Autore Elena Gianini Belotti
Titolo Onda lunga
Edizionenottetempo, Roma, 2014 [2013], narrativa , pag. 268, cop.fle., dim. 14x20x1,8 cm , Isbn 978-88-7452-449-5
LettoreGiangiacomo Pisa, 2015
Classe narrativa italiana












 

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Adesso basta, non ne posso più. Negli ultimi tempi sono stata bombardata da una pubblicità insistente, una vera e propria persecuzione: di solito mi arrivavano un paio di lettere l'anno, regolarmente gettate nel cestino della carta straccia, ora invece me ne spediscono una ogni quindici giorni. La chiamano "campagna di accertamento uditivo", e suppongo che questi centri pseudomedici consultino l'anagrafe della città per selezionare gli anziani. Se no come farebbero a sapere quanti anni ho? Nella discutibile presunzione che siamo tutti sordi come talpe, mi invitano a un controllo dell'Udito – scritto con la maiuscola – per vendermi un costosissimo apparecchio acustico di ultima generazione – "che l'aiuterà a migliorare le sue capacità discriminative del parlato" – un microchip definito un vero prodigio, il quale sfrutta la tecnologia digitale della famosa intelligenza artificiale, mettendola in collegamento con i sistemi oggi piú utilizzati nel campo delle telecomunicazioni: il wireless e il bluetooth. Non ho la piú pallida idea di che cosa siano.

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In un pomeriggio soleggiato, in macchina con Camilla, Silvia e Simonetta, siamo arrivate all'appuntamento al Bar Centrale di Torrita, dove c'erano già Emanuela con la comune amica Giorgina, la sorella, i rispettivi figli e nipoti, la ragazza filippina che aveva accudito la madre, e un folto gruppo di amici e parenti. Siamo scese fino all'imbarcadero, dove abbiamo posteggiato, e dopo gli abbracci e i saluti di quelli che da tempo non si incontravano, i convenuti sono saliti composti e silenziosi sul battello e hanno preso posto sui sedili. I giovani erano una esigua minoranza. Lí il fiume è molto ampio perché è frenato a valle dalla diga di Nazzano e ha un colore verde intenso sorprendente: il celebrato biondo Tevere cittadino evidentemente è frutto degli scarichi che vi si rovesciano, altrimenti non si spiega la differenza.

Il barcone si è avviato lentamente verso sud, il motore borbottava sottovoce, lo scafo tagliava la corrente con un tenue fruscio, io mi guardavo intorno muta e impressionata dalla bellezza del paesaggio: boschi di querce sui pendii scoscesi ai due lati del fiume, sugli argini folti canneti, salici, sambuchi, sulle alture file ordinate di olivi, un paio di case coloniche di tufo e in alto il profilo turrito di Nazzano. Il sole accendeva bagliori sul pelo dell'acqua, uno snello airone cinerino pescava sulla riva col lungo becco appuntito. Per un istante aveva raddrizzato il collo ondulato e gli occhi tondi avevano fissato tranquilli il battello, e subito dopo aveva ripreso il suo pranzo. A breve distanza, due candide garzette a loro volta rastrellavano la riva.

S'era alzato un venticello tiepido che increspava la calma superficie dell'acqua, a bordo qualcuno parlava sottovoce. Emanuela con una mano reggeva sulle ginocchia l'urna grigia con le ceneri della madre e con l'altra si asciugava gli occhi. La sorella le teneva un braccio intorno alle spalle e le sussurrava qualcosa all'orecchio. Un'amica di vecchia data aveva portato un cesto colmo di petali di rose da gettare nella corrente insieme alle ceneri. Un pensiero affettuoso e profumato.

Silvia, seduta accanto a me, mi aveva toccato un braccio, s'era accostata al mio orecchio e bisbigliando mi aveva raccontato: "Diversi anni fa, quando ero andata a trovarla, la signora Magda mi aveva mostrato la sua pagella della scuola complementare, che da un bel pezzo non esiste più, e non so se corrisponda alle medie o alle elementari, e ridendo divertita mi aveva indicato i suoi voti: tutti otto, tranne un sei in lavori femminili e un dieci in educazione fisica. Mi aveva detto: 'Non sapevo attaccare un bottone o ricamare un orlo a giorno, non ho mai imparato l'uncinetto, il lavoro a maglia e tanto meno il tombolo, però nuotavo come un pesce, mi arrampicavo sulla pertica piú svelta di una scimmia, sapevo fare quattro capriole di seguito all'indietro, ero la prima nel salto in alto e nei cento metri'. A queí tempi, aveva concluso, per una ragazza essere brava nello sport e un disastro nei lavori femminili era molto riprovevole.

"Insomma," aveva seguitato Silvia, "era una donna con aspetti del carattere inusuali, e immagino dovesse aver resistito fieramente alle inevitabili pressioni famigliari perché si conformasse ai codici della femminilità in voga nella sua generazione. Che per noi si sono un po' allentati, ma non del tutto. E adesso eccoci qui, a salutarla per l'ultima volta proprio nel modo che desiderava". Sospirò e aggiunse: "Dovremmo tutte imparare da lei".

Dopo un'ampia curva, il barcaiolo aveva spento il motore e il battello si era arrestato proprio al centro del fiume. Nel silenzio improvviso, si udiva il sommesso sciabordio della corrente contro la chiglia, punteggiato dal sonoro ticchettio di un picchio e dal monotono tubare di due tortore invisibili. Tutti a bordo si erano alzati in piedi ed Emanuela, con l'urna tra le mani, aveva appoggiato la schiena alla sponda, raddrizzato lenta la testa china e con gli occhi fissi nel vuoto, dapprima a voce bassa, poi piú chiara, aveva iniziato una commossa commemorazione della madre. I convenuti apparivano emozionati e un po' spaesati dall'insolita cerimonia. Anche la sorella aveva aggiunto qualche parola, poi l'urna era stata aperta e a turno, con una paletta, avevano estratto piú volte le ceneri e, sporgendosi dal parapetto, le avevano gettate nel Tevere. Il venticello se n'era gentilmente appropriato, disperdendole in lievissimi turbini. Da ultimo, i figli e i nipoti delle due sorelle avevano rovesciato nella corrente, l'uno dopo l'altro, le ultime palette dei resti mortali della nonna. L'urna ecologica aveva seguito la stessa sorte, per pochi istanti aveva galleggiato, poi s'era riempita d'acqua ed era sprofondata nel fiume dove ben presto si sarebbe disciolta. Non si udiva una voce, un respiro, un colpo di tosse. Di fronte al timone, il barcaiolo stava ritto in piedi, serissimo, col berretto in mano.

Era stato il momento piú toccante della cerimonia. Per imprimerlo bene nella mente e non dimenticarlo, avevo girato lo sguardo intorno a contemplare il paesaggio sereno, idilliaco, luminoso, immerso in una quiete perfetta.

Con un nodo alla gola e il cuore che mi batteva all'impazzata, pensavo che dentro quel vaso c'era un essere umano, una persona in carne e ossa ridotta in polvere, ora sparita per sempre dalla faccia della terra. Di lei non restava la minima traccia, s'era ricongiunta con la natura, che l'aveva afferrata, inghiottita, fatta sua, cancellata. Accolta mi pareva un termine consolatorio. Laggiù, alla foce, l'aspettava il mare. Le sue sembianze umane sarebbero rimaste solo nel ricordo di chi l'aveva conosciuta e amata.

Per quanto da decenni sostenessi la cremazione con il massimo convincimento, adesso quel rito, per la prima volta osservato nella sua materialità, nei gesti, nei visi e nelle parole dei partecipanti, mi aveva sgomentato proprio perché cancellava ogni segno tangibile di una persona in carne e ossa. Non una tomba al cimitero dove andarla a trovare, non una lapide con la fotografia e le date di nascita e di morte, e nemmeno un vasetto in cui deporre i fiori: insomma, erano stati soppressi tutti quegli aspetti della tradizione, incisa a fondo nelle nostre coscienze, cui siamo stati abituati o costretti da secoli.

Non vado mai a trovare mio padre e mia madre al cimitero, li penso e li sogno di frequente, ma non sento il bisogno di recarmi a visitare quel simulacro di marmo con il loro ritratto sulla lapide. Però mi conforta che siano là, in quel posto preciso che conosco. E invece mi darebbe un senso di smarrimento se i loro resti non fossero custoditi in nessun luogo, dispersi al vento o nelle acque, e di loro non fosse rimasta la minima traccia. Niente, più niente di niente.

Come posso essere tanto incoerente e tanto illogica?

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Ha cominciato con voce sommessa, il viso chino e le mani intrecciate strette fra le ginocchia. Io le tenevo gli occhi addosso e in lei avvertivo una forte tensione, come se stesse raccogliendo le energie per affrontare un'enorme fatica.

Sua madre, ha raccontato, cinque anni prima aveva scelto di lasciare la casa dove abitava da sola per andare a vivere in un pensionato, situato in un bel parco alla periferia di Amsterdam. Non aveva piú amiche, era l'unica sopravvissuta di un gruppetto intellettualmente molto vivace cui era stata parecchio legata. Quando aveva perso l'ultima rimasta, aveva ben presto trovato assai noioso e faticoso vivere in solitudine, senza scambiare chiacchiere, pareri e opinioni con nessuno. Marieke andava a trovarla spesso, come suo fratello, ma evidentemente la loro compagnia non le bastava. Al pensionato aveva una bella stanza luminosa con un bagno e un angolo cucina, una grande porta-finestra si affacciava su un parco e su un'ampia aiuola dove lei stessa coltivava i suoi amatissimi fiori. Un luogo confortevole, dove era ben assistita e curata. Era perfettamente lucida, sempre in ordine, ben pettinata, elegante, nelle belle giornate passeggiava in mezzo agli alberi appoggiata al suo bastone, era curiosa e interessata a tutto quello che succedeva nel mondo, leggeva molto, ascoltava musica, chiacchierava amabilmente con il personale e con quelli che andavano a trovarla, giovani e anziani, che la giudicavano gradevole, intelligente e piena di ironia. Aveva problemi di salute, soffriva di dolori artritici, i reni non funzionavano bene, aveva poco appetito, e soprattutto era da tempo depressa per diversi, dolorosi motivi famigliari.

Piú volte la madre aveva detto a Marieke che era proprio stanca di una vita troppo lunga e piena di preoccupazioni, giornate tutte uguali in cui non succedeva mai niente, si annoiava, si sentiva inutile, non ne poteva piú: ma lei aveva interpretato le sue parole come normali e giustificate lamentele di una sensibile e fragile signora di novantacinque anni.

"Saskia, la mia figlia maggiore che vive in Italia," aveva proseguito, "era venuta ad Amsterdam a trovarla insieme ai suoi due bambini che ancora non conoscevano la bisnonna. Era la fine di aprile di due anni fa. Al pensionato abbiamo passato insieme un pomeriggio molto piacevole, sereno, allegro e festoso nella sua stanza accogliente e piena di luce, i piccoli si erano molto divertiti con i giocattoli e i libri che mia madre aveva fatto comprare per loro, io ho preparato un buon tè e abbiamo mangiato una squisita torta ai mirtilli. Al momento di congedarci, la mamma ha invitato i bambini a uscire nel parco, loro sono corsi fuori, li ha seguiti con lo sguardo divertito e ha ascoltato sorridendo le loro grida festose mentre galoppavano giù per il pendio.

"Poi si è seduta nella sua poltrona e si è rivolta a noi due con un'espressione tranquilla e il tono di voce calmo e deciso che conoscevo bene. 'Stasera,' ha detto, 'comincio un trattamento a base di supposte di morfina per mettere fine alla mia vita'. Ho avuto un violento soprassalto, come se fossi stata colpita da un pugno nella schiena, ho sbarrato gli occhi ma dalla bocca non mi è uscito nessun suono. Le calme parole di mia madre mi avevano raggelata. Anche Saskia era rimasta paralizzata da quell'annuncio drammatico.

"'Non ho piú voglia di vivere,' ha continuato mia madre, 'l'ho detto tempo fa al mio medico, lui era d'accordo. Poi è intervenuto, per via della legge che lo impone, un secondo medico che non avevo mai conosciuto e che in seguito, piú volte, ha verificato la mia decisione, ne ha discusso con la commissione prevista e alla fine mi ha prescritto le dosi necessarie. Tra qualche giorno non ci sarò piú'.

"Io e Saskia, sconvolte, non siamo state capaci di dire niente. Lei si è alzata e ci ha abbracciate strette l'una dopo l'altra. Ha aperto la porta che dava sul parco e siamo uscite. Abbiamo chiamato i bambini che si rincorrevano nel prato e ce ne siamo andate. Siamo rimaste in silenzio fino all'arrivo a casa. Allora Saskia è esplosa: era fuori di sé, si sentiva tradita e rifiutata dalla nonna che aveva sempre amato, quell'annuncio le pareva una vera e propria cattiveria, non capiva perché avesse scelto proprio quei giorni per mettere fine alla sua vita e avesse voluto informarla della sua orribile decisione. Poteva rimandarla a quando lei fosse partita, risparmiarle quella pugnalata cosí crudele. Chi l'aveva obbligata a fissare una data che coincideva con la sua presenza ad Amsterdam? Era venuta per farle conoscere i suoi figli e per dimostrarle il suo affetto, intendeva restare diversi giorni e vederla ancora, ma era chiaro che alla nonna non importava assolutamente niente né di lei né di loro. Aveva dimostrato un mostruoso egoismo, la delusione era cocente, non l'avrebbe mai perdonata per il colpo terribile che le aveva inferto".

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