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| << | < | > | >> |Indice9 Introduzione PARTE PRIMA 15 Giovinezza e macerie. Modelli letterari e storiografici nell'opera di Vincenzo Cuoco 15 La coscienza linguistico-retorica 27 Il Saggio storico: autobiografia e storiografia 42 Imago. Il sogno-oggetto e il testo-sogno nell'opera di Leopardi 42 Sogno, rêve, verità-come-sogno 47 Il sogno e l'«immagine prima» 54 Il sogno e il mito della Donna Sparente 65 «L'incanto prosastico della prosa». Cattaneo "politecnico" 92 La «prosa in prosa». Ideologie dello stile e scrittura laica PARTE SECONDA 117 L'origine e la storia. Croce e le letterature d'Europa tra le due guerre 130 Il dialogo e le maschere del Filosofo 130 Dialogismo, dialogale, dialogo 141 Platone in Italia: tra Socrate e Pitagora 148 Ottonieri, Tristano e gli altri 156 Il Filosofo da vecchio: variazioni novecentesche 163 Flaiano e lo stile del moralista 188 Argomentazione e narrazione: il caso di Alonso e i visionari 207 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 9Parlavo poi degli affetti che bisogna inserire, e de' costumi che bisogna abituare in colui che dee riuscire sovrano scrittore: al quale è necessario innamorarsi potentemente del bello e del buono; amare gli uomini; ma nulla da loro mai desiderare, nulla temere: è necessario alternare colla solitudine la conversazione; acciocché dal conversare prenda il poter conoscere e tollerare gli uomini quali sono; dal meditare solitario acquisti forza di rivolgerli a ciò che dovrebbero essere. PIETRO GIORDANI
È anche chiaro che una direttiva di questo genere, una normalità
trascendentale su un livello inferiore a quello della tradizione poetica, esige
un'applicazione implacabile di ascesi, e può convenire solo a uno
scrittore magnanimo.
Esiste un ethos della scrittura, riconoscibile nei suoi tratti discorsivi e retorici come laico? Nel generale allontanamento dalla ragione illuministica, la diffusa spendibilità contemporanea del termine «laico» ne dissolve, di fatto, la specificità: si smarrisce così il significato epistemologico di un atteggiamento intellettuale che risulta dalla sua storia e, in quanto tale, è ancora bisognoso di una impregiudicata ricostruzione storiografica. L'esigenza di una prima sistemazione, attagliata a un gruppo di testi per i quali quella dicitura definisse innanzi tutto un insieme operativo di figure, alcune modalità dell'argomentazione e non già determinati argomenti, si è via via sviluppata e chiarita a partire dalle mie riflessioni intorno alla prosa otto e novecentesca, dagli scritti giornalistici di Vincenzo Cuoco, fino agli scrittori collegati all'esperienza del «Mondo» di Pannunzio. Luogo di origine e punto zero risulta appunto l'opera di Cuoco, dove confluiscono, in nuova soluzione «italica», elementi antecedenti della cultura illuministica, dalla discussione grammaticale sull'ordine delle parole alla convocazione simbolica della classicità greca, e nella drammatica compresenza di ironia verso ogni «catechismo» (anche quello giacobino), e di viva coscienza della necessità di persuadere, di produrre consenso (anche per fare la Rivoluzione). Punto di fusione novecentesca, l'opera aperta e problematica di Benedetto Croce, a partire dalla sua stagione vittoriosamente avversativa del primo Novecento. Tra i due termini il centro, che non funziona da raccordo, è costituito dal Leopardi poeta e prosatore, snodo di una tradizione interrotta. Comunque in gioco, ogni volta, è la postura dell'enunciazione, della «prosa in prosa», che si presenta ora nella forma mediata del saggio, come sintesi superatrice dei generi, ora convergendo in testi di confine, sia tra oralità e scrittura, che tra letteratura e filosofia. C'è il dialogo come «ipergenere» e come metodo di una società consensuale, e poi la lettera, in particolare nella soluzione narrativa del romanzo epistolare. Figure mediatrici e complementari sono risultate, sempre, sotto le insegne dell'Ironia, che distingue, dissocia, duplica i piani discorsivi, la funzione-io, chiamata a garantire e a situare storicamente il discorso, e quindi la temporalità dichiarata della scrittura rispetto alla cosa. Nelle opzioni e battaglie di scrittori e linguisti sui congegni della prosa, sullo stile chiaro, sulla «fusione» del periodo, sulla paratassi, sembra racchiudersi tanta parte del farsi e disfarsi di una certa idea di letteratura come rappresentazione – per dirla con Ezio Raimondi – di una comunità discorsiva e quindi di una certa idea di comunità nazionale. Dal punto di vista grammaticale-sintattico, la paratassi è principio di non-subordinazione; dal punto di vista retorico-letterario, tutte le tecniche dell' eironeia mirano al discorso che vuole essere non «creduto» ma «compreso»; e la scelta del dialogismo presuppone che non esistano le cose ma le relazioni tra le cose. Quasi naturalmente, l'itinerario tra forme e figure della prosa ha quindi trovato la sua rappresentazione critico-narrativa nella storia del personaggio del Filosofo lungo la letteratura moderna e contemporanea: in questa prospettiva almeno, le Operette morali costituiscono un crogiuolo tematico, luogo testuale dove si raccoglie una doppia eredità, umanistica e illuministica, e da cui si diparte, con Ottonieri e Tristano, una mitografia del personaggio intellettuale di lunga durata. | << | < | > | >> |Pagina 1631. Rimane significativo, ove ci si rifiuti di annetterlo al registro della cerimoniosità epistolare, l'auspicio espresso dal giovane Arbasino a Ennio Flaiano in una lettera del 1956 di «arrivare a scrivere, un giorno» come l'autore del Diario notturno. In effetti, potrebbe sorprendere l'ammirazione manifestata da uno scrittore come Arbasino, già allora attratto da una scrittura di marca e ascendenza espressivistica, polifonicamente impostata, e segnata dalla sottolineatura allusiva, dalla addizione figurale. Il modello rappresentato da Flaiano, così diverso nella sua sprezzatura, può essere infatti definito, all'ingrosso e in via preliminare, come progetto etico-letterario improntato a una sottrazione, a una minus-retorica – sintetizzabile nella spiritosa formula flaianea «Per essere notati a un ballo mascherato si consiglia vestirsi di grigio». Peraltro, quel giudizio di Arbasino poggiava sulla considerazione, in fondo di ordine contenutistico, di un Flaiano critico dei costumi contemporanei, ma «dall'interno del sistema» e «con le armi rovinose dell'ironia e della gaiezza più scatenata». È il tempestivo segnale di una consuetudine interpretativa che si rivelerà resistente, magari consegnata alla forma quasi-critica dell'articolo di giornale o del giudizio orale; e sicuramente suggerita o determinata dalla maschera ironico-frivola di Flaiano – si vuol dire costruita e orientata da Flaiano stesso – rispetto a una scrittura invece innegabilmente notturna, depressiva, dove il Witz, il motto di spirito, emerge dal vissuto della simultaneità di esperienze contraddittorie. Esso si manifesta sempre, del resto, ha ricordato Cesare Segre, come aggressività, ammantata di gioco, verso istituzioni linguistiche e concettuali o, in misura più radicale, verso la sicurezza stessa della conoscenza. Qui intanto interessa ricordare la risposta di Flaiano ad Arbasino, testimonianza rivelatrice di una consapevolezza linguistica e stilistica che in diacronia, dal '56 al '72, si presenta molto omogenea: Lei dice molto lusinghevolmente che vuol arrivare a scrivere come me. Stia buono, io faccio quello che posso, lei deve guardare altri modelli. Sopra tutto quel Comisso a cui accenna e che anche io ammiro. Ma Comisso quando viaggia è proprio il suo contrario. Si rilegga il suo Viaggio in oriente, quella passeggiata al vulcano, tra i boschi, sembra scritta su seta. E scostato da sé l'esercizio di ammirazione, esortava il giovane amico a scrivere «non bene», cioè a usare uno strumento linguistico meno forbito, affettato, poiché «va meglio con qualche errore». È una traccia quanto mai utile da seguire, al fine di individuare la piccola ideologia linguistica che sottende le scelte di uno scrittore il quale arriva alla letteratura attraverso il giornalismo – e sia pure il grande giornalismo promosso da Longanesi e da Pannunzio – da autodidatta. «Questi giovani si fanno una cultura sugli articoli che scrivono» è il noto paradosso di Cardarelli destinato alla generazione di scrittori che negli anni trenta a Roma si muoveva proprio sulle orme di lui, Cardarelli, della sua scandalosa sventatezza così intimamente segnata dalla cultura primonovecentesca, e segnatamente vociana. Ci riferiamo a quella riconoscibile tensione dell'intellettuale del primo Novecento a ridefinire il mondo, a inventarsi e fondarsi attraverso l'ideologia del nuovo e dunque mettendo in scena i molteplici «usi dell'oblio», come sono stati definiti, mettendo a frutto, anche, insomma, il giovenile errore dell'ignorare. Ecco, prima di analizzare per campioni taluni momenti discriminanti della lingua e dello stile nei testi di Flaiano, sarà necessario evocare preliminarmente le riflessioni dell'autore in proposito, per poter commisurare quelli a queste, la pratica all'ideologia linguistica. Di certo, la ricerca di uno stile mediano e naturale, di una lingua che conservi nello scritto la sua originaria essenza dialogica e comunicativa, porta Flaiano a muoversi «nel seminato del Manzoni» com'egli stesso ebbe a scrivere della prosa – sicuramente ben più impregnata di letterarietà e meublée – di un suo sodale e amico, Gabriele Baldini (straordinario scrittore oltre che grande studioso, non ancora venuto sotto i riflettori della critica), anch'egli volto verso un modello di «prosa sostenuta, ricca, civile, ma assolutamente chiara». In tal senso, quel comandamento sintattico polemicamente emanato da Flaiano – Chi apre un periodo, lo chiuda – contro gli sperimentalismi, va inteso sul filo di una scelta democratica e popolare. La funzione-Manzoni, come l'ha definita felicemente Contini, ci restituisce, dunque, ancora una volta, un «mobile ideale di sliricamento» tendente, fra scarti e fenomeni restitutivi, verso un apparente grado zero, un risultato che non appaia neppure il premio di uno sforzo. Su questo punto la testimonianza di Flaiano è decisiva: Ho scritto un libro. Quel che un amico mi rimprovera, con dolcezza e anche simpatia, è che il dettato sia chiaro. Si capisce tutto. «Non devi aver faticato molto» mi dice con indulgenza. Rispondo che, al contrario, ho faticato moltissimo, ho scritto e riscritto pagine infinite volte, poiché se avessi dato retta alla mia natura tutto sarebbe rimasto nel vago e nell'oscuro. «Non ami gli esperimenti» insiste l'altro. «No» dico «l'operazione sperimentale, ogni italiano, colto o no, la compie sempre naturalmente, "parlando". [...] Quindi, noi, la vera operazione sperimentale la facciamo scrivendo "chiaramente"». Mi fa sorridere lo scrittore che esaspera la punteggiatura, la scelta dei tempi e dei modi, la metonimia e la metafora, o pesca vocaboli obliati e li usa in un'accezione squisita: è esattamente quello che facciamo tutti noi, parlando. Come il Borghese gentiluomo di Molière, che parlando faceva della prosa, da noi lo scrittore sperimentale quando scrive fa della conversazione. | << | < | > | >> |Pagina 1881. Al centro di un testo serratamente teoretico come la Dialettica negativa, tra i più ardui del secolo scorso, Adorno superava infine il tema a lui caro della impossibilità della poesia «dopo Auschwitz», nel tema più ampio della impossibilità di vivere. E ricorreva a un passaggio discorsivo di natura letteraria, cioè non argomentativo ma finzionale, convocando l'immagine allusivamente autobiografica del Sopravvissuto, di chi «avrebbe dovuto essere liquidato» ed è sfuggito solo per caso al Campo: Il suo continuare a vivere ha bisogno proprio di quel gelo, il principio basilare della soggettività borghese, senza cui Auschwitz non sarebbe stato possibile: colpa radicale del risparmiato. Per rappresaglia lo visitano sogni come quello che egli non è più vivo, è stato gassato, e tutta la sua esistenza dopo di allora è proseguita solo nell'immaginazione, emanazione del folle desiderio di un assasinato di vent'anni prima. È un passo vertiginoso, dove si compie il sortilegio che rende morti i viventi, colpevoli gli innocenti, irreale la realtà storica. Qui vale come esempio di commistione tra regime speculativo e regime visionario, utile per sottolineare preventivamente la direzione metodologica delle riflessioni intorno a un testo letterario da ritenersi estremo per molte ragioni. Alonso e i visionari, l'ultimo romanzo di Anna Maria Ortese, infatti attraversa e riassume, nella complessa vicenda redazionale, l'itinerario della scrittrice, ma per altri versi lo contraddice e dissolve. Può darsi che la Ortese abbia voluto raccontare da sempre questa storia, di «qualcuno che viene accusato e ne muore». Pure, ci sono opere più di altre irriducibili al pacifico percorso bio-bibliografico del prima e del poi, che bruciano integralmente quelli che erano stati fin lì i propri materiali, le illusioni tematiche, la stessa funzionale costruzione autobiografica, – ad esempio l'elemento doloroso così determinante nella Ortese per il costituirsi della letterarietà – entro una superiore oggettivazione, innanzi tutto del Sé dell'Autore. Ci accostiamo a una storia di «laici assoluti». È la parola chiave del romanzo: «I visionari sono alcuni "laici assoluti"» – scrive la Ortese al suo traduttore americano, Henry Martin, inviandogli una copia del romanzo. E nel testo, nei punti cruciali, all'inizio della storia e nelle pagine finali, la parola laico è chiamata a rimescolare le carte di Visione e Ragione. «La credevo un laico. Mi stupisce», dice l'io narrante al personaggio che comincia a intessere, fra lettere e dialogo, la storia fatta di «silenzio e prodigio». A sua volta questi si rivolge all'antagonista come a un «laico» e definisce la propria religiosità radicata «nell'altezza vertiginosa del reale». Dal racconto conclusivo emerge «qualcosa che non si poteva ammettere tra laici». Anche sul protagonista animale, stavolta la scrittrice, diversamente che nell' Iguana, sente l'esigenza di reduplicare in dialogo la rappresentazione e aprire così il varco, di natura allegorica, fra fantastico e concettualizzazione. «Questa non è una storia di animali, devo ripeterlo» – dice il protagonista alla interlocutrice – «È la storia di un odio, che ha generato altro odio e rovina».
Può rivelarsi fruttuoso, allora, non opporre ma incrociare i criteri
gerarchici di letteratura e filosofia, in quanto pratiche testuali non
esattamente identificabili con i campi individuati dalla comunità discorsiva di
volta in volta come letterari o filosofici
stricto sensu.
Se si può analizzare il quoziente di figuralità della prosa critico-filosofica,
è altrettanto istruttivo considerare il potenziale argomentativo della
narrazione, il
«Che pensa la letteratura?» —
per parafrasare i termini di un celebre libro di
Macherey — nel senso che proprio nel produrre rappresentazioni la letteratura
produce effetti di intelligibilità alla stessa maniera in cui il passo
adorniano or ora citato mobilita una dimensione innegabilmente estetica. Vale la
pena ripeterlo, c'è uno spazio privilegiato in cui i due discorsi
si intercettano e si intrecciano, ed è quello configurato dalla tradizione
moralistica, nelle forme del dialogo, della lettera, dell'aforisma. Giova
forse sottolineare che nella
Dialettica negativa,
il capitolo
Meditazioni metafisiche,
dal quale abbiamo tratto la citazione, realizza il transito,
previa la «meditazione», dalla metafisica tradizionale alle micrologie, là
dove il pensiero, visti i risultati dell'
ego cogitans,
sente l'obbligo di concedere il ruolo di correttivo al suo avversario di sempre,
il senso comune. E il discorso filosofico si articola nel riferimento continuo
alla musica e alla letteratura, in particolare al
Finale di partita
di Beckett.
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