|
|
| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione |
| << | < | > | >> |Pagina 7Negli articoli di giornale, l'eterogenea moltitudine di persone che spesso scende in piazza per manifestare è generalmente definita come il "movimento no global" o "antiglobalizzazione". Gli interessati si riferiscono collettivamente a se stessi come al "movimento di giustizia globale" o "movimento della società civile" o "dei cittadini". Alla peggio, se lo spazio per il titolo è davvero ridotto, si accontenteranno di un "altro-" ("altramondializzazione"): sempre meglio dello scorretto, e perfino insultante, "anti". Il movimento non è "anti": è internazionalista, e intensamente partecipe delle tematiche globali e della sorte di ogni singolo abitante del pianeta. La ricchezza di proposte concrete di cui si è mostrato capace lo rende più qualificato a essere definito "proglobalizzazione" di quanto in realtà non lo siano i suoi avversari. Tutto dipende da quale tipo di globalizzazione si intende, e a vantaggio di chi. Le persone che si sentono parte di questo movimento sono sicuramente una combriccola molto varia, ma se c'è una cosa che le unisce è la convinzione che "Un altro mondo è possibile". Questo slogan ormai familiare compare sui manifesti, sulle magliette, sugli striscioni; tanti oratori, me compresa, lo scandiscono alla fine dei loro discorsi, e i brasiliani, ne hanno ricavato una samba: "Um outro mundo é possivél". Ma lo è veramente? Io credo che la risposta possa essere affermativa, se... Questo libro è dedicato a esplorare quelle due lettere che possono cambiare ogni cosa. Quando mi sono unita al "movimento", come lo si chiamava, senza aggettivi, alla fine degli anni sessanta, si poteva dire (o gridare) "Fuori gli Usa dal Vietnam" e tutti capivano di che cosa si stesse parlando. Trentacinque anni dopo, se voi dite - di gridarlo neanche a parlarne - "Imponiamo una moratoria sul Gats" o "Aboliamo l'aggiustamento strutturale", è probabile che siate ricambiati da uno sguardo privo di espressione. Conquistare un altro mondo possibile oggi richiede cittadini molto ben informati. Spero che anche gli attivisti più collaudati e i più esperti militanti del cambiamento trovino utile questo libro, che è anche, in parte, una specie di manuale su "La globalizzazione e il movimento di giustizia globale per principianti". Il divario tra politica e conoscenza si sta ampliando, e molti non si sentono all'altezza di partecipare a una politica di cambiamento, anche se ammettono di sentirne terribilmente il bisogno. Inoltre, la crescita dell'astensionismo in tutte le elezioni nazionali dimostra che molti hanno scarsa fiducia nella democrazia rappresentativa; o sono disgustati dai politici tradizionali, che accusano di essere "tutti uguali" o, peggio, "tutti corrotti"; o, ancora, giudicano semplicemente inadeguati sia i politici sia i partiti. Rifiutandosi di mescolarsi con la vita pubblica, preferiscono ritirarsi nella loro dimensione privata. Il problema di questo atteggiamento è che oggi la dimensione privata non può più - se mai ha potuto - restare disgiunta dal mondo esterno e dalla sfera più ampia in cui è calata. La politica si insinua in tutte le nostre vite. In misura sempre crescente, i problemi si rivelano tali da non poter essere risolti a livello individuale, locale e neppure nazionale; perché la globalizzazione è più di uno slogan o di un'ideologia: è anche uno spostamento del potere a un livello così stratosferico che le voci dei cittadini vi arrivano deboli e lontane. Prendendo atto, implicitamente o esplicitamente, di questo, le persone possono sentirsi ancora più frustrate e impotenti, ritirarsi ancor più nel privato, innescando così un circolo vizioso. Questo libro cerca di chiarire il significato di quella sfera più ampia e di quel piano irraggiungibile. È rivolto a tutti coloro, e sono molti, che sperano e credono che il cambiamento sia possibile e stanno già lavorando per realizzarlo. Fino a che non si entra attivamente nel movimento di giustizia globale, è impossibile immaginare quante altre persone coraggiose, energiche, intelligenti, siano animate dalle nostre stesse convinzioni e siano pronte a battersi per difenderle - questa, almeno, è stata la mia felice esperienza. È dedicato a tutti coloro che esitano e dubitano che si possa fare qualche cosa, come pure a quelli che non sanno come fare a tuffarsi nella mischia. Anche chi è solo interessato a capire il movimento di giustizia globale come nuovo fenomeno politico e attore sulla scena mondiale potrà trovare utile questo libro, che spiega quali sono le molle che lo fanno - e ci fanno - girare: le nostre motivazioni, le nostre visioni del mondo, le nostre speranze, i nostri obiettivi. È dedicato a quelle persone che hanno alzato la mano durante il dibattito seguito a una delle mie conferenze dicendo: "Probabilmente troverete stupida questa domanda, ma..." (errato: nessuna domanda è stupida e tanti fenomeni sono davvero difficili da comprendere). Ai tre studenti liceali, visibilmente intelligenti, che mi hanno detto: "Abbiamo letto il manifesto di Attac e non lo abbiamo capito"; alle donne che hanno ammesso di avere rinunciato a frequentare le riunioni del gruppo locale di "altramondializzazione" perché non riuscivano a seguire i discorsi. È dedicato ai molti che esprimono indignazione e rivolta contro la politica convenzionale ma non vedono alternative, nonché a quella celebre e certamente mitica creatura che è il "cittadino medio", ovvero il "lettore generico intelligente". Che vi annoveriate tra questi ultimi o tra i militanti con più esperienza, se avete letto fin qui sarete probabilmente come me sgomenti per le tortuose oscillazioni dell'economia mondiale, scioccati per le scoperte quotidiane di corruzione nelle alte sfere, nauseati alla vista delle grandi multinazionali che "smarriscono" miliardi di dollari con la complicità dei propri revisori, dei banchieri e dei presunti "cani da guardia" del governo. Vedete che la disoccupazione e il lavoro precario continuano ad aumentare e che a esserne colpiti sono soprattutto i giovani; sapete che l'ambiente è sull'orlo del collasso e che il mutamento climatico mette a rischio la nostra sopravvivenza con devastanti periodi di calura, con cicloni, inondazioni, inaridimento delle colture, incalcolabile distruzione e forse perfino estinzione delle specie. Siete preoccupati per la crescente povertà che assilla centinaia di milioni di persone, e pensate che sia collegata alla guerra e al terrorismo. Avete visto scatenarsi senza freno le ambizioni dell'unica iper-mega-superpotenza mondiale, in particolare in una guerra che milioni di persone hanno cercato di evitare e le cui conseguenze a lungo termine ancora oggi è impossibile prevedere. In breve, vedete che la "globalizzazione" sta già avendo effetti estremamente negativi su di voi, sulla vostra famiglia, sui vostri amici e sulla comunità in cui vivete, sull'economia e la società del vostro paese, sulla pace e la sicurezza mondiali e sul pianeta nel suo insieme. È davvero impossibile controllare tutti questi processi? L'opinione dei cittadini conta ancora qualcosa? Come rispondiamo all'annosa domanda "che fare"? Io rispondo che un altro mondo è realmente possibile soltanto se il più alto numero di persone, con il più ampio bagaglio di esperienze, concezioni, capacità, si uniranno per farlo accadere. Le cose cambiano perché un numero sufficiente di persone non si stanca di volerlo e di darsi da fare in quel senso. Nessuno dovrebbe essere escluso, o autoescludersi per timore di non essere in grado di dare un contributo. Nessuno che desideri contribuire a costruire un mondo diverso dovrebbe, per mancanza di informazioni o collegamenti, restare a guardare fuori campo. Con modestia cercherò di condividere una parte delle informazioni e dei collegamenti di cui dispongo. Non c'è bisogno di avere competenze nell'ambito dell'economia o di altre discipline, per mia fortuna dato che non sono un'economista. Ma bazzico molto in questi territori, e so che cosa vuole dire attraversare le loro aride steppe e fitte foreste in cerca di spiegazioni. Questo viaggio mi ha aiutata a comprendere le persone che ritengono, erroneamente, di non poter capire o influenzare il modo in cui il mondo attualmente funziona. Garantisco che possono riuscire sia nell'uno sia nell'altro intento. Un altro mondo sarà inoltre possibile se eviteremo alcuni degli errori più frequenti, se individueremo i giusti obiettivi e applicheremo le giuste strategie. Non pretendo certamente di fornire tutte le risposte, ma forse la mia esperienza di scrittrice, di conferenziera e di militante del cambiamento, acquisita nell'arco di decenni, mi qualificherà se non altro a porre alcune domande pertinenti, a indicare alcuni percorsi e a dare alcuni avvertimenti. Nelle pagine che seguono non esiterò a fare riferimento a questa esperienza personale, se riterrò che possa essere utile ad altri. Molte risposte potranno solo essere frutto di uno sforzo collettivo all'interno di un dibattito democratico. Il momento che abbiamo di fronte non ha precedenti nella storia: nessuno ha mai cercato di democratizzare lo spazio internazionale e di assicurare una vita dignitosa a ogni abitante del pianeta. Queste conquiste non sono più un'utopia ma una prospettiva concreta: dichiariamo che un altro mondo è possibile perché realmente lo è. | << | < | > | >> |Pagina 24Il "Consensus di Washington"La globalizzazione neoliberista non è stata di certo un fenomeno improvviso, un ciclone storico che ha avuto la forza di spazzar via tutto ciò che esisteva in precedenza, qualche cosa che nessuno poteva prevedere né tanto meno controllare. Al contrario, è l'esito di più di vent'anni di scelte politiche precise, compiute dagli attori più potenti sulla scena mondiale. L'insieme delle politiche da essi propugnate viene spesso indicato come il "Consensus di Washington", perché quella visione del mondo è nata negli Stati Uniti. La dottrina neoliberista appoggiata dal governo statunitense, adottata e praticata dalle istituzioni internazionali, è stata implacabilmente imposta in tutto il mondo, determinando palesi disuguaglianze, indegne del progresso e in stridente contrasto con le conoscenze raggiunte nel Ventunesimo secolo. In quale modo è stata imposta? Spesso attraverso il meccanismo del debito. I paesi del Sud in via di sviluppo e quelli in via di "transizione" (le ex repubbliche dell'Unione Sovietica e i paesi satellite) - in tutto più di un centinaio -, pesantemente oberati dal debito, per evitare la bancarotta hanno dovuto piegarsi alle ingiunzioni del Fondo monetario internazionale. Il Fmi è una delle istituzioni che hanno maggiormente contribuito a rendere operativo il "Consensus di Washington" (Washington Consensus, che di qui in avanti chiameremo semplicemente Wc). L'esistenza del debito gli permette di agire come una sorta di sbirro internazionale e di dare ordini a governi ipoteticamente sovrani, perché senza il suo sigillo essi non potrebbero ottenere credito da nessuna fonte, né pubblica né privata. Altri sostenitori del Consensus sono la Banca mondiale e il Wto, le cui politiche assomigliano vistosamente a quelle del dipartimento del Tesoro statunitense.
Quando i vari elementi della dottrina del Wc vengono applicati ai paesi
indebitati, vengono definiti come "programmi di aggiustamento strutturale" o,
più adeguatamente, "terapie d'urto". I dettami della dottrina del Wc
rappresentano una specie di breviario economico e politico della globalizzazione
neoliberista, e possono essere sintetizzati come segue:
- Incoraggiare la concorrenza in tutti i campi e a ogni livello. Le persone, le aziende, le regioni, le nazioni sono in concorrenza tra loro. A esprimere questo spirito si prestano gli slogan più triti come "la sopravvivenza del più adatto", "l'ultimo è del diavolo", "chi si ferma è perduto". In un'epoca in cui gli scienziati sono indotti sempre più a riconoscere il ruolo vitale della cooperazione nella conservazione della specie e dei sistemi naturali, gli economisti e gli uomini d'affari dell'ortodossia imperante si appellano come mai prima d'ora a un primitivo darwinismo o a valori di stampo ottocentesco nel promuovere la guerra di tutti contro tutti. A questa legge di competizione selvaggia si sottraggono solo le maggiori aziende multinazionali, che sui prezzi si fanno sempre meno concorrenza. Mentre il forte fagocita il debole, in molti settori si afferma sempre più decisamente l'egemonia di cartelli, strutturati o informali, controllati da un ristretto numero di multinazionali. - Tenere bassa l'inflazione, cioè prevenire la spirale di aumento di salari-prezzi-salari che riduce il potere di acquisto della moneta. Al minimo segnale di inflazione, aumentare i tassi d'interesse. Questo renderà il credito oneroso e conterrà l'offerta di denaro. L' unico mandato della Banca centrale europea è quello di controllare l'inflazione: non una parola sull'occupazione o sull'espansione economica. L'occupazione viene favorita dai bassi tassi d'interesse perché questi consentono alle aziende e ai singoli di prendere in prestito denaro, specie per l'acquisto di beni costosi come l'auto o gli arredi domestici, contribuendo in definitiva a far girare l'economia e a incrementare i posti di lavoro. Ma talvolta le economie rimangono incagliate in una fossa, dove, pur non essendoci inflazione, l'attività economica è pigra o inerte. Molti sostengono che in Europa e negli Stati Uniti i tassi d'interesse siano stati abbassati troppo poco o troppo tardi, e che queste politiche sarebbero responsabili della stagnazione economica e della perdita di posti di lavoro. In ogni caso, per i neoliberisti del Wc, il nome dell'insigne economista inglese John Maynard Keynes, che predicava le politiche espansionistiche e l'intervento dello stato, non è certo oggetto di venerazione. - Concentrarsi sull'esportazione e aumentare il volume degli scambi commerciali. Gli scambi commerciali sono buoni per definizione, non importa se sconvolgano l'ambiente e rovinino i produttori locali. Che dispongano o no di reali alternative economiche, ancora una volta ci si aspetta che questi si "adattino", e alla fine tutto si risolverà per il meglio. Ormai si suppone che lo scambio sia libero, anche se a questa regola vi sono decine di eccezioni, molte delle quali intese a proteggere il Nord dalle esportazioni provenienti dal Sud. Tutti i negoziati sono volti a renderlo ancora più libero. Le "tigri" asiatiche (Corea, Taiwan, Singapore, Hong Kong, ma a volte all'elenco se ne aggiungono altre) sono grandi paesi esportatori. Nell'arco di pochi decenni sono passati dalla produzione di merci a basso costo a quella di articoli ad alto valore commerciale, e hanno incominciato a rifornire i mercati dei paesi industrializzati. L'hanno fatto usando le barriere doganali per proteggere dalle importazioni le loro industrie neonate, e attuando altre politiche interventiste che oggi sono considerate un'eresia in quanto contrarie alla dottrina del Wc. In tempi più remoti, nazioni oggi avanzate come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, il Giappone hanno fatto esattamente lo stesso; per tutte, la ricetta del successo è stata una miscela di protezionismo e interventi mirati dello stato. Oggi, le regole del Wc impediscono una politica del genere. Ogni paese tende di conseguenza a rimanere congelato nel posto che occupava prima di entrare nel gioco della globalizzazione, con ovvio vantaggio per quelli che si trovano in cima alla piramide e hanno già conseguito la prosperità. - Permettere al capitale, e anche a quello speculativo a breve termine, di migrare liberamente da un paese all'altro, benché sia stato dimostrato a più riprese che tali movimenti finiscano immancabilmente per produrre crisi finanziarie e quindi sociali. Il capitale speculativo a breve termine investito in titoli e azioni di imprese locali può abbandonare un paese - come infatti avviene - nel giro di pochi secondi, se le cerchie affaristiche influenti di New York o Londra iniziano ad avvertire difficoltà. In questo modo, centinaia di aziende locali falliscono, e migliaia di persone perdono il posto di lavoro. Durante la crisi finanziaria asiatica del 1998, la Malaysia e la Cina applicarono misure di controllo per impedire l'esodo dei capitali. Di conseguenza, furono colpite molto meno dalla crisi, rispetto ai paesi vicini. Non essendo pesantemente indebitate, ed essendo quindi più libere dai condizionamenti del Fmi, poterono contravvenire alla dottrina del Wc; ma pochi paesi sono in grado di permettersi questa scelta, come Messico, Brasile, Thailandia, Indonesia, Corea, Russia e altri hanno imparato a proprie spese. - Diminuire le tasse alle grandi imprese e ai singoli capitalisti: così, secondo la teoria, ciò che essi risparmieranno sarà "investito" generando nuovi posti di lavoro. In realtà, il risparmio sulle imposte viene più spesso collocato negli investimenti a breve termine già menzionati, o depositato in paradisi fiscali fuori dal paese. - Non procedere tuttavia alla chiusura dei paradisi fiscali, in cui numerose aziende e singoli capitalisti ricoverano il proprio denaro al sicuro dalle grinfie del fisco. Il pagamento delle tasse all'erario statale ricade così in misura crescente sulle spalle dei lavoratori stipendiati e salariati, sui consumatori e sulle piccole aziende, di solito radicati in un luogo fisico e non alla portata di paradisi come Monaco o le Isole Cayman. La quota dei bilanci statali coperta dal contributo delle grandi aziende è notevolmente diminuita nell'ultimo ventennio, mentre quella derivante dalle imposte sul reddito, sui consumi e sul lavoro dipendente è aumentata nella stessa proporzione. - Privatizzare, privatizzare, privatizzare. Uno dei postulati del Wc è che i mercati, lasciati a se stessi, produrranno i migliori risultati in ambito economico, e quindi anche sociale, tanto all'interno del paese quanto a livello internazionale. I mercati sono "efficienti", i governi non lo sono. L'ideale sarebbe che lo stato avesse solo un ruolo di supervisione a distanza, imponesse solo le regole che le imprese stesse richiedono, e intervenisse esclusivamente nei rari casi di "insufficienza del mercato". I governi dovrebbero avere scarsa parte, o nessuna, nella produzione di beni e servizi, tra cui anche i cosiddetti "servizi pubblici". "Privatizzazione" è l'eufemismo che viene usato in luogo di "alienazione" o "svendita" dei beni pubblici. L'impresa statale che viene "privatizzata" è il prezioso risultato di anni di impegno di centinaia e migliaia di lavoratori. Con la privatizzazione, essa viene sbrigativamente ceduta a ricchi investitori, singoli o istituzioni. Decine di studi, in particolare riguardanti la Gran Bretagna, che di questa tendenza è stata la punta avanzata, dimostrano che la privatizzazione è nociva in base a qualunque parametro: qualità, prezzo, possibilità di accesso, efficienza, sicurezza. Pensate a quanto sono insicuri e inefficienti i treni inglesi. - Rendere "flessibile" il mercato della forza lavoro e aumentare la competizione tra i lavoratori. Abolire le misure che tutelano i lavoratori, come le norme che regolano l'assunzione e il licenziamento; eliminare le indennità sociali obbligatorie come le ferie pagate, l'assistenza sanitaria, il congedo di maternità/paternità, i minimi salariali; ridimensionare i sussidi di disoccupazione. Questi costi indesiderati e ingiustificati dovranno essere soppressi in nome della "concorrenza". - Praticare il "recupero dei costi". Per esempio introdurre una tassa per la fruizione di servizi un tempo gratuiti come le scuole e gli ambulatori, pur sapendo che le conseguenze saranno disastrose, soprattutto per le ragazze e le donne. Alcuni imprenditori ed esponenti del Wc auspicano perfino la completa liberalizzazione dei movimenti di persone, ritenendo, del resto giustamente, che la migrazione non regolamentata condurrebbe rapidamente e ovunque alla riduzione dei salari e delle indennità sociali a livelli da Terzo mondo. Essi cercano inoltre di far abbassare gli standard relativi all'impiego di manodopera facendo pressione sui governi, e di solito ci riescono senza che nessuno realmente vi si opponga. Di solito ma non sempre: in Francia, in Italia e in altri paesi ci sono stati grandi scioperi e sono nati forti movimenti in seno alla società civile per difendere i diritti dei lavoratori e dei pensionati. | << | < | > | >> |Pagina 36Economia ed ecologia Oltre a non curarsi degli esseri umani e delle società, i giganti dell'economia sono ciechi anche alla natura quando essa non serva direttamente ai loro scopi in termini di profitto o immagine. A mio avviso, del resto, capitalismo e sostenibilità ambientale - come oggi si usa chiamarla - sono termini incompatibili sul piano sia logico sia concettuale. Due visioni del mondo - la visione economica e la visione ecologica - si affrontano oggi in una guerra che non sempre e ovunque è riconosciuta. L'esito di questa guerra deciderà nientemeno che il futuro dell'umanità, anzi deciderà se l'umanità avrà o no un futuro. So che il mio tono può sembrare apocalittico; d'altra parte, l'antagonismo tra economia ed ecologia è così profondo che ignorarlo significa andare incontro a gravi rischi. Malgrado lo slogan "Turtles and Teamsters united at last" [tartarughe e camionisti finalmente uniti] dipinto sugli striscioni di Seattle, temo che gran parte del movimento di giustizia globale non abbia ancora inserito l'ambiente tra i suoi temi di azione e di riflessione. Sotto questo aspetto, purtroppo, non è molto più avanti dei suoi avversari. L'"eco" di economia ed ecologia rimanda alla radice greca oikos, la tenuta, il dominio, la casa con i suoi abitanti. L'eco- nomos è la legge (o l'insieme di leggi) con cui si amministra il dominio. L'eco- logos è il principio istitutivo, lo spirito, la ragione di tutto: nel senso inteso da Giovanni all'inizio del suo vangelo: "In principio era il logos", abitualmente tradotto come il "Verbo". Considerando la radice greca, verrebbe da pensare che il logos debba essere ritenuto il più importante tra i due, e quindi sopravanzi il nomos. Normalmente, lo spirito e il principio istitutivo vengono prima delle leggi e dei regolamenti, e anzi li determinano, per cui dovrebbe essere l'eco- logos la forza che dirige l'economia.
Non avviene così nell'economia capitalistica globalizzata, che detta le
regole alla società. A modellare la maggior parte dei rapporti tra gli uomini, e
degli uomini con il mondo naturale, sono le forze del mercato. L'eco-
nomos,
l'economia globalizzata, il luogo di mercato, non vuol essere secondo al
logos
né ad alcuna altra cosa. Il
nomos
rivendica l'autorità su tutto il pianeta.
Segnali di pericolo Oltre a essere consapevoli degli orrori economici della globalizzazione, molti di noi hanno già familiarità con il catalogo dei rischi ambientali: i mutamenti climatici e il riscaldamento del pianeta, l'assottigliamento della fascia di ozono, l'abbattimento delle foreste, l'estinzione di una grande varietà di specie, l'inquinamento dell'aria e dell'acqua, la deturpazione delle coste, la desertificazione, salinizzazione e cementificazione della terra - e l'elenco non è ancora esaurito. Lo stato del Mar Mediterraneo, un tempo culla della civiltà europea, è un esempio che rende l'idea in tutto il suo orrore. Oggi il Mediterraneo offre di sé un'immagine alquanto deprimente. Lungo i suoi quarantaseimila chilometri di coste vivono stabilmente centotrenta milioni di persone, cui si aggiungono ogni anno almeno cento milioni di turisti. Il bacino Mediterraneo accoglie un buon terzo di tutto il turismo mondiale. Questa massa di persone produce annualmente intorno ai cinquecento milioni di tonnellate di rifiuti liquidi, parte dei quali, non trattata, viene scaricata direttamente in mare. I progressi nel trattamento dei rifiuti compiuti nell'ultimo decennio tendono a essere vanificati dall'aumento della popolazione lungo le coste del Mediterraneo orientale e meridionale. Se si aggiungono annualmente sessantamila tonnellate di detersivi, parecchie migliaia di tonnellate di metalli pesanti, enormi quantità di nitrati provenienti dai fertilizzanti, e almeno seicentomila tonnellate di petrolio dovute alle dispersioni e al lavaggio in mare delle petroliere, si comincia ad avere un quadro completo di tutta la deplorevole situazione. | << | < | > | >> |Pagina 50Alcuni biologi hanno stimato che l'uomo si sta già accaparrando, per il proprio uso, circa il 40 percento di quello che viene chiamato il prodotto primario netto, o prodotto fotosintetico netto, o Pfn, e cioè, fondamentalmente, tutto ciò che l'energia del Sole oggi produce o ha prodotto. Il Pfn misura l'incidenza dell'uso di alimenti, combustibili, fibre e altri prodotti vegetali da parte dell'uomo, unita agli effetti distruttivi dell'intervento umano sul potenziale dell'ecosistema causati dalla deforestazione, dal saccheggio della fauna ittica, dalla desertificazione e così via. È stato calcolato che anche il tasso di appropriazione del Pfn da parte dell'uomo si raddoppi circa ogni venticinque anni. Se queste cifre sono esatte - l'articolo scientifico che fornisce i dettagli è stato pubblicato nel 1986 e un altro li ha riconfermati nel 2001 - significa che, proseguendo con i ritmi attuali, il tasso di appropriazione del Pfn arriverebbe all'80 percento entro il 2015 e al 160 percento entro il 2040: ma prima di allora la Terra sarà bell'e spacciata.| << | < | > | >> |Pagina 51Le impossibilità logiche della crescitaBenché i dati avanzati da questi biologi ed ecologi siano puramente ipotetici, essi illustrano tuttavia il dilemma ecologico che abbiamo di fronte. Gli esseri umani dipendono da altre specie; non possono semplicemente arraffare tutto il Pfn disponibile e non lasciare nulla per le altre creature viventi, se non altro perché questo sarebbe suicida. Si tratta di un fenomeno che né il Forum economico mondiale di Davos, né Bill Gates, né nessun altro possono controllare. Per la prima volta nella storia, l'uomo è costretto a confrontarsi non solo con un'impossibilità naturale, ma anche con un'impossibilità logica e matematica, ma non sembra voler accettare questo fatto. Non stupisce che gli esperti di economia ostacolino e respingano il punto di vista degli ecologi: essi credono che la soluzione di tutti i problemi risieda nella crescita continua. Ma, come ci ricordava il defunto economista ed ecologo Kenneth Boulding, "quando una cosa cresce, diventa più grande". La crescita non è la soluzione ma il problema. Per la maggior parte degli economisti, questa è la più grave delle eresie, troppo scioccante perché la si possa perfino contemplare o discutere. La negazione della realtà fisica e biologica può diventare un modo di pensare e uno stile di vita. Alcuni economisti tentano di sfuggire al dilemma affermando che il capitale costruito dall'uomo può sostituire il capitale naturale. Dobbiamo quindi investire per migliorare la tecnologia, al punto da rendere irrilevante quanto capitale naturale sottraiamo al pianeta. Questa è un'altra argomentazione capziosa. Gran parte del capitale costruito dall'uomo dipende pur sempre direttamente dalle risorse naturali di base. Per usare uno degli esempi di Herman Daly, non conta avere tante segherie se poi non ci sono più alberi; o avere tanti pescherecci e tante fabbriche di inscatolamento del pesce se poi non ci sono più pesci. Quanto alla funzione di "discarica" della natura, come quella che assolve accogliendo il rilascio di CO2 nell'atmosfera, qual è il capitale costruito dall'uomo che potrà salvarci dalle conseguenze di un grave mutamento climatico? Che cosa succederebbe se abbracciassimo la logica alternativa, la visione non convenzionale degli economisti attenti all'ecologia, riconoscendo che la natura è il sistema totale e l'economia costruita dall'uomo soltanto un sottosistema soggetto alle sue leggi? Significherebbe, questo, la fine di una vita confortevole? Sicuramente no. In realtà, abbiamo tutto da guadagnare da una visione realistica, non romantica, della biosfera come sistema integrale e dell'economia come sottosistema; non solo perché la nostra vita e il nostro futuro dipendono da essa, ma anche perché quella vita sarebbe effettivamente migliore. In termini pratici, se accettassimo le premesse e quindi la concezione alternativa, la prima domanda sarebbe: quanto può ingrandirsi l'economia e, secondo, quanto dovrebbe ingrandirsi? Chiaramente non potrà continuare a raddoppiare ogni venticinque anni. E questo sarà tanto di guadagnato. Molto di quello che noi definiamo come crescita non è altro che il reddito derivante dalla distruzione del capitale naturale. Inoltre, gran parte della cosiddetta "crescita" in realtà ci rende più poveri, o cerca vanamente di compensare i passati fallimenti sul piano economico e sociale. La costruzione di carceri, la chirurgia plastica, le terapie contro il cancro, i dispositivi antifurto sulle auto, la ricostruzione dopo le guerre o gli attacchi terroristici, sono tutti fattori che contribuiscono alla crescita. Sarebbe assurdo dedurne che sia desiderabile che esista un maggior numero di carcerati, di ladri, di cancri e così via. È vero: un tempo la crescita economica era abbastanza strettamente correlata all'aumento del benessere generale, ma ormai non è più così da almeno vent'anni. La crescita è sempre più collegata a fenomeni di cui la maggior parte della gente farebbe volentieri a meno. Nei prossimi anni, gli interventi di bonifica su un ambiente sempre più degradato avranno certamente un posto preminente tra i progetti induttori di crescita. Ma perché non cominciare fin d'ora a cercare di mantenerlo in salute? Il benessere generale aumenterebbe, anche senza un aumento della crescita. | << | < | > | >> |Pagina 67Attori privati [1]. L'inpatto delle multinazionaliIn base a qualunque metro di giudizio, il capitalismo mondiale, nella sua versione più recente, è ingeneroso nei confronti dei poveri e non tratta equamente le persone e il pianeta; ma affermare solo questo significa dare una visione estremamente riduttiva del problema. In realtà, la globalizzazione neoliberista e il benessere umano sono fondamentalmente antagonistici. Come già abbiamo visto nel caso dell'ambiente, essi sono incompatibili sia sul piano della pratica sia su quello della teoria. [...] Mi sorprendo sempre quando altri si meravigliano dei licenziamenti. Un incredibile numero di persone, per altri versi intelligenti, sembra credere che il fine di un'economia capitalistica sia quello di creare posti di lavoro. Il fine di un'economia capitalistica è quello di creare profitti e accrescere "il valore per gli azionisti", punto e basta. Se avviene che soddisfi delle necessità umane, tra cui la necessità di lavorare, si tratta di un effetto collaterale. Come d'autunno gli alberi perdono le foglie, così le aziende "perdono" i lavoratori. Anche quando un'azienda è sana e redditizia può fare ricorso al licenziamenti: dal punto di vista del mercato, le persone non sono "esseri umani" con un nome e una famiglia alle spalle, ma "manodopera" o "risorse umane", e nei libri dell'azienda sono annotate come un costo, non come un patrimonio. Malgrado gli enormi investimenti tecnologici, la manodopera è ancora la voce che comporta singolarmente più costi per le multinazionali, ed è logico quindi che sia la prima a essere tagliata. Ecco come si comporta, per esempio, una rinomata azienda di prodotti di consumo. Nike ha lasciato gli Stati Uniti negli anni ottanta per trasferirsi in Corea; quando gli operai coreani hanno cominciato a scioperare per ottenere salari più alti, Nike si è spostata in Indonesia, dove all'epoca i salari erano appena sufficienti a garantire la sopravvivenza fisica. Anche gli operai indonesiani hanno lottato per avere paghe migliori, e quando i salari hanno raggiunto la quota di 2,50 dollari al giorno, Nike ha trasferito parte della produzione in Vietnam. Come molte multinazionali, Nike subappalta il lavoro a ditte che possono subappaltarlo a loro volta, per cui è difficile dall'esterno conoscere l'ubicazione esatta della produzione. | << | < | > | >> |Pagina 111Libero scambio, libere volpi e liberi pollaiO l'Europa cederà alle pressioni degli americani - purtroppo il corso più probabile, dati i politici attualmente al governo - oppure dovrà prendere atto che è arrivato il momento di riportare in uso un linguaggio che forse suonerà indelicato alle orecchie di gente raffinata, un linguaggio che usa termini vili come "sussidi" e "protezionismo". Presto l'Europa conterà almeno quattrocentotrenta milioni di persone e venticinque paesi membri, cifre che in seguito potranno ulteriormente ingrossarsi con l'inclusione dei Balcani, della Russia e di alcune delle ex Repubbliche socialiste. Se l'Europa fosse capace di compiere uno sforzo costoso e incondizionato per portare a regime questi nuovi arrivati (come ha fatto in passato con i Pigs - Portogallo, Italia meridionale, Grecia e Spagna) e desse quindi la priorità al commercio intraeuropeo e al mantenimento dei posti di lavoro in Europa, non sarebbe questo un mercato primario sufficientemente vasto? L'Europa dovrebbe inoltre privilegiare gli scambi con i paesi più vicini, e in particolare con quelli del Mediterraneo orientale e meridionale. Peraltro, le attuali norme del Wto non permettono a nessuno di accordare preferenze commerciali di questo tipo. Le norme preferenziali e commerciali europee dovrebbero inoltre essere rivedute in modo da includere merci provenienti dai paesi più poveri (soprattutto dalle ex colonie europee), a partire dai generi alimentari fino ai prodotti tessili, di pelletteria e abbigliamento. I neoprotezionisti, che insistono sulla necessità di "vendere dove si produce", questa volta hanno proprio ragione: perché, infatti, dovremmo acquistare le merci prodotte dalle "nostre" aziende in Cina o in altri paesi poveri lontani con lo sfruttamento di una manodopera oppressa e non sindacalizzata? Grideranno a questo punto i neoliberisti: "Allora era vero quello che pensavamo: voi siete contro lo sviluppo!". Nulla di più falso: noi acquistiamo prodotti da chiunque rispetti le convenzioni dell'Oil [l'Organizzazione internazionale del lavoro], il Protocollo di Kyoto e gli Accordi multilaterali sull'ambiente. Ma il commercio può e deve essere uno strumento di attuazione delle politiche; e la politica europea deve dare la precedenza all'Europa allargata, all'area vasta del Mediterraneo e agli ex possedimenti coloniali. Ciò non significa, peraltro, fare come gli Stati Uniti, che usano il commercio nella guerra interna all'Occidente. Il "libero scambio" è lo zoccolo su cui si fonda il dogma neoliberista, e su questo gli Stati Uniti non tollerano impertinenze. Robert Zoellick, US Trade Representative, ha informato il resto del mondo che chi non appoggia a tutto campo la politica estera statunitense non potrà stringere accordi commerciali e d'investimento con gli Stati Uniti. La Nuova Zelanda, per esempio, è tenuta fuori dal giro per aver negato i suoi porti e le sue acque alle navi nucleari statunitensi. Gli americani hanno la memoria lunga. E, sempre Zoellick, due mesi dopo l'11 settembre, con l'appoggio del commissario europeo Pascal Lamy, ha usato tutta la potenza del suo eloquio per indurre il vertice dei ministri del Wto, riunito a Doha, a firmare il cosiddetto "Doha Development Round", proclamando con grande sfoggio di retorica: "Potranno anche distruggerne la sede, ma mai riusciranno a distruggere il commercio mondiale; un nuovo accordo sarà il mezzo migliore per rispondere al terrorismo". Può darsi, ma il Sud, come in seguito è apparso evidente, non ha guadagnato nulla da questo accordo. Esso è servito unicamente ad accelerare gli accordi sui servizi e sulla proprietà intellettuale (Gats e Trips), e ad aprire la strada a nuovi patti sugli investimenti, gli approvvigionamenti governativi e la concorrenza. Se gli americani vogliono che ogni forma di attività sia regolata dal Wto è soprattutto perché questo fa i loro interessi, con il complice aiuto dell'Europa. Oggi, attraverso le norme commerciali, l'America aspira a controllare quasi ogni aspetto della nostra esistenza: dai film che vediamo al cibo che mangiamo. Gli Stati Uniti hanno usato abilmente gli accordi del Wto per costringere altri paesi a concedere brevetti ventennali, perfino sulle piante e sulle specie locali. Oggi, attraverso il Gats, le regole del commercio si insinuano in ogni ambito della vita umana: dall'istruzione alla sanità, alla cultura, all'acqua, ai servizi pubblici e così via. La Coalizione americana delle industrie dei servizi esercita forti pressioni sul US Trade Representative affinché questi si adoperi per ottenere l'apertura dei servizi europei - per esempio la sanità - alle aziende statunitensi. Ben sappiamo che il governo statunitense ha appoggiato le istanze delle industrie farmaceutiche che rifiutano all'Africa il beneficio dei farmaci generici contro l'Aids e altre malattie, malgrado le scelte formulate dal vertice ministeriale del Wto durante l'incontro di Doha nel 2002. Gli Stati Uniti hanno inoltre deciso di attaccare l'Europa sul tema degli organismi geneticamente modificati. Il teatro della sfida sugli Ogm e contro le misure restrittive dell'Europa è l'Organo di risoluzione delle controversie del Wto. Gli Stati Uniti affermano che in base alle norme del Wto tali misure sarebbero illegittime, e ne chiedono quindi l'abolizione, definendole barriere commerciali non necessarie che causano loro una perdita di oltre trecento milioni di dollari l'anno per mancate esportazioni. È probabile che gli Stati Uniti finiscano per vincere la vertenza; ma il fatto paradossale è che gli stessi commissari europei Lamy e Fischler sembrano stare dalla loro parte. Il problema, in realtà, non è tanto la perdita causata dalla mancata vendita dei raccolti, quanto la messa in discussione di un principio, cioè il diritto delle aziende americane di vendere e piantare semi Ogm in ogni parte del mondo a loro completa discrezione. Se quest'ultima opzione dovesse passare, gli Ogm si diffonderebbero ovunque, e l'agricoltura biologica diverrebbe pian piano impossibile; i giganti delle biotecnologie come Monsanto venderebbero ogni anno i loro prodotti agli agricoltori, rendendoli prigionieri di un sistema totalmente imposto. Le aziende sono così disperatamente in cerca di un aggancio, che in Spagna, nella provincia di Aragona, stanno distribuendo gratis i semi agli agricoltori in modo da creare dipendenza. La denuncia al Wto costituisce una minaccia diretta non solo alle scorte alimentari europee, ma anche alla libertà dell'Europa di scegliere i propri sistemi di coltura. Spero che questa volta gli Stati Uniti incontrino una ferma risposta. | << | < | > | >> |Pagina 118Quale altro mondo, e come?Quando il movimento di giustizia globale afferma che "un altro mondo è possibile", sintetizza una tesi che mi limito qui a riassumere brevemente, dal momento che essa già permea ogni pagina di questo libro. Forse per la prima volta nella storia, il mondo potrebbe davvero permettersi di offrire a ogni abitante della Terra l'opportunità di una vita decente - cibo a sufficienza, acqua pulita, alloggi adeguati, istruzione di base, assistenza sanitaria e servizi pubblici - come enunciato nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948. Ovviamente occorrerebbe denaro: e dove si potrebbe reperirlo? Principalmente laddove si trova: nella sfera internazionale, nei profitti delle megacorporation e sui mercati finanziari; nella cancellazione del debito ai paesi poveri, nella chiusura dei paradisi fiscali, nel costringere le società a pagare le tasse, nel fare del cosiddetto "libero scambio" uno scambio basato sull'equità. Un altro mondo dovrà cominciare con un nuovo programma di tassazione e ridistribuzione di stampo keynesiano da applicarsi su scala mondiale, simile a quello che, su scala nazionale, è stato introdotto un secolo fa nei paesi ricchi di oggi. Tale programma dovrebbe essere gestito democraticamente, in modo tale che i cittadini condividano la responsabilità di individuare le priorità e di sorvegliarne la corretta applicazione in ogni paese. Questa specie di "Piano Marshall" applicato su scala mondiale imprimerebbe un forte impulso al mondo stagnante dell'economia, come avvenne negli Stati Uniti degli anni trenta con il New Deal, e creerebbe più spazio politico perché la gente possa decidere quale tipo di economia e di società incontri maggiormente il suo favore. Accetto l'obiezione che, anche quando si riesca a ottenerlo, il denaro occorrente per tale ciclopica impresa proverrebbe comunque almeno in parte dai profitti delle multinazionali e dai mercati finanziari. Questa soluzione implica quindi che tali forme di produzione e di scambio continueranno a esistere. Deduzione corretta. Ma accettiamo che sia necessaria una fase di transizione. I paesi poveri risultano a tal punto devastati, e i paesi ricchi hanno subito tali scacchi sociali che una robusta iniezione riparatrice di denaro è necessaria. Troppe persone vivono attualmente in condizioni meno che umane, e non possiamo aspettare di aver cambiato l'intero apparato capitalistico per fare qualche cosa in proposito.
Di sicuro non è solo questione di denaro, ma senza di esso centinaia di
milioni di persone saranno condannate alla mera sopravvivenza. Aspettando che la
democrazia civile conquisti più spazio, possiamo intanto affinare l'inventiva
per trovare nuovi metodi di creazione e distribuzione della ricchezza.
|