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| << | < | > | >> |Pagina 13La lezione giù dura della sua vita Neobula l'apprese a dodici anni, quando ancora non sapeva niente di sesso. Era una snella adolescente, sfiorata dagli sguardi impudici degli uomini, appena uscita dalla casa in cui non avrebbe fatto ritorno. La peste aveva spedito la madre a concimare la terra e, due anni prima, il padre era scomparso nelle cave di Siracusa, dove era stato deportato dagli spartani che lo avevano fatto prigioniero nella grande guerra. Ai suoi due zii era toccata la stessa sorte: uno era morto nella battaglia di Amphipolis, l'altro in una località sconosciuta. Non essendoci chi si prendesse cura di lei, eccetto una lontana parente troppo anziana per occuparsene, fu venduta ad Aspasia per farne un'etèra di lusso. Neobula aveva sentito parlare della proprietaria del bordello, Aspasia di Mileto, vedova di Pericle, di cui si dicevano tante cose, spesso in contrasto tra loro: dell'influenza che esercitava su alcuni circoli maschili, della sua cultura, di una fama basata su torbidi artifici e, soprattutto, dell'attività che si celava sotto la banale apparenza di una casa di piacere: una scuola per donne. Aspasia aveva quarantotto anni quando accompagnò Neobula al tempio di Afrodite. Lì, dopo aver deposto una corona di fiori ai piedi della dea, la giovane si tolse la tunica. Aspasia la esaminò: il corpo era ancora acerbo, ma aveva tutta l'aria di diventare la ragazza più bella che avesse mai messo piede nel suo locale. Gli occhi le brillavano, duri come zaffiri. Quando si fosse sviluppato, quel corpo sarebbe diventato provocante, e per allora Aspasia contava di averle insegnato tutto ciò che serviva per destreggiarsi tra gli uomini e nel sesso. Le anticipò che quella dell'etèra era un'esistenza dura, che per sopravvivere era necessaria molta astuzia e una tempra di ferro. Per il momento doveva soltanto obbedire e portare rispetto. Lei l'avrebbe istruita a pensare, a farsi bella, a sviluppare la sensibilità coltivando la danza, la poesia, la musica, per poi iniziarla anche ai misteri della scrittura. Nella Milesia avrebbe sempre trovato un tetto, cibo e protezione, solo in cambio del suo lavoro. Neobula si limitò ad annuire. Aspasia proseguì: "Ora avrai il tuo primo cliente. Ha pagato molto perché sei vergine. Devi sapere che la tua prima esperienza sarà dolorosa. Ma ricorda: nel sesso è buono tutto ciò che fa male". Neobula non aveva paura. Era convinta di essersi lasciata il peggio alle spalle, con la morte dei genitori, e aveva appena trovato una nuova famiglia che si sarebbe occupata di lei e le avrebbe insegnato a diventare donna. Era un'adolescente fragile, impettita nelle sue vesti trasparenti, lo sguardo perso, gli scuri capezzoli e il nero vello del pube che aderivano al bianco tessuto di lino, sotto l'attento sguardo del suo primo cliente. Nell'alcova della Milesia si spogliò con indifferenza, senza grazia, quasi seguendo un rituale privo di significato. Un fremito di pudore, tuttavia, la fece rabbrividire. Lui aveva una trentina d'anni, di bella presenza, la barba curata, un'elegante tunica di lino e robusti calzari. Le sue dita affusolate la indussero a pensare che fosse molto ricco. Neobula lo spogliò fissandolo negli occhi, senza mostrarsi troppo compiacente, senza prestare eccessiva attenzione al suo bellicoso membro. Sorrise timidamente, solo un istante, prima che una brusca espressione dell'altro raggelasse quella sua civetteria. | << | < | > | >> |Pagina 71Nel primo pomeriggio il quartiere Ceramico era un formicaio. Lungo i viali alberati i venditori annunciavano prezzi e prodotti con voce incolore, monotona. La luce si rifletteva sui banchi del pesce, sugli orci umidi d'olio, e infondeva un riverbero porpora al bronzo delle botteghe. Aleggiava nell'aria un puzzo penetrante di frutta marcia, di folla sudata e piscio di cane. Un turbinio di gente oziosa girovagava indaffarata, curiosa, capace di discutere per ore il prezzo di una qualsiasi cianfrusaglia. Con indosso un semplice tribone di tela grezza, a mo' di corta tunica, Socrate ascoltava con grande interesse il ragazzo che camminava al suo fianco, intento a ragguagliarlo sulla sua breve vita, sugli scontri col padre e sui dubbi che lo arrovellavano, primo fra tutti se il genitore avesse o no il diritto di obbligarlo a entrare nell'attività famigliare. Il filosofo, compiacendosi della bellezza e dell'intelligenza del giovane, lo interruppe solo per dirgli: "Caro Antemione, sei talmente preso dalle tue parole che a malapena ti accorgi di quanto accade attorno a te, neanche camminassi per una landa desolata. Guardati intorno: questo posto è pieno di vita, di animazione, di persone con ansie e problemi. Osserva, ascolta ciò che succede e imparerai cose nuove e importanti". I due si fermarono in mezzo alla piazza e prestarono attenzione. Videro passare un acquaiolo con la botte sulla testa fissata su un cercine; si fecero strada tra campagnoli abbronzati, contadine con ceste di vimini che soppesavano, annusavano, tastavano - non toccarlo! Č tutto di buona qualità, fresco! Tre dracme, una, tre, due... Nell'aria immobile aleggiava un puzzo organico e dolciastro, i pesci allineati sulle assi gocciolanti, tutto si cuoceva all'ombra screziata dei cannicci: pernici, aringhe, torte e pani. Si barattava estraendo una grassa gallina da una cesta, esaminando la dentatura di un asino, infilando il dito in una kylix d'olio d'oliva. La polvere delle strade sollevata dal quotidiano scalpiccio di tanti calzari si posava sui banchi esposti alle intemperie, sulle baracche di legno, sui teloni ricurvi, poveri ripari d'ombra. Un predicatore orfico coperto di stracci arringava, dall'alto di una cesta da frutta, una dozzina di contadini intenti ad ascoltare un messaggio salvifico che imponeva purificazione e dieta vegetariana. Un gruppo di ragazzi gli lanciò delle pietre cacciandolo dalla piazza. La scena suscitò l'ilarità generale. Chi si imbatteva in lui lo celiava agitando una mano davanti al proprio naso. "Litteo!" gli urlavano. "Perché sei sempre circondato da mosche?" Girandosi verso costoro, l'uomo alzò il pugno e sbraitò rabbioso: "Le mosche sono attratte dalla carne morta!" Socrate e Antemione si diressero verso zone più tranquille per proseguire la conversazione. "Hai notato qualcosa di insolito?" gli chiese il filosofo. "Sembra l'arena di una palestra in cui la gente si azzuffa per quattro fichi secchi." "Credi che questi uomini riflettano sul senso da dare alla propria esistenza?" "Non credo", replicò Antemione. "Sono troppo presi a sbarcare il lunario ogni giorno. Questo assorbe tutte le loro energie e li rende tanto chiassosi." "Č anche la tua preoccupazione?" "Se così fosse, dovrei solo compiacere mio padre; in tal caso, godrei dei beni che ci appartengono." "In un certo senso sei dunque diverso da tutti costoro, che non esiterebbero a svolgere un mestiere redditizio come quello di tuo padre, godendo di grandi benefici. O non credi di essere diverso?" "Sì, mi sento diverso da loro. Il figlio del fabbro scopre i segreti della fucina vedendo lavorare il padre; il figlio del pastore accompagna il suo a pascolare il bestiame sul monte e, mentre imparano il mestiere dei propri avi, non si chiedono se quanto apprendono è ciò che davvero desiderano, ciò che li renderà felici, sanno solo che ne trarranno vantaggi. E in questo può darsi che non si sbaglino. A me non basta fare un mestiere utile. Aspiro a qualcosa di più, che però non so spiegare." "Č senza dubbio un problema importante", convenne il filosofo. "Ma prima è il caso di chiarirne uno un po' più semplice. Perché accade che, inspiegabilmente, un giovane non voglia seguire la strada tracciata dal padre se ha tutta l'aria di essere assai prospera?" | << | < | > | >> |Pagina 112Nelle ultime settimane non si parlava d'altro. La notizia era corsa di bocca in bocca per tutta la città, suscitando ogni genere di reazione: giubilo, sollievo, stupore, indignazione o tristezza, ma mai indifferenza. La persona più colpita fu, senza dubbio, Aspasia. In preda a una grande angoscia, la donna si recò da Socrate. Non aveva dimenticato quanto, un tempo, il filosofo si era prodigato per salvare il figlio, e sentiva di avere un grosso debito verso di lui. Sapeva che la vita dell'amico era in pericolo, anche se questi non sembrava, o non voleva, accorgersene, Lo trovò steso al sole del patio mentre, nel tugurio, la sposa Santippe tentava di calmare un neonato. Il vecchio se ne stava tranquillo, come se nulla lo sfiorasse: né le urla del figlio, né l'irritazione della moglie, né il processo incombente. Aspasia gli chiese se aveva preparato l'arringa difensiva. "La mia difesa è la mia vita", rispose lui. Invano lei tentò di convincerlo che, in tribunale, quella dichiarazione non sarebbe servita a molto. Socrate non fece una piega: non aveva niente da nascondere ed era convinto che le ingiurie e le calunnie sarebbero crollate da sole, data la loro infondatezza. Aspasia, conoscendo Anito e i suoi propositi, considerava il problema da un punto di vista più pratico. "Non intendo ingannarti, Socrate. Hai dei nemici potenti. Sai di cosa ti accusano?" "Come faccio a saperlo?" La donna gli si sedette accanto. Rifletté bene, prima di parlare. Voleva trovare le parole giuste, perché sapeva che sarebbe stata un'impresa titanica convincerlo. Si era ben preparata ad affrontare la situazione. "Ascoltami, Socrate. So che la tua serenità è la prova della tua virtù. Noi, i tuoi amici, lo sappiamo, e spero anche che tu riesca a convincere la giuria. D'altro canto, so come funzionano questi processi... Ricorda che anch'io ho dovuto subirne uno. Rammenta cosa è accaduto a Protagora e a Euripide. Č una trappola mortale. Ti vogliono incastrare. E si serviranno di argomenti meschini, non importa se falsi. A volte basta instillare nella giuria un lieve sospetto. Le accuse che ti rivolgono sono molto gravi, implicano una minaccia per la stabilità della polis. Benché non dispongano di prove attendibili, non avranno esitazioni. Tu sai come vanno le cose di questi tempi: la gente ha paura, non si fida più di nessuno, e vuole evitare disgrazie come quelle accadute di recente. Sono venuta a sapere qualcosa circa il tuo capo d'accusa, Socrate, ed è di natura politica. Sono intenzionati a distruggerti. Conoscono i tuoi punti deboli, insisteranno sui tuoi rapporti con Alcibiade e Crizia. Ed è sufficiente che in un tribunale risuonino questi due nomi perché scoppi un terremoto. Quell'Anito ha preparato le cose per bene e gode di notevoli appoggi. Č un uomo potente, lo sai. Devi impegnarti a fondo nella tua difesa. Sono molto preoccupata." "Sono solo calunnie, cara Aspasia. Chi credono di impressionare?" "Socrate!" Aspasia non potè reprimere un singhiozzo. "Devi preparare la tua difesa! " Lui la fissò in silenzio, compatendola, senza sapere che fare. Aspasia, ripreso il controllo di se stessa, estrasse un rotolo di papiro che teneva in una borsa di tela sotto le vesti e glielo porse. Al filosofo bastò un'occhiata per capire che si trattava di un'orazione giudiziaria. "Leggilo attentamente. Č di Lisia, il logografo." "Non dovevi preoccuparti, Aspasia." "Leggilo ora, ti scongiuro." Socrate fece quel che l'amica gli chiedeva. La prima parte consisteva in una formale dichiarazione di patriottismo e fedeltà ad Atene; quindi, dopo aver negato con una certa enfasi le accuse rivoltegli, la perorazione chiudeva in tono vagamente patetico: E così, ateniesi, è falso che io abbia aizzato i giovani contro le nostre sacre usanze religiose e democratiche. Č tempo, invece, di ritrovare la fiducia in noi stessi e di raccomandarci agli dei affinchè veglino sulla pace e la concordia, recuperando lo spirito di Pericle e ricostruendo la città per restituirle l'antico splendore. Amo Atene, come tutti sapete, e mai mi sono allontanato dalla città se non quando fui chiamato in guerra per difenderla. Non sono reo di empietà, e nei dialoghi con i miei giovani amici non ho mai osato mettere in dubbio i principi della polis, guidandoli piuttosto lungo il cammino della virtù e della moderazione, per servire con rettitudine la nostra divina città. | << | < | > | >> |Pagina 249Tra i vapori del vino e il crepitare del sego delle lucerne, era tutto un viavai di pepli svolazzanti, di vesti trasparenti, un tripudio di femmine flessuose, ondeggianti, spesso discinte; una densa fragranza di oli, un mormorio di voci e di risate che sembravano affiorare da abissi irreali. Mollemente abbandonati sui cuscini o distesi sul pavimento, gonfi di vino, gli uomini contemplavano ipnotizzati il corpo sinuoso di una ballerina che inaugurava le esibizioni notturne emergendo dalla fitta oscurità, in un tintinnio di braccialetti e cavigliere, agitando la folta chioma e inscenando una serpeggiante danza in controluce. Le mescitrici servivano il vino inginocchiandosi davanti ai clienti e sorridendo premurose, invitanti e profumate. Le etère entravano e uscivano dalle alcove, tenendo gli uomini per mano, docili come cagnolini; li seducevano l'uno dopo l'altro fra veli e drappi, fra danze e accordi di cetra, fra sussurri, grugniti e risa, nella prossimità dei corpi, nel contatto delle epidermidi sudate, spensierate e felici per la notte ancora giovane. Vedendole così, scalze come dee, dimenare in modo provocante le natiche, o inclinarsi per porgere una coppa, sussurrando all'orecchio un motto mordace, mostrando gioiose i seni, era impossibile non desiderarle fino al delirio. Il segreto della Milesia consisteva nell'essere un luogo ideato per esaltare i sensi in quanto riusciva a ingannarli. Nei giochi di luce e di specchi di rame levigato che riflettevano il sinuoso guizzare delle fiamme, nelle pareti rivestite di mosaici argentei come squame di pesce, che rifulgevano all'incessante viavai di ombre, nel liquore che ubriacava e nell'evanescenza dei profumi era racchiuso un profondo inganno, uno scambio di apparenze. Ecco perché si aveva l'illusione di poter appagare quell'agognata brama dei sensi. Steso bocconi su una sorta di lungo, confortevole triclinio, mentre Neobula gli praticava un memorabile massaggio, Prodico osservava un arazzo appeso al muro che raffigurava Odisseo legato all'albero maestro della sua imbarcazione. Sulla testa dell'eroe svolazzavano, tentatrici, le sirene, perfidi uccelli dal volto di donna. Dalla posizione di Odisseo si intuiva l'immane sforzo che stava compiendo per liberarsi dalle funi e farsi inghiottire dalle tenebrose acque del Ponto. Vagamente stordito dal languore e dal penetrante aroma dell'unguento di Cipro di cui gli aveva cosparso il corpo, il sofista immaginava che quelle arti da sirena fossero le stesse impiegate da Neobula per annichilirgli i sensi. Si sentiva viscido e inerte come un pesce esposto sui banchi del mercato, pronto per essere trinciato. Le dita della donna manipolavano esperte il suo corpo, rimuovendo le tensioni e rilassandogli le membra, per poi cingersi attorno al collo, letali e precise, in una carezza liberatoria. Un sottile tramezzo li separava dalla confusione del bordello, garantendo loro una certa intimità. Prodico avrebbe voluto restare così, in quella posizione, all'infinito. Ogni tanto, quando lei gli si piazzava davanti, intravedeva alla luce della lampada a olio le sue gambe snelle e levigate, perfettamente depilate con la cera. Non provava il desiderio di allungare la mano per toccarle. La sensazione di voluttuosa indolenza sovrastava tutte le altre. Da anni, ormai, si era accomiatato dal sesso, ma si sarebbe fatto tagliare una mano e un pezzo dell'altra pur di recuperare l'antico vigore. "Devi aver condotto una vita molto interessante, in quanto ambasciatore sofista", esordì Neobula. "Avrai certo amato molte donne e scritto dei bei libri." L'etèra portava i capelli castani raccolti in un panno di seta violetta, il suo colore preferito. Lo prediligeva in tutte le sue sfumature, alcune più tendenti al rosso e altre al blu, come il colore del mare all'imbrunire, anche per l'imation e il peplo dorico. "Poche veramente belle e molti brutti libri." "Non ho mai giaciuto con un sofista. Sono pochi e hanno strani gusti. In ogni caso, mi attrae ogni tipo di perversione." Gli stava massaggiando le spalle, premendo con il palmo della mano verso l'esterno. Queste cedevano, quasi le ossa di Prodico fossero diventate elastiche. "Non ti sei persa niente", ribattè lui pacato. "Voi uomini dotti non credete alla passione", disse Neobula in tono canzonatorio e seducente. "Cosa c'è di più serio della passione? Č causa di guerre e massacri e genera gli esseri umani." | << | < | > | >> |Pagina 308Tre anni dopo il falso funerale Prodico era lì, ai piedi della tomba, per dare un'occhiata al cadavere e riconoscere qualche oggetto o indumento che potesse identificarlo. Prima ancora che gli schiavi estraessero la bara, allo spuntar dell'alba, al sofista parve di sentire un vago tanfo di putrefazione, di terra fermentata. Indietreggiò di qualche passo per non assistere al deplorevole spettacolo dell'apertura del feretro. Gli schiavi, tuttavia, non riuscirono a far saltare il coperchio della cassa con la leva di ferro e, dopo una serie di vani tentativi, decisero di fracassare a colpi il legno di pino. Non appena volarono le prime schegge, il sofista si allontanò. Una volta aperto un varco, fu tutto più semplice. A poco a poco apparve l'interno. Tre sacchi pieni di terra. Prodico sentì un tuffo al cuore, un'eccitazione incontenibile, il sapore del trionfo. Quell'attimo di soddisfazione lo ricompensava di tutti i suoi sforzi. Ed eccole lì, le spoglie inermi di Alcibiade accolte dall'amata patria: terra che cadde sulla terra. Gli sembrava di udire le risate di quella vecchia volpe che, ancora una volta, era riuscito a ingannare Atene. C'era da inchinarsi dinanzi all'ennesima levata di ingegno di un uomo che aveva fatto della propria esistenza un curioso capolavoro. Ordinò agli schiavi di richiudere la bara, di ricoprirla di terra e di rimettere a posto la lapide, come se quel segreto non fosse mai stato profanato. Era agitato ed ebbro di soddisfazione per aver battuto il rivale in astuzia. Mentre gli schiavi si davano da fare per riseppellire la bara, Prodico si mise a passeggiare tra le statue e i pini della necropoli, riflettendo sulla recente scoperta. L'aria si stava riempiendo dei garriti dei rondoni. Avanzando tra le tombe, assorto nei suoi pensieri, immaginò che Alcibiade fosse giunto ad Atene prima della morte di Socrate per farlo fuggire di prigione. Forse, però, non era riuscito ad arrivare in tempo, tenendo conto che il viaggio per mare dalla Tracia ad Atene era molto lungo. Sulla scia delle proprie supposizioni, Prodico calcolò i giorni trascorsi dal momento in cui Socrate era stato condannato a morte fino a quando aveva bevuto la cicuta; quel lasso di tempo consentiva a un emissario di raggiungere la Tracia per comunicare la notizia ad Alcibiade, ma non era tale da permettere a quest'ultimo di arrivare ad Atene in tempo per impedire l'esecuzione del suo mentore. Sempre sulla base delle proprie congetture, era dunque possibile che il filosofo avesse accettato la condanna, quasi senza difendersi, poiché sperava di convincere l'Alcmeonide a non ritardare ulteriormente il suo rientro ad Atene e a instaurare la Repubblica ideale di cui Alcibiade sarebbe stato il capo indiscusso. Tutti questi pensieri si affastellavano nella mente agitata del sofista, accanto ai dubbi sulle conseguenze di quella scoperta. E infatti, se era ancora vivo e si trovava nella terra di Pallade, quali erano i suoi piani? Stava forse organizzando una rivolta con l'aiuto dei suoi sostenitori? Riflette su quest'ultima ipotesi e la trovò impraticabile. Alcibiade avrebbe potuto contare sull'aiuto di ben pochi uomini. Quasi tutti gli antichi seguaci erano morti qualche anno prima, durante le sommosse che avevano abbattuto il regime dei Trenta. Era molto probabile che si fosse ritrovato solo e impotente. Qualcosa lo spinse ad alzare gli occhi e ad abbandonare quelle precipitate riflessioni. A uno stadio di distanza stavano seppellendo un uomo. Si diresse verso i cinque stranieri abbronzati e robusti, dall'aspetto di schiavi rematori. Questi si girarono appena, torvi in volto, e continuarono a scavare. Prodico li raggiunse e li salutò. Essi non risposero. Gettò allora un'occhiata al cadavere insanguinato che giaceva ai loro piedi e gli si gelò il sangue nelle vene. Era Alcibiade. Lo riconobbe senza alcuna esitazione. Nel petto aveva una ferita fresca inferta da una lama. Disse "amico" in varie lingue, e infine provò con il persiano. Dal modo in cui lo guardarono, comprese che l'avevano capito. "Chi lo ha ucciso?"
Gli uomini si scambiarono una breve occhiata, facendo trapelare un
sentimento che lui non seppe se definire di disprezzo, indifferenza o sospetto.
Non gli risposero. Accanto al cadavere, in un improvvisato sudario, Prodico
scorse un velo di seta violetta. Gli uomini terminarono di scavare, due di loro
presero il corpo e lo gettarono in fondo alla fossa: atterrò con un rumore sordo
sollevando ancora un po' di polvere.
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