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| << | < | > | >> |Pagina 9Inchmale le chiamò un taxi, uno di quelli che un tempo, quando era stata in città per la prima volta, erano tutti neri. Questo era color argento perlaceo. Con una scritta gotica in blu di Prussia che pubblicizzava una banca tedesca, o forse un software commerciale; era un simulacro arrotondato dei suoi predecessori neri, con la tappezzeria in finta pelle in una tonalità chiara di marroncino ortopedico. «I loro soldi pesano un sacco» disse Inchmale facendole scivolare in mano una manciata di monete da una sterlina. «Ci si comprano parecchie troie.» Le monete conservavano ancora il calore corporeo della slot machine da cui le aveva ottenute con abilità, quasi con noncuranza, mentre stavano andando verso un King-qualcosa. «Quali soldi?» «Quelli dei miei compatrioti. Offerta libera.» «Non ne ho bisogno.» E cercò di restituirgliele. «Per il taxi.» Diede l'indirizzo in Portman Square al conducente. «Ah, Reg,» fece lei «non è che andasse poi tanto male. Avevo investito nei mercati monetari, in gran parte.» «Non peggio di tante altre cose. Chiamalo.» «No.» «Chiamalo» insistette lui, avvolto in un GoreTex giapponese a spina di pesce pieno di pieghe e allacciato al contrario. Chiuse la portiera del taxi. Mentre il taxi si allontanava, lei si voltò a osservarlo attraverso il finestrino posteriore. Corpulento e barbuto, se ne andò nella fredda Greek Street, pochi minuti dopo la mezzanotte. Per riunirsi in studio con Clammy dei Bollards, il suo cocciuto protégé, e riprendere la loro lucrosa battaglia creativa. Si rilassò sul sedile, estraniandosi del tutto finché non oltrepassarono Selfridges e il tassista curvò a destra. Il club, che esisteva solo da pochi anni, era sul lato nord di Portman Square. Quando scese diede una mancia generosa al conducente, ansiosa di sbarazzarsi delle vincite di Inchmale. Il Cabinet. Comunemente noto come 'lo Sgabuzzino delle Bizzarrie'. Inchmale era diventato membro poco dopo che loro, i tre componenti dei Curfew sopravvissuti, avevano ceduto i diritti di Hard to Be One a un'industria cinese di automobili. Dopo aver prodotto un album dei Bollards a Los Angeles, e con Clammy che voleva registrare il seguente a Londra, Inchmale aveva sostenuto che ritrovarsi al Cabinet si sarebbe dimostrato decisamente più economico che in un albergo. E infatti così era, concordava anche lei, ma solo se pensavi a un albergo molto costoso. Lei era lì come ospite pagante. Stando allo stato dei mercati monetari, quali che fossero, e alle conversazioni che aveva avuto a New York con il suo commercialista, sapeva che adesso avrebbe dovuto cercare posti a prezzi più abbordabili. Il Cabinet era un luogo veramente angusto, considerato quanto fosse costoso; occupava la metà dello sviluppo verticale di un caseggiato del XVIII secolo, la cui facciata le ricordava l'espressione di qualcuno sul punto di addormentarsi in metropolitana. Condivideva un ingresso sobriamente rivestito di pannelli con la restante parte dello stabile, nell'ala ovest; lei si era fatta una vaga idea che dovesse essere una specie di fondazione, magari di natura filantropica, oppure dedicata al processo di pace in Medio Oriente, comunque la questione fosse andata a finire. A ogni modo doveva trattarsi di un posto defilato, visto che all'apparenza non aveva visitatori. Sulla facciata o sulla porta non c'era nulla che indicasse cosa potesse essere, come del resto non c'era nulla che indicasse che il Cabinet era il Cabinet. Aveva notato nella saletta d'ingresso quelle gemelle islandesi con le pellicce argentee, incredibilmente identiche, fin dalla prima volta che c'era stata, e bevevano entrambe vino rosso da bicchieri da birra, cosa che Inchmale aveva bollato come un'abitudine irlandese. Non erano socie del club, ci aveva tenuto a sottolineare. I membri del Cabinet, nel mondo dello spettacolo, erano poco meno che autentiche stelle, e lei dava per scontato che rientrassero nella categoria sia Inchmale che lei. Era stato l'arredamento a convincerlo, le aveva detto Inchmale, e molto probabilmente era vero. Sia lui che l'arredamento erano senza dubbio fuori di testa. Una volta passata la porta, che uno avrebbe potuto attraversare a cavallo senza neanche doversi chinare per evitare l'architrave, la accolse Robert, un giovane corpulento in un completo gessato, la cui principale occupazione era di sorvegliare l'ingresso senza dare nell'occhio. «Buonasera, signorina Henry» «Buonasera, Robert.» Qui gli arredatori si erano tenuti sobri, il che significava che non ci erano andati giù pesante, con furia cieca e insensata. C'era un enorme banco finemente intagliato, con qualcosa di vagamente pornografico che s'intrecciava tra viticci e grappoli d'uva in mogano, a cui sedevano a turno gli addetti del circolo, nella maggior parte dei casi dei giovanotti che spesso indossavano occhiali con montature in tartaruga che Hollis sospettava fossero state ricavate direttamente da vere tartarughe. Oltre la scrivania, ricoperta da pile di scartoffie piacevolmente arcaiche, c'erano due scalinate gemelle in marmo che si contrapponevano simmetricamente e che conducevano al piano superiore; e quel piano era diviso, come qualsiasi altra cosa al di sopra della saletta, nei due reami paralleli della misteriosa entità probabilmente filantropica e del Cabinet. Dalla parte del Cabinet, dipanandosi in senso antiorario, ora scendeva a cascata dalle scale il rumore intenso di persone riunite a bere, la conversazione a voce alta e allegra risuonava chiara rimbalzando sulla pietra che brillava in modo irregolare, cristallizzata in veli di miele stagionato, gelatina di petrolio, e nicotina. Gli spigoli corrosi dei gradini erano stati riparati con millimetrici inserti rettangolari di materiale assai meno prezioso, smorto e ordinario, su cui lei evitava accuratamente di porre il piede. Un giovane con la montatura in tartaruga seduto al bancone le passò la chiave della stanza senza aspettare che la chiedesse. «Grazie.» «Ma si figuri, signorina Henry.» Oltre l'arco che separava le scalinate, il pavimento denunciava una chiara incertezza. Lei pensava che indicasse qualche imbarazzo costitutivo nella suddivisione della destinazione originaria dell'edificio. Premette un pulsante, un bottone d'ottone accuratamente lucidato, per chiamare l'ascensore più vecchio che avesse mai visto in vita sua. Ci volle del tempo prima che scendesse la gabbia d'acciaio oblunga dipinta di smalto nero, grande quanto un armadio poco profondo, più largo che lungo. Alla sua destra, nell'ombra, illuminata dall'interno da un impianto degno di un museo edoardiano, c'era una teca che esibiva animali impagliati. Nella maggior parte dei casi selvaggina pennuta: un fagiano, parecchie quaglie e altri uccelli ai quali non sapeva dare un nome, tutti allestiti come se fossero stati colti nel bel mezzo di un'azione, mentre attraversavano una radura di feltro da biliardo sbiadito. Il tutto piuttosto logoro, anche se meno di quel che ci si potesse aspettare, considerata la datazione. Dietro gli uccelli, eretto in posizione antropomorfa, con gli avambracci tesi come i sonnambuli dei cartoni animati, c'era un furetto devastato dalle tarme. Lei rimase stupita a tal punto dai denti incredibilmente grandi che ebbe il sospetto che fossero di legno dipinto. Di sicuro le labbra erano dipinte, forse addirittura imbellettate, e gli davano una sinistra aria festosa, come qualcuno rimasto terrorizzato dopo essere stato portato a una festa di Natale. Inchmale, facendole notare la cosa per primo, le aveva suggerito di adottarlo come totem, la sua bestia spirito guida. Lui diceva di averlo già adottato, avendo poi scoperto che poteva magicamente far venire l'ernia del disco a certi produttori musicali senza che sospettassero niente, provocandogli un dolore straziante e un profondo senso di impotenza. Arrivò l'ascensore. Era rimasta in quel posto abbastanza a lungo da conoscere a menadito l'intreccio dell'acciaio innervato del cancelletto. Entrò resistendo all'impulso di salutare il furetto e salì al terzo piano, assai lentamente. Il dipanarsi dei cunicoli stretti, con le pareti dipinte di un verde molto scuro, era complicato. Il percorso verso la sua stanza comportava l'apertura di parecchie porte antincendio, o almeno le sembravano tali, visto che erano spesse, pesanti e si richiudevano da sole. Le brevi sezioni di corridoio tra l'una e l'altra erano tappezzate di piccoli acquerelli: panorami solitari, e in ognuno si ergeva una bizzarra costruzione sullo sfondo. La stessa costruzione lontana e isolata, notò, a dispetto della scena o della località ritratta. Non aveva la minima intenzione di dare a Inchmale la soddisfazione di chiedergli cosa fosse. Avevano qualcosa di decisamente indecifrabile. Difficile definire quella sensazione in altro modo. La vita era già abbastanza complicata così com'era. La chiave, attaccata a un anello di ottone da cui spuntavano soffici fiocchi di seta bordeaux intrecciata, girò facilmente nel blocco della serratura, grosso quanto un mattone. L'ingresso alla stanza a tema Number Four, con l'impatto intenso del particolare design del Cabinet, ebbe la sua teatrale celebrazione quando spinse il bottone di madreperla inserito in quello che, tutto sommato, era un normalissimo interruttore di guttaperca. Troppo alta, comunque, anche se immaginava che fosse il risultato di una stanza più ampia divisa in due con grande astuzia. Ebbe l'impressione che in realtà il bagno fosse più grande della stanza da letto, sempre che non si trattasse di un'illusione. Avevano giocato con l'altezza, usando una carta da parati bianca serigrafata, decorata con elaborati fregi in nero brillante. Se osservati da vicino, rivelavano una composizione di dettagli ingranditi di parti anatomiche di insetti. Mandibole a scimitarra, lunghi arti irsuti, ali delicate (così le parve) di efemere. I due mobili più grandi della stanza erano il letto, con la sua struttura massiccia adornata da lastre d'avorio di tricheco intagliato, e con l'enorme e decisamente ecclesiastica mandibola inferiore di una balena della Groenlandia ancorata al muro sopra la testata, e una gabbia per uccelli sospesa dal soffitto così grande che avrebbe potuto appollaiarcisi lei stessa. La gabbia era riempita di libri e all'interno c'erano posizionati anche impianti minimali di alogene svizzere, con ciascuna delle piccole lampade puntata verso uno o l'altro degli artefatti permanenti della Number Four. E non solo libri per arredare, aveva fatto notare orgogliosamente Inchmale. Narrativa o meno, sembrava avessero tutti l'Inghilterra come argomento e lei finora aveva letto brani di English Eccentrics della nobildonna Edith Sitwell e la maggior parte di L'uomo che non doveva vivere di Geoffrey Household. Si tolse il cappotto mettendolo su una gruccia foderata di raso e sedette sul bordo del letto per togliersi le scarpe. Il 'letto da tipica follia eschimese' l'aveva definito Inchmale. «Forte isteria,» ripeté lei a memoria «depressione, coprofagia, insensibilità al freddo, ecolalia.» Scalciò le scarpe in direzione dell'anta aperta del guardaroba. «Lasciamo perdere la coprofagia» si disse. La claustrofobia era una nozione culturale, per i popoli artici. Probabilmente aveva origine dalla loro dieta. Connessa con la tossicità della vitamina A. Inchmale era una miniera di informazioni del genere, in particolar modo quando era in studio. Dai a Clammy una vagonata di vitamina A, aveva suggerito lei, sembra che sia pronto a farne buon uso. Le cadde lo sguardo su tre scatole di cartone ancora chiuse, impilate sulla sinistra del guardaroba. Contenevano copie cellofanate dell'edizione inglese del libro che lei aveva messo insieme e scritto per gran parte in stanze d'albergo, anche se nessuna poteva dire di essere indimenticabile quanto questa. L'aveva iniziato subito dopo che erano cominciati ad arrivare soldi dalla pubblicità dell'auto cinese. Allora era andata da Staples, a West Hollywood, e aveva comprato tre tavolini apribili, e malfermi, per appoggiarci il manoscritto e le illustrazioni, nelle sue stanze ad angolo al Marmont. Sembrava fosse passato un sacco di tempo, e non sapeva cosa aveva fatto di quelle copie. La scatole delle sue copie dell'edizione americana, ricordò in quel momento, erano ancora nel ripostiglio dei bagagli del Tribeca Grand. «Ecolalia» disse. E si alzò sfilando il maglione. Poi lo piegò e lo mise in un cassetto del guardaroba che si apriva all'altezza del suo petto, di fianco a un pot-pourri di seta pronto a esplodere come una mina. Sapeva che se non l'avesse toccato non avrebbe dovuto annusarlo. Si mise su un accappatoio color avorio del Cabinet che le sembrava più di ciniglia che di spugna, senza sapere bene come mai le piacesse così poco quel materiale. In particolare gli uomini che lo indossavano sembravano inaffidabili. Il telefono della stanza cominciò a suonare. Era un collage di stili disparati: la cornetta massiccia, in bronzo rivestito di gomma, ricordava un accessorio nautico, ed era appoggiata a una forcella in cima a una scatola cubica in palissandro con gli spigoli rinforzati in ottone. Il trillo era meccanico e acuto, molto simile al campanello di una vecchia bicicletta ascoltato da lontano in una strada silenziosa. Lo fissò con insistenza, desiderando che smettesse. «Intensa isteria» disse. Continuò a trillare. Tre passi e lo afferrò. Era assurdo quanto pesava. «Coprofagia.» Veloce, come se nominasse un reparto indaffarato di un grande ospedale. «Hollis,» disse lui «ciao.» Lei diresse lo sguardo alla cornetta, pesante come una vecchia mazza ferrata e altrettanto ammaccata. Il filo spesso, lussuosamente ricoperto in seta di Borgogna, premeva contro il suo avambraccio nudo. «Hollis?» «Ciao, Hubertus.» Lei immaginò di scagliare la cornetta contro il palissandro d'epoca, mandando in pezzi il vecchio meccanismo elettromeccanico del campanello al suo interno. Troppo tardi, ormai. Si era già azzittito. «Ho visto Reg» disse lui. «Lo so.» «Gli ho detto di chiederti di chiamarmi.» «Non l'ho fatto» disse lei. «È bello sentirti» disse lui. «È tardi.» «Allora dormi bene stanotte» le disse di cuore. «Passerò domattina per colazione. Pamela e io torniamo stanotte.» «Dove siete?» «A Manchester.» Si immaginò mentre prendeva un taxi presto al mattino per Paddington, nella strada di fronte al Cabinet deserta. Per prendere il treno per Heathrow. E volare da qualche parte. Un altro telefono che suonava in un'altra stanza. La voce di lui. «Manchester?» «Black metal norvegese» le disse, con voce priva di emozione. Sulle prime pensò a dei gioielli tipici scandinavi, poi si corresse da sola: era il genere musicale. «Reg ha detto che avrei potuto trovarlo interessante.» Buon per lui, pensò lei, il sadismo quasi clinico di Inchmale a volte trovava obiettivi degni di lui. «Pensavo di dormire fino a tardi» disse lei, tanto per creare qualche problema. Sapeva che sarebbe stato pressoché impossibile evitarlo. «Allora va bene alle undici» disse lui. «Ci vediamo domani.» «Buonanotte, Hubertus.» «Buonanotte.» E chiuse. Lei riagganciò la cornetta. Stando attenta al campanello nascosto. Non era colpa del telefono. Ma nemmeno sua. Nemmeno di Hubertus, probabilmente. Chiunque fosse. | << | < | > | >> |Pagina 75Robert in completo gessato non era presente ad aiutarla quando aprì la porta d'ingresso del Cabinet. Capì immediatamente che ciò era dovuto all'avvento dispotico di Heidi Hyde, un tempo batterista dei Curfew, sotto il cui bagaglio assortito Robert era rimasto sepolto, chiaramente terrorizzato, dentro l'antro dell'ascensore, vicino alla vetrina rifugio del furetto magico di Inchmale. Heidi, accanto a lui, alta e larga di spalle quanto lui. Lei senz'ombra di dubbio, con il suo spaventoso e magnifico profilo tanto rapace quanto inconfondibilmente impetuoso. «Era attesa?» chiese Hollis al bancone a voce bassa, al ragazzo con la montatura di tartaruga. «No» le rispose, con un tono altrettanto discreto, consegnandole la chiave della stanza. «Il signor Inchmale ha telefonato qualche minuto fa, per avvertirci.» Gli occhi oltre la montatura marrone erano più grandi. Al di là della sua faccia in stile alberghiero, sembrava un sopravvissuto a una tromba d'aria. «Tutto a posto» lo rassicurò Hollis. «Cosa cazzo c'è che non va in questa storia?» chiese Heidi a voce alta. «Un po' di confusione» disse Hollis, dirigendosi verso di loro, annuendo e sorridendo per rassicurare Robert. «Signorina Henry.» Robert sembrava pallido. «Non dovresti premere più di una volta» disse Hollis a Heidi. «Gli ci vuole di più a schiarirsi le idee.» «Fanculo» disse Heidi, da qualche remota profondità di frustrazione, facendo trasalire Robert. Aveva i capelli di un nero dark profondissimo, tanto per segnalare il suo sentiero di guerra, e Hollis ebbe il sospetto che si fosse fatta la tinta da sola. «Non sapevo che saresti venuta» disse Hollis. «Nemmeno io» commentò Heidi, in tono seccato. Poi: «È per colpa di cazz'inculo.» Da che Hollis ne dedusse che l'improbabile matrimonio post-punk hollywoodiano di Heidi era finito. Al termine gli ex di Heidi perdevano i loro nomi per essere conosciuti da quel punto in avanti solo con questa definizione onnicomprensiva. «Mi spiace sentirtelo dire» disse Holly. «All'interno di uno schema a piramide,» Heidi sputò fuori subito dopo, mentre arrivava l'ascensore «questo cosa cazzo mi rappresenta?» «L'ascensore.» Hollis aprì il cancelletto a fisarmonica, facendo segno a Heidi di entrare. «Prego, entri» disse Robert. «Porterò io i suoi bagagli.» «Entra nel fottuto ascensore» ordinò Heidi. «Entra. Fila dentro.» Con la sua sola presenza rabbiosa lo spinse all'indietro nell'ascensore. Hollis s'infilò dopo di lui, sollevando contro la parete in fondo dell'ascensore il sedile di mogano apribile con le cerniere d'ottone per avere più spazio. Da vicino, Heidi puzzava di sudore, di nervosismo da aeroporto e cuoio ammuffito. La giacca che indossava, Hollis se la ricordava dai tempi in cui andavano in tournée. Un tempo era nera ma adesso sembrava che Heidi indossasse una pergamena sporca. Robert riuscì a premere il pulsante. Partirono e l'ascensore si lamentò sonoramente per il peso. «Questo cazzo di marchingegno ha intenzione di farci fuori» disse Heidi, come se l'idea in fondo non fosse così sgradevole. «In che stanza alloggia Heidi?» chiese Hollis. «Di fianco alla sua.» «Bene» disse Hollis, simulando più entusiasmo del reale. Doveva essere quella con la chaise-longue di seta gialla. Non aveva mai afferrato quale fosse il tema della stanza. Non capiva neanche il tema della sua, ma intuiva che ne avesse uno. La stanza con la chaise-longue gialla sembrava ispirata a una storia di spie, spie tristi, in un'accezione veramente britannica, e a un sordido scandalo politico. E alla riflessologia. Quando l'ascensore arrivò al piano, Hollis aprì il cancelletto per poi tenere aperte le varie porte a Heidi e allo stracarico Robert. Heidi si fece strada rabbiosa attraverso il piccolo corridoio verde privo di finestre, trasmettendo con il linguaggio del corpo la sua totale insoddisfazione. Hollis vide che per sicurezza la chiave della camera di Heidi la custodiva Robert tra due dita. Lei gliela prese; aveva la nappa verde muschio. Spalancandole l'ingresso, disse a Heidi: «Sei proprio attaccata a me.» La spinse all'interno, ed ebbe un flash di elefanti e cristallerie. «Appoggia pure tutto» bisbigliò a Robert. «Mi occupo io del resto.» Lo alleggerì da due scatole di cartone incredibilmente pesanti, entrambe della dimensione utile per contenere una testa umana. Lui iniziò subito a togliersi di dosso i vari bagagli di Heidi. Lei gli passò una banconota da cinque sterline. «Grazie, signorina Henry.» «Grazie a te, Robert.» Chiuse la porta sull'immagine del volto sollevato di Robert. «Ma che cazzo è 'sta roba?» chiese Heidi. «La tua stanza» disse Hollis che stava disponendo i bagagli lungo la parete. «È un club privato del quale Inchmale è diventato socio.» «Un club di che? Che roba è?» E indicò una grande serigrafia incorniciata che Hollis stessa giudicò un articolo d'arredamento quantomeno discutibile. «Un Warhol. Credo.» Ma Warhol si era occupato anche dello scandalo Profumo? «Cazzo, avrei dovuto saperlo che Inchmale se ne sarebbe venuto fuori con qualcosa del genere. Lui dov'è?» «Non è qui» disse Hollis. «Ha affittato una casa a Hampstead, quando Angelina e il bambino sono venuti dall'Argentina.» Heidi soppesò una bottiglia di cristallo a base larga, la stappò per poi annusare. «Whisky» disse. «In quella trasparente c'è gin, non acqua» l'avvisò Hollis. Heidi versò tre dita di whisky del Cabinet in un bicchiere e lo scolò con un sorso, ebbe un fremito, posò il bicchiere e centrò il collo della bottiglia con il tappo di cristallo che fece un fastidioso rumore stridente. Aveva una mira che faceva paura, in vita sua non aveva mai perso una partita a freccette, ma non le lanciava correttamente, le buttava e basta. «Vuoi che ne parliamo?» chiese Hollis. Heidi si sfilò la giacca di pelle con un movimento brusco, la buttò da una parte e si tolse la maglietta nera, scoprendo un reggiseno color oliva sbiadito; aveva un'aria da zona di guerra che Hollis non aveva mai notato in nessun altro reggiseno. «Bello.» «Israeliano» disse Heidi. Si guardò attorno, registrando i contenuti della stanza. «Cristo santo,» disse «la carta da parati somiglia ai calzoni di Jimi Hendrix.» «Credo che sia di raso.» Era a strisce verticali, in verde, borgogna, beige e nero. «Che cazzo ho detto» disse Heidi, dando uno strattone al suo reggiseno militare israeliano, poi si mise a sedere sulla chaise-longue di seta gialla. «Perché abbiamo smesso di fumare?» «Perché ci faceva male.» Heidi cacciò un sospiro brusco. «È in galera,» disse «cazz'inculo. Nessuna cauzione. Ha combinato qualcosa con i soldi di qualcun altro.» «Pensavo che fosse ciò che fanno i produttori.» «Non proprio, non è questo il caso.» «Sei nei guai anche tu?» «Ti va di scherzare? La pila degli accordi prematrimoniali che gli ho fatto firmare era più alta di quanto cazz'inculo ce l'avesse lungo. È un problema suo. Avevo solo bisogno di andarmene da Dodge.» «Non ho mai capito perché lo hai sposato.» «Era un esperimento. E tu che mi dici? Cosa ci fai qui?» «Lavoro per Hubertus Bigend» disse Hollis, facendo caso a quanto poco le piaceva doverlo dire. Heidi sgranò gli occhi. «Che mi fottano. Per quel coglione? Ma tu non lo sopporti. Ti fa letteralmente schifo. Perché?» «Credo che mi servano i soldi.» «La crisi ti ha danneggiato molto?» «Ne ho persa la metà.» Heidi annuì. «Ha dimezzato tutto per chiunque. Anche se non avevi affidato i tuoi soldi da investire a cazz'inculo.» «E tu l'hai fatto?» «Ti va di scherzare? Separazione tra casa e chiesa, sempre. Comunque mai pensato che lui avesse fiuto in quel senso. Gli altri lo pensavano, però. Sai cosa?» «Cosa?» «È difficile capire chi sia realmente affidabile. Quelli che vengono raggirati sono tutte persone che non lo sanno.» «Mi sa che mi bevo un whisky.» «Accomodati» disse Heidi. Poi sorrise. «Cazzo, è bello vederti.» E scoppiò a piangere. | << | < | > | >> |Pagina 530«La Cornovaglia è bella.» Hollis stava parlando con Heidi all'iPhone. «Non ho ancora trovato un posto per spargere le ceneri della mamma e di Jimmy, ma è anche una buona scusa per guidare.» «Come va la caviglia di Ajay?» Hollis stava guardando Garreth, steso sul letto mentre faceva fare esercizi a Frank con una fune elastica giallo acceso. Avevano le finestre aperte, per lasciare entrare liberamente la brezza e il rumore del traffico pomeridiano. Era una stanza più grande di quella della settimana prima, una doppia, ma aveva le stesse pareti rosso sangue e i finti ideogrammi cinesi. «Bene,» disse Heidi «ma sta ancora usando quel bastone improbabile che gli ha dato il tuo ragazzo. È un miracolo che ne sia uscito fuori vivo e vegeto.» «Ha superato tutto il resto della faccenda?» Ajay si era sentito in colpa per aver perduto Chombo, e frustrato per non aver avuto modo di affrontare l'uomo con i capelli alla Rod Stewart. Aveva detto che perfino Hollis avrebbe potuto prendere Mimetico, che fin dall'inizio sembrava si reggesse in piedi a stento. E Milgrim, tanto per ricapitolare le cose a beneficio di Ajay, aveva messo Gracie al suo posto, visto che si era presentato non con un'arma qualunque ma con un mitra. Il lato positivo era che Ajay sembrava avesse legato con Charlie, e di ritorno dalla Cornovaglia aveva intenzione di provare a imparare a mettere a terra ripetutamente degli avversari ben addestrati, in quel modo in cui sembrava che neanche li toccasse. Garreth, intuì Hollis, dubitava fortemente che sarebbero realmente successe tutte queste cose, ma non lo disse ad Ajay. «Sembra quasi che non sia riuscito a conservare abbastanza a lungo la sua soglia d'attenzione» disse Heidi. «Dov'è Milgrim?» «In Islanda,» disse Hollis «o in viaggio per andarci. Con Hubertus e le Dottir. Ha telefonato stamattina. Non sono riuscita a capire se era su un aereo o su una barca. Ha detto che era un aereo, ma che aveva delle ali pressoché inesistenti e che volava appena.» «Sei felice?» «Direi di sì» disse Hollis, dando un'occhiata a Frank che, libero dalle fasciature, si piegava ripetutamente sullo sfondo della tiepida luce parigina. «Strano, oggi.» «Stammi bene» disse Heidi. «Devo andare. È tornato Ajay.» «Stai bene anche tu. Ciao.» Garreth aveva detto che Milgrim e Heidi gli avevano salvato, ciascuno a modo suo, la cotenna negli Scrubs. Milgrim dando una bella scossa a Gracie, che aveva portato un'arma, cosa che Garreth aveva sperato non facesse; e Heidi, che azzardando una corsetta per ridurre la claustrofobia aveva avvistato Chombo, diretto verso Islington, e l'aveva riportato indietro al furgone, contro la sua volontà. A Hollis tornò in mente quando erano fuori dal furgone con Bobby che chiedeva tempo per una seconda sigaretta e la bella autista norvegese che chiedeva loro di calmarsi adesso e di tornare all'interno. Allora era arrivato Pep, a tutta velocità sulla sua bicicletta senza fanali sinistra e silenziosa, per consegnare a Hollis un sacchetto sbrindellato di Waitrose, dandole il suo solito sguardo malizioso, per poi sfrecciare via. Quando aveva riguadagnato l'interno attraverso le quinte di tela nera, aveva trovato Garreth curvo sulla sua sedia e con gli schermi vuoti. «Tutto bene?» gli chiese, facendogli un massaggino alle spalle. «Sempre un po' deluso» disse lui, ma dopo pochi minuti si era già ripreso, mentre il furgone era in viaggio. Era in comunicazione con qualcuno in cuffia. «Quanti?» chiese. Poi sorrise. «Undici veicoli non identificati» le aveva detto un momento dopo, a bassa voce. «Indossando giubbotti antiproiettile, hanno armi automatiche austriache e altre dotazioni di equipaggiamento molto pericoloso. Una squadra pesante.» Lei era stata sul punto di chiedergli cosa volesse dire, ma lui l'aveva zittita con uno sguardo e un altro sorriso. Allora gli aveva passato il sacchetto di Waitrose. Quando lo aveva aperto, lei aveva scorto uno degli enormi e orridi occhi della maglietta più brutta del mondo, la Ugly t-shirt. «Che cos'era quella storia dell'aereo senza ali?» le chiese adesso, riportando Frank in posizione di riposo dopo aver terminato la sequenza. «Milgrim è a bordo di qualcosa che ha costruito o rimesso in sesto Bigend. Ha detto che era russo.» «L'ekranoplano» disse Garreth. «Un veicolo a effetto suolo. È pazzo.» «Milgrim ha detto che Bigend ha fatto arredare gli interni da Hermès.» «Snob fino al midollo, come sempre.» «Che polizia era quella che è arrivata a prendere Mimetico e gli altri?» «Una squadra pesante. Non inquadrati nei ranghi. Il vecchio ha delle informazioni su di loro, ma dice meno di quel che sa.» «Li hai chiamati quando ci hai fatti uscire?» «Sì, ho fatto la chiamata. L'agente americana amica di Milgrim mi aveva richiamato quando vi stavo aspettando nel furgone, dietro al Cabinet. Mi ha dato un numero e una parola d'ordine. Quando mi aveva chiamato prima non li aveva ancora disponibili. Mi aveva offerto dei numeri che avevo già. Così le avevo chiesto qualcosa di massiccio più sostanzioso. E ce l'ha fatta. Alla grande. Li ho usati, gli ho passato caratteristiche, colore e numero di registrazione. E bang.» «Ma perché l'ha fatto?» «Perché, come diceva Milgrim, lei è una testa di cazzo.» Sorrise. «E anche perché tutto questo non può essere ricollegato a lei, alla sua agenzia e al suo governo.» «Ma come avrà fatto?» «Non ne ho idea. Avrà telefonato a un amico a Washington... Ma poi, non smetto mai di sorprendermi per come vengano a galla le cose più strane.» «E hanno arrestato Gracie e gli altri?» Si sollevò a sedere, doppiò l'elastico giallo davanti al petto e cominciò a tirare le estremità con i pugni. «Una detenzione speciale.» «Non c'era niente in cronaca.» «Niente» concordò mentre continuava a tirare. «Pep gli ha infilato qualcosa in macchina. Poi l'ha richiusa.» «Sì.» L'elastico adesso era alla sua massima estensione. E tremolava. «L'altro ricordino per la festa.» Garreth rilassò i muscoli e l'elastico giallo riportò i pugni vicini. «Sì.» «Che cos'era?» «Molecole. Della specie che non vorresti far trovare a un fiutatore di esplosivi. Erano dei campioni da un particolare lotto di Semtex in cui aveva investito pesantemente l'IRA. Esplosivo al plastico. Con una firma chimica ben riconoscibile. Per quanto se ne sa da quelle parti ce ne sono ancora delle tonnellate. E la memory card di una macchina fotografica digitale. Fotografie di moschee scattate un po' in tutto il Regno Unito. Le date sulle immagini erano vecchie di qualche mese, ma non ancora scadute in quanto prove indiziarie.» «E quando hai detto che avresti recuperato qualcosa dall'archivio, ti riferivi a questo?» «Sì.» «E in origine per che cos'era?» «Adesso non importa. Non c'è bisogno di saperlo. Quando mi sono buttato giù dal Burj, da imbecille quale sono, ho sprecato la mia occasione. Ma poi mi sono ritrovato con una fidanzata in difficoltà. E ho cercato di metterci una pezza.» «Metterci una pezza?» «Ma sì, una soluzione improvvisata. Con quello che trovi sottomano.» «Io non mi lamento. Ma che ne è di Gracie? Non racconterà a loro di noi?» «Il bello della questione» disse lui mettendole una mano sul fianco «è che lui non sa nulla di noi. Be', solo qualcosina, forse, attraverso Sleight, ma Sleight adesso è senza padrone visto che Gracie è un ospite segreto di Sua maestà. Immagino che Sleight sia occupato a tenersi ben lontano da tutto questo. E secondo il vecchio in realtà le cose stanno meglio di quanto non sembri.» «Meglio come?» «Sembra che al governo americano Gracie non piaccia. Stanno saltando fuori un sacco di cose anche per quanto riguarda loro. Il vecchio ha sentito dire che è sotto esame della maggiore struttura di coordinamento delle agenzie. Immagino che i nostri potranno anche arrivare alla decisione che è stato vittima di uno scherzo di cattivo gusto, poi però avrà seri problemi a rientrare a casa. Enormi, spero. Sul lungo periodo mi preoccupa di più il tuo Big End.» «Perché?» «Sta combinando qualcosa. Troppo grande per afferrarlo. Ma il vecchio dice che è esattamente questo: Big End è per certi versi troppo grande per essere capito del tutto. Che potrebbe essere quello che vogliono dire quando dicono che qualcosa è troppo grosso per fallire.» «Ha trovato l'ultima collezione delle scarpe di Meredith. A Tacoma. Le ha comprate, ridandole a lei. Attraverso una nuova entità misteriosa di sua proprietà che individua e aiuta i creativi.» «E tu? Che ne ha fatto della tua creatività?» «Mi ha pagato. Mi ha chiamato stamattina il commercialista. La cosa mi preoccupa.» «Perché?» «Hubertus mi ha pagato esattamente la somma che ho ricevuto per la mia parte di diritti di una canzone dei Curfew concessa a un'azienda automobilistica cinese. Sono un sacco di soldi.» «Non è un problema.» «Facile dirlo per te. Non voglio essere in debito con lui.» «Non lo sei. Se non fosse stato per te, non avrebbe riavuto indietro Chombo, perché io non sarei arrivato. E se lo avesse riavuto indietro scambiandolo con Milgrim, avrebbe d'altra parte dovuto trattare con Sleight e Gracie. Lui lo sa. Sei stata ricompensata per il tuo ruolo cruciale nel portarlo ovunque sia arrivato adesso.» «Che sarebbe la sua strada per l'Islanda.» «Lascialo andare. Come sei messa con la cucina?» «Nel senso di cucinare? So fare il minimo.» «Nel senso di disegnarle. Ho un appartamento a Berlino. Nella zona est, un palazzo nuovo, il vecchio era quasi interamente di amianto. Una stanza molto grande e un bagno. Niente cucina, solo gli attacchi delle condutture e fili sparsi che vengono su dal pavimento, più o meno nel mezzo. Avremo bisogno di riempirlo se pensiamo di andarci a vivere.» «Vuoi vivere a Berlino?» «Per il momento sì. Ma solo se va anche a te.» Lo guardò. «Quando stavo uscendo dal Cabinet» disse lei «per raggiungerti fuori sul furgone Slow Food, Robert si è congratulato con me. Non gli ho chiesto per quale ragione, ho solo detto grazie. E stato tutto molto strano da quando sei ricomparso. Tu sai perché me lo ha detto?» «Ah, sì. Quando la prima volta ci siamo messi a parlare, mentre aspettavo che tu arrivassi, gli ho detto che ero lì per chiederti di sposarmi.» Lei lo fissò. «E stavi mentendo.» «Per niente. Non si è mai presentata l'occasione. A quanto capisco, lui pensa che siamo fidanzati.» «Lo pensi anche tu?»
«Sta a te dirmelo, è la tradizione» disse lui, posando l'elastico.
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