Copertina
Autore Susan George
Titolo Le loro crisi, le nostre soluzioni
EdizioneNuovi Mondi, Modena, 2012 , pag. 320, cop.ril.sov., dim. 14,5x21,5x3 cm , Isbn 978-88-8909-193-7
OriginaleWhose crisis, whose future?
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2010
TraduttoreJason Nardi
LettoreRiccardo Terzi, 2012
Classe economia , globalizzazione , economia finanziaria , politica , ecologia , beni comuni
PrimaPagina


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Indice


Prefazione                                                    9

Introduzione: Scegliere la libertà                           15

Capitolo 1: Il muro della finanza                            35

Capitolo 2: Il muro della povertà e della disuguaglianza     81

Capitolo 3: Il muro dell'alimentazione e dell'acqua         119

Capitolo 4: Il muro del conflitto                           171

Capitolo 5: Il nostro futuro                                205

Conclusione                                                 281

Note                                                        293


 

 

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Pagina 15

Introduzione


Scegliere la libertà



Quasi nessuno se n'è accorto ma, fatta eccezione per un'esigua minoranza, siamo tutti in prigione. Chi ci sorveglia non è stupido, ci lascia andare in giro liberamente alla luce del sole e guardare i film che vogliamo ma, per molti degli aspetti più importanti della nostra vita, non siamo liberi. Le loro crisi, le nostre soluzioni getta uno sguardo lucido e disincantato sul regime della globalizzazione neoliberista in cui viviamo e cerca di spiegare come siamo stati incarcerati. La finanza governa la nostra economia; finanza ed economia insieme impongono un mondo estremamente iniquo; per centinaia di milioni di persone diventa sempre più difficile accedere a risorse indispensabili come cibo e acqua, mentre il pianeta è sostanzialmente ridotto alla stregua di una miniera da sfruttare e di una discarica; per tutte queste ragioni, continueremo a farci la guerra. L'ultimo capitolo, il più lungo, propone modalità e strategie concrete per evadere da questa prigione.

Ho scritto questo libro perché sono arrabbiata, perplessa e impaurita: arrabbiata perché tante persone stanno soffrendo inutilmente a causa della crisi economica, sociale ed ecologica e perché i capi di Stato e di Governo dei principali Paesi non danno alcun segnale di disponibilità al cambiamento; perplessa perché sembra che non comprendano né considerino rilevante il malumore che serpeggia tra le popolazioni, il risentimento diffuso e la necessità di un'azione tempestiva; impaurita perché, se non interveniamo subito, sarà troppo tardi, soprattutto per quanto riguarda il cambiamento climatico.

Potremmo goderci un mondo pulito, verde e ricco, in grado di garantire a tutti una vita dignitosa su un pianeta sano. Non è una remota utopia, ma una possibilità concreta. Il mondo non è mai stato così ricco e oggi abbiamo a disposizione tutti i saperi, gli strumenti e le competenze di cui abbiamo bisogno. Gli ostacoli che dobbiamo fronteggiare non sono di natura tecnica, pratica o finanziaria, bensì politica, intellettuale e ideologica. La crisi potrebbe rappresentare una straordinaria opportunità per costruire un mondo del genere, e l'obiettivo di questo libro è spiegare come e perché ci siamo cacciati in questa situazione e in che modo possiamo uscirne, a tutto vantaggio del pianeta e di coloro che vi abitano.

Anche se gli aspetti finanziari della crisi hanno calamitato gran parte dell'attenzione generale escludendo gli altri fattori dalle prime pagine dei giornali e dal nostro orizzonte mentale, quella in cui siamo immersi è in realtà una crisi multiforme, che ha già un impatto — o lo avrà a breve — sulla vita della maggior parte di noi, sotto ogni aspetto, e sul destino del nostro habitat terrestre. Chiamatela crisi del sistema, della civilizzazione, della globalizzazione o dei valori umani, oppure usate qualche altro termine universale e onnicomprensivo: il punto è che ci tiene prigionieri, mentalmente e fisicamente, e noi dobbiamo liberarci dalle nostre catene.


Le sfere

Possiamo spiegare la natura di questa prigione in due modi. La prima metafora che trovo utile consiste in una serie di sfere concentriche, la cui importanza diminuisce man mano che ci si avvicina al centro. La sfera più esterna e più importante è denominata "Finanza", la successiva è l'"Economia", cui segue la "Società" e, infine, la sfera più interna e meno importante corrisponde al "Pianeta". Questo è l'ordine oggi in vigore. Per me, la sfida che tutti siamo chiamati a raccogliere, in ogni parte del mondo — e che richiede uno sforzo senza precedenti nella storia dell'umanità — è quella di invertire esattamente l'ordine di queste sfere. Dobbiamo guardare in alto, verso il cielo, ripensare alla famosa immagine della terra vista dallo spazio, riconquistare un senso delle proporzioni e ricollocare le priorità al loro posto.

Il nostro bel pianeta finito e la sua biosfera dovrebbero costituire la sfera più esterna perché le condizioni della Terra, in ultima analisi, comprendono e determinano quelle di tutte le altre sfere più interne. La successiva dovrebbe essere la società umana, che è tenuta a rispettare le leggi e i limiti della biosfera, ma per il resto dovrebbe essere libera di scegliere democraticamente l'organizzazione che meglio si confà alle esigenze dei suoi membri. La terza sfera, l'economia, rappresenterebbe solo un aspetto della vita sociale, quello relativo alla produzione e distribuzione dei mezzi concreti di sussistenza; spetterebbe alla società scegliere come gestirla affinché sia funzionale ai suoi bisogni. Infine la quarta sfera, la più interna e la meno importante, dovrebbe essere la finanza, che rappresenta solo uno dei molti strumenti al servizio dell'economia.

Malgrado esistano prove incontrovertibili dell'imminenza di una crisi climatica e di un disastro ecologico, gli economisti più influenti e la maggior parte dei politici di tutto il mondo non vedono ancora le cose in questi termini e continuano a mettere al primo posto la finanza e l'economia. Insieme, queste due sfere più esterne impongono l'organizzazione della società e la obbligano a sottostare alle loro esigenze. In particolare, i settori economico e finanziario devono crescere senza sosta: la crescita è l'unico criterio di valutazione e il loro meccanismo guida è programmato per superare se stesso continuamente.

Finanza ed economia sono considerate priorità assolute dai politici e dagli economisti più tradizionali, convinti che l'acquisizione delle risorse, la produzione e il consumo possano espandersi in uno spazio infinito. Per loro il mondo naturale non è altro che un sottosistema, un luogo dal quale attingiamo materie prime e in cui scarichiamo i nostri rifiuti, compresi i gas serra. Gli economisti chiamano la distruzione sistematica dell'ambiente "esternalità", ovvero uno spiacevole effetto collaterale dello sviluppo economico e delle attività che producono reddito. Una visione folle, come molte altre convinzioni alla base dell'economia mainstream o neoliberista. Come affermava l'economista ecologista Kenneth Boulding, "per credere nella possibilità di una crescita infinita in un sistema finito, bisogna essere pazzi oppure economisti".

Le radici della crisi di cui siamo prigionieri sono da rintracciare nel modo in cui tuttora, consapevolmente o meno, ordiniamo le sfere. Affondano nel sistema letale che ha usurpato il potere sulle vicende umane, un sistema in cui, quando la finanza frana, come è accaduto di recente, schiaccia e danneggia tutte le altre sfere — non solo l'economia ma anche la società e la biosfera. Negli ultimi tre decenni, l'economia monetaria ha preso il sopravvento, arrivando praticamente a separarsi dall'economia reale, che a sua volta è diventata sempre più funzionale alle esigenze di una minoranza.

Poiché l'economia genera vistose disuguaglianze, anche la società diviene necessariamente ingiusta. Il nostro pianeta assediato è oggetto di continui abusi in termini finanziari, economici e sociali. Non dobbiamo mai dimenticarci che, se noi non possiamo vivere senza la Terra, quest'ultima starebbe molto meglio senza di noi. Questa perversa gerarchia delle sfere è al cuore della crisi. L'obiettivo che ci intimidisce ma che rappresenta l'unico modo per sfuggire dal carcere è questo: andare da qui...

( Finanza ( Economia ( Società ( Pianeta ) ) ) )
a qui.

( Pianeta ( Società ( Economia ( Finanza ) ) ) )



Le mura

Le sfere ci aiutano a riflettere sulle priorità presenti e future della nostra esistenza, ma per gli scopi di questo libro ho scelto la seconda metafora che descrive meglio e in maniera più semplice la nostra condizione di prigionieri, cioè le mura. Ogni prigione è dotata di mura che impediscono ai detenuti di fuggire e, poiché il carcere a cui mi riferisco racchiude il mondo intero, parti della sua struttura potranno sembrare meno rilevanti ai lettori occidentali, relativamente privilegiati, ma rappresentano la realtà quotidiana per milioni di persone.

Ecco perché il primo muro che descriverò è quello economico e finanziario: nessuna sorpresa. Il secondo è costruito sulla povertà di lunga data e l'aumento delle disuguaglianze sia nel Nord sia nel Sud del mondo. Il terzo sta restringendo l'accesso alle risorse primarie, soprattutto cibo e acqua. Sono questi i temi dei primi tre capitoli, e senz'altro vi aspetterete che il quarto affronti il cambiamento climatico, la distruzione della natura e la perdita di biodiversità.

In un primo momento avevo intenzione di dedicare un capitolo a sé all'ambiente, come ho fatto in diversi dei miei libri precedenti. Poi mi sono resa conto che procedere per "capitoli separati" è parte del problema. Troppo spesso l'ambiente e la risposta ai cambiamenti climatici sono trattati come un argomento — o un ministero — a parte, o nel peggiore dei casi come una nota a margine o una postilla. I governi agiscono ancora come se aggiustare la finanza fosse molto più importante che fermare il riscaldamento globale, un problema che credono rinviabile all'infinito o almeno fino a quando non avranno salvato le banche.

Perciò il capitolo 4 è sul conflitto. Θ inevitabile? E quali sono le peculiarità dei conflitti moderni? In tutto il libro provo a suggerire soluzioni a questi problemi, ma il capitolo 5 è interamente dedicato ad alcuni obiettivi specifici. Segue una breve conclusione.


La classe di Davos

La metafora della prigione ci aiuterà a valutare in che modo farci carico di un compito terribilmente arduo come invertire l'ordine delle sfere. Il punto di partenza è chiedersi chi oggi custodisca le chiavi. Chi arma le sentinelle e le dispone sulle torri di guardia giorno e notte per impedire evasioni? Di cosa sono fatte le mura, chi le ha costruite? A questo punto devo introdurre il concetto, oggi assolutamente fuori moda, di classe. Anche se il mio pubblico è perlopiù composto da persone informate e sensibili, uno dei messaggi più difficili da far passare è che là fuori ci sono molte persone determinate, potenti, ben educate ma veramente pericolose; condividono gli stessi interessi, accumulano profitti grazie al loro status quo, si conoscono, si frequentano e si oppongono a qualsiasi cambiamento radicale. Chiarisco che non intendo mettere in dubbio la moralità individuale di nessuno: ci sono sicuramente molti banchieri di buon cuore, commercianti generosi e amministratori delegati socialmente responsabili. Sto semplicemente dicendo che, come classe, è lecito aspettarsi che si comportino in un certo modo se non altro perché sono al servizio di un unico tipo di sistema.

Un uomo dotato di grande perspicacia lo ha detto molto meglio di quanto potrei fare io. "Tutto per noi e niente per gli altri, sembra sia stata in ogni epoca la vile massima dei padroni dell'umanità" scriveva Adam Smith nella sua opera principale, La Ricchezza delle Nazioni , pubblicata nel 1776 e universalmente ritenuta la prima inchiesta completa sulla natura e la pratica del capitalismo. Il suo capolavoro è stato anche utilizzato per giustificare ogni sorta di malefatta e quel genere di pratiche che Smith avrebbe esecrato, in particolare nell'altra sua opera nota, la Teoria dei sentimenti morali. Dopo aver esposto la "vile massima dei padroni dell'umanità", Smith passa a spiegare come i grandi proprietari del suo tempo preferissero avere "una coppia di fibbie da scarpe di diamante, o qualsiasi altra cosa frivola e inutile", piuttosto che garantire il "mantenimento o, ed è la stessa cosa, pagare il prezzo per mantenere un migliaio di uomini per un anno". Tutto cambia, affinché nulla cambi.

I padroni del genere umano sono ancora tra noi. Ho scelto di chiamarli la classe di Davos perché, come le persone che si incontrano ogni gennaio nella località montana svizzera, sono potenti, intercambiabili e si spostano di continuo. Alcuni detengono un grande potere economico e quasi sempre un patrimonio personale considerevole. Altri svolgono ruoli chiave in ambito amministrativo e politico, lavorando perlopiù per conto di chi detiene il potere economico, che li ricompensa a modo suo. Questa classe non è certo esente da problematiche interne — l'amministratore delegato di un'attività industriale non sempre ha esattamente gli stessi interessi dei suoi banchieri — ma, in genere, quando si tratta di fare delle scelte, tutti si mettono d'accordo...

La classe di Davos è presente in ogni Paese — non porta avanti una cospirazione e il suo modus operandi è facilmente riconoscibile. Perché preoccuparsi di eventuali complotti quando lo studio del potere e degli interessi basta a spiegare tutto? La classe di Davos è una ristretta minoranza della società e naturalmente i suoi membri hanno denaro in abbondanza, a volte ereditato, a volte accumulato con le proprie attività. Ma soprattutto hanno le proprie istituzioni in seno alla società — associazioni, scuole superiori per i loro figli, quartieri, enti di beneficenza, destinazioni turistiche, club ed eventi esclusivi, e così via — che aiutano a rafforzarne status sociale, coesione e potere collettivo.

Dirigono le nostre principali istituzioni, compresi i media, sanno esattamente cosa vogliono e sono molto più uniti e meglio organizzati di noi. Ma questa classe dominante ha anche delle debolezze: ha un'ideologia, ma è praticamente senza idee e senza fantasia.

Il ragionamento che mi propongo di sviluppare in questo libro è che sono loro a dirigere la prigione in cui ci troviamo. Vogliono ancora "tutto per sé e niente per gli altri", ma dai tempi di Adam Smith "gli altri", attraverso le proprie battaglie, hanno imparato a leggere, scrivere e pensare criticamente; sono meglio informati, a poco a poco hanno acquisito un certo potere e conoscono la politica molto meglio di chi viveva nel diciottesimo secolo. Devono perciò essere oggetto di una supervisione più studiata e intelligente.

La classe di Davos, nonostante le buone maniere e i vestiti alla moda ostentati dai suoi membri, ha un'indole predatoria. Non ci si può aspettare che agisca secondo logica, perché non persegue interessi a lungo termine, neanche propri, ma vuole tutto e subito. Θ esperta nella gestione della prigione e ha assoldato le guardie più scaltre e meglio preparate per tenerci dove siamo.


Vie di fuga

Come ho fatto finora, continuerò ad abusare del pronome "noi" perché credo che "noi" — la gente ordinaria, onesta, decente che incontro sempre — abbiamo i numeri (e quindi anche i voti) dalla nostra parte. Abbiamo immaginazione, idee e proposte razionali così come gran parte delle competenze e dei saperi. Ciò significa che sappiamo cosa si deve fare e come farlo. Facciamo parte di un'enorme varietà di organizzazioni formali e informali che lottano per introdurre cambiamenti in singole istituzioni o determinati settori. A livello collettivo, abbiamo anche i soldi. Ci mancano però la coesione e l'organizzazione dell'avversario e tendiamo a non essere consapevoli del nostro potenziale. Anche la leadership è un problema. Come avviene negli Stati Uniti, i nostri partiti sono spesso dipendenti dai finanziamenti della classe dominante, perciò traducono i desideri di quest'ultima in leggi oppure, se sono all'opposizione, si adattano passivamente a gran parte delle sue decisioni. E, diciamolo, i progressisti amano bisticciare e creare fazioni fratricide, al punto da non essere capaci di confrontarsi con il potere se non attraverso la retorica.

Per funzionare al meglio, la classe dominante ha bisogno dello Stato e del suo apparato, che plasma a sua volta affinché venga incontro ai suoi bisogni. Dalla metà degli anni '70 in poi ha conseguito risultati straordinari arrivando a rimuovere qualsiasi regolamentazione potesse ostacolare l'obiettivo di prendere "tutto per sé". Ha blandito, lusingato ed esercitato pressioni e, quando tutto questo non bastava, ha pagato i politici perché facessero quanto necessario. Affinché i cittadini votassero secondo i suoi piani, ha speso ben oltre un miliardo di dollari (molto poco in proporzione alle ricchezze di cui dispone) nei soli Stati Uniti per dar forma alla sua ideologia e diffonderla. Così è riuscita a convincere la stragrande maggioranza dei votanti che agiva a fin di bene, aveva a cuore i loro interessi e che il suo ordine era il migliore nel migliore dei mondi possibili.

Lungi dall'essere marxisti, gli appartenenti alla classe dominante si ispiravano tuttavia al pensiero di Antonio Gramsci , che formulò il concetto di egemonia culturale. Ho scritto un libro per spiegare come negli Stati Uniti la classe dominante abbia utilizzato i media, il management, il marketing e i soldi per forgiare e diffondere il nuovo senso comune, mirando alle istituzioni più influenti da cui escono le idee che poi influenzano il resto della società.

L'elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti è di certo un fatto positivo, ma sarebbe un errore presumere che possa — o voglia — cancellare con un colpo di spugna trent'anni di evoluzione neoliberista. Tra l'altro nel 2008 ha ricevuto oltre 4 milioni di dollari in contributi per la campagna elettorale dai vertici di quelle stesse banche che oggi sono state salvate dalla bancarotta.


Principi e pratiche della prigione

L'Uomo di Davos (e, naturalmente, anche la Donna di Davos) possiede caratteristiche specifiche a seconda del Paese in cui risiede, ma è anche una specie internazionale e allo stato attuale le sue idee sono abbastanza simili ovunque. La sua adesione alle regole del capitalismo impone un'economia caratterizzata dalla sovrapproduzione cronica e dall'inutilità di gran parte della forza lavoro mondiale.

La democrazia per lui rappresenta un ostacolo e, se glielo permettessimo, ci riporterebbe tutti alle miserie del diciannovesimo secolo. Se tutto questo comporterà la distruzione della società e della terra, tanto peggio. Saremo più fortunati la prossima volta, magari su un altro pianeta: in quanto individuo, lui non ci sarà comunque. Se non mi credete, tenete a mente le parole di Adam Smith: questa classe mira davvero ad avere "tutto per sé e niente per gli altri".

Contemporaneamente alla svolta ideologica e all'ascesa dell'Uomo di Davos, la fase attuale del capitalismo globale ha origine tra l'inizio e la metà degli anni '70 ed è generalmente denominata "neoliberismo". I suoi capisaldi sono la libertà di innovazione in campo finanziario, quali che siano le conseguenze, la privatizzazione, la deregolamentazione, la crescita illimitata, la liberalizzazione e la presunta autoregolamentazione del mercato e il libero commercio. Il neoliberismo ha portato alla nascita dell'economia casinò, che si è rivelata fallimentare ed è ampiamente screditata, almeno presso l'opinione pubblica.

La maggior parte delle persone non ha bisogno di ulteriori prove: è chiaro che il sistema neoliberista non funziona né per loro, né per i loro familiari e amici, né per il loro Paese. In molti riconoscono che è un male per la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta e per la Terra stessa. L'impalcatura ideologica e politica che lo sorregge è crollata, insieme alla struttura finanziaria, schiacciando le vite di milioni di persone, costringendo l' establishment globale ad adottare rimedi senza precedenti, messi insieme in fretta e furia e che comportano costi enormi per i cittadini, senza tuttavia garantire alcun risultato. Θ ora di aggiornare il detto di Lenin "I capitalisti ci venderanno la corda con la quale li impiccheremo". Oggi va ancora peggio: i capitalisti si vendono l'un l'altro la corda con la quale impiccarsi e ci trascinano giù insieme a loro. Θ così che hanno provocato la catastrofe attuale, vendendosi a vicenda le corde, che hanno chiamato con nomi e acronimi sofisticati, ma che si sono rivelate prodotti finanziari estremamente rischiosi. I governi si sono precipitati a salvarli da una fine ingloriosa prima che potessero fallire.

Non temete, comunque: anche se il loro primo tentativo di suicidio è fallito, ci proveranno di nuovo. Già poco più di un anno dopo il settembre nero del 2008, i banchieri hanno inventato prodotti finanziari mai sentiti prima e li stanno diffondendo in tutto il mondo. Il più macabro di cui abbia mai letto consiste nell'acquistare polizze assicurative sulla vita, con uno sconto sostanziale, di persone anziane e gravemente malate, per poi rimpacchettarle come hanno fatto con i mutui subprime e venderle come prodotti finanziari.

I loro compensi e i bonus di cui godono sono ridiventati osceni. Il loro sistema è programmato per superarsi continuamente: andare oltre, più veloce, più in alto, accumulando sempre più ricchezza, finché non si schianta. E si schianterà di nuovo.

In occasione del G-20 dell'aprile 2009, i leader politici millantarono di aver inventato un nuovo ordine mondiale. In realtà avevano messo insieme un'accozzaglia di misure tampone per mantenere a galla il vecchio ordine ancora un po', usando istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) — tra l'altro responsabile della crisi in atto — a cui hanno passato centinaia di miliardi di dollari. Sono pronta a scommettere che la loro soluzione non funzionerà, neanche alle loro condizioni. Nel settembre 2009, hanno replicato la performance.

Questa leadership ha anche indicato chiaramente le sue priorità. Si è autolegittimata come governo del mondo, lasciando fuori 172 Paesi che non contano. A messaggi quali "Non pagheremo la vostra crisi" e "Prima la gente e il pianeta" lanciati durante le manifestazioni svoltesi a Londra e in altre città prima del G-20, hanno risposto: "Oh sì che lo farete" e "Neanche per sogno".

Questi governi e i loro comunicatori sono esperti nel confezionare il messaggio, abilissimi nel far apparire come nuovo lo status quo. Poiché normalmente governano per conto della classe di Davos, non oppongono a quest'ultima alcuna resistenza e sostanzialmente costringono tutti noi a pagare e tacere. Il rifiuto di obbedire dovrebbe essere la nostra prima strategia difensiva. Come la storia ci insegna, solo un'azione popolare potrà cambiare realmente le cose.

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Pagina 26

Cosa non aspettarsi da questo libro


Ecco alcune cose che non proverò a inserire nel capitolo delle "soluzioni".

Basta la parola per far risuonare le chiamate alla rivoluzione. Il mito rivoluzionario è tenace ma, per crederci davvero, dobbiamo prima conoscere il nome dello zar da deporre e l'indirizzo del Palazzo d'Inverno dove stanarlo insieme ai suoi più stretti consiglieri per appenderlo al più vicino palo della luce. Tutto quello che so è che quel palazzo non si trova a Wall Street o nella City di Londra, che, grazie al salvataggio messo in atto dai governi, sono ancora operative pur avendo dato prova di avventatezza, stupidità e mancanza di responsabilità.

Quanto alla "fine del capitalismo", accompagnata o meno da una rivoluzione, simpatizzo... ma mi sentirei più a mio agio se sapessi cosa significa. Onestamente, non riesco a immaginare un big bang, che ponga fine una volta per tutte al sistema economico attuale; vedo piuttosto un graduale processo di trasformazione, alimentato da costanti pressioni da parte dell'opinione pubblica — a livello locale, nazionale e, quando possibile, internazionale — che costringe i governi a tenere a freno il settore privato, in particolare i conglomerati finanziari, e a dare la priorità alle persone e al pianeta piuttosto che all'accumulazione e al profitto, in un contesto sociale maggiormente improntato alla cooperazione.

In ogni caso, l'attuale crisi e il crollo virtuale dell'edificio finanziario non sono bastati a provocarne la fine. Non credo che la violenza sia in grado di fornire una soluzione duratura o far progredire l'emancipazione umana, ma temo che possa divampare ovunque, se non arginiamo al più presto le evidenti ingiustizie che oggi ci troviamo a subire. Per quanto io stessa ne citi alcuni in queste pagine, non occorre consultare i sondaggi per rendersi conto che l'umore popolare sta radicalmente peggiorando.

Impossibile non pensare al 1930 e all'ascesa del fascismo e degli altri regimi dittatoriali, sulla scia della precedente crisi finanziaria. Usare gli immigrati come capri espiatori è una tentazione in cui chi si sente danneggiato rischia di cadere facilmente, piuttosto che prendersela con i veri colpevoli, troppo lontani per costituire un bersaglio. Alcune persone paventano anche il sorgere di un "ecofascismo", che imponga misure drastiche per contrastare gli inconfondibili effetti del riscaldamento globale.

Non raccomando neanche l'"abolizione del mercato". I mercati svolgono un ruolo utile e prove archeologiche dimostrano che esistono da millenni, da quando i popoli sono stati in grado di viaggiare e scambiare merci. Almeno dal 2500 a.C., sulle rotte commerciali tra India, Medio Oriente ed Egitto, i mercanti erano abituati a trattare simultaneamente con almeno dieci sistemi di pesi, misure e valute per scambiare merci di valore come lo stagno, il bronzo, l'argento, l'oro e i lapislazzuli e a controllare di non essere truffati.

Un'economia capitalista implica l'esistenza del mercato, ma non è vero l'opposto: dipende tutto da che tipo di mercato si intende. Il sogno neoliberista del mercato autoregolato si è rivelato un incubo e un animale mitologico; si spera, ma non è detto, che con l'attuale crisi sia definitivamente svanito. Il dibattito non dovrebbe più essere incentrato sul dire sì o no al mercato, quanto piuttosto su quali beni debbano essere venduti e comprati a prezzi stabiliti secondo la domanda e l'offerta e quali debbano essere trattati come beni e servizi pubblici o comuni, e di conseguenza valutati in base alla loro utilità sociale.

Ciò significa che il ruolo del singolo Stato rimane cruciale per il semplice motivo che non possiamo parlare di democrazia al di sopra del livello statale. Per Adam Smith, il fatto che il raggio d'azione del mercato capitalista e dello Stato fossero identici era un'implicita verità lapalissiana, ma oggi le cose sono cambiate. Per esempio, i cittadini europei non hanno praticamente alcun controllo sulle decisioni dell'Unione Europea, che sembra intenzionata a smantellare quanti più servizi pubblici possibile e a respingere la democrazia a ogni piè sospinto. I cittadini hanno ancora meno voce in capitolo per quanto riguarda l'architettura globale di istituzioni come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio e i loro accoliti.

All'inizio della mia personale lista di beni pubblici o comuni metterei un nuovo tipo di bene, che non potevo includere dieci anni fa: un clima adatto agli esseri umani. Il nostro clima è oggi un bene comune perché da esso dipende il benessere di tutti. Ciò non impedisce tuttavia i tentativi di farne una merce di scambio attraverso permessi e compensazioni per l'inquinamento. Un simile approccio è sbagliato, se non altro perché il mercato presuppone l'esistenza perpetua dei beni commercializzati, in questo caso le emissioni di CO2, che sono esattamente ciò di cui ci dovremmo liberare. Parliamo continuamente della necessità di salvare "il pianeta", ma in realtà stiamo parlando di salvare noi stessi. Il pianeta continuerà a girare sul suo asse e a orbitare intorno al sole — può farlo tranquillamente senza di noi. Se avessimo una maggiore capacità di sopportare il caldo e il freddo, la siccità e le alluvioni, potremmo cavarcela. Ma questa capacità manca sia a noi sia a gran parte delle specie dalle quali dipendiamo. A sopravvivere più a lungo saranno le specie che hanno un livello di sopportazione maggiore e non sono esattamente quelle di cui amiamo la compagnia: mosche, zanzare, scarafaggi, piccioni, corvi, ortiche...

Il successivo e più convenzionale elenco di beni pubblici dovrebbe proporsi di rimediare ai danni prodotti da decenni di privatizzazioni e includerebbe non solo scelte ovvie quali la salute, l'istruzione e l'acqua, ma anche l'energia e una buona parte della ricerca scientifica e farmaceutica, oltre al credito finanziario e al sistema bancario. Per evitare incomprensioni, faccio presente che "comune" e "pubblico" non sono necessariamente sinonimi di "gratuito", anche se in certi ambiti — come l'istruzione — dovrebbero esserlo. Né significano "organizzati da pianificatori centrali e gestiti da burocrati". Esistono diversi modelli di organizzazione: la decentralizzazione è una scelta ovvia in molti casi — ad esempio per l'acqua — e potrebbe essere utilizzata in molti altri. La partecipazione popolare alla gestione di molti di questi beni non solo sarebbe auspicabile ma necessaria.

Per evadere dalla prigione, le persone di buona volontà dovranno coalizzarsi, formare alleanze nazionali e internazionali e usare la crisi finanziaria per risolvere le altre crisi. Non date ascolto a chi sostiene che "non possiamo permettercelo". Nonostante la crisi e i salvataggi delle banche, il mondo è ancora pieno di denaro. Ci sono voluti pochi giorni per scoprire centinaia di miliardi di dollari nascosti in fondo ai cassetti o sepolti nei cortili e riutilizzarli per salvare le banche. Sembra che nell'anno 2010 (le stime variano molto) si siano materializzati come per magia 14.000 miliardi di dollari — $14.000.000.000.000 — per ridare ossigeno agli istituti finanziari.

Questo importo inconcepibilmente grande è in gran parte preso in prestito dal futuro. Fin da subito sarà ripagato dai cittadini e dai loro figli e nipoti — sotto forma di tasse, certamente, ma anche in termini di disoccupazione, servizi a pagamento e altre privazioni che per il momento non riusciamo neanche a immaginare. Nella salute, l'istruzione, la creazione di posti di lavoro, la protezione ambientale e gli sforzi volti a sostenere altre buone cause non sono mai state investite neanche somme pari a un centesimo o a un millesimo di questa. Ci sono modi per impedire che ciò accada di nuovo e luoghi dove reperire le risorse economiche. Tuttavia, i cittadini devono richiedere molto più che semplici regole ai margini del sistema finanziario se sperano di porre un argine alla dittatura dell'economia. Il G-20 non è l'organismo adatto a imporre alcuna delle decisioni necessarie.

Infine, confesso senza problemi che ci sono molte cose che non so. Non so se "noi" possiamo sconfiggere la classe predatoria di Davos ormai consolidata per creare una società più giusta e democratica. Non so se sia possibile cambiare l'attuale rapporto di forze e spingere l'oscillazione del pendolo verso un mondo più equo, stabile, verde e abitabile. Io scommetto di sì. In caso contrario non resterebbe che imitare coloro che in tempo di peste banchettavano e facevano baldoria nelle piazze pubbliche in attesa del Tristo Mietitore. Sono convinta che possiamo fare di meglio che ubriacarci e gozzovigliare — e anche se falliremo, avremo almeno l'opportunità di fallire con onore.

Ammetto anche un'altra cosa: non so quale sia il sistema sociale ideale e diffido di chi è convinto di saperlo. A tutti gli effetti, non credo che esista un sistema "ideale". In ogni caso, anche se esistesse, non porterebbe da nessuna parte, sarebbe statico, insopportabilmente noioso o semplicemente intollerabile.

Tutti gli "ismi" del Ventesimo secolo sapevano esattamente come doveva essere la società e costringevano tutti a essere d'accordo; chi non lo era, veniva spedito in un campo di rieducazione o fatto fuori. Grazie, non voglio sapere la fine della storia.

Così come credo che la biodiversità sia la fonte della vitalità della Natura e la garanzia della nostra sopravvivenza, allo stesso modo difendo la diversità in campo sociale. Scenari futuri diversi saranno e devono essere improntati a storie, culture, limiti geografici e livelli di lotta differenti. Possiamo mostrarci solidali con le lotte degli altri ma non possiamo sostituirci a loro o dettarne i risultati. Sono convinta che l'emancipazione dell'umanità comporterà uno sforzo senza fine — per portarla dove manca, proteggerla dove è minacciata, perfezionarla dove è, o sembra, più sicura.

Quante più battaglie si vinceranno in qualsiasi parte del mondo, tanto più facile diventerà vincerne altre ancora. Il comune denominatore di queste diverse storie, culture e capacità di cambiare le circostanze attuali deve sempre essere la democrazia. La democrazia è al tempo stesso il fine e il mezzo. Non possiamo ignorare il fatto che la situazione è molto ingarbugliata e per sbrogliarla ci vorrà molto tempo. Ci sarà sempre chi proverà ad abusarne, ma ogni altra strada ha invariabilmente portato a orrori impronunciabili. In questo caso, il fine non solo giustifica ma coincide con i mezzi. Rifiutare strumenti democratici significa rifiutare risultati diversificati e democratici.

Un'ultima precisazione: anche se come tutti ho usato e continuerò a usare questa parola, non credo che stiamo davvero vivendo una "crisi". Il termine "crisi" ha una lunga storia di significati elastici: deriva dal vocabolo greco per "decisione", ma significa anche momento cruciale o svolta, con particolare riferimento a una malattia che si risolverà con la guarigione o la morte. Nel teatro, la crisi coincide con il momento in cui si scioglie il nodo gordiano, il dilemma. Secondo il celebre sinologo francese Franηois Jullien, l'affermazione, spesso citata, secondo cui l'ideogramma cinese per "crisi" combina la nozione di "pericolo" e di "opportunità" è in realtà un concetto occidentale. Il carattere cinese corrisponde piuttosto alla leva della balestra, a un meccanismo di rilascio. Quindi in greco, in cinese e per quanto ne so in altre lingue, la parola dà l'idea del prima e del dopo, di un accumulo di tensione e di un passaggio breve e brusco tra sentieri possibili, la svolta cruciale che determina il futuro. Di questi tempi, un tale momento breve e decisivo può consentirci di evadere dalla prigione? Forse inquadrati nei 500 anni di storia del capitalismo, i tempi estremamente pericolosi che stiamo vivendo possono essere considerati "brevi". Temo ancora che la "crisi" che si è costruita negli anni, che ha cominciato a manifestarsi nel 2007 e che era ancora in atto alla fine del 2009, andrà avanti per molto tempo. Le crisi ormai sono sempre più ravvicinate. La tensione certamente crescerà, ma potrebbe non verificarsi mai l'improvviso rilascio del grilletto che fa partire il dardo dalla balestra. La ricerca di un futuro diverso è un'impresa che con ogni probabilità richiederà tempi lunghi.

Le élite di governo non coglieranno l'occasione per prendere una decisione, ma di fronte alla protesta popolare cercheranno di rappezzare e ripristinare un sistema fallito e destinato a fallire nuovamente. Forse per mantenerlo saranno costretti a usare metodi ancora più duri per impaurire ancora di più i prigionieri e farli tacere. Una parola più accurata di "crisi" potrebbe essere "depressione", la stessa che si usa a proposito degli anni '30, ma stavolta andrebbe interpretata non solo in senso economico ma anche in chiave psicologica: si tratta infatti di una depressione vissuta sia dagli individui sia da intere società. Un'altra parola ancora migliore è "apertura": la crisi ci permette infatti di intravedere, al di là delle macerie del presente disseminate in un panorama degradato, la possibilità di un mondo pulito, verde e ricco.

Il tracollo era inevitabile, nonché prevedibile, anche se in pochi lo avevano previsto. Queste persone adesso credono di sapere cosa si deve fare. Anche se non ritengo di avere particolari meriti per questo, ho fatto parte del movimento sociale che ha previsto la crisi, per cui adesso il mio compito è illustrarne cause e rimedi nella maniera più chiara possibile, ponendo le mie parole sul piatto giusto della bilancia e facendole pesare il più possibile. Mettere in atto l'evasione spetta a ciascuno di noi — e a noi tutti.

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Capitolo 1


Il muro della finanza



Abbiamo dovuto combattere contro i vecchi nemici della pace: i monopoli finanziari ed economici, la speculazione, operazioni bancarie avventate, antagonismo di classe ... hanno cominciato a considerare il governo degli Stati Uniti come una semplice appendice dei loro affari. Ora sappiamo che i governi asserviti agli interessi economici sono pericolosi quanto i governi diretti dalle organizzazioni criminali.

Franklin Delano Roosevelt, discorso finale al Madison Square Garden, durante la campagna presidenziale, che annuncia il Secondo New Deal — 31 Ottobre 1936




Malgrado le apparenze, la saga finanziaria sfociata nella mega-meta-crisi che il mondo sta ancora subendo non è particolarmente difficile da comprendere. L'utilizzo di un vocabolario specialistico e acronimi disorientanti come SIV, CDO e CDS fanno sembrare complessa la questione, ma in realtà il dramma si regge banalmente su bassi istinti come l'avidità e le azioni quotidiane di persone intelligenti "che fanno semplicemente il loro mestiere", nonché la colpevole negligenza di governi fedeli all'ideologia del mercato che si autoregolamenta. Gli spiriti animali, come li chiamava il grande economista inglese Johan Maynard Keynes , oppure ormoni quali il testosterone, come li interpreterebbe oggi la chimica, hanno giocato un ruolo in tutto questo. Come anche la volontà di potere. Ricorrendo a maneggi e pressioni di ogni genere, le banche sono diventate letteralmente too big to fail, "troppo grandi per fallire", il che sfortunatamente non significa too big to bail, "troppo grandi per essere salvate dalla bancarotta". Il potere finanziario privato ha completamente sopraffatto la capacità pubblica di regolamentare o anche solo di comprendere gli eventi in atto.

To bail out ha tre significati nell'inglese non finanziario: togliere l'acqua dalla barca con un recipiente per impedirle di affondare; lanciarsi col paracadute da un velivolo in avaria e pagare una cauzione affinché l'accusato venga scarcerato in attesa del processo. In senso figurato può anche voler dire aiutare qualcuno a uscire da una brutta situazione.

Alle enormi operazioni di salvataggio dalla bancarotta attuate nel mondo si applicano tutte queste definizioni. Come fossero barche piene d'acqua, i governi hanno svuotato le banche da molti dei loro mutui sconsiderati e titoli tossici; hanno aiutato i banchieri a legarsi i loro paracadute d'oro per poi scendere comodamente fino a terra con le loro tute da lancio piene zeppe di denaro; hanno tenuto fuori dalla prigione i banchieri (Bernard Madoff non conta, è stato un lupo sacrificale); hanno sborsato somme astronomiche per strappare le banche da un orrendo destino del quale sono loro stesse responsabili.

I mutui rischiosi e gli stravaganti prodotti finanziari che hanno fatto precipitare la crisi a quel tempo erano giustificati dalla fede nell'autoregolamentazione del mercato, una favola secondo cui tutti i soggetti coinvolti erano perfettamente razionali e sufficientemente esperti, e i mercati stessi non potevano mentire. Qualsiasi cosa per cui le persone erano pronte a pagare acquisiva automaticamente valore. I prodotti finanziari venduti si basavano su formule matematiche impenetrabili i cui inventori agivano con grande astuzia per il proprio bene e per il bene delle banche. A quanto pare, all'interno di ogni banca, si contavano non più di dieci o dodici persone convinte di aver compreso appieno i complicati prodotti che rifilavano in ogni parte del mondo.

Le banche volevano che il governo restasse fuori dai loro affari; continuarono a manovrare e a esercitare pressioni nell'ombra fino a realizzare il proprio desiderio di una deregolamentazione pressoché totale. Fu una catastrofe, almeno per alcuni. Grazie ai tempestivi interventi del governo, i banchieri responsabili del disastro rimasero saldamente al loro posto mentre decine di migliaia di impiegati di livello inferiore perdevano il lavoro. Significa questo, "essere troppo grandi per fallire". Se sai di esserlo, sei incentivato ad assumerti enormi rischi, certo di poter contare su qualcun altro che passi a ripulire. Tali rischi sono pericolosi non per chi se li assume, ma per la collettività nel suo insieme. Testa vinco io, croce perdi tu.

Pur non illudendoci di poter affrontare tutti i dettagli, incontreremo alcuni degli attori protagonisti, esamineremo il loro comportamento e contempleremo con cognizione di causa la devastazione di cui sono responsabili.

Credo che i rimedi prescritti finora non possano funzionare e non funzioneranno, se per "funzionare" si intende portare alla creazione di un sistema finanziario che risponda ai bisogni dell'economia reale e della società ed eviti danni irreparabili a persone innocenti. Abbiamo bisogno di strategie differenti se il fine è qualcosa di diverso da un rapido ritorno ai soliti affari — e a una nuova crisi. La soluzione ovvia, a mio parere, consisterebbe prima di tutto nel mettere il nostro sistema sotto controllo, trattando la finanza e il credito come beni comuni o pubblici che sottostanno a regole stabilite democraticamente e sono funzionali a soddisfare i bisogni di individui, famiglie e imprese. La chiave di tutto è considerare finanza e credito come servizi e non come attività volte a trarre profitto.

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Capitolo 2


Il muro della povertà e della disuguaglianza



Il prezzo che la società paga per la legge della competizione... è altresì grande; ma i vantaggi di questa legge sono ancora più grandi, perché è a questa legge che dobbiamo il nostro fantastico sviluppo materiale ... Ma se la legge sia benigna o meno, è ancora da stabilire ...: esiste, non possiamo eluderla, non abbiamo trovato con che sostituirla; se a volte la legge può sembrare dura per l'individuo, è migliore per la razza, perché assicura la sopravvivenza del più adatto in ogni ambito. Accettiamo dunque di buon grado, come condizioni alle quali dobbiamo adattarci, una grande disuguaglianza riguardante l'ambiente, la concentrazione nelle mani di pochi degli affari industriali e commerciali, e la legge della competizione tra loro. Tutto questo non è solo benefico, ma anche essenziale per il progresso della razza.

Andrew Carnegie, "Wealth", North American Review, Giugno 1889




Ai suoi tempi, Andrew Carnegie era l'uomo più ricco d'America e forse del mondo nonché un grande ammiratore — quasi un apostolo — di Herbert Spencer , il filosofo inglese ideatore del darwinismo sociale. Darwin stesso non usò mai l'espressione "sopravvivenza del più adatto", che tradisce una cattiva interpretazione del suo lavoro e del concetto di selezione naturale — ma questa è un'altra storia.

Dai tempi di Spencer e Carnegie, questa erronea interpretazione è stata la manna dal cielo per i ricchi, cui ha offerto la giustificazione per compiere innumerevoli efferatezze a danno di individui e collettività e per attuare politiche di governo regressive. Il pensiero di Carnegie riecheggia nelle parole di Margaret Thatcher "Non ci sono alternative". Secondo la Lady di Ferro, la legge della competizione "esiste, non possiamo eluderla, non sono stati trovati sostituti" e arricchirà i ricchi disposti a lavorare sodo, anche se può apparire oltremodo "dura per l'individuo".

Questo approccio si riallaccia al discorso che ho portato avanti nell'introduzione: siamo attualmente governati da sfere concentriche il cui ordine è esattamente l'inverso di quello che sarebbe più sano per gli esseri umani e il pianeta. Come ho provato a dimostrare nel capitolo precedente, la sfera della finanza governa quella dell'economia. In questo capitolo vedremo come l'economia, nel nostro caso quella che riflette le preferenze dei ricchi e potenti, decida come debba funzionare la società. Scelte simili hanno eretto le mura della prigione fatte di povertà e disuguaglianza.

Carnegie non è esattamente il mostro che può sembrare: quantomeno sosteneva che la ricchezza doveva essere distribuita nel corso della propria vita. Lui stesso aveva provveduto modestamente a mogli e figlie (lasciando poco ai figli maschi) e aveva regalato agli Stati Uniti un gran numero di biblioteche pubbliche. Una biblioteca non soddisfaceva forse i principali desideri delle persone in difficoltà, ma a Carnegie non venne mai in mente di chiedere la loro opinione. Sapeva cosa fosse meglio per la società ed era fermamente convinto che non valesse la pena sprecare soldi per i poveri, che non li meritavano e li avrebbero sicuramente spesi in cose futili. Le biblioteche, invece, avrebbero offerto alle persone la possibilità di migliorarsi. A distanza di centoventi anni, Bill Gates è probabilmente l'esempio più "carnegiano" del nostro tempo, avendo deciso di distribuire miliardi [di dollari] nel corso della sua vita. Perfetto prodotto dell'era della globalizzazione, non ha rivolto i suoi sforzi filantropici ai soli Stati Uniti ma ha destinato molti di quei miliardi alla promozione di una rivoluzione verde in Africa, il continente più povero con i contadini più poveri del mondo, almeno a est di Haiti. Chi trarrà beneficio da tutta questa generosità?

Gates paragona le piante al software, e il programma della sua fondazione, chiamato AGRA (Alliance for a Green Revolution for Africa) porta avanti l'idea che ogni problema sia risolvibile attraverso la tecnologia. Realizzata in collaborazione con la Fondazione Rockefeller, che è stata l'iniziatrice delle "rivoluzioni verdi" in Asia e in Messico negli anni '60 e '70, AGRA si propone di sviluppare la tecnologia agricola, impegnarsi nella ricerca biotecnologica, aumentare l'uso di fertilizzanti chimici, promuovere l'accesso ai semi e ad altri fattori di produzione attraverso reti di distribuzione commerciale, e creare un ambiente favorevole a un'agricoltura guidata dal mercato e orientata all'esportazione".

Per capire le probabili implicazioni di tutto questo per gli africani che vivono in condizioni di povertà, ma anche per le ricche imprese multinazionali, è utile prendere brevemente in esame la prima Rivoluzione Verde. Non c'è dubbio che abbia avuto come risultato un aumento della produzione — almeno per un periodo. Ma allo stesso tempo espulse innumerevoli piccoli agricoltori che non potevano permettersi le forniture di alta tecnologia — in quel caso si trattava di sementi ibride selezionate per produrre piante a gambo corto che potevano portare il peso di più chicchi di grano senza piegarsi a terra. Queste colture dipendevano dai fertilizzanti, dai pesticidi e dall'irrigazione per poter realizzare il pieno potenziale delle nuove Varietà Altamente Produttive (HYV - high-yielding varieties).

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Sappiamo ancora troppo poco di coloro che prendono le decisioni destinate a influenzare innumerevoli vite e che sono nella posizione di manipolare le regole a proprio vantaggio — ovvero, società multinazionali e banche, istituzioni finanziarie internazionali, enti di commercio globali e regionali, think thank e istituzioni culturali di destra, burocrazie di grandi stati, media, e così via.

Ma, incluso nel prezzo di questo libro, avete pagato per un capitolo su povertà e disuguaglianza e, poiché queste rappresentano una profonda crisi di cui ognuno vuole vedere la fine, mi sento obbligata a fornirvi i tradizionali confronti di dati. L'intenzione è quella di scioccarvi, probabilmente per l'ennesima volta.

Il più ricco 10% della popolazione adulta mondiale possiede l'85% della ricchezza delle famiglie a livello globale, mentre oltre la metà di questa ricchezza è in mano al 2%. La metà più povera della popolazione mondiale possiede a malapena l'1% della ricchezza globale. Chi rientra nel 10% più ricco possiede mediamente circa 3.000 volte la ricchezza media pro capite del 10% meno ricco.

Queste informazioni vengono dai ricercatori del già citato WIDER, parte dell'Università dell'ONU. Definiscono "ricchezza" tutto ciò che si possiede — i vestiti che si indossano o si tengono nell'armadio, il frigorifero, la radio, i libri, e così via; per cui sono abbastanza sicura che fate parte di quel 10% della popolazione mondiale che detiene 3000 volte la ricchezza della persona più povera — io so per certo di farne parte. La buona notizia è che, per essere inclusi nella "metà superiore" dell'umanità, basta possedere appena 2.200 $ sotto forma di tali beni tangibili. La cattiva notizia è che gran parte delle persone, se avesse solo questo, si sentirebbe estremamente povera, anche in termini di parità di potere di acquisto (PPP — Purchasing power parity), la misura utilizzata oggi per gran parte delle comparazioni ufficiali, che tiene conto del fatto che cose simili non hanno lo stesso costo in Paesi diversi. All'interno di questa definizione, appartenere al 10% più ricco significava possedere 61.000 $ in beni materiali mentre per far parte dell'1% più alto ci volevano oltre 500.000 dollari: secondo WIDER, questo 1% comprende 37 milioni di persone nel mondo. Considerando il valore degli immobili, avrei immaginato un numero molto più alto.

Più alto e più in basso si va nella gerarchia, e maggiori sono i contrasti. Il primo 5% della popolazione mondiale vanta oltre un terzo del reddito (reddito, non ricchezza) complessivo e l'ultimo 5% appena lo 0,2% — in altre parole, la fetta più alta guadagna 165 volte più di quella più bassa, o guadagna in 48 ore quanto quella più bassa prende in un anno. Il vostro status sociale è più importante di dove abitate. Un terzo di tutti i brasiliani è più ricco del 5% più basso dei tedeschi e, cosa ancora più sorprendente, lo sono anche 200 milioni di cinesi.

Probabilmente l'immagine più famosa per rendere queste disuguaglianze è apparsa in uno dei primi Rapporti sullo Sviluppo Umano dell'UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) ed è oggi conosciuta come il "grafico della coppa di champagne" che divideva il mondo in fette pari al 20%: quasi tutto lo champagne si trovava nell'ampio rigonfiamento superiore, che rappresentava il 20% del mondo, con il gambo che si assottigliava fino a risultare impercettibile per le persone più in basso. L'84% della ricchezza prima era nelle mani del 20% della popolazione mondiale situato più in alto. Oggi lo squilibrio è ancora maggiore: è il 10%, e non più il 20, a prendersi l'85% della ricchezza. In mancanza di protezioni erette per prevenire il fenomeno, i soldi, come bolle di champagne e di anidride carbonica, si librano verso stratosfera. I divari tra i vari Paesi in termini di Prodotto interno lordo (PIL) pro capite sono stati anch'essi pubblicati per molti anni, tant'è che è facile misurare le differenze in termini di ricchezza tra il cittadino medio della Svizzera e dello Swaziland o del Lussemburgo e del Lesotho.

Sulla base di fonti autorevoli posso dirvi che, ad esempio, la differenza in termini di potere di acquisto medio pro capite tra gli Stati Uniti e il Malawi è di 72 a 1. Le differenze tra Nord-Sud, Paesi ricchi-Paesi poveri sono state a lungo, e restano, orrende. Più rivelatrici, tuttavia, sono le disuguaglianze di reddito e ricchezza all'interno dei singoli Paesi. Misurano le differenze tra strati sociali e dimostrano che la classe di Davos adesso esiste praticamente ovunque. In altre parole, le medie ci dicono poco: ci sono pochi ricchi in Malawi e molte persone poverissime negli Stati Uniti. Non vi è Paese che non abbia la sua élite più opulenta, ma i cambiamenti più rapidi e sorprendenti sono probabilmente avvenuti negli USA, dove i cittadini più facoltosi, grazie alle "riforme" neoliberiste, sono riusciti a riconquistare la posizione che avevano appena prima della Crisi del 1929.

Quando Ronald Reagan fu eletto presidente nel 1980, il 9% del reddito totale degli americani era appannaggio dell'1% dell'intera popolazione. Tre decenni dopo, questo 1% si stava accaparrando il 23% del reddito. Non dovremmo sorprenderci, perché questo è il genere di risultato a cui mirano le politiche neoliberiste. Oggi si utilizza generalmente un linguaggio meno spudorato di quello di Herbert Spencer quando parlava di "sopravvivenza del più adatto"; ai giorni nostri si cerca di dar prova di maggiore sensibilità e preoccupazione, ma si tratta di un cambiamento culturale, mentre nella sostanza nulla è cambiato. Politiche identiche mirano a produrre identici risultati, cosa che accade regolarmente: i ricchi diventano più ricchi a meno che non incontrino seri ostacoli legali sulla loro strada. Erigere quegli ostacoli è doppiamente difficile adesso, perché, per funzionare in un mondo globalizzato, dovranno essere transnazionali.

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Perché la disuguaglianza conta, e non solo per i più poveri



Ora lasciamoci alle spalle i super-ricchi e passiamo a evidenziare alcuni degli effetti meno conosciuti della disuguaglianza.

Se qualche tempo fa mi avessero chiesto "Perché è preferibile per tutti vivere in una società più equa?" avrei probabilmente risposto con una verità lapalissiana. Ad esempio "Perché, essendoci meno poveri, ci sarà probabilmente meno criminalità, meno malattie, e così via". Adesso so che questa risposta è piuttosto superficiale perché ho letto il libro di Richard Wilkinson, un autore pionieristico che spiega "perché le società più eque funzionano sempre meglio". In un breve libro pubblicato nel 2000, Wilkinson, un epidemiologo, si è concentrato soprattutto sulla salute e sugli effetti psicosociali della disuguaglianza e delle differenze di classe. Il suo importante contributo sottolinea il fatto che l'indigenza non riguarda solo le condizioni materiali delle persone, per quanto queste possano essere difficili, ma ha anche un impatto cruciale sulla qualità complessiva dell'ambiente sociale. Scrivendo per una collana dal titolo Darwinism Today, ha assunto naturalmente un punto di vista darwiniano e ha sottolineato:

Dal momento che abbiamo tutti gli stessi bisogni, gli altri membri della nostra specie sono i nostri più temuti concorrenti – per la casa, il lavoro, i partner sessuali, il cibo, i vestiti e così via. Ma sono anche la nostra unica fonte di aiuto, amicizia, assistenza, apprendimento, cura e protezione. Questo significa che la qualità delle nostre relazioni sociali è sempre stata essenziale per il nostro benessere materiale.

Appena i ricercatori della salute hanno afferrato questo punto, hanno cominciato a indagare le cause meno studiate dei problemi di salute concludendo che fattori come il lutto, la mancanza di controllo sul proprio lavoro e la paura di perdere il proprio impiego e i propri risparmi avevano un impatto sulle condizioni di salute. Risolvere problemi del genere non è solo una questione di ridistribuzione della ricchezza; la coesione sociale è molto più importante. In Gran Bretagna, durante la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, le persone erano prive di risorse materiali, eppure avevano un forte senso di solidarietà e, tra lo stupore di molti professionisti della salute, le loro condizioni di salute migliorarono visibilmente.

Da allora numerosi studi hanno dimostrato che, in società egualitarie, ci sono più persone che prendono parte ad attività comunitarie, culturali, caritatevoli e sportive; aderiscono a club, associazioni e reti di ogni genere e il loro coinvolgimento nella vita sociale ha un impatto quantificabile sulla salute. Senz'altro, uno "status sociale basso e scarsa partecipazione alla vita sociale sono oggi tra i principali fattori di rischio per la salute delle popolazioni." E, cosa fondamentale, all'interno dei singoli Paesi, i livelli assoluti di reddito sono meno importanti dello status sociale relativo. Le parole più di frequente ripetute negli studi sui crolli della salute e sui livelli di violenza sono parole come rispetto, orgoglio, status e autostima cui si contrappongono vergogna, inadeguatezza sociale, imbarazzo e umiliazione. Le persone con un basso status sociale sentono di non essere rispettate e spesso sfogano rabbia e frustrazione su quelli che si trovano sotto di loro, in particolare donne e bambini, ma anche minoranze vulnerabili. Si sfogano anche su se stessi, di solito senza rendersene conto, peggiorando il proprio stato di salute e contraendo varie tipologie di disfunzioni sociali.

La catena è abbastanza semplice quando viene affrontata da questo punto di vista: le disuguaglianze implicano gerarchie rigide, le gerarchie implicano distinzioni ed esclusioni, che rafforzano le posizioni sociali basse e provocano umiliazioni continue e stressanti per gran parte della popolazione. Di conseguenza, in società (e luoghi di lavoro) gerarchiche e basate sulle disuguaglianze ci saranno peggiori condizioni di salute e maggiore violenza, rispetto a società egualitarie e meno gerarchiche — come volevasi dimostrare.

Nove anni dopo, Wilkinson e la co-autrice Kate Pickett allargarono il quadro di riferimento evidenziando molte altre conseguenze sociali, oltre ai bassi livelli di salute, attribuibili alle disuguaglianze. [I due studiosi] sostengono — e lo evidenziano tramite grafici basati su innumerevoli analisi — che, oltre un certo punto, un reddito più alto da solo non basta a influire sulla salute, sul benessere e sulla felicità: "I ricchi tendono, in media, a essere più in salute e più felici dei poveri nella stessa società". Chiaramente questo non sorprende! "Ma paragonando tra loro i Paesi ricchi, non si riscontrano differenze se, in media, le persone in una società sono ricche quasi il doppio delle persone in un'altra." Ad esempio, i greci sono in media due volte più poveri degli statunitensi. In Grecia la spesa media pro capite per le cure mediche è pari alla metà di quella degli Stati Uniti e gli ospedali sono molto meno dotati di attrezzature ad alta tecnologia, ma i greci hanno un'aspettativa di vita più alta degli americani e una mortalità infantile più bassa del 40%.

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Nonostante la prognosi dell'OIL e malgrado la situazione dell'UE sia la peggiore al mondo per quanto riguarda l'aumento della disoccupazione, dalla primavera del 2010 i governi europei hanno deciso di introdurre drastiche misure di austerity che ridurranno sicuramente l'attività economica e quindi anche l'occupazione. Adesso che sono immersi nei debiti fino al collo perché si sono fatti carico dei debiti privati delle banche, questi governi sono determinati a far pagare ancora una volta i loro cittadini, invece di tagliare le spese militari, ad esempio, o tassare le banche.

Anche se l'Europa sta regredendo da un più alto tenore di vita rispetto a un continente come l'America Latina, dovrà affrontare un aggiustamento difficilissimo che farà sprofondare milioni di persone nella miseria più nera. Anche i Paesi dell'Est e del Sud Europa (che non sono membri della UE) rischiano l'esplosione. Una delle tante gioie della globalizzazione finanziaria è la sua capacità di ridurre la parte del PIL di un Paese destinata ai salari, pertanto di aumentare la parte che va al capitale. Nel capitolo precedente abbiamo visto questo meccanismo al lavoro in Europa, dove la parte del PIL trasferita dal lavoro al capitale si aggirava intorno al 10%. Le cose vanno peggio in America Latina, dove i lavoratori hanno perso il 13% della parte che avevano prima.

In un altro rapporto l'OIL spiega che, in "51 dei 73 Paesi in cui i dati erano disponibili", le entrate complessive destinate ai salari sono calate durante gli ultimi due decenni. Nel frattempo, nell'arco degli stessi venti anni, il divario di reddito tra il 10% della fascia più alta e il 10% di quella più bassa in ciascun Paese è aumentato, il che significa che i miglioramenti economici si stavano spostando verso l'alto ovunque. Quegli anni furono caratterizzati da una rapida crescita economica, e nel 2007 il numero complessivo degli occupati in tutto il mondo era aumentato di almeno un terzo rispetto al 1990. I lavoratori, però, non hanno tratto alcun reale vantaggio da questa situazione, perché "gli utili derivanti dal periodo di espansione conclusosi nel 2007, andarono a beneficio dei gruppi ad alto reddito più che delle loro controparti a reddito medio e basso."

Occorre anche ricordare che una parte del "lavoro" è rappresentata dagli stipendi dei dirigenti. Anche gli operatori di borsa e gli amministratori delegati sono impiegati. Negli Stati Uniti degli anni '60, la differenza di salario tra l'amministratore delegato di una grande azienda e il suo dipendente medio raggiungeva la proporzione di 60 o 70 a 1 — un differenziale già notevole — ma gli scaglioni d'imposta progressivi, con il più alto tassato al 90%, riequilibravano in qualche modo le cose. Ora il differenziale è 450 o 500 a uno e continua a crescere, mentre il tasso d'imposta dei redditi più alti è al 35%. Gli stessi modelli si applicano a Paesi molto diversi tra loro quali Australia, Germania, Hong Kong, Olanda e Sudafrica.

Nel 2007, negli USA, i cinquanta maggiori top manager di fondi di investimento guadagnavano in media 588 milioni di dollari ciascuno. La portata dei bonus dei banchieri riusciva spesso a far schiumare di rabbia individui normalmente tranquilli, specie quando questi bonus venivano finanziati con denaro preso direttamente dalle loro tasche, ossia con quei fondi pubblici destinati al salvataggio del sistema dalla bancarotta. I bonus, tuttavia, destano molto meno scandalo del sistema in sé. Dappertutto i sistemi fiscali presentano scappatoie tali da consentire il passaggio di un elefante, perfette per aiutare i ricchi a razziare un bottino sempre maggiore. Alcuni di loro sono truffatori belli e buoni, ma se vengono presi di solito rimangono in prigione meno di un ragazzino arrestato perché trovato in possesso di qualche grammo di coca o marijuana.

Quando i livelli di impiego crollano in tempo di crisi, ci vogliono quattro o cinque anni per vederli riassestarsi sui livelli precedenti, ammesso che ciò accada. Ma, ancora una volta, possiamo vedere che non stiamo vivendo una crisi per tutti. I costi dei pacchetti di salvataggio per le istituzioni finanziarie saranno pagati dai contribuenti ordinari, ma i benefici della globalizzazione finanziaria sono andati in una sola direzione, e alla fine il capitale può rallegrarsi per la sua buona sorte.

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Capitolo 4


Il muro del conflitto



Spesso la guerra ha rappresentato una comoda via di uscita dalle crisi economiche. Per quanto dispendiose, le guerre hanno sempre permesso ai governi di aumentare le tasse e di investire i ricavi in navi e cannoni riuscendo così a stimolare l'economia, di solito con il sostegno di una popolazione patriottica.

Si tratta di una scommessa e chi la vince ha la possibilità di impadronirsi di ulteriori risorse. Nonostante le politiche del New Deal keynesiano adottate da Roosevelt, gli Stati Uniti uscirono dalla Grande Depressione solo grazie alla Seconda Guerra Mondiale, che finì il lavoro iniziato dalle riforme economiche e aprì la strada a quello che il magnate dei media Henry Luce definì il Secolo Americano.

Quel secolo è durato finora sessant'anni, ma il fatto che ancora oggi i conflitti su vasta scala contribuiscano a consolidare i poteri dominanti, Stati Uniti inclusi, appare sempre meno vero. Quando il Presidente Reagan incrementò gli stanziamenti per la Guerra Fredda fino a livelli inimmaginabili, l'impero sovietico, nel tentativo di tener testa alle spese militari della nazione rivale, finì per collassare. Oggi è proprio l'America che rischia di perdere il suo predominio a causa dei costi sempre più elevati dei conflitti in Iraq (anche dopo la ritirata) e in Afghanistan, quest'ultimo familiarmente definito "Afpak" ora che lo stesso Pakistan sta sprofondando nella palude della guerra. I fondi a disposizione del Pentagono attualmente sfiorano il 5% del PIL degli Stati Uniti e non sembrano destinati a diminuire, nonostante l'enorme indebitamento del governo USA.

In passato, erano gli stati a portare le banche al fallimento: le banche concedevano prestiti per le guerre che gli stati poi non rimborsavano e, allora, bang! Addio Medici! Oggi sono le banche a condannare gli stati alla bancarotta: i 14.000 miliardi di dollari spesi dagli USA, dalla Gran Bretagna e dall'Europa per salvare il sistema finanziario corrispondono a circa un quarto del PIL mondiale. Se simili esborsi riuscissero a convincere i governi dell'insostenibilità economica dei conflitti, allora ne sarebbe valsa la pena, ma le nazioni continuano imperterrite a dichiarare nuove guerre, come ha dimostrato anche il presidente Obama.

Si dice che le uniche certezze nella vita siano la morte e le tasse. A queste se ne potrebbe aggiungere un'altra: l'aumento del bilancio annuale della difesa degli Stati Uniti. A partire dai 515 miliardi dollari nel 2009, gli stanziamenti hanno toccato quota 684 miliardi di dollari nel 2010 per poi far segnare un nuovo, anche se ben più modesto, incremento a 688 dollari nel 2011. Queste cifre si riferiscono al solo Pentagono, e non includono il Department of Homeland Security o le spese segrete dell'FBI e della CIA per combattere la "guerra al terrore". Bilanci simili creano posti di lavoro e pagano le pensioni dei veterani, mentre le esportazioni di armi servono a ridurre leggermente il disastroso deficit commerciale degli Stati Uniti, ma, per il resto, il comparto bellico rappresenta un vero e proprio buco nero. Θ vero che la tecnologia militare talvolta trova applicazione nell'economia civile — Internet e il radar sono gli esempi più noti — ma non sarebbe forse preferibile investire quei fondi direttamente in ricerche utili e proficue piuttosto che farli transitare dal Pentagono?

In questo capitolo non ci occuperemo né di analisi egemonico-militari, né dello sfruttamento delle risorse su vasta scala, né di conflitti che richiedano enormi fondi e uno spettacolare dispiegamento di forze. Cercheremo invece di esplorare i cambiamenti che la crisi attuale rischia di produrre in termini di conflitto domandandoci se le nazioni e i popoli, in un periodo difficile come questo, si mostreranno più inclini alla violenza.


La buona notizia: la guerra non è un fatto genetico


In tempi di crisi economica, quando le popolazioni sono sottoposte a grandi pressioni, la ricerca di capri espiatori può diventare un comodo rifugio — una tendenza che Hitler e i seguaci della sua propaganda hanno sfruttato con terrificante abilità contro ebrei, omosessuali, zingari e militanti di sinistra. Oggi, i lavoratori che perdono l'impiego e la casa sono vittime di forze distanti e incomprensibili e potrebbero cercare consolazione accusando gli immigrati o altre persone a loro più vicine e a portata di mano. Questa tendenza è già in atto in Francia e in Italia, dove i governi di destra inseguono il consenso popolare tormentando ed espellendo gli immigrati privi di documenti. In Francia, questa politica ha incluso il rimpatrio di svariati cittadini afghani senza la minima considerazione del destino che poteva attenderli una volta rientrati nel loro Paese d'origine.

La stampa USA riporta storie terribili di giovani insoddisfatti che braccano e aggrediscono i senzatetto colpevoli soltanto di non avere fissa dimora.

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"Se vuoi la pace, prepara la guerra": è ancora vero?


Questo detto latino può aver funzionato per i Cesari. Oggi, però, quando le nazioni più potenti preparano le armi non hanno nessuna possibilità di ottenere la pace, ma solo altra guerra e questo perché non si concentrano sulle cause reali dei futuri conflitti, ma sprecano le risorse militari nel modo sbagliato e per gli scopi sbagliati. Le più importanti istituzioni internazionali completamente asservite ai Paesi più ricchi – la Banca Mondiale e il FMI – acuiscono le tensioni destinate a scatenare violenza e guerra.

I finanziamenti alla difesa sono più una componente del problema che una soluzione. Questo è evidente nel caso delle cifre mostruose stanziate dagli USA, ma vale anche per l'Unione Europea. Le cause dei futuri conflitti sono già chiare. Qui ne possiamo citare cinque.


1. Aumento delle disuguaglianze

Anche se sembra un'eresia, viene da rimpiangere la Guerra Fredda. Quei tempi, seppur a loro modo spaventosi, garantivano una sorta di strana stabilità. Le superpotenze consideravano con attenzione ogni angolo del pianeta; non c'era luogo che fosse irrilevante, perché qualunque zona poteva trasformarsi in una base, in un'area di scalo o in una pedina strategica nelle mani dell'altra parte.

Oggi la situazione è radicalmente cambiata. Ci sono molte aree del pianeta di cui non vale la pena preoccuparsi perché piene di perdenti, di esclusi, centinaia di milioni di persone che le élite considerano "spazzatura", eliminabili o superflue. Esiste anche un buon numero di stati perdenti, quelli che i nostri ministeri degli esteri chiamano "stati falliti" o "stati canaglia".

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Capitolo 5


Il nostro futuro



La paura è la disciplina della società capitalista e oggi molte persone hanno paura. Paura che la situazione peggiori, paura di perdere il lavoro o di non riuscire a trovarne uno, paura per il futuro dei figli. In alcuni Paesi i cittadini temono di perdere l'assistenza sanitaria, la pensione o i sussidi di disoccupazione.

Molti, soprattutto negli Stati Uniti, vivono alla giornata, tirando a campare un mese dopo l'altro nella speranza di non ritrovarsi improvvisamente senza un tetto sulla testa.

Allo stesso tempo, e per le stesse ragioni, queste persone sono anche piene di rabbia, consapevoli di essere governate da poteri scandalosamente privi della benché minima moralità che premiano i colpevoli e puniscono gli innocenti. Le banche hanno ricevuto migliaia di miliardi e i banchieri che le dirigono hanno utilizzato il denaro pubblico per continuare a garantirsi stipendi spropositati e bonus di ogni genere. Chi non era in alcun modo responsabile di questa crisi è stato derubato due volte: non solo il crollo del casinò finanziario mondiale ha mandato in pezzi la relativa sicurezza economica dei singoli individui condannandoli a un futuro quanto mai incerto, ma ha anche dimostrato che le tasse versate dagli attuali lavoratori e dalle generazioni future non saranno spese per creare beni e servizi pubblici e assicurare a tutti una vita migliore, ma per ripristinare un sistema completamente marcio.

Paura e rabbia si uniscono in una potente combinazione generando frustrazione e senso di impotenza. Forse non sappiamo come muoverci, o non siamo ancora abbastanza furiosi; forse temiamo che reagendo potremmo persino peggiorare la situazione; forse siamo convinti di avere ancora troppo da perdere. Immaginate una folla sterminata e anonima come se ne vedono quotidianamente in tutte le grandi città. Ognuna di quelle persone si chiede silenziosamente che cosa potrebbe fare da sola. Se questo fosse un fumetto e potessimo vedere i pensieri materializzarsi sopra le teste delle persone accanto a noi, capiremmo che la risposta non è "niente", ma "unirsi". Questo capitolo finale vuole essere un tentativo di superare alcuni di questi ostacoli avanzando proposte concrete.

Il movimento alter-globalista ostenta striscioni coraggiosi che affermano "Noi non pagheremo la vostra crisi", ma è proprio quello che sta accadendo. L'ingiustizia è palese. Abbiamo visto come le grandi disuguaglianze – in particolare nella distribuzione di cibo, acqua e reddito – possono far nascere situazioni di conflitto che ai giorni nostri rischiano di sfociare nel terrorismo, l'arma d'elezione dei poveri. Abbiamo anche visto che tutte le crisi (finanza, cibo, acqua, cambiamenti climatici, conflitti, disuguaglianza, povertà) cospirano e si rafforzano a vicenda nel creare una prigione, finendo così per aggravare questa impressione di totale ingiustizia. Non abbiamo commesso alcun reato, eppure siamo tutti reclusi contro la nostra volontà.

Gli scienziati hanno dimostrato che anche gli animali possiedono un innato senso di giustizia. Senza dubbio, questa caratteristica si è sviluppata attraverso la selezione naturale poiché avvantaggia sia il singolo individuo sia l'intero gruppo. I governi e le élite a quanto pare non condividono questo tratto evolutivo e, di conseguenza, mettono in pericolo la nostra comune sopravvivenza.

Gli accordi indegni stipulati nel più totale disprezzo dei cittadini impotenti sono talmente numerosi che è difficile persino elencarli. Limitiamoci a sottolineare che, se vivessimo in una società normale sottoposta alle leggi del mercato o del capitalismo, le banche ora apparterrebbero ai contribuenti che se ne sono dovuti accollare il salvataggio. Ci hanno insegnato ad aprire il portafogli o il libretto degli assegni per ricevere in cambio beni, servizi o vantaggi di qualche tipo. Secondo questa logica, poiché si pagano le tasse, ci si aspetta di vivere in una società funzionante.

L'impegno a proteggere gli innocenti e a punire i colpevoli di solito diventa una dimostrazione di pubblica morale, utile quanto meno a salvare i politici dalla vergogna. Oggi, nessuno di questi principi ha più alcun valore. I colpevoli vengono premiati più di prima mentre agli innocenti viene imposto di tacere e pagare senza ricevere nulla in cambio dei sacrifici odierni e futuri. A queste persone e ai loro figli spettano la disoccupazione, i tagli alla pensione, lo smembramento dei servizi pubblici e un peggioramento del tenore di vita. Si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite, come sempre avviene in quelle società basate sull'ideologia neoliberista e sul fondamentalismo dei mercati.

L'estrema gravità degli avvenimenti recenti, e senza precedenti fin dagli anni '30, dovrebbe spingerci a esaminare attentamente il contesto in cui viviamo immaginando come potrebbe cambiare, in meglio o in peggio. Si potrebbero stilare due elenchi, uno negativo e uno positivo. Il lato negativo è rappresentato dalle paure, quello positivo dalle grandi speranze e dalle proposte razionali che potrebbero concretizzarsi se solo le forze popolari iniziassero a convergere formando alleanze dotate di peso politico e obiettivi chiari.

Iniziamo dalle paure: nel breve periodo, la situazione potrebbe davvero volgere al peggio. La crisi non si è esaurita solo perché i mercati finanziari e i governi se lo augurano o perché le borse iniziano a mostrare qualche segno di vita. Negli anni '30, la burocrazia commise lo stesso errore interrompendo con troppo anticipo gli interventi keynesiani dello stato. Questa sospensione portò a una ricaduta nella crisi e fu necessario attendere lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale per sbloccare definitivamente la situazione. Oggi rischiamo di ripetere quell'errore.

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Perciò, realisticamente parlando, come possiamo combattere l'impronta ecologica di queste élite di dinosauri, premettendo di non poter invocare la ghigliottina e una qualche rivoluzione mondiale immaginaria? Non possiamo obbligare queste persone a modificare la loro mentalità né il sistema che ha garantito loro simili privilegi, anche se sappiamo di dover cambiare perché quello stesso sistema sta stuprando il pianeta e, fedele alla sua logica, continuerà a farlo. La risposta non è semplice, ma sono convinta che i cittadini dovrebbero insistere e suscitare una convergenza tra il mondo degli affari, i governi e le popolazioni in una nuova incarnazione dell'economia di guerra keynesiana. Sono nata nel 1934 e ricordo molto bene il momento in cui gli Stati Uniti si sono votati in massa all'economia di guerra, destinando la produzione di tutte le fabbriche di pneumatici della mia città natale (Akron, Ohio) non più ai veicoli privati, ma a quelli militari. La popolazione contribuì ampiamente alla causa, bambini inclusi.

L'attuale momento storico ci offre un'occasione analoga per riunire tutti questi settori. La ricaduta della crisi economica per la gente comune in termini di lavoro, alloggio, consumi e futuri ammortizzatori sociali si sta aggravando quotidianamente. Sono purtroppo convinta che, in assenza di un'azione simile, i problemi dell'economia mondiale non potranno che peggiorare. Questo implica la necessità di combatterli con nuovi strumenti, semplicemente perché quelli vecchi sono già stati sfruttati al limite delle loro possibilità e non hanno quasi più nulla da offrire.

Laddove gli strumenti tradizionali non funzionano, interverrà questa nuova strategia capace di far uscire non solo gli Stati Uniti, ma anche tutti gli altri Paesi dalla stagnazione economica: un nuovo keynesianesimo ambientale allargato, una spinta in favore di investimenti di massa nel settore della conversione ecosostenibile, delle energie alternative, della produzione di materiali leggeri destinati alle scocche dei nuovi veicoli e degli aeroplani, di trasporti pubblici efficienti, della bioedilizia e dell'ammodernamento degli immobili, della ricerca e dello sviluppo. Tutti questi nuovi comparti e prodotti ecocompatibili sarebbero in grado di generare esportazioni di elevato valore e potrebbero affermarsi rapidamente come standard mondiali. I cinesi ne sono già consapevoli e stanno investendo con decisione nelle energie solare ed eolica. Mi sto sforzando di tratteggiare uno scenario appetibile per la classe dirigente planetaria partendo dalla convinzione che queste élite non si decideranno mai ad abbracciare i veri valori ambientali e la conversione verde senza trarne un qualche vantaggio.

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Per realizzare un simile cambiamento occorre considerare sei fattori fondamentali: denaro, capacità gestionale, informazione, senso della missione, motivazione e mito. Questi ultimi tre aspetti sono fondamentali. Il termine "mito" si ricollega direttamente al mythos greco e non ha nulla a che spartire con l'affabulazione o il raggiro, ma si richiama alla grande tradizione narrativa che ci spinge a credere di poter fare ciò che dobbiamo fare. Il mito descrive le più profonde motivazioni del comportamento umano e ispira il desiderio di onore e di immortalità per l'opera compiuta dal singolo individuo nel corso della sua vita. Chi governa il mondo dispone già del denaro necessario, delle capacità gestionali e del controllo sull'informazione. Spetta a noi contribuire fornendo una missione, la motivazione e il mito. Se riuscissimo a riunire tutti e sei questi aspetti, il futuro sarebbe più roseo.

Per quanto occorra ancora specificare nel dettaglio le nostre proposte e i principali problemi strategici a esse correlati, abbiamo già realizzato un'enorme quantità di lavoro sia a livello teorico sia pratico, anche se ora è arrivato il momento di riunirla in modo organico. Nonostante le molte delusioni seguite all'elezione di Barack Obama, il suo "Yes, we can" è diventato un motto universale. Siamo in grado di fare ciò che dobbiamo fare. Ed ecco alcune proposte concrete.


Sottoporre immediatamente le banche al pubblico controllo

Nazionalizzare le banche o, meglio ancora, socializzarle. Una volta che questi istituti saranno sottoposti al controllo dei cittadini e dello stato, il credito diventerà un bene pubblico al servizio della società civile. Le banche dovrebbero avere finalità locali, regionali, nazionali o persino internazionali, pur rimanendo sempre servizi di pubblica utilità. Sarebbe indubbiamente impossibile abbattere l'intero sistema bancario in un colpo solo, ma di sicuro le banche che hanno beneficiato di spropositate quantità di denaro pubblico possono e devono essere poste sotto controllo statale.

Alla fine del 2008, suggerire la nazionalizzazione delle banche avrebbe suscitato accuse inorridite di comunismo, di ateismo o di eresia, se non di vera e propria follia. Oggi, la stessa idea sta mettendo radici ed è sostenuta apertamente da alcune personalità del tutto rispettabili, tra cui il Premio Nobel Joseph Stiglitz. Come i lettori sanno, non mi capita spesso di sostenere le idee di Alan Greenspan, ma persino lui ha affermato che la nazionalizzazione è un passo obbligato. James Baker, già Segretario al Tesoro del Presidente Ronald Reagan, è della stessa opinione.

La "socializzazione" sarebbe preferibile alla "nazionalizzazione" che, secondo alcuni, coincide con la cosiddetta soluzione svedese. Questa tecnica prevede di sottoporre le banche al pubblico controllo fino all'eliminazione, a spese dello stato, di tutti gli asset tossici per poi restituirle agli azionisti, rimesse a nuovo, dopo alcuni mesi o anni. La nazionalizzazione della britannica Northern Rock, non certo l'unico esempio di questo tipo, ha comportato lo smembramento dell'istituto di credito in più società distinte: quelle in perdita sono state socializzate, mentre quelle in attivo sono rimaste in mano agli azionisti. Si potrebbe anche ribattere che gli stessi Stati Uniti hanno già "nazionalizzato" alcune società finanziarie come Fanne Mae e Freddie Mac, già parzialmente sotto controllo statale, o come la grande compagnia assicurativa AIG, che dopo avere ottenuto 60 miliardi di dollari in un solo giorno dal governo americano è riuscita a indebitarsi per una cifra quasi doppia nel momento in cui i suoi dirigenti si sono assegnati una serie di ricchi bonus. No: le banche devono essere socializzate in via definitiva e per il bene comune.

Il credito deve essere un bene pubblico. Questo non significa gettare mazzette di banconote dagli aerei o distribuire il denaro per strada, bensì riconoscere la necessità di singoli individui o società affidabili di pianificare sul medio e lungo periodo. I prestiti sarebbero gravati da interessi pari al massimo al tasso dell'inflazione, più una piccola quota aggiuntiva dovuta ai costi del servizio e alle spese operative. La prudenza dovrebbe ispirare sia la scelta dei soggetti a cui garantire il prestito sia l'ammontare massimo concesso.

Il credito è una grande invenzione. Prima della sua istituzione, solo pochi privilegiati erano proprietari della casa in cui abitavano o, probabilmente, persino del loro stesso cavallo. Chi possiede qualcosa se ne prende cura e si preoccupa anche dell'ambiente circostante la sua proprietà, contribuendo alla sicurezza generale. La crisi dei mutui subprime è in gran parte il risultato del vergognoso sfruttamento di milioni di poveri cittadini americani che si erano semplicemente illusi di poter ottenere la loro piccola fetta di sicurezza grazie al credito.

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Le iniezioni di liquidità già ricevute non sono l'unica ragione per porre le banche sotto controllo pubblico. Gli istituti bancari continuano a prelevare il denaro dei contribuenti giorno dopo giorno e legalmente. Ancora una volta prendiamo a esempio il caso di Goldman Sachs, la nostra piovra vampiresca preferita e probabilmente la più potente società finanziaria del mondo. La piovra, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, lavora bene, non di rado guadagnando oltre 100 milioni di dollari al giorno. Per quanto io non riesca a lanciare invettive al vetriolo come quelle di Matt Taibbi, posso però affermare che nel 2009, nonostante un debito non ancora saldato verso il governo americano pari ad almeno 10 miliardi di dollari, Goldman Sachs ha pagato ai suoi 28.000 dipendenti in tutto il mondo i bonus più ricchi mai concessi nei 140 anni della sua storia, che sono andati ad aggiungersi al milione di dollari ricevuto nel 2008 da tutti i 973 banchieri del gruppo. Come è possibile che una cosa del genere accada proprio nel bel mezzo del peggiore tracollo finanziario della storia? Come fa G.S. (leggi Gigantesca Sanguisuga) a guadagnare impunemente somme simili? Facile. E i contribuenti dovrebbero tenerne conto.

The Observer ha fatto notare che, nel 2006, e dunque nel periodo precedente la crisi, i guadagni del settore finanziario ammontavano a 186 miliardi di sterline. Nel 2009 ci si attendeva un calo a 160 miliardi di sterline ma, grazie alle numerose bancarotte, come quella di Lehman, gli introiti hanno finito per essere ripartiti tra un numero inferiore di società. Attualmente Goldman deve affrontare una competizione molto ridotta, perciò può permettersi di pagare stipendi più elevati. I ricavi che hanno dato origine a queste retribuzioni eccezionali e ai bonus sono davvero del tutto legali e derivano in larga parte dal... governo degli Stati Uniti e, quindi, dai contribuenti americani. Un analista citato dal The Observer sottolinea che le uniche società uscite relativamente incolumi dalla crisi sono i grandi intermediari del mercato dei titoli di stato, e questo solo perché i governi stanno racimolando miliardi in denaro contante: "Il governo del Presidente Barack Obama è riuscito a emettere titoli per un totale di 3.250 miliardi di dollari prima di settembre [2009], quasi quattro volte il valore emesso in tutto il 2008. Goldman, uno dei principali intermediari dei titoli del governo americano, si aspetta profitti per milioni di dollari dalla compravendita di questi titoli".

E tutto ciò senza rischiare nulla in prima persona. Un affare da sogno. Quello che mi chiedo è perché la compravendita del debito di stato non possa essere gestita da un'agenzia governativa. Per quale ragione gli intermediari devono essere società private di cui finiamo per accollarci i ricchi stipendi? Lo stesso vale per l'Europa, dove i governi ottengono prestiti da banche private. La Banca Centrale Europea concede prestiti ad altre banche gravandoli di un interesse pari all'1%. Successivamente, quelle stesse banche prestano denaro ai governi al tasso più elevato che riescono a negoziare. Un modo piuttosto semplice per arricchirsi.

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Tobin tax: sì o no?


Molte persone continuano a chiamarla Tobin Tax. Noi di Attac la definiamo semplicemente una tassa sulle transazioni finanziarie, perché si applicherebbe a tutti i tipi di transazione, non solo a quelle valutarie. Il defunto professor James Tobin aveva proposto l'adozione di questa imposta in un'epoca in cui le transazioni valutarie ammontavano a circa 80 miliardi di dollari al giorno. Tobin viveva in tempi più semplici. Quando la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), ossia la banca centrale di tutte le banche centrali, dalla sua sede di Basilea pubblicò alla fine del 2007 la consueta Indagine triennale, le transazioni finanziarie avevano toccato la soglia incredibile di 3.200 miliardi al giorno, una cifra 400 volte superiore a quella considerata da Tobin, e ormai comprendevano un ampio ventaglio di operazioni diverse.

Tanto per cominciare, il Forex (abbreviazione di "foreign exchange market", ossia il mercato di scambio tra le differenti valute) si suddivide in tre diversi tipi di transazioni, tre "gusti" — non cioccolato, panna e fragola, bensì spot, outright forward e swap. Tutte queste categorie registrano ritmi di crescita rapidi, per quanto neppure lontanamente paragonabili al fatturato del mercato dei derivati OTC, gli "over the counter", contrattati in mercati diversi dalle piazze borsistiche ufficiali e ormai arrivati a toccare picchi vertiginosi. Non chiedetemi spiegazioni dettagliate sull'argomento (la BRI chiarisce ottimamente questi e altri aspetti). Limitiamoci a osservare che, rispetto alla precedente Indagine triennale 2001-2004, i derivati sono cresciuti del 135%, toccando quota 516.000 miliardi di dollari in "termini nozionali", cifra che comprende tutti i contratti acquistati/venduti durante un determinato periodo.

Naturalmente nel mondo intero non esistono 516.000 miliardi di dollari, e la stessa BRI avverte che "La cifra nozionale fornisce informazioni utili sulla struttura del mercato dei derivati OTC, ma non deve essere interpretata come riferimento della rischiosità di queste posizioni". La BRI preferisce misurare il rischio in base al "valore lordo di mercato", che rappresenta il "costo derivante dalla liquidazione di tutti i contratti aperti ai prezzi di mercato in vigore" in un determinato momento. Basandosi su questo metro, nel 2007 quella stratosferica cifra figurativa di 516.000 miliardi di dollari poteva essere ridotta a "soli" 11.000 miliardi.

Dunque non disponiamo di una stima provvisoria ufficiale fornita dalla BRI riguardo al movimento quotidiano del Forex e dei mercati dei derivati OTC e sarà necessario attendere la fine del 2010 e la successiva indagine triennale per valutare l'impatto della crisi finanziaria su queste transazioni. Immaginiamo però che questa somma non si discosterà radicalmente dai 3.200 miliardi al giorno del 2007 e perciò l'imposizione di una tassa su queste transazioni finanziarie, per quanto minima, consentirebbe di racimolare milioni e milioni di dollari da investire in progetti ambientali e nella lotta alla fame e alla miseria. Calcolando un ammontare giornaliero di 3.200 miliardi al giorno per circa 240 giorni di scambi effettivi all'anno, si ottiene un totale pari a 788.000 miliardi di dollari all'anno. A questo punto, mi accontenterei di imporre una tassa sulle transazioni pari all'1 per 1.000, o anche all'1 per 10.000 — voi no?

Scegliendo di tassare il totale nozionale — attualmente stimato attono ai 600.000 miliardi annui — ci si potrebbe accontentare di un'imposta 1 / 10.000 per ricavare una cifra comunque sufficiente a eliminare virtualmente tutti i problemi del mondo — fame, distruzione ambientale, cambiamento climatico, spudorate disuguaglianze... la mente vacilla di fronte a una simile prospettiva. Che siate o non siate d'accordo, l'aritmetica basta a dimostrare che tutta questa speculazione, finché durerà, potrebbe fornire MOLTO denaro da destinare a scopi lodevoli.

Un prelievo molto limitato, corrispondente a un singolo punto base o anche a meno, non danneggerebbe nessuno e sarebbe tanto irrilevante da non incentivare nessuna scappatoia illegale, eppure c'è chi continua a obiettare che una simile iniziativa potrebbe ripercuotersi sull'economia reale e non solo sui mercati finanziari. Almeno prima della crisi, solo il 2% circa di queste transazioni finanziarie, soprattutto sul mercato Forex, era in qualche modo riconducibile ad attività economiche reali — queste compravendite miravano semplicemente a produrre profitto sulla base delle fluttuazioni dei cambi.

L'economia reale è qualcosa di ben diverso. Immaginate di gestire una società negli Stati Uniti e di voler acquistare un macchinario in Europa che vi verrà consegnato fra sei mesi. Per sapere quanto vi costerà l'operazione, in un momento in cui l'euro continua a incrementare il suo valore, decidete di comprare oggi un contratto future del valore di X euro a prezzo garantito con scadenza semestrale. Oppure potreste pagare un piccolo sovrapprezzo, garantendovi l'"opzione" di acquistare gli euro tra sei mesi al tasso attuale. Se l'euro nel frattempo avrà perso valore, sceglierete di non esercitare l'opzione, acquistando la valuta al prezzo corrente.

In confronto all'attività puramente speculativa che realizza i suoi magri profitti sulle minime variazioni di cambio tra le diverse divise, queste compravendite di valuta legate all'economia reale e concreta sono assolutamente marginali. La maggior parte delle transazioni del mercato Forex si concludono nell'arco di una singola giornata, se non addirittura di ore e minuti. Per i mercati valutari una settimana è un'eternità. Si potrebbero dunque esentare dall'imposta le transazioni attinenti all'"economia reale", per quanto io ritenga che questa scelta causerebbe più seccature che vantaggi.

Se l'obiettivo principale della tassa sulle transazioni consiste nel ridurre le speculazioni e stabilizzare i mercati, allora la sua incidenza dovrà essere un po' più elevata — questo era l'obiettivo originario di Tobin. Se invece si punta a raccogliere denaro a favore dell'ambiente e del progresso sociale, la quota applicata dovrà essere inferiore, tanto minima da prevenire qualsiasi possibile obiezione. Questo è il mio obiettivo prioritario, ma il dibattito resta aperto. Talvolta si fa riferimento anche a una "Tobin-Spahn Tax", dal nome del professor Paul Bernd Spahn che ha proposto di affiancare all'imposta sulle transazioni una seconda imposta "interruttore" pronta a scattare nei casi in cui la speculazione rischi di sfuggire di mano. Si tratta di una tassa elevata e punitiva applicata automaticamente quando il valore di una determinata valuta sale o scende troppo e troppo rapidamente, superando certi limiti prestabiliti.

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Il concetto di criticità auto-organizzata è stato adottato dalla scienza solo nel 1987, ma ora gli scienziati stanno scoprendo che questo modello si applica a sistemi ben più complessi di un mucchio di sabbia o di una valanga — praticamente a qualsiasi cosa. Gli strumenti analitici che la criticità auto-organizzata ci fornisce sembrano applicarsi alle dinamiche dell'evoluzione biologica e della periodica estinzione di massa degli esseri viventi, ma anche al cervello umano, la cui rete cellulare sembra alternare in modo imprevedibile periodi di calma e ordine a "valanghe" di attività elettrica. Alcuni ritengono che l'idea di criticità auto-organizzata si applichi anche agli eventi storici. Le stesse civiltà possono esistere in bilico sull'orlo del caos.

Io non sono uno scienziato, il mio è un approccio basato sulla sola analogia, ma non ritengo affatto assurdo pensare che i moderni sistemi finanziari e il lassismo dei governi stimolino periodiche e ripetute ricadute nel caos. Di solito, non concediamo a questi sistemi neppure il tempo di "riazzerarsi" e di assumere una qualche conformazione più stabile grazie alle iniezioni di liquidità prima di imboccare ancora una volta la via che conduce al caos.

Questa disintegrazione dell'ordine affiora anche nelle crescenti disuguaglianze e nella concentrazione della ricchezza. Tutti gli effetti dimostrabili derivanti dalle profonde disuguaglianze sociali — ridotta aspettativa di vita, cattive condizioni di salute, malattie mentali, aumento del crimine, aumento della popolazione carceraria, ecc. — sono spie dell'approssimarsi del caos. Ogni granello di ingiustizia in più porterà — impossibile prevedere quando — alla rivolta sociale e al collasso del sistema.

Θ altrettanto evidente che il cambiamento climatico rappresenta un fenomeno incrementale in cui il sistema della biosfera, pur sembrando stabile, è in realtà sottoposto ad accumuli continui, anche se relativamente ridotti, di gas serra. L'impatto sugli esseri umani è sempre maggiore, di pari passo con la crescente violenza delle tempeste, delle siccità e delle inondazioni, ma lo è anche quello sulla stessa biosfera che, riscaldandosi, rilascia sempre più gas serra nell'atmosfera. Ad esempio, lo scioglimento del permafrost in Siberia sta liberando milioni di tonnellate di metano, un gas ben più potente della CO2. Senza un intervento umano immediato, radicale e consapevole, il sistema potrà solo collassare e azzerarsi – forse a livelli incompatibili con la civiltà o con la stessa vita umana.

Una volta che si inizia a pensare in termini di sistemi auto-organizzati e di eventi critici determinanti, diventa facile riconoscerli ovunque. Consideriamo un esempio pratico come le dispute tra i vari governi europei a proposito dei diritti di pesca. In breve tempo, mentre si continua a discutere inutilmente, le diverse specie raggiungono una dopo l'altra il punto critico e la popolazione marina improvvisamente collassa. A quel punto non resta più niente su cui discutere.

Il collasso di intere civiltà ripropone le stesse dinamiche? I nostri sistemi sono così instabili che stanno per raggiungere il loro momento critico all'insaputa di tutti coloro che ne fanno parte? Io credo di sì, proprio perché li riteniamo tanto "efficienti". Finché continueremo a misurare l'efficienza in termini di velocità, superiorità, grandezza, rigore, ricchezza, concentrazione e connessione, andremo in cerca di guai. In una parola, il nostro mucchio di sabbia ha una pendenza eccessiva. I nostri sistemi stanno diventando troppo complessi e, di conseguenza, imprevedibili e vulnerabili a piccoli incidenti e a eventi che possono rivelarsi devastanti. Abbiamo bisogno di allentare la tensione, di smetterla di tendere l'elastico fino al punto di rottura, di non aggiungere altre carte al nostro castello senza curarci dei fenomeni già in atto che lavorano costantemente per indebolire quelle stesse strutture che crediamo inattaccabili.

Gli economisti tradizionali sono ancora convinti che la crescita possa protrarsi all'infinito e che si possa continuare a emettere tonnellate su tonnellate di CO2, senza che il grafico mostri un'inversione di tendenza. Nessuna persona razionale dovrebbe dare credito a queste teorie. Soprattutto i governi. Il rischio è quello di essere tutti inghiottiti dal caos e di ritrovarci "azzerati" a un livello molto più basso, più stabile e assai meno vivibile. Non possiamo prevenire le fatalità, né evitare che il nostro sistema subisca ulteriori spinte negative o raggiunga un qualche "punto di non ritorno", come la stampa ha etichettato le criticità auto-organizzate. Tuttavia, possiamo fare due cose. La prima è rendere i nostri sistemi molto più resistenti e smettere di tendere l'elastico all'estremo. Nei sistemi complessi, la resistenza e la vera efficienza coincidono. Questo significa poter evitare quegli incidenti che si possono prevedere e, dunque, esercitare un controllo decisamente più rigido sui sistemi più fragili, come quello bancario. Non possiamo permettere che dei bambini indisciplinati e irresponsabili rovescino interi camion di sabbia sul nostro mucchio per puro divertimento o per ottenere un momentaneo profitto.

La resistenza sociale è la lotta consapevole per costruire società più paritarie e inclusive, dotate di servizi pubblici migliori e di maggiori tutele sociali e forti della partecipazione democratica dei dipendenti e dei consumatori. Quella parte del sistema che genera povertà, esclusione e disuguaglianze può essere sottoposta a un severo controllo, così da impedire ai vincitori di impadronirsi di tutto, costringendoli invece a condividere. L'osservazione di Adam Smith secondo cui "Tutto per noi e niente per gli altri, sembra sia stata in ogni epoca la vile massima dei padroni dell'umanità" deve essere gettata nel cestino della storia convincendo, o costringendo, i padroni di un tempo a collaborare.

La resistenza è la creazione di sistemi alternativi per garantire l'accesso al cibo, all'acqua e all'energia e di incentivi per conservare, decentralizzare e massimizzare la diversità. Le persone devono essere aiutate a coltivare i prodotti agricoli nel quadro di sistemi compatibili con i parametri naturali dettati dalla collocazione geografica e dal clima, e non all'interno di strutture rigide, produttiviste e importate. Non insisterò mai abbastanza sulla necessità di una conversione di massa radicale e immediata alle energie rinnovabili. Le regole devono essere chiare e frutto di un processo democratico, devono essere vincolanti per tutti e a ogni infrazione deve corrispondere una punizione severa. La coercizione extralegale e la violenza sono negative in quanto introducono maggiori quantità di "disturbo" e di imprevedibilità nei sistemi complessi. La democrazia, al contrario, produce flessibilità e allenta la tensione.

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