Copertina
Autore Silvana Giacobini
Titolo Chiudi gli occhi
EdizioneCairo, Milano, 2007 , pag. 480, dim. 156x218x42 mm , Isbn 978-88-6052-100-2
LettorePiergiorgio Siena, 2007
Classe thriller
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Pagina 7

Prologo



Palestrina, 1535

La terra scricchiolò lievemente sotto i suoi passi mentre il profumo della primavera la inebriava.

Si godeva quella passeggiata tra i cespugli di roselline selvatiche, di margherite e camelie appena sbocciate fantasticando sul suo futuro. Ormai aveva tredici anni e Augustina, la sua migliore amica che aveva un anno meno di lei, era già stata data in sposa a Jacopo di Sezze.

Si chinò a raccogliere un fiore e sospirò. Presto sarebbe toccato a lei. Sorrise mentre pensava al principe Marzio Colonna. L'aveva guardata in un certo modo quando gliel'avevano presentato al banchetto di nozze dell'amica. Era forse lui il cavaliere dei suoi sogni?

«Non ci allontaniamo troppo» protestò la nutrice che arrancava dietro di lei con il fiato corto. Come ogni pomeriggio, quando il tempo lo consentiva, l'accompagnava nelle sue passeggiate avendo sempre cura però di non spingersi troppo oltre le mura del castello. Livia si girò e, prendendola in giro, disse: «Hai paura di incontrare un orco?».

«Sono gli ordini di tua madre» replicò la nutrice.

Per tutta risposta, la ragazza si mise a correre, ridendo e volteggiando tra i fiori: «Guarda come ballo, guarda come ballo...».

«Livia!» gridò la nutrice. Qualcosa le si era parato davanti all'improvviso, tramutando la sua espressione contrariata in terrore. «Attenta!»

Troppo tardi. Due braccia robuste avevano afferrato Livia alle spalle, mentre alcuni uomini schizzavano veloci come lepri fuori dai cespugli dove si erano nascosti per tendere l'agguato.

La balia corse verso la ragazza, ma una lama le trapassò il petto. L'uomo che l'aveva trafitta emise un grugnito di soddisfazione, mentre Livia si dibatteva tra le braccia dei suoi rapitori come un animale in trappola gridando con tutto il fiato che aveva in gola. Continuò a cercare di liberarsi fino a quando una mano d'acciaio non le calò sul volto, impedendole di vedere e di emettere il minimo suono. Fu in quel momento che altre mani la ghermirono, scaraventandola brutalmente sulla groppa di un cavallo. Con la preda al sicuro, il manipolo degli assalitori si allontanò al galoppo.


Pineta di Fregene, 1985

Cento mani, questo era quello che provava, la inchiodarono al suolo, le bloccarono i polsi e le caviglie, e le divaricarono con brutalità le gambe.

Una mano più forte delle altre le chiuse la bocca immobilizzandole il collo. Quando cercò di morderla, una voce ruggì: «Puttana!», sovrapponendosi al dolore sordo che, a un tratto, aveva cominciato a pulsarle nelle tempie. Qualcuno o qualcosa l'aveva colpita con violenza. Per un istante tutto sembrò diventare nero. Dalla gola le uscì un grido, un grido che non era solo paura. Era disperazione. Chi l'avrebbe sentita lì, in mezzo al nulla?

Intanto altre mani rapaci le avevano slacciato i jeans abbassandoglieli sotto i fianchi con una tale violenza che la sua pelle chiara si era striata di sangue. Le stesse mani le strapparono la camicetta facendo saltare i bottoni. Istintivamente cercò di coprirsi il petto con le braccia, ma era troppo debole per opporsi alla forza selvaggia dei suoi sequestratori. Le lacrime, intanto, le sgorgavano dagli occhi come un fiotto di sangue da una ferita squarciata, mentre le labbra tremanti scandivano una preghiera, una soltanto: «Ti prego, no. Ti prego, no...».

Poi un uomo, più grande e robusto degli altri, le fu sopra. In un lampo di dolore la penetrò e cominciò subito ad agitarsi, spingendo ritmicamente con affondi sempre più veloci e sussurrandole parole oscene con la voce arrochita dal piacere mentre gli altri lo incitavano ridendo, gridando, ansimando. Il dolore era dentro di lei. Una cosa viva che pulsava senza tregua, come se dovesse durare per sempre. Levò gli occhi al cielo cercando la luna, le stelle, una cosa qualsiasi che la portasse via di lì, anche per un solo istante. Ma quella notte il cielo era buio, inclemente, come gli uomini che le stavano addosso come avvoltoi su una carogna.

L'avevano tradita. Con il pretesto di una gita le avevano teso un'imboscata.

Alcuni li conosceva. Conosceva i loro nomi. Erano ragazzi. Ragazzi che come lei andavano in discoteca: una compagnia allegra e spensierata.

Un morso al capezzolo e poi uno al collo le strapparono, assieme alla carne, un grido di dolore.

«Godi, puttana!» Il rantolo sussurratele nell'orecchio fu come un boato. Eppure quella voce, in altre occasioni, aveva avuto toni più dolci, più suadenti. Il profumo del dopobarba del suo stupratore le riempì le narici. Un profumo dolciastro. Nauseabondo.

E mentre perdeva i sensi, si chiese perché proprio lui, il ragazzo di cui si sarebbe potuta innamorare, le stava facendo questo.

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Pagina 22

Il suo umore si accordava perfettamente con il tempo. Minacciava di piovere e l'umidità l'aveva colpita nel suo punto debole.

Chiara si toccò i capelli, ma non c'era molto che potesse fare. Avanzò verso l'edificio i cui muri quasi scomparivano sotto i graffiti. Davanti alle scale alcuni studenti parlavano animatamente. Quasi tutte le ragazze indossavano jeans a vita bassa e molte sfoggiavano il piercing all'ombelico; i ragazzi invece portavano pantaloni da rapper, con il cavallo che arrivava al ginocchio, e scarpe da tennis con le stringhe slacciate.

Ordinaria amministrazione, pensò Chiara mentre diceva a Gianni di cominciare a girare alcune riprese. Fermò prima un ragazzo con il piercing alla lingua e poi una studentessa. I due, più o meno, dissero la stessa cosa, e cioè che nessuna autorità, famiglia, scuola, classe politica o quant'altro «poteva arrogarsi il diritto di gestire la loro vita». Dall'edificio cominciavano a uscire alcuni professori. Chiara fece segno a Gianni di raggiungerli. «Bene» si disse «vediamo se mi dicono perché c'è questa occupazione...»

Tra i professori aveva notato una donna esile che sarebbe stata anche bella se non fosse stato per il colorito spento e l'aria dimessa. Chiara pensò che avrebbe cominciato proprio da lei. Quando fece per raggiungerla, a un tratto sentì che le ginocchia stavano per cederle. Doveva essere successo qualcosa anche alla sua faccia perché Gianni la stava guardando stranito: «Be'? Bonelli, vado o no?».

Chiara fece di sì con il capo. Un calo di pressione, pensò, cercando di recuperare il controllo. Poi raggiunse la professoressa, mentre Gianni la riprendeva in primo piano.

«Mi scusi, posso rivolgerle qualche domanda?»

La donna ebbe un attimo di esitazione, ma prima che potesse rispondere Chiara le aveva già spinto il microfono sotto il naso.

«Mi può dire il suo nome?»

«Lucetta Felisi.»

«E insegna?»

«Filosofia.»

«Senta, cosa sta succedendo qui?»

La donna diede un piccolo colpo di tosse, come per dissimulare l'imbarazzo, e si voltò verso Chiara, ignorando la telecamera. Fu allora che qualcosa in lei cambiò, come se al suo viso, pallido e sciupato, se ne fosse a un tratto sovrapposto un altro, più giovane e luminoso, dall'espressione terrorizzata. Chiara trasalì.

«AIUTALA!» gridò Lucetta Felisi con una voce che non era la sua e che sembrava provenire da una distanza immensa. Chiara avvertì il tocco freddo della sua mano intorno al polso: glielo stava stringendo così forte da bloccarle la circolazione. La donna tornò a urlare: «AIUTALA!».

Chiara - il cuore che le batteva all'impazzata, il volto esangue come chi sta per svenire - lasciò cadere il microfono per terra, sconvolta da quello che aveva appena visto. Chiudi gli occhi! Chiudi gli occhi!, pensò con tutte le sue forze. «Si sente bene?» Adesso era di nuovo la voce di Lucetta, vicina, distinta. La sua mano le teneva ancora il polso, ma senza più stringere. Chiara la guardò. «Sì, sì; sto bene» mentì frastornata, mentre sentiva il pianto farsi strada a ondate sempre più veloci, sempre più ravvicinate. Il pianto arrivava senza una ragione da una profondità a lei sconosciuta, come se il dolore che lo causava non le appartenesse, come se quel dolore fosse quello di un altro.

«Mi spiace» riuscì a dire tra i singhiozzi, mentre le parole le uscivano senza che avesse il tempo di pensarle, inarrestabili come le lacrime. «Mi spiace, mi spiace tanto per quello che le hanno fatto.» Protese le mani verso Lucetta, afferrandole la camicetta e stringendogliela forte sul seno, come se i bottoni avessero potuto saltare via da un istante all'altro lasciandola nuda.

Lucetta si ritrasse spaventata: «Ma cosa sta facendo?».

«Gliel'hanno strappata, quei bastardi!» Chiara cercò di afferrare nuovamente la camicetta della donna. Voleva coprirla, proteggerla.

Lucetta urlò: «Mi lasci stare. È impazzita?».

Le grida della donna riportarono Chiara alla realtà. Smise di piangere. No, non era impazzita. Ma come poteva spiegare quello che aveva appena visto? Anche Gianni la guardava con quel misto di stupore e paura con cui di solito si guardano i matti.

«Mi spiace» ripetè ancora una volta Chiara. Non riuscendo a dire altro, scappò via, salì in macchina e si allontanò a tutta velocità sotto lo sguardo attonito di Lucetta e di Gianni che erano rimasti senza parole, troppo sbalorditi per tentare di fermarla.

Vagò senza meta per un'ora, la radio accesa su 105 Classic per non sentire la Voce. Ma la Voce era più forte. Chiara cantò sopra Mare di inverno, conosceva le parole, sapeva persino imitare la tonalità cupa e disperata di Loredana Bertè. Ma la Voce era più forte. Più forte di quella della Bertè, più forte della sua. La Voce che, da quando era salita in auto, continuava a ripeterle che era stata scelta per portare a termine qualcosa. Qualcosa che era accaduto molto tempo prima. Qualcosa da cui ormai non poteva più fuggire.

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Pagina 420

Nonostante il visitatore si fosse inchinato abbassando la testa, Livia aveva colto il lampo malvagio dei suoi occhi. Non era venuto per renderle omaggio e, cosa ancora più terribile, non era venuto solo. Accanto a lui, come due ali di tenebra, c'erano gli assassini più temuti di Zagarolo: il Paciacca e il Matelica.

Livia li guardò e tremò sotto la coltre pesante. Il cuore le batteva all'impazzata, annebbiandole la vista e facendole apparire i tre uomini come una sola, gigantesca figura mutante, un ribollire silenzioso nella penembra della stanza. Cercò di dire qualcosa, ma non riuscì ad articolare nulla. Solo paura. Paura allo stato puro. Adesso Pompeo era dritto e fiero di fronte a lei, quel sorriso agghiacciante che tante volte gli aveva visto sul volto volgare. Si ricordò dello stiletto sotto il cuscino. Avrebbe dovuto estrarlo con la destra perché la spalla sinistra le faceva troppo male. Intanto la creatura mutante aveva fatto un passo verso di lei. Le tre teste ondeggiarono e sogghignarono all'unisono mentre sfoderavano le armi. Non c'era tempo per estrarre lo stiletto, Livia lo sapeva, al di là del pensiero, al di là di qualsiasi ragionamento. Ma sapeva anche che non aveva altra scelta. Adesso tutta la sua consapevolezza era concentrata nel puro istinto di sopravvivenza. Era un animale braccato. Quando i tre uomini avanzarono di un altro passo, il suo braccio scivolò sotto il cuscino e scattò in avanti, lo stiletto stretto nella mano destra.

Il gemito le era salito dalla gola con violenza inaudita. Tutto il suo corpo vibrò, urlando «No!!!», mentre la lama di Pompeo le si abbatteva con un colpo sul polso, troncandole di netto la mano. Qualcosa le esplose nella testa. La mano, volata sul copriletto, tremava ancora impercettibilmente in una pozza di sangue scuro. Lei poteva sentirla. Sì, poteva sentirla. Ma avrebbe potuto muoverla ancora con la forza di volontà? Ora tutto il suo essere lottava per riportare la mano al proprio posto, a dispetto del fiotto di sangue che continuava a zampillarle dal polso, strappandole via, battito dopo battito, la vita. E poi, mentre Filippo di Matelica alzava il pugnale e glielo piantava nel seno, una volta, e poi un'altra e un'altra ancora, ecco che Adalberto finalmente si muoveva dalla soglia e veniva verso di lei. La carnagione bronzea, gli occhi luminosi, la barba ispida, così vera, così bella. E a un tratto non era più importante sapere come mai indossasse il giubbetto di Marzio. «Aiutami a sorridere» le disse il cavaliere mentre le tendeva il braccio. E allora lei capì che poteva ancora muovere la mano destra e stringere quella di Adalberto. Capì, in un impeto di felicità assoluta, che in quel nonluogo di bellezza e perfezione avrebbe potuto continuare a stringere la mano del cavaliere, per sempre. Poi, il buio. La lama del Paciacca le trapassò il ventre, le martoriò le gambe, le braccia. Ancora e ancora. Trentaquattro pugnalate. Fino a quando il Matelica non le tagliò la gola.

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Pagina 454

La luce era accecante, ma lei poteva ugualmente vedere. Un corridoio sotterraneo. Il soffitto basso. Opprimente. Poi un altro passaggio, leggermente più ampio. Di nuovo in superficie. Una sala, quattro stanze. Tutte chiuse. Entrò in quella sul lato est. Improvvisamente si ritrovò in un salone antico, stipato di mobili con i soffitti alti e grandi quadri appesi alle pareti. Sgranò gli occhi. Livia. La Dama era lì. In una veste di bisso bianco. E le stava indicando qualcosa.

Chiara si avvicinò per guardare meglio.

Una botola.

L'aprì e scese nel seminterrato. Percorse un corridoio bianco ed entrò in una stanza con enormi teli neri che rivestivano le pareti. Lì, ai piedi di un altare sormontato da una croce capovolta, la vide.

La donna era legata e imbavagliata. Salvala!

L'aveva già vista, in una delle prime visioni che aveva avuto. La donna con l'impermeabile grigio, alla fermata dell'autobus. Come aveva fatto a non riconoscerla prima? A stento riuscì a trattenere un urlo e aprì gli occhi.

Il dolore alla testa era svanito.

«Chiara?» Paolo le strinse la mano che aveva tenuto per tutto il tempo tra le sue.

«Sto bene» gli rispose, ancora frastornata.

«Ci hai fatto prendere un colpo. Ti chiamavamo, ma tu non rispondevi...»

«Quanto tempo è durato?»

«Un minuto, forse due. Ma sei sicura di stare bene?»

Chiara annuì di nuovo. Le era sembrato che fosse trascorso molto più tempo. «Sì, è tutto a posto. Andiamo.» Lasciò che Paolo e Venzy l'aiutassero ad alzarsi.

«Hai visto qualcosa?»

Chiara abbassò lo sguardo. «No.»

Paolo la fissò un istante, incerto, poi le prese il braccio. «Possiamo andare» disse a Barbera.

Il gruppo percorse la stradina sterrata fino al cancello della villa.

Il primo a notare il citofono fu De Martino. «Che faccio, capo, suono?»

«Aspetta» rispose Barbera. «Arriva qualcuno» e indicò, al di là del cancello, un uomo alto e massiccio, spuntato dal retro della villa, che veniva verso di loro. Aveva un'aria sciatta e assonnata e indossava una tuta da meccanico sdrucita in più punti.

«Che volete?» chiese accostandosi alle sbarre.

Barbera stava per rispondergli, quando Chiara gli tirò l'orlo della giacca.

«Siamo attesi» disse poi in tono allusivo al custode.

Paolo, Venzy e Barbera le lanciarono un'occhiata interrogativa che però l'uomo non colse.

«E da chi, scusate? Qui non c'è nessuno. La villa è disabitata ed è pure in vendita, ma nessuno se la compra.»

Di nuovo, un latrato esplose nell'aria. Questa volta vicino.

«Ci sono dei cani?» domandò Chiara. Nell'abbassare lo sguardo, aveva notato che l'uomo portava scarpe di buona fattura.

«Sì, sono i miei.»

«Lei è il custode?»

«Già.» L'uomo la guardò spazientito. «E ora, se non vi dispiace, me ne vado a dormire...»

Barbera tirò fuori il distintivo e glielo schiaffò sotto il naso. «Non credo proprio. Polizia. Apra.»

Il custode guardò il distintivo per qualche secondo e poi bofonchiò: «Sai che me ne frega. Se non avete il mandato, non entrate».

Fece per dargli le spalle, ma Barbera fu più rapido: infilò la mano attraverso le sbarre e lo afferrò per la manica.

«Brutto stronzo, tu apri eccome. Ce l'abbiamo il mandato. Eccolo!» Con la mano libera sventolava il documento.

L'uomo lo fissò stranito, come se quella mossa lo avesse spiazzato.

«Apri tu o dobbiamo farlo noi con la forza?» Intanto Sacchi e De Martino avevano estratto le pistole d'ordinanza.

«Va bene. Va bene. State calmi.» Il custode azionò l'apertura automatica e si fece da parte.

Barbera si voltò verso Sacchi: «Tu resti qui con lui».

«Bene, capo.» L'agente strizzò un occhio al custode. «Favorisca i documenti.»

L'uomo si frugò in tasca e glieli diede.

«E ora le chiavi della villa» disse Barbera.

«Non le ho le chiavi.»

«Allora buttiamo giù la porta.»

Il custode le consegnò con un sospiro. «È inutile, ve l'ho detto: non c'è nessuno dentro.»

Il gruppetto lo ignorò e si avviò verso l'ingresso della villa.

«Questo posto mette i brividi» disse De Martino.

Paolo cercò con gli occhi Chiara, e notò che aveva un'espressione strana, come se fosse assente o molto concentrata su qualcosa.

«Tutto bene?»

«Sì.» Chiara gli sorrise, mentre De Martino apriva la porta.

Li investì un opprimente odore di chiuso. De Martino cercò l'interruttore sulla parete. Lo trovò. Lo azionò. Nulla. «Niente luci, capo.»

Barbera estrasse dal giubbotto la torcia. «Bel posticino» disse guardandosi attorno sarcastico.

Il salone all'ingresso era enorme e stipato di mobili e suppellettili coperti di polvere.

De Martino sogghignò. «Per perquisirlo a fondo ci vorrà come minimo una settimana. Chissà quante altre stanze ci saranno» disse, mentre il fascio di luce della torcia illuminava una dopo l'altra le quattro porte chiuse della sala.

«Meglio chiamare il commissario.» Barbera gli passò la torcia e tirò fuori dalla tasca il cellulare. «Silvia, siamo dentro, ma abbiamo bisogno di rinforzi. Qui è un casino» disse. Dopo qualche istante, conclusa la telefonata, informò il gruppo che la Giorgini stava già arrivando con altri agenti. «È meglio aspettarli qui» aggiunse.

«No» si oppose Chiara. «Non possiamo permetterci di aspettare» e prima che il vicecommissario potesse risponderle si avviò sicura verso la porta sul lato lungo a est. L'aprì e la varcò.

Barbera guardò Paolo: «Ma dove sta andando?».

«Non lo so» disse Paolo che si affrettò a seguirla. Venzy, Barbera e De Martino esitarono un attimo. Poi anche loro si mossero.

La stanza era uguale a quella precedente. Una sala ampia, piena di mobili e oggetti d'arte accatastati come in un magazzino.

Chiara sembrava orientarsi perfettamente. Sapeva cosa cercare. Puntò dritta verso un divano in pelle su un grande tappeto più o meno al centro della sala.

«Aiutatemi a spostarlo» disse.

Paolo e Venzy furono i primi a raggiungerla, seguiti da Barbera e De Martino, che non riuscivano a nascondere una certa riluttanza. Mentre gli uomini spostavano il divano, Chiara sollevò il lembo del tappeto.

«Cos'è?» si lasciò sfuggire De Martino.

«La botola» rispose Chiara.

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