrona vicino alla finestra, con il plaid sulle gambe e la giacca da camera. Assentiva a tutto ciò che diceva Matilde, la moglie, benché la sua attenzione sembrasse più rivolta al carlino che teneva sulle ginocchia.

Matilde, gesticolante ed eccitata, subissò Piero di materne attenzioni. Aveva tirato fuori argenteria, porcellane, tovaglie ricamate, biscotti e domande che gli rivolse a raffica ma senza attendere risposta. Dava l'idea di recitare un copione a cui non era più allenata e di essere tutta concentrata nel ricordare le battute. Fu il marito a salvarlo dopo un bombardamento di mezz'ora.

«Dunque, anche lei qui», esordì lentamente, come districando le parole. Piero tacque, capiva che quello era l'inizio di una conversazione interessante. Anche Matilde ammutolì e accarezzò il carlino dallo sguardo ansioso.

«Noi viviamo alla Thuja da vent'anni. Da vent'anni non ci muoviamo, per vent'anni avevamo girato il mondo. Accadde a Parigi. Avevamo un appartamento nel quartiere latino, ci sembrava di essere felici.

Una mattina cominciai come al solito a prepararmi per andare al lavoro – io ero architetto e in quel periodo lavoravo al ripristino di un'area dismessa – quando avvertii una sensazione strana: un sottile stato d'ansia misto a una leggera euforia. Mentre mi radevo davanti allo specchio, la mia testa divenne vuota, sgombra di ogni pensiero. Un attimo prima stavo ripensando al mio progetto. Ora avvertivo solo il battito accelerato del mio cuore, un selvaggio tam-tam che mi occupava tutto, rimbombava dentro il petto, dentro lo stomaco, dentro le orecchie, dentro il cervello. Quel tamburo divenne alla fine assordante. Mi afferrai ai bordi del lavabo, mi contrassi nello sforzo di sedarlo. Inutile. Il cervello non stabiliva più il collegamento. Ero un naufrago, e nulla potevo fare se non attendere l'emergere dell'approdo. Poi il martellio cessò. Ero spossato. La mia faccia riemerse, devastata, nello specchio.

Che cosa era accaduto? Forse solo un malessere fisico. Eppure, non avevo mai sofferto seriamente di niente. Il cuore, in particolare, stava benone. Per tutta la giornata ripensai all'episodio, e ciò che pensavo era talmente ingombrante e irragionevole che sarebbe stato molto più opportuno liquidarlo come una suggestione. Ma non ci riuscivo. Il pensiero, ostinato, ossessivo, si era impadronito del mio cervello: io ero stato preparato, avvisato. Sì, qualcosa sarebbe accaduto. Venne notte, era ora di chiudere lo studio. Io aspettavo ancora la rivelazione promessa.

Era una bella serata, bella e calma come questa. Infilai la giacca leggera, uscii adagio e concentrato: mi stavo preparando a un appuntamento. Fuori, fui subito avvolto dall'aria dolce e avvolgente d'inizio estate, densa di promesse ingannatrici, delle illusioni con cui la natura seduce a ogni bella stagione gli uomini. Ma questa volta non c'era inganno. C'era il sortilegio di un'attesa che — lo sapevo — non sarebbe stata tradita. Ecco, appena dopo qualche passo il tam tam ricominciò, ma non più selvaggio. Il cuore seguiva un ritmo accelerato ma sicuro e il corpo s'indirizzò dove già sapeva di dover andare. Percorsi chilometri con la leggerezza libera e sfrontata di un ventenne. Una luna piena e bianca mi accompagnava. Per quante ore camminai? Il tempo era scandito solo dal battito del cuore, e il senso del tempo cambiò solo quando il ritmo cominciò ad accelerare. Avevo il cuore in gola, proprio come era accaduto quella mattina, quando arrivai davanti alla fabbrica abbandonata, circondata dalle ruspe che, come esigeva il mio progetto, il giorno dopo ne avrebbero cancellato ogni traccia.

Ora, vede, io non sono un sentimentale, signore. Per costruire bisogna distruggere, fare spazio, e imparare a convivere con questa colpa. Dunque, non riuscivo a capire perché il battito m'avesse condotto lì. Che cosa dovevo imparare, che cosa dovevo scoprire che non conoscessi già?

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