Copertina
Autore Luca Gianotti
Titolo L'arte di camminare
Sottotitoloconsigli per partire con il piede giusto
EdizioneEdiciclo, Portogruaro, 2011, ossigeno 1 , pag. 156, cop.fle., dim. 13x20x1,3 cm , Isbn 978-88-6549-015-0
PrefazioneWu Ming 2
LettoreGiangiacomo Pisa, 2012
Classe viaggi , salute , sport , natura , montagna , mare
PrimaPagina


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  7 Prefazione di Wu Ming 2

 15 Introduzione

 19 Lo zen del cammino
 21 L'arte di partire col piede giusto
 26 L'arte di prepararsi e di ritornare
 30 L'arte di preparare lo zaino

 37 L'arte di vestirsi in modo corretto
 43 L'arte di orientarsi e l'uso della tecnologia
 48 L'arte di leggere il cielo
 51 L'arte di non mettersi nei guai
 63 L'arte di andar per erbe

 71 L'arte di mangiar bene in cammino
 74 Camminare con i bastoncini
 78 L'arte di dormire sotto le stelle (senza aver paura)
 83 L'arte di camminare con i bambini
 91 L'arte di camminare con gli asini

 97 L'arte di meditare camminando
101 L'arte di camminare in inverno
105 L'arte di andare vicino
110 L'arte di andare lontano
116 L'arte di partire per un cammino spirituale

120 L'arte dell'incontro: il turismo responsabile
128 L'arte dell'incontro con la natura
131 L'arte di trasformare il camminare in una terapia
135 Il decalogo del camminatore

137 Bibliografia
145 Appendice
151 Ringraziamenti


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

Introduzione


Per anni si è detto "andiamo in montagna". Più tardi si disse "andiamo a fare trekking". Ma qualcosa sta cambiando nel modo di vivere l'esperienza del camminare, non si cammina solo in montagna, e il termine "trekking" è ormai sinonimo di un camminare di pura evasione. Ora "ci si mette in cammino", "si parte per un cammino".

Se cambia il modo di camminare, serve anche un manuale con un approccio diverso.

Questo libro è un manuale, ma non è un manuale. Insomma, è un manuale non da manuale.

Camminare è per tutti, dunque anche il titolo "l'arte del camminare" è discutibile: in fondo non serve nessuna arte per camminare. Basta alzarsi, uscire di casa e mettersi in cammino.

Ma per farlo in modo consapevole, occorre qualche premessa, qualche attenzione. Questo libro è rivolto sia a chi non ha mai camminato per più di una giornata, sia a chi già lo fa e vuole aggiungere o sottrarre qualcosa al proprio bagaglio.

Questo libro è rivolto a chi vuole partire per un lungo cammino, per esempio andare a Santiago, ma anche a chi vuole fare passeggiate fuori porta con consapevolezza maggiore.


Si parla spesso della riscoperta della lentezza grazie al camminare, ma cosa significa camminare lento?

La percezione della velocità del nostro cammino è più che altro interiore. Tra una camminata lenta (circa tre chilometri all'ora) e una camminata veloce (circa cinque chilometri all'ora) non c'è poi tutta questa differenza, se inseriamo queste due velocità nei parametri a cui siamo abituati, perché la percezione della velocità è basata su mezzi molto più veloci, che viaggiano a 50 o 100 chilometri all'ora.

Entrambe queste velocità, del camminare lento e del camminare veloce, sono velocità lente. E allora perché certe volte ci sentiamo in affanno ma non sappiamo rallentare?

Il bello di un cammino lungo, di tanti giorni, è che si provano tutte le situazioni possibili. Si parte con un passo, e man mano che si entra in allenamento si accelera, senza far fatica. Ma poi si rallenta, in fondo non stiamo correndo da nessuna parte, il nostro cammino è la meta del nostro andare, stiamo bene così, e anzi quasi quasi non vorremmo arrivare alla fine. Per questo rallentiamo. Gli ultimi giorni di un lungo cammino si fa "melina", perché si ha un po' paura di tornare a casa, si teme di interrompere quello stato idilliaco in cui ci troviamo.

Se invece per qualche motivo siamo costretti ad accelerare (piove, diventa buio, qualcuno si è fatto male), ecco che da tre chilometri all'ora passiamo a cinque, ma siamo sotto stress. E lo stress che fa la differenza. Che ci impedisce di vivere serenamente il nostro cammino, il non saper più vivere nel qui e ora ma essere proiettati all'arrivo.

A quel punto andremo in affanno, e la camminata da lenta diventerà veloce, perché la sentiremo innaturale.

Questo significa camminare lento: saper vivere il presente senza fretta, godersi il cammino fermandosi a osservare un fiore o a scambiare due parole con un contadino, sapendo che, siccome abbiamo la tenda con noi, e del cibo di scorta, possiamo anche far tardi, nessuno ci aspetta, non corriamo nessun rischio. Per questo i cammini in completa autonomia, in libertà, nei quali il nostro zaino diventa la nostra casa, nei quali abbiamo con noi la tenda, i viveri, il necessario, sono i più terapeutici. Possiamo fermarci quando vogliamo. È bello studiare le tappe, studiare dove vorremmo arrivare oggi, guardare e riguardare la carta cento volte mentre stiamo camminando, ma poi è di gran soddisfazione cambiare programma, fermarsi prima, perché c'è un bel prato con una fontana, perché c'è un rifugio che non era sulla mappa, oppure andare oltre perché siamo in anticipo e abbiamo ancora voglia di camminare.


Il benessere del camminare non è solo fisico. Come dice Bernard 0llivier, uno che se ne intende perché ha camminato migliaia di chilometri, il corpo dà il ritmo, ma il cammino induce una specie di dinamica spirituale: «Non avevo mai provato con tanto piacere l'azione del pensiero. Constatavo, e in seguito l'ho verificato molte volte, che camminare è un esercizio più spirituale che fisico. Riesce a uccidere i pensieri negativi. E tutti i problemi diventano relativi».


Viaggiare camminando vuol dire entrare in contatto con la Terra, che calpestiamo passo dopo passo, e con la Natura, a cui abbandonare i nostri sensi per farci accogliere in un abbraccio ristoratore e rigenerante. E dunque abbracciare un albero, dormire sotto le stelle, ascoltare il silenzio, annusare e assaggiare le erbe che si incontrano, bagnarsi nei torrenti o nelle calette isolate dei mari mediterranei, ammirare il volo di un rapace, sono tutte emozioni che ci riempiono di energia.

È un viaggiare a bassa velocità, e quindi è la forma di viaggio che consente maggiormente un approfondimento verticale dei luoghi attraversati.

Il camminare si è evoluto in questi anni da attività sportiva e performante (arrivare sulla cima) ad attività di vagabondaggio, spirituale, di crescita interiore.

Il camminare è un gesto rivoluzionario, sempre di più, controcorrente, ma anche un bisogno profondo che torna a galla.

Di tutto questo vi vuole parlare questo libro, introducendovi a questa nobile arte.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 26

L'arte di prepararsi e di ritornare


Preparare un viaggio significa molte cose, e significa anche darsi gli strumenti per leggere il territorio e le persone che si incontreranno lungo il cammino.

C'è chi propone di partire verso l'ignoto, per predisporsi alla scoperta e allo stupore senza sapere nulla dei luoghi e delle culture che si attraverseranno; ma la ricchezza e la consapevolezza dell'esperienza che si vive quando si viaggia con una preparazione precedente credo siano davvero preziose.

La preparazione precedente alla partenza è per parecchi camminatori una parte molto affascinante del viaggio. E grazie a internet si possono scoprire storie molto interessanti. Navigare nella letteratura, scoprire chi ha parlato di quei luoghi, se ci sono romanzi o romanzieri, letture che possono ispirare e suggestionare il nostro cammino, se ci sono viaggiatori antichi che hanno visto gli stessi luoghi ma in tempi molto diversi, consentendoci un confronto con l'oggi. Navigare nella storia, per vedere la stratificazione degli eventi, per trovare suggestioni da seguire durante il cammino. Navigare nell'architettura, per scoprire piccoli gioielli da visitare, anche se spesso il ponte romano, lo scavo archeologico, la pieve medievale, il lastricato della via antica, li scopriremo noi lungo il cammino, come se nessuno li avesse visti prima di noi, e ci documenteremo al ritorno su queste piccole tracce. Navigare nell'attualità, per scoprire cosa succede ora, i problemi di quei luoghi, le emergenze, le eccellenze. E le storie delle persone, persone che stanno lavorando bene su progetti fatti con passione, persone da includere nel cammino e da incontrare. Il cammino si fa, si plasma, si modella su queste storie. E dall'idea iniziale diventa qualcos'altro. Da un generico viaggio da A a B, il viaggio diventa "sulle orme di...".

L'importante è mantenere il cammino libero, senza piani troppo rigidi, senza appuntamenti e scalette forzate, avere un programma per poterlo evadere e modificare. Più il cammino è libero, più sarà per noi gioia e scoperta.


Molte persone partono portandosi libri, letture su argomenti legati al viaggio o romanzi di semplice evasione. Ma da un cammino non si evade. Il cammino ti assorbe completamente, non ti lascia il tempo e la concentrazione per allontanarti dal suo presente. Il cammino vive nel qui e ora. Gli inesperti portano i libri, romanzi che parlano di altri tempi e altri luoghi, per poi accorgersi che non è il caso, che se proprio durante un viaggio a piedi abbiamo un momento libero, un momento solo per noi, un momento di riposo, meglio impiegarlo per farsi una passeggiata sulla spiaggia, o tra i vicoli di un paese, oppure per vedere il tramonto seduti su una roccia. E poi i libri pesano, e il peso delle cose non necessarie è doppio. Il peso nello zaino di un oggetto che sappiamo non ci serve, che non è nostro, di cui non vediamo l'ora di liberarci, è come un macigno, e il nostro pensiero ogni volta che ci carichiamo lo zaino va a questo peso, e a come liberarcene, dove abbandonarlo. Quindi i libri è meglio lasciarli a casa.


Perché i libri diventano importanti al ritorno, ovvero durante la terza fase del viaggio.

Approfondire tutte le suggestioni, le storie, gli incontri, andando in internet, leggendo libri, parlando con persone e scrivendo. Viaggiare è anche scrivere. Si scrive prima di partire, gli appunti sulle cose da vedere, le tabelle del nostro programma, i contatti con le persone; si scrive durante il cammino, non tutti lo fanno, alcuni usano altri modi di raccogliere ricordi (fotografie, disegni). Ma molti hanno la loro moleskine, per scrivere diari, pensieri, poesie. E si scrive al ritorno, si rielabora in modo più organico il nostro cammino. Lo si fissa nella memoria, ma soprattutto lo si trasforma in qualcosa che ci rimane dentro. Si mette la chiosa, si chiude il cerchio. Si conclude il viaggio portando la ricchezza di quella crescita dentro di noi.

Il lavoro al ritorno è importante, se rientrando da un cammino entusiasmante non si riesce a staccare subito dal viaggio fatto, non è un male, anzi. Il viaggiatore che passa da una situazione all'altra senza saper rielaborare vive il viaggio come mordi e fuggi. E non sa coglierne tutti gli aspetti positivi.

Il gioco dell'approfondimento è molto divertente. Durante la mia traversata di Creta in trenta giorni di cammino, uno degli ultimi giorni sono arrivato su una piccola spiaggia molto isolata dove sul bagnasciuga c'erano due colonne. All'inizio non le avevo riconosciute, perché erano molto rovinate dal mare. Sembravano normali rocce. Poi mi sono accorto: erano due grandi colonne, di colori diversi, molto antiche, forse, o molto rovinate. Nei paraggi non c'era nulla, né paesi, né altre tracce da far pensare alla presenza dell'uomo nei secoli passati.

Appena tornato, ho cominciato a fare ricerche su questo luogo, e devo dire che in internet ho trovato pochissimo. Non sempre internet è lo strumento giusto, l'approfondimento richiede anche l'uso di altri canali. Ho scritto anche a una donna archeologa che avevo conosciuto durante il viaggio, ma non ha mai ricevuto la mia mail. Una notizia però l'ho trovata, in effetti in quel luogo c'era un tempio; la spiaggetta ha un nome, Viena o Vienna, si parla di ipotesi, di un popolo dorico, di un tempio costruito proprio sulla riva, forse di un terremoto che lo ha distrutto. Di una città misteriosa, abitata da gente che veniva da lontano, sette secoli prima di Cristo. Possibile non si sappia altro? È una bella storia, da approfondire. Quando ho trovato le colonne mi sono sentito un archeologo, quasi fossi stato io lo scopritore: è la sensazione che dà il cammino, così diversa da quella del turista, che va a visitare quello che altri gli dicono di visitare. È un esempio di come partono le suggestioni, e dove ci portino non sappiamo. È un esempio delle decine di storie che possiamo approfondire al nostro ritorno.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 91

L'arte di camminare con gli asini


Il camminare con gli asini è ancora poco diffuso, almeno qui in Italia. Ma prevedo una rapida crescita, perché è perfettamente in sintonia con il nuovo modo di camminare. Libero, lento, meditativo. È una forma di viaggio a basso impatto ed è un segnale importante di ritorno a un contatto vero con la natura e con il bisogno di rallentare. Facilita le relazioni e l'incontro con realtà locali minori.

Gli asini sono animali facili da gestire, anche per chi non ha esperienza. È sufficiente mezza giornata di formazione e poi si può partire. Con tutta l'umiltà e il rispetto che una nuova esperienza e una nuova relazione richiedono.

L'asino è un animale dal sapore antico, che ci insegna la pazienza e l'arte di rallentare. Camminare in compagnia di un asino diventa dunque un camminare lento, con molte soste, è un camminare da paese a paese, gli incontri sono facilitati, i bambini e gli anziani si fermano contenti al passaggio di un asino. Gli adulti, invece, sembrano spesso non vederli. E questo fa riflettere. Gli asini portano i bagagli, ma intraprendere un cammino con loro pensando di fare meno fatica, e quindi pensando solo alla parte utilitaristica della questione, rischia di essere un errore di cui vi pentirete. Gli asini portano i bagagli, questo è vero, e dobbiamo ringraziarli per la possibilità che abbiamo di alleggerirci la schiena. Ma richiedono anche impegno, sia fisico sia psicologico. L'asino va accudito, coccolato, incoraggiato quando si distrae, incentivato quando si impunta, insomma è un po' come andare in cammino con un bambino di otto anni, che può darvi grande soddisfazione e riempirvi il cuore di gioia, ma può anche stressarvi e farvi perdere la pazienza.

Così come l'asino è paziente, così dobbiamo esserlo noi. Sfatiamo un luogo comune: che l'asino sia stupido e testardo. Non è così. È molto intelligente, ma non è un soldatino che vi ubbidisce, non è un cane e non è un cavallo. Dal suo elegante cugino si differenzia perché vuole decidere lui cosa fare e cosa non fare.

Un tempo, se l'asino non voleva fare una cosa, lo si bastonava, con il risultato che lui – molto permaloso – si offendeva e a quel punto era difficile convincerlo. L'asino dunque va preso con le buone maniere, e spesso è sufficiente dargli il tempo di riflettere. È un animale lento, quindi gli serve tempo. Se per esempio si deve guadare un torrente, l'asino all'inizio si rifiuterà di farlo. Lasciategli il tempo di osservare, annusare l'acqua, prendere le distanze, e continuate a incoraggiarlo facendogli capire che è proprio di lì che dobbiamo passare, che non ci sono alternative.

Pian piano si convincerà, e passerà.

L'asino infatti passa dappertutto, anche dove non sembra possibile. Guada fiumi, cammina nella neve, su roccette ripide, scala sentieri impervi. Ma dovete essere voi ad avere l'esperienza per saperlo condurre. E l'esperienza si costruisce camminando con questi animali, prima su sentieri facili e poi sempre più difficili.

Se si vogliono affrontare sentieri difficili i problemi possono comunque esserci, dobbiamo essere preparati a situazioni complesse. Una volta stavo scendendo un sentiero di montagna con quattro asini, di cui due asinelle giovani, alla prima esperienza di cammino. Era piovuto molto nei giorni precedenti, e i torrenti erano davvero impetuosi. Siamo arrivati in un punto in cui il sentiero superava il torrente con un ponticello di legno. Gli asini si spaventano a camminare sui ponticelli stretti, di assi e, siccome lo so, cercavo un'alternativa. Il torrente non era larghissimo, anche se un po' scavato. Gli asini non volevano proprio saltare, il problema di averne quattro è che si comunicano la preoccupazione tra loro, molto più facile gestirne uno solo. Con pazienza, abbiamo lasciato gli asini brucare un po' nei pressi del torrente, poi abbiamo riprovato, senza successo. Abbiamo allora studiato uno scavalco dall'alto della montagna, un aggiramento del problema. E ci siamo avviati con asini e carico su per una ripida scarpata, per poi scoprire che in discesa non si riusciva a passare per un breve tratto finale ripido e infrascato. Siamo ritornati indietro. Scoraggiati. Era passata già un'ora. Altra sosta per tranquillizzare gli asini, e poi ennesimo tentativo, più deciso, più convinto. Quando siamo decisi e convinti, gli asini lo sentono, e infatti così è successo: sono passati saltando senza esitazioni! E la cosa più incredibile è che quando passano lo fanno con disinvoltura, senza mostrare problemi, come se dicessero: «Dai, andiamo, tutto qui?». E di storie così ne potrei raccontare tante.

Ma in situazioni simili si suda, si tira, si spinge, e si rimpiange di non essere partiti da soli con lo zaino in spalla. Perché la psicologia dell'asino è difficile da capire. Sono già tanti anni che ho a che fare con loro, ma più so, più so di non sapere.

Nei momenti di difficoltà l'asino sente che non può distrarsi, e allora avrete al vostro fianco un animale dispostissimo a seguirvi. Questo è uno degli aspetti belli che ho scoperto.

E non è vero che, poverini, li sfruttiamo portandoceli dietro a camminare. Gli asini amano camminare, muoversi. Come tutti, odiano stare chiusi in recinti. Anche se il recinto è grande, a loro interessa sempre ciò che c'è fuori.

E anche se all'inizio sembra non vogliano partire, e fanno un po' di capricci, poi camminare per qualche giorno in compagnia di umani li fa star bene. Come per noi umani, devono entrare nella dimensione del camminare, e servono anche a loro un paio di giorni. Se conoscono il sentiero, per loro diventa più facile, ma più noioso. Ma al ritorno da un lungo cammino vedrete l'asino trasformato, gli occhi più espressivi, il pelo più lucido, l'aspetto più sano. L'asino è uno specchio del vostro benessere.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 120

L'arte dell'incontro: il turismo responsabile


Noi camminatori siamo turisti o viaggiatori? E ha senso la distinzione?

Di solito la distinzione è usata in questo modo: gli altri, quelli che fanno vacanze di tipo diverso dalle mie, sono turisti, vanno su percorsi noti, si affidano ai canali del turismo di massa. Io invece sono un viaggiatore. Il termine viaggiatore, contrapposto a quello di turista, ha acquisito una valenza positiva, i due termini si contrappongono per molti in una scala di valori.

Ma è veramente così? Se cominciamo con lo scardinare questo luogo comune, possiamo fare qualche passo avanti.

Comunque si viaggi, si fanno dei danni. Il viaggiare ha un grosso impatto, in termini ambientali, economici, sociali. Crea squilibri, inquinamenti, ingiustizie. Non esiste l'impatto zero, ogni nostra azione ha un impatto, ambientale, sociale, economico. Soprattutto quando viaggiamo.

L'azione che ha maggiore impatto è prendere un aereo. L'impatto ambientale di un aereo è enorme. Ogni persona che usa questo mezzo di trasporto consuma risorse del pianeta come se avesse viaggiato per un anno intero con un grosso macchinone, con un solo volo aereo, ogni passeggero!

Arrivati a destinazione, il turista che va in un villaggio all inclusive e il viaggiatore che parte a piedi sono alla pari, il danno è già fatto. Di questo dovremmo essere tutti consapevoli. Per cui la prima considerazione è: prima di parlare del tipo di turismo, parliamo della frequenza del nostro turismo.

Smettere di viaggiare, viaggiare meno o continuare così?

Stiamo consumando le risorse della Terra. Ogni anno andiamo "in riserva" prima.

È dal 1987, secondo i calcoli del Global Footprint Network, che l'umanità consuma più risorse di quante il pianeta è in grado di rigenerare. Nel 1987 si consumarono le risorse il 21 dicembre. Nel 2010, il 21 agosto si sono esaurite tutte le risorse rigenerate dalla Terra, e per quattro mesi si è andati "a credito" sull'anno dopo.

Uomini e donne devono essere consapevoli che le nostre azioni dovranno tendere alla riduzione del nostro impatto personale.

La soluzione più ovvia potrebbe essere quella di smettere di viaggiare.

Ma viaggiare è anche un bisogno interiore. Il viaggio è sempre stato innato nell'uomo che, ricordiamo, era nomade, si spostava a piedi. Viaggiare ci aiuta a conoscere, ad amare, a crescere. Forse non sarebbe giusto privarsi proprio di questo. Meglio privarsi di beni superflui, prima.

Ma continuare a viaggiare con lo stile compulsivo di questi decenni è altrettanto impossibile. È la forma mentis del collezionista di viaggi che va messa in discussione. Io ne conosco tanti: «Ho fatto l'anno scorso la Patagonia, quest'anno lo Yemen, il prossimo anno vado in Mongolia, mi manca il Vietnam, che spero di poter fare presto». Come collezionisti di figurine: «Altafini, Facchetti e Mazzola ce l'ho. Pizzaballa manca!».

Il viaggio deve diventare merce rara e preziosa. Soprattutto se in aereo. E in questo il camminare può aiutare le risorse del pianeta. Perché molti viaggi in luoghi lontani si possono sostituire con cammini che partono da casa.


C'è chi contrappone a questo ragionamento il fatto che il nostro viaggiare è una risorsa, perché porta ricchezza ai popoli più poveri del pianeta. Viaggiando molto si fa del bene, senza quei soldi ci sarebbe più povertà. Non è proprio così. Quasi sempre alle popolazioni locali del business del turismo arrivano solo le briciole, e queste briciole siamo sicuri compensino a sufficienza? E questi soldi che arrivano che impatto hanno? Spesso creano squilibri nella popolazione: mi ricordo che a Tirana, Albania, nei primi mesi dopo l'apertura delle frontiere, i tassisti, i primi che vennero a contatto con gli stranieri, erano diventati ricchissimi, furono loro che aprirono i ristoranti, che presero in mano l'economia locale. Mentre le altre classi sociali, comprese quelle categorie che potevano essere di traino al paese, stentavano nella miseria. L'arrivo dei soldi dall'esterno aveva compromesso in pochi mesi un equilibrio sociale.

Facciamo anche il caso della Birmania, che ha sollevato qualche anno fa un grande dibattito, perché una parte degli operatori turistici aveva aderito al boicottaggio di quel paese, anche su invito della sua leader premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, contro la dittatura militare. Ma altre organizzazioni di viaggio non avevano fatto altrettanto, sostenendo che loro portavano soldi non alla dittatura ma alla gente comune, lasciavano una quota nelle mani di qualche organizzazione locale di cui avevano verificato l'onestà e l'utilizzo a fin di bene di quei soldi. È un po' la differenza tra carità e cooperazione, la carità è sufficiente per cambiare le sorti di un popolo, o si devono creare le condizioni perché questo popolo prenda da solo la propria vita nelle mani? Insomma è meglio regalare il pesce o la canna da pesca? Noi crediamo senza alcun dubbio che si debba aiutare tutti ad avere la canna da pesca.


Pensate che cambiamento epocale se ciascuno di noi dicesse: «Invece che fare un viaggio con volo aereo all'anno, come facevo prima, in luoghi lontani in cui il mio impatto è grande, perché devo prendere l'aereo, ma anche perché il mio essere ricco porta squilibri economici alle povere economie locali, e userei risorse limitate in terre già povere, voglio cambiare. Quindi d'ora in poi farò un viaggio lontano ogni tre anni. E nei due intermedi, resterò vicino, partendo da casa a piedi».

Il viaggio in paesi lontani diventerà un bene più prezioso, meno turismo usa e getta. Lo si preparerà con cura e con amore, per tre lunghi anni, studiando carte e libri, e al ritorno non lo si chiuderà nel cassetto, pensando già al prossimo, ma lo si rielaborerà, ci si rifletterà, si scriverà la storia, la si racconterà ad amici e conoscenti per mesi.

Poi ci si metterà in cammino, per scoprire il mondo vicino a noi. Si prenderà una mappa della zona in cui viviamo, si calcoleranno i giorni e i chilometri che saremo in grado di percorrere, e ci si inventerà un piccolo grande viaggio personale nel nostro mondo vicino: «Vivo a Roma, ho a disposizione otto giorni, cammino circa 15 chilometri al giorno, andrò a piedi a Pescara, per toccare l'altro mare, e lo farò passando dal maggior numero di paesini possibile, per incontrare persone e parlare con loro»; oppure: «Vivo a Bari, uscirò di casa e in dieci giorni arriverò a Taranto, per vedere il bello e il brutto delle coste della mia regione, camminando il più possibile vicino al mare. E il prossimo anno andrò verso nord, camminando fino al Gargano e oltre».

Il viaggio nei luoghi lontani acquisterà un valore diverso, meno mordi e fuggi, diventerà importante l'incontro. L'incontro con le persone che vivono laggiù, che hanno un'altra lingua, un'altra cultura, un'altra tradizione.

Perché, come dice Marco Aime nel suo bel libro L'incontro mancato, il turismo, anche quello cosiddetto "responsabile", manca in una cosa: l'incontro vero con le popolazioni locali, con gli abitanti di quelle terre che stiamo attraversando. E l'incontro vero, dice giustamente Aime, non è quello di un viaggio organizzato con i tempi della cultura occidentale, con visite programmate, tempi serrati, appuntamenti. L'incontro vero si fa entrando nella dimensione temporale dell'altro, che è quasi sempre più lenta della nostra, per esempio sedendosi in una piazza per qualche ora e aspettando che qualcuno si avvicini. L'ho sperimentato nel mio viaggio a piedi a Creta. In alcune occasioni mi sono messo a sedere al tavolino di un kafenìo, con il mio portatile, per ore. E sono nate situazioni belle, insolite. A Gerakari, villaggio di montagna che fu distrutto dai nazisti, gli uomini del paese, vedendomi con il computer, mi avevano scambiato per un ingegnere, perché stavano aspettando l'inizio di importanti lavori per la costruzione di un bacino di accumulo dell'acqua. Spiegato loro che ero italiano ed ero lì perché mi interessava la storia della strage nazista, si sono fatti tutti intorno, tutti vestiti di nero, sette o otto persone, tra cui una sola donna, la gestrice del kafenìo, tutti a parlare, raccontare, mostrare, mi hanno portato a vedere il luogo della fucilazione, e la casa dove due persone si erano nascoste nel camino e i tedeschi lo sapevano ma li hanno lasciati lì, e altre bellissime storie.

Riscoprire l'incontro, dunque, e compensare l'impatto del nostro viaggio. In che modo? Come possiamo cercare di pareggiare i conti, in cambio di questa opportunità preziosa che la vita ci ha dato di viaggiare in un luogo lontano, per niente scontata? Non credo si debba pensare a una compensazione economica, ma a una culturale.

Secondo me, viaggiatore responsabile è colui che una volta tornato utilizza le conoscenze del suo viaggio per portare benefici alle terre che lo hanno accolto, collaborando a progetti virtuosi, o semplicemente trovando i modi migliori per raccontare e per smentire certi luoghi comuni.

Il mondo in cui viviamo può essere migliore se si demoliscono i preconcetti e i razzismi. Raccontare al ritorno da un viaggio in un paese arabo che non è vero che sono tutti ostili e pericolosi verso il mondo occidentale, anzi molto ospitali... Oppure tornare da un viaggio in Turchia e raccontare che non è vero che i turchi sono un popolo aggressivo ("mamma li turchi!") e che fumano come dei turchi... Insomma, io, viaggiatore, ti posso portare la mia esperienza personale, che vale molto di più delle inchieste televisive, raccontando ciò che ho visto, che è esattamente l'opposto dei luoghi comuni che sono alla base di una cultura di non accettazione. Questo dovrebbe fare ogni viaggiatore, riportare il punto di vista vero, del contatto diretto, fare controinformazione, contro i luoghi comuni dei media.


Il viaggio a piedi è il modo migliore per entrare dentro una cultura, con i passi lenti del nostro camminare. Il viaggio a piedi consente di osservare il mondo alla velocità giusta per entrare in relazione, se lo vogliamo. Perché si tratta di volerlo. Di mettersi in ascolto dell'altro, camminando. Il cammino ci consente di riscoprire il valore dell'ospitalità: i viaggiatori moderni conoscono solo l'ospitalità a pagamento degli hotel, sempre più anonimi con il loro comfort standard e uguale dappertutto. Solo raramente, per esempio in alcuni conventi, si incontrano ospitalità gratuite. La possibilità di entrare in contatto con chi vive nei luoghi è sempre più rara.

Ma se ci mettiamo in cammino con spirito di vagabondi, di viandanti, di flâneur, senza tabelle, appuntamenti, ritmi, è possibile riscoprire l'ospitalità vera, quella delle culture antiche, dove il viandante era sacro. E solo a piedi può capitare di essere invitati a dormire in case private senza richiesta di soldi, come gesto di pura ospitalità. È raro, e va accolto come un grande dono.

[...]

In ogni caso, è vero che viaggiare a piedi è il modo di viaggiare più in sintonia con i principi della decrescita. Un viaggiare come gli antichi viandanti, come i nomadi. Fuori dalle solite rotte, lontano dalla pazza folla. Valorizzando l'utilizzo di strutture ricettive familiari, la cucina locale, i sapori veri.

Il movimento chiamato "turismo responsabile" riporta l'attenzione proprio su questi valori, per far sì che la ricaduta economica del nostro viaggiare vada il più possibile alle popolazioni locali, sia diffusa e non concentrata in poche mani, seguendo il più possibile principi di solidarietà. Il camminare ne è l'esempio migliore. Essere camminatori consapevoli passa anche da questa presa di coscienza.

| << |  <  |