Autore Elizabeth George
Titolo Cercando nel buio
EdizioneTea, Milano, 2014 [2002], Best , pag. 742, cop.fle., dim. 12,7x19,7x4 cm , Isbn 978-88-502-3469-1
OriginaleA Traitor to Memory [2001]
TraduttoreMaria Cristina Pietri, Enzo Verrengia
LettoreElisabetta Cavalli, 2014
Classe gialli , thriller












 

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Pagina 9

MAIDA VALE, LONDRA



LE ciccione ce la fanno. Le ciccione ce la fanno. Le ciccione ce la fanno, altroché se ce la fanno.

Katie Waddington arrancava sul marciapiede diretta alla sua auto, e intanto ripeteva tra sé il solito mantra a ritmo col passo pesante. Scandiva le parole mentalmente, non tanto per il timore di passare per matta perché parlava da sola, quanto perché il solo pronunciarle avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo ai suoi polmoni fin troppo provati, che già reggevano a stento. Come pure il cuore che, a sentire quello sputasentenze del suo medico curante, non era destinato a pompare sangue in arterie sempre più incrostate di grassi.

Ogni volta che lui la visitava, si ritrovava dinanzi a rotoli di carne, mammelle che pendevano dalle spalle come due pesanti sacchi di farina, un addome così flaccido da ripiegarsi in basso fino a ricoprire il pube, e una pelle butterata di cellulite. Aveva tanto di quel peso addosso da poter vivere un anno dei suoi stessi tessuti senza il bisogno di cibo, e a dar credito al medico i lipidi le stavano attaccando gli organi vitali. Se non avesse dato un drastico taglio a tavola, le annunciava solennemente ogni volta che andava da lui, prima o poi ci sarebbe rimasta.

«Collasso cardiocircolatorio o infarto, Kathleen», le diceva. «Scegli tu. Nelle tue condizioni, bisogna correre subito ai ripari e questo significa non ingerire nulla che si trasformi in tessuti adiposi, capisci?»

Come no? Dopotutto si trattava del suo corpo, ed era impossibile andarsene in giro con la stazza di un ippopotamo in tailleur senza notarlo alla minima occasione di vedersi riflessa in uno specchio.

Per la verità il medico era l'unica persona nella sua vita che aveva difficoltà ad accettarla per la cicciona senza speranza che era fin da bambina. E dato che quelli che contavano la prendevano così com'era, lei non si sentiva affatto motivata a calare di quei cinquanta chili che il medico le raccomandava di perdere per il suo bene.

E se anche avesse avuto dei dubbi sul fatto di poter essere accettata da un mondo di persone sempre più impeccabili, toniche e statuarie, quella sera, come ogni lunedì, mercoledì e venerdì, aveva avuto un'ennesima riprova del proprio valore alla seduta dei suoi gruppi di Eros in Azione, dalle sette alle dieci. Il suo studio era il ritrovo dell'intera fauna di disturbati sessuali dell'area metropolitana londinese, in cerca di sollievo e soluzioni. Sotto la guida di Katie Waddington -- che da una vita si dedicava con passione allo studio della sessualità – venivano esaminate le manifestazioni libidiche, analizzate le varie forme di erotomania ed erotofobia, la frigidità, la ninfomania, la satiriasi, il travestitismo e il feticismo, erano incoraggiate le fantasie ed era stimolata l'immaginazione, anche queste ultime in chiave erotica.

I clienti la ringraziavano in lacrime: «Lei ha salvato il nostro matrimonio». O la loro vita, la sanità mentale, spesso la carriera.

Il motto di Katie era: il sesso è un affare, e a dimostrarlo aveva alle spalle quasi vent'anni di attività, per un totale di circa seimila clienti pieni di gratitudine, più altri duecento in lista d'attesa.

Perciò camminava verso la propria macchina in uno stato d'animo a metà tra la soddisfazione e la pura estasi. Certo, lei era anorgasmica, ma chi mai l'avrebbe scoperto fintanto che riusciva a favorire con successo tanti begli orgasmi negli altri? In fondo, era quello che tutti volevano: sesso a volontà, e senza complessi di colpa.

E chi li guidava a quel traguardo? Una cicciona.

Chi li assolveva dalla vergogna delle loro stesse voglie? Una cicciona.

Chi insegnava loro tutto quanto, dallo stimolare le zone erogene al simulare la passione finché questa non tornava? Un'enorme, ridicola cicciona senza speranza di Canterbury. Era lei a farlo, e lo faceva, altroché se lo faceva.

E questo era molto più importante che contare calorie. Se Katie Waddington era destinata a morire di grasso, sarebbe andata così, punto e basta.

Era una serata fresca, come piaceva a lei. Finalmente in città era arrivato l'autunno, dopo un'estate torrida, e, mentre camminava nel buio con passo pesante, Katie passava in rassegna, come sempre, i punti salienti della seduta di gruppo di quella sera.

Innanzi tutto, le lacrime. Sì, quelle non mancavano mai, oltre ovviamente a un gran torcersi di mani, rossori, balbettii e bagni di sudore. Eppure arrivava sempre un momento magico, l'apice che finalmente compensava le ore perse ad ascoltare dettagli personali così ripetitivi.

Quella sera il momento era giunto grazie a Felix e Dolores (cognomi omessi), iscrittisi a EiA con lo scopo dichiarato di «riafferrare la magia» del loro matrimonio dopo aver speso due anni e ventimila sterline a testa per sviscerare i rispettivi problemi sessuali. Felix aveva ammesso da tempo di cercare l'appagamento al di fuori del vincolo matrimoniale; Dolores, dal canto suo, aveva confessato di godere col vibratore e una foto di Laurence Olivier nel ruolo di Heathcliff molto più che durante i rapporti sessuali col marito. Ma quella sera, certe riflessioni di Felix sul perché la vista del sedere nudo della moglie gli faceva pensare alla madre negli anni del declino erano state troppo per tre donne di mezza età del gruppo: queste gli si erano scagliate contro con tanta durezza e cattiveria che Dolores era balzata in sua difesa con tale passione da sommergere l'avversione del coniuge per il suo didietro con l'acqua benedetta delle lacrime. Dopodiché marito e moglie erano caduti l'uno nelle braccia dell'altra, con le labbra avvinte, e al termine della seduta avevano esclamato all'unisono: «Lei ha salvato il nostro matrimonio».

Katie ammetteva tra sé di non aver fatto altro che offrire loro un tribunale. Ma d'altronde era questo che certe persone desideravano realmente: un'opportunità di umiliare in pubblico se stesse o i propri cari, di inscenare una situazione da cui loro potessero salvarle o essere salvati.

Occuparsi dei dilemmi sessuali della popolazione britannica era un'autentica miniera d'oro. E Katie si considerava più che astuta per averlo capito.

Aprì la bocca in un ampio sbadiglio e sentì brontolare lo stomaco. Dopo una bella giornata di lavoro, tutta di filato dal mattino alla sera, si meritava una bella cenetta di ricompensa, seguita da una bella goduta dinanzi a un video. Preferiva i vecchi film, per i risvolti romantici: una dissolvenza in nero al momento cruciale le faceva un effetto molto più eccitante di particolari anatomici in primo piano e di una colonna sonora piena di gemiti affannosi. Avrebbe rivisto Accadde una notte, con Clark Gable, Claudette Colbert, e tutta quella deliziosa tensione fra loro.

Ecco cosa mancava in molte relazioni, pensò Katie, per l'ennesima volta in quel mese. Tensione sessuale. Tra uomini e donne non si lasciava più niente all'immaginazione. Il mondo era diventato un sapere tutto, dire tutto, fotografare tutto, senza più nulla da pregustare e ancor meno da tenere segreto.

Ma non poteva lamentarsi. Era proprio quello stato di cose ad arricchirla e, benché fosse grassa, nessuno gliene faceva una colpa quando vedeva la casa in cui viveva, i vestiti che indossava, i gioielli che portava o l'auto con cui circolava.

Si avvicinò al parcheggio custodito in cui l'aveva lasciata al mattino, dall'altro lato della strada, subito dietro l'angolo di fronte allo studio in cui trascorreva le giornate. Si accorse di avere il respiro più pesante del solito e si fermò sul cordolo prima di attraversare. Si appoggiò a un lampione e sentì il cuore lottare per compiere il suo dovere.

Forse, dopotutto, era davvero il caso di prendere in considerazione íl programma per calare di peso consigliatole dal medico, pensò. Ma un attimo dopo respinse l'idea. A che serviva la vita, se non per essere goduta?

All'improvviso arrivò una folata di vento, che le scostò i capelli dalle guance e le gelò la nuca. Le bastava solo un minuto. Il tempo di riprendere fiato e sarebbe tornata quella di sempre.

Rimase ferma e si accorse del silenzio calato sul quartiere, dove i negozi si alternavano alle abitazioni; a quell'ora le serrande erano calate e dietro le finestre delle vecchie dimore trasformate in appartamenti le tende erano accostate per la notte.

Che strano, pensò. Non aveva mai notato la quiete e il silenzio di quelle strade a tarda ora. Si guardò intorno e si rese conto che in un posto del genere poteva succedere di tutto, nel bene e nel male, e solo per caso si sarebbe trovato un testimone dell'accaduto.

Fu scossa da un brivido. Meglio affrettarsi.

Scese dal marciapiede e cominciò ad attraversare.

Non vide l'auto in fondo alla strada finché non si accesero i fari, che la accecarono. Il veicolo si precipitò verso di lei a tutta velocità, col fragore di un toro alla carica.

Cercò di scattare in avanti, ma l'auto le fu addosso in un istante. Lei era troppo grassa per togliersi di mezzo.

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GIDEON



16 agosto

TANTO per cominciare, le dirò che considero questo esercizio solo una perdita di tempo, e al momento, come ho cercato di spiegarle ieri, perdere tempo è proprio quello che non posso permettermi. Se voleva davvero che io credessi nell'efficacia di un'attività di questo genere, avrebbe potuto spiegarmi il metodo sul quale basa ciò che definisce «trattamento». Perché è importante il tipo di carta, di taccuino, di penna o di matita che uso? Cosa cambia per lei sapere dove scrivo materialmente queste assurdità che pretende da me? Non le basta il semplice fatto che io abbia acconsentito a sottopormi all'esperimento?

Lasci perdere. Non è il caso che risponda. So già cosa direbbe: «Da dove viene tutta questa rabbia, Gideon? Cosa nasconde? Che cosa ricordi?»

Nulla, non capisce? Non ricordo assolutamente nulla. È per questo che sono venuto.

Nulla? dice lei. Proprio nulla? Ne sei davvero certo? In fondo, il tuo nome lo conosci. E conosci anche tuo padre, sai dove vivi, cosa fai nella vita e chi sono le persone a te più vicine. Perciò, quando dici nulla, in realtà dovresti precisare quello che non ricordi...

Nulla di importante per me. D'accordo, mettiamola così: non ricordo nulla di importante per me. Era questo che voleva sentire? E adesso ci soffermeremo sul lato oscuro del mio carattere che tale affermazione rivela?

Anziché rispondere a queste due domande, mi dice che cominceremo con lo scrivere quello che ricordiamo, importante o no. Solo che con quel cominceremo in realtà intende che sarò io a farlo, e si tratterà di quello che io ricordo. Perché, come ha sentenziato con quel suo tono obiettivo e distaccato da psichiatra. «Ciò che ricordiamo spesso può essere la chiave per ciò che abbiamo scelto di dimenticare».

Scelto. Immagino che abbia usato di proposito quel termine: intendeva provocare una reazione da parte mia. Adesso le faccio vedere io, avrei dovuto pensare. Faccio vedere io a questa seccatrice cosa riesco a ricordare.

Quanti anni ha, dottor Rose? Trenta, dice, ma non ci credo. Sospetto non abbia neppure la mia età e, quel che è peggio, sembra una dodicenne. Come faccio ad avere fiducia in lei? Onestamente, crede di poter sostituire suo padre? Perché, sia chiaro, era lui che avevo accettato di vedere. Gliel'ho detto al nostro primo incontro? Ne dubito. Mi dispiaceva troppo per lei. Detto tra noi, l'unico motivo per cui ho deciso di restare quando, entrando nello studio, ho visto lei al posto di suo padre è stato perché mi sembrava così patetica seduta là, vestita a lutto, come se bastasse questo a darle l'aspetto di una persona competente in fatto di crisi mentali.

Mentali? mi chiede, cogliendo la palla al balzo. Allora hai deciso di accettare la tesi del neurologo? Ti basta? Non ti servono altre prove per convincerti? Benissimo, Gideon, questo sì che è un passo avanti. Lavoreremo meglio insieme se sei persuaso che non esiste una spiegazione fisiologica per quello che ti sta succedendo.

Come parla bene, dottor Rose. Ha una voce vellutata. Sa una cosa? Avrei dovuto girare sui tacchi e tornarmene a casa non appena ha aperto bocca. E invece no, perché è riuscita a farmi restare dicendo quella patetica sciocchezza del «sono a lutto perché è morto mio marito». Voleva suscitare la mia comprensione, vero? È così che le hanno insegnato: instaurare un legame col paziente, conquistarne la fiducia, renderlo influenzabile.

C'è il dottor Rose? le chiedo entrando nello studio.

Sono io il dottor Rose, mi risponde. Sono il dottor Allison Rose. Si aspettava di trovare mio padre? Purtroppo, ha avuto un infarto otto mesi fa. Adesso è in convalescenza, ma sarà un po' lunga, e nel frattempo non può esercitare. Perciò lo sostituisco io.

E via con tutte quelle chiacchiere sul perché è tornata a Londra e quanto le manca Boston, ma è meglio così perché lì ha lasciato dei ricordi che la fanno soffrire troppo. Sì, per via di suo marito, mi racconta. Arriva perfino a dirmi come si chiamava: Tim Freeman. E com'è morto: cancro al colon. E quanti anni aveva: trentasette. E che aveva rimandato l'idea di avere figli perché quando si è sposata era ancora iscritta a medicina, e poi, quando finalmente pareva il caso di pensare alla maternità, lui lottava per la vita e lei lottava con lui e in quella battaglia non c'era spazio per un bambino.

E io ho provato compassione per lei, dottor Rose: perciò sono rimasto. Il risultato è che adesso sono qui, seduto dietro la finestra del primo piano, che si affaccia su Chalcot Square. Scrivo queste stupidaggini con una biro, in modo da non poter cancellare niente, come da sue istruzioni. Uso un taccuino a fogli sciolti, così posso inserire delle aggiunte dove occorre, se per miracolo mi dovesse tornare in mente qualcosa in un secondo momento. E non faccio invece quello che dovrei e che tutti si aspettano da me: stare a fianco di Raphael Robson, per far sparire quell'infernale e onnipresente nulla tra una nota e l'altra.

Raphael Robson? Mi sembra di sentirla. Parlami di Raphael Robson.

Stamani ho preso del latte col caffè, e ora lo sto pagando, dottor Rose. Ho lo stomaco che mi brucia, e le fiamme arrivano in basso, fino a lambire le budella. Di solito il fuoco va verso l'alto, ma non dentro di me. Lì succede il contrario, ed è sempre così. Dilatazione dello stomaco e delle viscere, dice il dottore. Flato, intona, come impartendomi una benedizione medica. Ciarlatano, praticone, segaossa di quart'ordine. Qualcosa di maligno mi divora gli intestini e lui la chiama flatulenza.

Parlami di Raphael Robson, ripete lei.

Perché? domando io. Perché Raphael?

Perché è un punto da dove cominciare. È la tua mente stessa che ti ci spinge, Gideon. Così si mette in moto il processo.

Be', allora devo informarla che non comincia da Raphael, bensì venticinque anni fa, in una delle Peabody Houses, a Kensington Square.


17 agosto

Era là che vivevo. Non in una delle Peabody Houses, ma nella casa dei miei nonni, sul lato sud della piazza. Ormai le Peabody Houses non esistono più da tempo. L'ultima volta che sono stato là, al loro posto ho visto due ristoranti e una boutique. Eppure ricordo bene quelle case e come mio padre le sfruttò per costruire la Leggenda di Gideon.

È fatto così, mio padre, sempre pronto a sfruttare quello che si ritrova a portata di mano, pur di arrivare dove vuole. A quell'epoca, era irrequieto, sempre pieno di idee. Ora capisco che erano tentativi di dissipare i timori di mio nonno nei suoi confronti, dato che agli occhi del nonno il fallimento del figlio nella carriera militare presagiva un fallimento su tutti i fronti. E immagino papà sapesse che lui la pensava così. Dopotutto, il nonno non era un tipo che teneva per sé le proprie opinioni.

Era dall'epoca della guerra che non stava bene, mio nonno. Dev'essere stato per questo che vivevamo con lui e la nonna. Aveva trascorso due anni in Birmania, prigioniero dei giapponesi, e non si era mai del tutto ripreso. Temo che la prigionia avesse fatto scattare in lui qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto allo stato latente. Ma, in ogni caso, di questa situazione a me era stato detto soltanto che il nonno andava soggetto a certi «episodi», per i quali di tanto in tanto si rendeva necessario portarlo via per una «bella vacanza in campagna». Non ricordo niente di particolare a proposito di questi «episodi», dato che mio nonno morì quando avevo dieci anni. Ma rammento che cominciavano sempre con un terribile fracasso per tutta la casa, dopodiché mia nonna si metteva a piangere e mio nonno urlava a mio padre: «Tu non sei mio figlio», mentre loro se lo portavano via.

Loro? mi domanda. Loro chi?

Io li chiamavo i goblin. Avevano l'aspetto di persone qualsiasi, ma i loro corpi erano posseduti da ladri di anime. Ogni volta, era papà a farli entrare in casa. La nonna li accoglieva sulle scale, con le lacrime agli occhi. Loro si limitavano a oltrepassarla senza una parola, perché quello che avevano da dire lo avevano già ripetuto più di una volta. Vede, erano anni che venivano per il nonno. Da molto prima che io nascessi, da molto prima che mi accucciassi a guardarli tra le colonnine della scalinata, come un rospetto impaurito.

Sì, precedo la sua domanda, ricordo quella paura. E c'è dell'altro. Ricordo che qualcuno mi tirava via dalla balaustra, staccandomi le dita dalle colonnine per portarmi altrove.

Ora mi chiederà: Raphael Robson, vero? È qui che entra in scena Raphael Robson?

Invece no. Tutto questo succedeva anni prima di lui. Raphael è arrivato dopo la Peabody House.

Rieccoci là, dice lei.

Esatto. Rieccoci a Peabody House e alla Leggenda di Gideon.


19 agosto

Ricordo davvero quella Peabody House? Oppure ho immaginato i particolari per riempire i vuoti dello schema fornitomi da mio padre? Se non fosse che mi torna in mente perfino l'odore di quel posto, direi che sto solo facendo il suo gioco, inventandomela di sana pianta per l'occasione. Ma dato che la puzza di candeggina ha ancora il potere di riportarmi in un attimo alla Peabody House, so per certo che la storia si regge su basi autentiche, indipendentemente da quello che ci hanno imbastito su mio padre, il mio addetto alle pubbliche relazioni e i giornalisti che li hanno intervistati. Francamente, per quel che mi riguarda, ho smesso di rispondere alle domande sulla Peabody House. Mi limito a dire: «È roba già rivangata. Andiamo su un terreno più recente».

Ma i giornalisti hanno sempre bisogno di un appiglio per i loro pezzi e, vincolati dall'ingiunzione dei legali di mio padre che li obbliga ad attenere strettamente le interviste alla mia carriera, non hanno nulla di meglio di quel che lui ha saputo ricavare da una semplice passeggiata nel giardino di Kensington Square.

Ho tre anni e sono in compagnia del nonno. Ho un triciclo, sul quale scorrazzo lungo il perimetro del giardino, mentre lui se ne sta seduto in quella specie di tempio greco che serve da riparo, vicino alla cancellata di ferro battuto. Il nonno si è portato un giornale, ma non legge, perché ascolta la musica che proviene da uno degli edifici alle sue spalle.

«Si chiama 'concerto', Gideon», mi spiega a bassa voce. «Ed è il Concerto in Re Maggiore di Paganini. Ascolta», aggiunge, e, quando al suo cenno mi avvicino, mi passa un braccio intorno alle spalle e io resto ad ascoltare.

È un attimo, e all'improvviso capisco. Ecco cosa voglio fare. Ci arrivo come può arrivarci un bimbo di tre anni, e da allora non l'ho più dimenticato: ascoltare è esistere, ma suonare è vivere.

Comincio a insistere di andare via immediatamente dal giardino «prima che sia troppo tardi».

«Troppo tardi per cosa?» mi chiede il nonno con un sorriso affettuoso.

Lo prendo per mano e glielo faccio vedere.

Lo porto alla Peabody House da dove proviene la musica, ed entriamo. Il pavimento di linoleum è stato appena lavato e l'aria ci brucia gli occhi con l'odore di candeggina.

Al primo piano troviamo la fonte del concerto di Paganini. In uno dei monolocali vive la signorina Rosemary Orr, musicista della London Philharmonic da tempo in pensione. È in piedi dinanzi a un ampio specchio a muro, con un violino poggiato sotto il mento e un archetto nella mano. Ma non accompagna il brano di Paganini. Ascolta l'incisione a occhi chiusi, con la mano che impugna l'archetto abbandonata su un fianco e le guance rigate di lacrime, che colano sul legno dello strumento.

«Lo rovinerà, nonno», affermo. Al che la signorina Orr si riscuote, e di certo si domanda cosa ci facciano sulla soglia della sua camera un vecchio signore artritico e un moccioso.

Ma non ha il tempo di dire una sola parola di costernazione, perché vado da lei, le tolgo lo strumento dalle mani e comincio a suonare.

Non bene, s'intende. Chi si aspetterebbe che un bimbo di tre anni, del tutto privo di esperienza, malgrado il talento naturale, sia in grado di prendere un violino ed eseguire il Concerto in Re Maggiore di Paganini dopo averlo ascoltato un'unica volta? Ma c'è già tutto, sia pure allo stato rudimentale: l'orecchio, il giusto equilibrio, la passione. La signorina Orr se ne accorge subito e chiede le sia permesso dare lezioni al piccolo genio precoce.

Così diventa la mia prima insegnante di violino. E studio con lei fino a quattro anni e mezzo. A quel punto si giunge alla decisione che per un talento come il mio occorre un tipo di istruzione meno convenzionale.

Ed ecco la Leggenda di Gideon, dottor Rose. Ne sa abbastanza di violino da capire dove subentra l'elemento fantastico?

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