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| << | < | > | >> |IndicePremessa - L'ombra dei giudizi universali Alla ricerca di prove, 9 Pioggia di critiche, 11 La posta in gioco, 12 I Signori del Rating Parte prima - I Signori del Rating 19 1. Che cos'è il rating e a chi dà vantaggi? La disciplina del rischio, 21 I prestiti intelligenti, 23 Come si forma un rating, 25 Il triopolio dominante, 27 Informazioni o suggestioni?, 28 Trasparenza e affidabilità, 31 Finalità recondite, 33 37 2. Il Giudizio uno e trino Due pesi e due misure, 40 La bolla dei mutui sub-prime, 42 Un debito controverso, 46 Esperienze italiane, 49 52 3. Relazioni pericolose I Signori di Standard & Poor's, 54 I Signori di Moody's, 59 I Signori di Fitch, 64 70 4. Lo strano caso della Roccia Nera I Signori di BlackRock, 73 Affinità politiche, 77 Il sistema Aladdin, 79 Radiografare i Paesi sovrani, 80 84 5. Questioni irrisolte La mano della politica, 86 Riconoscimenti aleatori, 90 Efficacia discutibile, 93 Accuse pesanti, 94 Difesa morbida, 98 Malafinanza, 101 Parte seconda - La riforma del rating 107 6. La priorità logica della regola I paradossi del rating, 107 Il bene più grande del mercato finanziario: la fiducia, 109 Potere economico e potere politico, 111 Le agenzie di rating hanno responsabilità per la grande crisi?, 113 Delegare a terzi il rischio finanziario è un errore, 118 I rating sovrani, 119 121 7. L'esperienza statunitense. Le tre fasi storiche: l'autoregolamentazione, la vigilanza, la disciplina speciale Premessa, 121 L'autoregolamentazione. I pionieri del rating, 123 Gli anni settanta, le crisi del mercato, la nuova impostazione regolamentare, 127 Il Credit Rating Agent Reform Act, 129 Dodd-Frank Act, 139 144 8. L'esperienza comunitaria e italiana Il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1060/2009, 147 Le proposte di modifica del Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1060/2009, 149 La questione dell'agenzia europea di rating, 152 La normativa nazionale, 153 156 9. I cinque pilastri per ogni riforma La responsabilità, 156 La concorrenza, 161 La trasparenza, 163 L'efficienza, 164 L'indipendenza, 166 169 10. Riflessioni conclusive. Regolamentare o deregolamentare? Un gioco di ombre e di specchi, 172 L'avversione europea al sistema del rating, 176 Nuove minacce e voglia di riforma, 180 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Premessa
L'ombra dei giudizi universali
Da qualche mese gli italiani hanno cominciato a familiarizzare con termini del gergo finanziario come «rating» e «spread». E ormai non passa giorno che quotidiani e notiziari televisivi e radiofonici non mettano in rilievo il «declassamento» dell'Italia da parte di questa o quella agenzia. La cultura del rating porta con sé anche altri termini come «outlook» o, appunto, «downgrade», che per comodità abbiamo sempre tradotto con «declassamento», a indicare in sostanza un abbassamento del livello di fiducia verso la solvibilità di un ente o di un istituto. Ma la cultura del rating trascina con sé anche un'ombra, che è densa di sospetti, di accuse e, più in generale, di critiche. Perché il rating, il giudizio emesso dalle agenzie intorno a un paese o a una società, non rappresenta sempre un voto neutrale, ma è capitato essere il frutto di interessi, di compromessi, come di sviste e di vere e proprie cantonate da parte di analisti superficiali. Tuttavia la disciplina del rating, per quanto debba essere annoverata tra le opinioni, come doxa, e non tra le scienze, come episteme, ha una sua ragione d'essere. Se correttamente impostata e sfruttata, infatti, questa cultura è in grado di servire il mercato, gli investitori e persino i piccoli risparmiatori. Perché invece ciò sempre più spesso sembra non accadere? Quali sono i motivi per cui gli scopi del rating vengono travisati? Molte sono le domande e gli interrogativi che circondano il rating e i suoi aspetti nascosti. E quest'ombra è l'ombra delle stesse agenzie di riferimento: Standard & Poor's, Moody's e Fitch ratings. Agenzie che lavorano in regime di quasi monopolio, detenendo insieme il 95% del mercato dei «giudizi» e che sono guidate da uomini e da capitali che hanno precisi scopi e ruoli sul mercato: perché le tre sorelle dei «giudizi universali» hanno legami e relazioni precise con il sistema economico-finanziario nel quale vivono e si sviluppano.
I Signori del Rating sono presenti e giocano su più
piani, in una dinamica complessa, difficile da comprendere e da sbrogliare. In
diversi paesi, compresa l'Italia, c'è chi prova a dipanare la grande matassa,
per fare luce appunto su quella parte non ancora acclarata del rating e di chi
lo dirige mettendo a rischio
le sorti di intere economie. Questo sforzo è condiviso
da organi come la Sec, l'autorità statunitense di controllo dei mercati, e più
recentemente da alcune istituzioni europee come la stessa Banca Centrale e la
Commissione Europea. Alcuni fatti anche recenti
hanno riportato alla ribalta il dibattito sul rating, sul
ruolo delle agenzie e sulle connessioni sottocutanee
tra i vari operatori. L'ombra è molto buia, ma non è
impossibile gettarvi un po' di luce.
Alla ricerca di prove Nella fredda e luminosa mattina di giovedì 19 gennaio 2012 il sostituto procuratore della Procura di Trani, Michele Ruggiero - che già nel 2010 aveva aperto un fascicolo sui comportamenti anomali se non illeciti da parte di banche e di agenzie di rating - ha coordinato una perquisizione nella sede milanese di Standard & Poor's. Negli uffici della società in via San Giovanni sul Muro, a poca distanza dal Castello Sforzesco, in nove ore di frenetica attività, gli agenti della guardia di finanza hanno frugato tra carte d'archivio, hanno raccolto dati dai computer e sequestrato documentazione ritenuta di un certo rilievo. La procura meneghina si è affiancata a quella di Trani per cercare di fare chiarezza su come l'Italia fosse stata declassata nel giudizio dell'agenzia la settimana precedente, quando, nella serata di venerdì 13, un gruppo di paesi dell'Eurozona era stato schiaffeggiato da un pesante giudizio negativo da parte dell'agenzia con un downgrade inaspettato. L'Italia è stata fatta scivolare a BBB+, un livello paragonabile a quello di paesi come l'Irlanda e il Kazakistan: notizia peraltro anticipata nel pomeriggio con una certa dovizia di particolari da una testata inglese, il «Financial Times», che non aveva mancato l'occasione per sottolineare con sfumature denigratorie gli sforzi del nostro paese sulla via del risanamento. Un'offesa oltremodo inaccettabile, considerando che da lì a due giorni il presidente del consiglio Mario Monti si sarebbe recato a Londra per una visita al premier britannico Cameron e alla comunità finanziaria londinese con l'obiettivo di sostenere il cammino di recupero dell'Italia.
Come in altre occasioni, la Procura di Trani si è
mossa perché riteneva che i giudizi di un'agenzia
come Standard & Poor's sull'Italia fossero incoerenti
e non veritieri, cioè non basati su informazioni raccolte correttamente. Tra gli
analisti di Standard & Poor's indagati figurano Eileen Zhang, Moritz Kraemer e
Franck Gill. L'ipotesi di reato è con ogni probabilità anche in questo caso,
come in altri posti sotto
osservazione, «la diffusione di notizie false e tendenziose» atte a influenzare
i mercati e la scelta degli investitori. Una tesi che ovviamente i vertici della
Standard & Poor's hanno rigettato in maniera chiara
e inequivocabile, dal momento che le analisi sono
considerate «libere e indipendenti». Questo di Ruggiero è il terzo procedimento
aperto nei confronti delle agenzie di rating. Il primo risale al giugno 2010
e riguarda un report diffuso da Moody's a mercati
aperti sullo stato di salute del sistema bancario italiano, giudicato a rischio.
Il secondo procedimento - riguardante Standard & Poor's - è stato aperto
nella primavera del 2011 ed è servito a raccogliere
dati e informazioni riguardanti tre diverse circostanze legate al debito
pubblico italiano. Tutta questa documentazione è stata richiesta dalla Procura
di Milano e così ora è anche al vaglio del Pubblico ministero Francesco Greco,
che coordina il dipartimento del Tribunale specializzato in reati finanziari. I
magistrati cercano prove per verificare l'esistenza di un
possibile aggiotaggio e di manipolazione dei mercati.
Accuse che da più parti e in più occasioni sono già
state rivolte alle agenzie di rating.
Pioggia di critiche
A seguito del declassamento operato da Standard & Poor's dell'Italia, di
alcuni paesi dell'Eurozona e
dello stesso Fondo Europeo Salva Stati la sera del
venerdì 13 gennaio 2012, le reazioni sono state immediate. Il presidente della
Banca Centrale Europea, Mario Draghi, è intervenuto prontamente sostenendo che
«bisognerebbe imparare a vivere senza
le agenzie di rating o quantomeno imparare a fare
meno affidamento sui loro giudizi». E come ha ricordato Andrea Bonanni su «La
Repubblica»: «Con una durezza mai vista finora il Commissario europeo agli
affari economici e monetari, 0lli Rehn, ha
accusato senza mezzi termini le tre sorelle americane di non essere arbitri
oggettivi o istituti di ricerca imparziali: hanno i loro propri interessi e
agiscono secondo i termini del capitalismo finanziario
americano». Sulla questione è intervenuto anche il
presidente della Consob, Giuseppe Vegas, che
all'indomani del pesante downgrade di Standard & Poor's ha scritto all'olandese
Steven Maijoor, presidente dell'Esma, l'autorità regolatrice dei mercati a
livello continentale, sostenendo che «i giudizi sono
incoerenti, per giunta amplificati dal sospetto di
una manipolazione». Vegas ha chiesto all'Esma un
attento scrutinio dell'attività di Standard & Poor's,
in particolare su come ha argomentato la riduzione
di due gradini nel suo giudizio sull'Italia. Una richiesta e un monito al quale
si è accodato anche Giuseppe Mussari, il presidente dell'Abi, l'associazione
bancaria italiana. L'umore è diventato nero,
non solo tra le principali istituzioni italiane e comunitarie, ma anche tra gli
operatori, tanto che l'Augustum Opus Sim ha acquistato mezza pagina sul
quotidiano «Il Sole 24 Ore» per pubblicare una lettera
aperta al presidente del consiglio Mario Monti al
fine di «responsabilizzare le agenzie di rating e di
adoperarsi per imprimere un'accelerazione al processo di definizione di un
quadro normativo che regoli in modo puntuale l'operatività delle agenzie
garantendo trasparenza sulle metodologie di analisi,
assenza di conflitto di interesse e soprattutto
di responsabilità civile nel caso di dolo o di colpa grave». C'è insomma un
crescente coro di critiche,
dove si mischiano voci di ogni livello. Possibile che
tutti questi lamenti siano immotivati? I voti delle
tre agenzie hanno il potere di condizionare l'attività
e le scelte di tutti i fondi di investimento del mondo.
Ecco perché i loro giudizi sono universali.
La posta in gioco Ma in gioco non c'è solo il potere di condizionamento, c'è anche un business colossale. Ce lo ha ricordato con particolare precisione Fabio Pavesi, nel suo articolo Per le tre sorelle un utile annuo da un miliardo di dollari. È questo il prezzo da pagare «all'oligopolio perfetto». Standard & Poor's, Moody's e Fitch macinano ogni anno circa due milioni di giudizi su stati e società, ma hanno anche attività di consulenza e di supporto strategico per l'analisi e la valutazione del rischio. In alcuni casi i funzionari delle agenzie si prestano anche a consulenze specializzate: il mercato ha bisogno di loro e loro hanno bisogno del mercato, in una stretta e mutua relazione. Per Fabio Pavesi, che ha svolto una ricerca sui dati di bilancio delle tre sorelle, «nel 2010 la sola Moody's ha sfornato 508 milioni di dollari di profitti netti, almeno 300 milioni ne produce Standard & Poor's e gli altri 200 circa per arrivare al miliardo sono appannaggio di Fitch». Il fatturato complessivo dei tre gruppi è pari a circa 4,4 miliardi di dollari. A questi livelli di giro d'affari e di profitti netti, Pavesi ha messo in luce che «la marginalità industriale dell'industria del rating supera il 40%, un livello record, irraggiungibile in altri settori». Standard & Poor's e Moody's sono quotate a New York. In particolare il titolo Moody's, che capitalizza quattro volte il fatturato, nell'arco degli ultimi due anni è salito di oltre il 50%. Ma la cosa ancor più interessante — e che sarà illustrata in questo libro — è che tra gli azionisti di Standard & Poor's e quelli di Moody's si trova il fior fiore dell'industria statunitense dei fondi di investimento: coloro che investono sul mercato sono anche coloro che «giudicano» il mercato. Alcuni fondi sono contemporaneamente azionisti di Standard & Poor's e di Moody's e sono in stretto rapporto con le banche d'affari Goldman Sachs, Jp Morgan e Morgan Stanley, come è stato messo in rilievo da «la Repubblica». Un gruppo di fondi: sono loro i Signori del Rating, i sovrani incontrastati di una dinamica che occorre chiarire, se davvero vogliamo avere un mercato finanziario aperto e trasparente senza asimmetrie informative e dove tutti gli operatori possano giocare un ruolo alla pari. | << | < | > | >> |Pagina 372.
Il Giudizio uno e trino
Le tre principali agenzie di rating hanno un fascino oscuro. Quando se ne cita una vengono automaticamente alla mente anche le altre due. Come le tre fiere, la lonza, la lupa e il leone che sbarravano la strada a Dante all'inizio del suo viaggio, sono tra loro molto diverse, eppure così intimamente legate, accomunate da cultura e da stili intercambiabili. Potrebbero essere anche paragonate a Cerbero, il mitico cane guardiano dalle tre teste. Il dubbio che queste tre entità siano in fondo un solo ed unico sistema appare piuttosto robusto e del tutto fondato. Standard & Poor's, Moody's e Fitch in effetti sono zelanti osservatori e dal loro responso dipende il passaggio dei candidati agli inferi o al paradiso. Grandi le comuni virtù, ma altrettanto grandi anche i potenziali vizi, che sono i rischi di insider trading, aggiotaggio e market abuse. Vediamo perché. Di fatto, le agenzie di rating possono azzerare la credibilità e la sovranità di una nazione e non solo di una singola impresa o di una singola banca. All'inizio degli anni novanta dello scorso secolo, con i suoi sferzanti giudizi, Moody's complicò, in Canada, la campagna elettorale del liberale Jacques Jean Chrétien, il quale, dopo essere riuscito non senza difficoltà a ottenere il suo primo mandato come premier nel 1993, riuscì a restare in sella per dieci anni, fino al 2003. La sua politica economica fu orientata a principi in gran parte contrari alle sue idee iniziali: Chrétien infatti alzò le tasse su cittadini e imprese assecondando così le «indicazioni» suggerite dal mercato, dagli investitori e dalle stesse onnipresenti e onnipotenti agenzie di rating. Di cultura anglo-sassone per ispirazione e natura, le agenzie di rating hanno macinato consenso proprio nell'area del Commonwealth, dove il loro passaggio è stato decisamente avvertito. In Australia, negli anni ottanta il partito laburista guidato da Bob Hawke, che si era presentato alle elezioni con un programma socialdemocratico di condivisione dei beni, fu «indotto» dai moralizzatori sociali ad avviare un piano di spinte privatizzazioni e di liberalizzazioni. E così gli investitori istituzionali trovarono la possibilità di fare il loro trionfale ingresso nelle compagini azionarie di numerose società di servizio pubblico. Compiuta la missione, Bob Hawke fu scaricato dagli stessi sostenitori senza alcun salvagente da parte di coloro che se ne erano serviti e il suo partito passò all'opposizione, dove vi restò per ben undici anni. Altre intromissioni delle agenzie di rating negli affari politici e diplomatici di paesi sovrani furono registrate in ordine sparso. A metà degli anni novanta la Corea del Sud dovette affrontare una rovinosa crisi economico-finanziaria le cui responsabilità furono assegnate anche a Moody's, che aveva precedentemente emesso alcuni giudizi pesantemente negativi. La domanda di fondo può essere subito messa in evidenza: in che misura la crisi di un paese è l'effetto diretto del downgrading (abbassamento del livello di merito di credito) operato dalle agenzie? E inoltre: in che misura possiamo dirci sicuri che tali giudizi corrispondano a ciò che si osserva? In sostanza, cioè, sorge una questione di legittimità sull'uso dei criteri e dei metodi applicati dagli analisti per dare voti e pagelle. Il problema - più o meno in questi termini - fu sollevato nel 2003 da un altro governo, quello tedesco, guidato dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, il quale si lamentò dei brutti voti inflitti dai maestri della solvibilità ad alcune aziende multinazionali tedesche come possibile forma di ritorsione contro la Germania per il suo aperto contrasto all'operazione bellica in Irak nei due anni precedenti. Illazioni? Insinuazioni? La matita rossa dei rater non ha possibilità di appello: il giudizio delle agenzie è insindacabile e deve essere preso alla lettera. Ci si deve fidare come quando alle fiere di paese qualcuno chiede di indovinare quanti fagioli sono contenuti nel vaso posto in bella mostra dal giostraio. La sua indicazione non ha controprove, perché nessuno si prende la briga di andare a contare quanti sono effettivamente i fagioli. Si partecipa al gioco, ignari dei numeri, che si finisce per accettare come buoni, sulla fiducia. Le agenzie di rating si circondano di un alone di autorità e di autorevolezza che dovrebbero essere verificate di volta in volta e non accettate supinamente come oro colato. Ne sono consapevoli economisti autorevoli come Thomas Straubhaar, direttore dell'Hamburg Institute of International Economics, che nei suoi numerosi scritti e nei più frequenti interventi pubblici, non smette di indicare le agenzie di rating come un rischio reale per la stabilità economica europea.
Gli interventi della Trimurti potrebbero essere
funzionali a influenzare la stessa politica economica.
Chi ha il potere di dare giudizi - e soprattutto di essere ascoltato e di
generare conseguenti comportamenti tra investitori e risparmiatori - ha in
sostanza il potere di influenzare l'andamento dei mercati e le
decisioni dei governi. Straubhaar e altri ritengono
che le valutazioni del merito di credito suggerite dalle
agenzie di rating sarebbero a loro volta influenzate
dalle cerchie finanziarie statunitensi che muoverebbero i fili restando
nell'ombra.
Due pesi e due misure Il collasso di Enron nel 2001 e la dichiarazione di bancarotta della Lehman Brothers, il 15 settembre 2008, sono piombati sul mercato come fulmini a ciel sereno. Gli operatori e i fondi che avevano in portafoglio azioni o bond legati alle due società non avevano avvertito gli scricchiolii e le crepe che in genere vengono evidenziati - appunto - dalle agenzie di rating con progressive valutazioni critiche. I giudizi emessi nei confronti della solvibilità del gruppo energetico californiano e delle obbligazioni della banca d'affari newyorkese apparivano semmai del tutto rassicuranti: le obbligazioni di Lehman Brothers godevano da tempo della tripla A. Ma ciò non ha impedito di allontanare il rischio del crac che poi si è invece manifestato in tutta la sua virulenza e gravità. In merito alla crisi di Enron, Standard & Poor's e Moody's si schierarono compatte dietro un tentativo di alibi: a loro dire non erano riuscite a scovare i trucchi finanziari contenuti nei bilanci e nei documenti contabili del gruppo. Dal punto di vista delle attività professionali, Enron e Lehman Brothers sono stati due casi sintomatici di disattenzione e superficialità da parte dell'industria del rating nei confronti di altrettante realtà statunitensi. Moltissimi sono stati invece gli investitori (e tra questi anche diversi fondi pensione) intrappolati nell'acquisto di azioni e bond che si sono poi rivelati carta straccia. Nessuno dei dirigenti delle agenzie di rating ha mai subito un processo per questi fatti. Di fronte alle accuse della stampa e di alcune associazioni hanno sempre reagito con un insuperabile stile tanto professionale quanto indisponente. È quanto mai strano che in alcune valutazioni di merito di credito le agenzie vadano giù con le mani pesanti - se non addirittura con un'ascia - mentre in altri casi la loro azione sia edulcorata a tal punto da nascondere la verità anche a se stesse. Può essere sufficiente una dichiarazione di responsabilità con la quale si ammette di non essere riusciti a vedere le magagne contabili, come ad esempio nel caso di Enron? Fino a che punto i criteri di valutazione sono correttamente applicabili e duplicabili a tutte le realtà che vengono poste sotto osservazione? Alla luce dei fatti esiste se non un dubbio palese, almeno una evidente perplessità: esistono di fatto due pesi e due misure. Senza voler diffondere a tutti i costi una cultura del sospetto, esiste però la concreta possibilità che alcune società non siano state colpite, mentre altre sono state fatte oggetto di attacchi solo in parte motivati. Le agenzie di rating pubblicano il loro giudizio, ma non sono chiamate a rendere conto ad alcuno su come tale voto in pagella sia stato ottenuto. Il loro metodo è chiaro agli addetti ai lavori, ma non al grande pubblico e l'esito delle loro analisi appare ancor più criptico e misterioso, visto che non devono giustificare a nessuno i criteri del loro operato. Chi ci assicura che il loro lavoro venga svolto correttamente, con trasparenza e linearità? In diverse occasioni le agenzie di rating si comportano come quegli insegnanti capricciosi che penalizzano o avvantaggiano i loro studenti in funzione di simpatie e di convenienze che nulla hanno a che fare con il contenuto delle prove d'esame e che tuttavia sono in grado di influenzarne gli esiti. È ovvio, tutte queste possono apparire illazioni perché non esistono prove sufficientemente corpose e robuste a dimostrare questa tesi. Ma esistono molti elementi e indizi, molte connessioni e riscontri che aprono la strada a numerosi interrogativi. | << | < | > | >> |Pagina 49Esperienze italianeChi controlla i controllori? C'è qualcuno che si è mai preso la briga di mettere setto la lente di ingrandimento le attività delle agenzie di rating? La risposta è negativa, almeno per quanto riguarda i meccanismi interni della fase istruttoria e di quella reportistica. Sulla parte interna non esiste di fatto alcuna possibilità di verifica: la Trimurti custodisce gelosamente i propri alambicchi e i propri utensili e nei suoi laboratori di ricerca non può entrare nessuna autorità esterna e nessun visitatore può varcare la soglia d'ingresso. Ma c'è qualcuno che ha provato a verificare «sul campo» l'esattezza e l'efficacia delle famose pagelle. In Italia questa supervisione è stata compiuta a più riprese dall'Adusbef, una tra le più accreditate associazioni di consumatori, specializzate sui temi dell'economia e della finanza. Una prima stima è stata pubblicata nel 2006 e da allora, con cadenza annuale, il ventaglio delle osservazioni è stato progressivamente ampliato. Alla fine del 2010 il monitoraggio dell'Adusbef aveva superato abbondantemente i mille report. Nel corso degli anni, cioè, sono stati presi in considerazione oltre mille giudizi, che per gli operatori dei mercati finanziari si possono tradurre in consigli per gli acquisti o per le vendite. Secondo le considerazioni dell'Adusbef «i rapporti delle agenzie di rating sono risultati sbagliati al 91% e la loro efficacia risulta pari al 9%». Il metodo di valutazione adottato dal gruppo di ricercatori incaricati dall'associazione è stato ed è tuttora del tutto empirico: si prendono i giudizi emessi dalle agenzie intorno a stati e società e si osserva l'andamento dei prezzi sul mercato dei titoli oggetto della supervisione per un arco temporale di sei mesi o un anno, quindi si compila una scheda di adeguatezza tra rating e corso delle obbligazioni. È abbastanza superfluo, ma necessario, osservare che esiste un effetto condizionamento, nel senso che le stesse agenzie sono in grado di condizionare gli atteggiamenti e le scelte degli operatori; non esiste infatti la controprova al buio, cioè di un giudizio emesso segretamente all'insaputa degli intermediari. Pur considerando questo condizionamento (che anzi dovrebbe esaltare la qualità delle agenzie), Adusbef ha osservato che l'adeguatezza tra valutazione e andamento dei prezzi dei titoli è efficace poco meno di una volta su dieci, tanto che, secondo la stessa Adusbef, «i consigli delle agenzie si sono rivelati incongruenti nove volte su dieci, con notevoli ripercussioni sul mondo dei risparmiatori». Molti operatori e gestori sono di fatto obbligati dalla deontologia professionale e da rigide impostazioni aziendali ad acquistare solo titoli dotati di un certo rating e - conseguentemente - a disfarsi di tutti gli altri titoli, che perdono posizioni di rilievo nella classifica generale. Pertanto può capitare, come è successo numerose volte, che certi fondi accumulino posizioni e quote su titoli dall'indubbio valore solo perché etichettati da una certa medaglia delle agenzie: la realtà però è un'altra e quelle stesse obbligazioni potrebbero essere spazzatura, come del resto è avvenuto con Lehman e con Parmalat, dove il giudizio delle agenzie di rating, fino a pochi giorni prima del loro crollo, era del tutto positivo e ottimistico. Il discorso però potrebbe valere anche nel caso inverso, in cui, anziché una perdita, si può registrare un mancato profitto. Per l'Adusbef infatti, tratti in inganno da giudizi fallaci, molti operatori e gestori non hanno provveduto ad acquistare titoli dal mediocre giudizio di solvibilità degli emittenti, che alla lunga si sono invece rivelati degli ottimi e puntuali pagatori. Perché, come vuole il proverbio, oltre al danno c'è pure la beffa. | << | < | > | >> |Pagina 523.
Relazioni pericolose
I Signori del Rating sono perspicaci e agiscono con lungimiranza. Sanno mimetizzarsi nella giungla del mercato e assestano i loro colpi in maniera efficace con puntualità e anticipi a volte sorprendenti. Le agenzie appaiono nella loro veste funzionale, asfittica e neutrale, svolgono analisi, pubblicano report e propugnano giudizi formalmente impeccabili, come geometri di fronte agli estimi catastali. I loro tecnici sono arroccati su posizioni isolate ed è in questa splendida riservatezza il segreto della loro forza, da cui consegue un'autorevolezza non sempre meritata. Perché non basta imporsi di avere l'aureola per essere in odore di santità. Tutti — chi più e chi meno — criticano anche apertamente il mondo del rating e i suoi più illustri esponenti, tuttavia in molti non possono farne a meno e in segreto cercano di accattivarsi la simpatia di quelle sfere. Ma chi sono i soci delle tre agenzie che da sole (gioverà ripeterlo fino alla nausea) detengono oltre il 95% delle quote di mercato? Al di sopra degli addetti che operano all'interno delle agenzie e delle schiere gerarchiche che ne coordinano le attività ci sono gli amministratori e gli azionisti, come in ogni società che si rispetti. Ed è a questi livelli che si scoprono verità sorprendenti, che meritano non solo attenzione ma anche una profonda riflessione, perché si evidenziano fili che rimandano ad altre società, in un fitto ricamo di relazioni e intrecci da lasciare a bocca aperta. Tanto per cominciare le agenzie non sono istituzioni pubbliche, né enti di ricerca o di beneficienza, ma società private di capitale che hanno scopo di lucro e che hanno deciso di realizzare profitti attraverso la vendita dei giudizi di solvibilità ai vari committenti che glieli chiedono per collocare al meglio i loro titoli obbligazionari sul mercato. Da un'accorta valutazione delle compagini societarie e delle strutture gerarchiche, le agenzie di rating hanno partecipazioni strategiche di fondi e investitori internazionali: nei loro board siedono manager e finanzieri le cui relazioni spaziano da banche a industrie, con rilevanti interessi su ogni mercato. Vi si ritrovano anche dirigenti di banche che sono state o che sono fortemente esposte nelle operazioni di finanza derivata e strutturata, una considerazione che apre e amplifica i sospetti sulla possibilità di speculazioni nei confronti di paesi fortemente indebitati e che invece dovrebbero essere posti al riparo dagli attacchi degli operatori.
Per certi versi la Trimurti del rating rappresenta
un tessuto connettivo dove alcuni tra i più alti esponenti della finanza e
dell'industria si ritrovano per
dare un'organizzazione stabile alla supervisione
delle attività e della contabilità di stati, banche e
imprese di ogni parte del mondo. Controllare e verificare il sistema finanziario
e debitorio delle nazioni
e di interi settori dell'economia pubblica e di quella
privata costituisce ciò che in termini di informazioni riservate può significare
un indubbio «vantaggio competitivo».
I Signori di Standard & Poor's La più nota delle agenzie di rating è nata dalla fusione di due precedenti società: la Standard Statistic Bureau creata nel 1906 da Luther Lee Blake e la Poor's, una realtà più antica, costituita diversi decenni prima da Henry Varnum Poor, che aveva messo al mondo un bollettino finanziario, l'«Historical Bulletin of Raylroads and Canals», con cui si offrivano consigli agli abbonati su come investire o smobilitare i loro patrimoni. Dal 23 agosto del 2011 è diventato presidente dell'agenzia Douglas Peterson, un dirigente di cinquantatré anni della Citibank, che ha preso il posto del cinquantacinquenne dimissionario Deven Sharma, presidente dal 2007. La Standard & Poor's ha sede a New York, è quotata a Wall Street ed è una sussidiaria del gruppo editoriale e di comunicazione McGraw-Hill, capitanato ora da Harold McGraw III, che vanta una quota di possesso diretta dell'agenzia pari al 4,7% delle azioni. Secondo la documentazione pubblica e reperibile attraverso Reuters, Harold III, il rampollo della dinastia, è stato un membro del consiglio di amministrazione del gruppo United Technologies, che opera nel settore della difesa, ha fatto parte del board della petrolifera Conoco Phillips (con cui ha ancora diretti rapporti) ed è stato anche un esponente di spicco del «Transition Advisory Committee on Trade», un think tank strategico voluto dall'allora presidente George W. Bush. Oltre il 50% delle quote azionarie è costituito da flottante, il resto è legato a fondi e investitori istituzionali. Per il 12,45% Standard & Poor's appartiene a Capital World Investors, per il 5,44% a BlackRock, per il 4,3% a State Street, per il 4,2% a Vanguard Group e per circa il 4% a Fidelity. Queste le altre quote, diciamo così, di «minoranza»: Oppenheimer Funds 3,8%, T. Rowe Price Associates 3,3%, Jana Partners 2,9%, Ontario Teachers Pension Price 2,3%. Si tenga presente un altro particolare importante: alcuni dei grandi fondi citati (Capital World Investors, BlackRock, State Street, Vanguard Group, Fidelity e T. Rowe Price Associates) detengono insieme il 30% circa della stessa McGraw-Hill, la società che possiede Standard & Poor's. Non solo: come vedremo la stessa «squadra» si ripresenterà compatta anche nella compagine azionaria di Moody's, col risultato che a governare di fatto un paio di agenzie di rating sono gli stessi soci. Comunque, nel caso di Standard & Poor's possiamo già rilevare che i proprietari della casa editrice e dell'agenzia sono gli stessi. Anche se tra questo gruppo di fondi che detengono le quote azionarie di riferimento non è stato sancito alcun patto di sindacato (che non è previsto dalle norme anglosassoni) ed è quantomeno singolare che esista una pressoché totale sovrapponibilità tra l'assetto di partecipazione e di comando dell'una e dell'altra compagnia. In sostanza, e tranne che per poche differenze, il nucleo rappresentativo dei soci di riferimento di MacGraw-Hill ricalca la fisionomia dello stesso cuore che controlla Standard & Poor's. Non è forse una strana coincidenza? E perché mai accade? | << | < | > | >> |Pagina 73I Signori di BlackRockAlla luce delle precedenti riflessioni, dovremmo rielaborare la tesi che propugna la visione dei mercati finanziari come un unico grande ente regolatore di ultima istanza dei cicli e degli assetti economici mondiali. Alcuni operatori non solo si rivolgono al mercato per effettuare compravendite, ma lo condizionano e spesso addirittura sono in grado di anticiparlo. Il potere di influenza è enorme, ramificato, quasi impalpabile e invisibile, perché scorre nelle connessioni telematiche, negli algoritmi dei computer, nelle valutazioni previsionali e nelle raffiche di ordini che si diramano anche contemporaneamente lungo più direttrici, per effettuare arbitraggi tra cambi monetari, ricoperture e smobilizzi di portafogli. In questo clima dinamico di mercati e informazioni spesso turbolente, dove convivono la densità e la fluidità delle scelte, i giudizi e gli outlook delle agenzie di rating sembrano funzionare come la mossa del direttore d'orchestra da cui parte l'esecuzione collegiale. Fondi pensione e fondi di investimento, operatori istituzionali, banche d'affari, società di gestione e altri intermediari raccolgono le indicazioni e si adeguano: il mercato è una filiera decisionale concatenata e una volta entrati si finisce col farne parte come un pesce nell'acquario. In questo sistema c'è anche chi ha costruito un'architettura a pettine, dove una sola visione si inserisce in vari punti della filiera, con proprie emanazioni. È questo lo scenario dal quale si deve partire per comprendere il grado di operatività di BlackRock, uno tra i più importanti fondi di investimento che, come abbiamo visto, è presente sia nella compagine azionaria di Standard & Poor's sia in quella di Moody's, insieme ad altri analoghi fondi. BlackRock è una società statunitense con sede a New York che oggi vanta la sua presenza in una trentina di paesi sparsi in ogni continente. Con una posizione dominante in America negli ETF e negli ETC, è presente nella piazza finanziaria di Milano con la gamma di prodotti iShares quotati sull'indice ETF Plus di Borsa Italiana (si tratta di prodotti di finanza strutturata, frutto dell'evoluzione del mercato e della capacità degli operatori di offrire nuove soluzioni). BlackRock è stata fondata nel 1988 da Laurence Fink, Ralph Schlosstein e Keith Anderson, un trio che prima aveva lavorato insieme a Blackstone. Non c'è dubbio che la figura di rilievo all'interno di questo gruppo sia quella di Fink, un abile finanziere che prima di avviare la sua idea insieme ai soci aveva lavorato in First Boston Capital, dove si era occupato di investimenti finanziari e dove aveva anche creato una linea di nuovi prodotti, legati ai mutui ipotecari. In First Boston l'ideazione di un nuovo sistema di titoli gli aveva permesso di guadagnare moltissimo denaro in poco tempo, una molla che lo spinse a mettersi in proprio. Ma con un'accortezza: se in First Boston si era dedicato alla parte della creazione e della vendita di prodotti finanziari, nella nuova attività avrebbe cercato di specializzarsi anche nell'acquisto. «Wall Street - ha scritto Heicke Buchter - è divisa in due gruppi: il sell side, ovvero le banche che confezionano i prodotti finanziari, e il buy side che li comprano: grandi investitori come i fondi pensione, le fondazioni, i fondi di investimento e le divisioni finanziarie delle multinazionali. Fink avrebbe messo le conoscenze maturate nel sell side a disposizione del buy side e avrebbe valutato da esperto indipendente le offerte delle banche». Nel giro di venti anni questa professionalità ha consentito a Fink e alla sua creatura di acquisire una posizione di controllo su entrambi i fronti dell'industria finanziaria, diventando un nodo privilegiato del mercato. Oggi BlackRock è uno dei principali azionisti della piattaforma borsistica che comprende New York e Francoforte grazie a una loro fusione per integrazione. Secondo Sergio Bocconi il gruppo americano «controlla quote azionarie delle principali aziende della Germania: Adidas, Allianz, Basf, Deutsche Bank, Merck». Nell'estate del 2009 BlackRock fece una grande operazione: rilevò per 13,5 miliardi di dollari la Barclays Global Investor e si avvalse dell'aiuto di alcuni fondi sovrani di provenienza araba e cinese. Grazie a queste armate finanziarie il gruppo si è mosso all'attacco di altri mercati, tra cui anche l'Italia, come giustamente ha osservato Bocconi. Per quanto riguarda il nostro paese la tattica adottata è stata di basso profilo, ma efficacissima. Grazie all'acquisto moderato e mirato, effettuato a piccole e continue dosi, BlackRock ha acquisito partecipazioni di minoranza nei più importanti gruppi industriali e bancari, con lo scopo di poter poi procedere alla nomina di consiglieri e amministratori delle stesse società. L'ultima operazione nell'ordine di tempo è stata giocata su Banca Popolare di Milano, dove oggi BlackRock vanta una partecipazione di circa il 2%. In Italia, per legge ogni partecipazione superiore al 2% del capitale sociale deve essere segnalata alla Consob, l'autorità di vigilanza sui mercati e sulla borsa. Alla fine del 2011 BlackRock aveva partecipazioni nelle seguenti società: Eni (2,5%), Unicredit (3,9%), Enel (3%), Intesa Sanpaolo (2%), Mediobanca (2%), Ubi (2%), Generali (2,5%), Fonsai (2%), Telecom Italia (2,7%), Mediaset (5,7%), Fiat (2,7%), Finmeccanica (2,2%), Atlantia (2,I%), Banco Popolare (3%) e Terna (2,1%). Il quadro comincia ora a delinearsi; BlackRock, la Roccia Nera del mercato, è un fondo che da solo amministra e gestisce partecipazioni per circa 3700 miliardi di dollari, una cifra colossale, pari alla ricchezza che ogni anno viene generata insieme da due paesi come la Germania e l'Italia. Ma non solo: le sue presenze, le sue partecipazioni azionarie spaziano da società che vendono prodotti finanziari (sell side) a operatori e gestori che li acquistano (buy side) contemplando anche società quotate nelle principali borse e le agenzie di rating (Standard & Poor's e Moody's). Non è curioso che le agenzie di rating (partecipate da BlackRock) emettano giudizi su società quotate (partecipate da BlackRock) per conto di investitori e gestori (che hanno rapporti d'affari con BlackRock)? Anche se BlackRock non appare mai direttamente sul mercato, perché di fatto ha solo quote di minoranza nelle società che intende far rientrare sotto la propria influenza (acquistando liberamente quote azionarie sui mercati), è presente e diffusa ovunque. La sua presenza è rilevante non per la quantità dell'esposizione nelle singole società, ma per l'estensione e per la capillarità della sua rete, una ragnatela mondiale. La sua storia però non è terminata, perché ci sono ancora alcuni tasselli da aggiungere per completare il mosaico e per avere una comprensione complessiva del caso BlackRock e delle sue intrinseche implicazioni. | << | < | > | >> |Pagina 16910.Riflessioni conclusive.
Regolamentare o deregolamentare?
La domanda fondamentale alla base di questo libro può essere formulata in modo piuttosto diretto: ma in che misura le attuali agenzie di rating producono valore per il mercato? Che il rating sia utile e necessario è fuori discussione. Ma che il modello attualmente perseguito e praticato sia quello più valido, è un altro discorso. Il nocciolo del problema è proprio qui, nel tentativo di individuare una strada che consenta di rimodellare il sistema delle valutazioni di credito. È possibile? È una via praticabile? La cultura e l'applicazione del rating sono da salvare; deve però essere rivoluzionato - o almeno riformato - il sistema su cui si regge. E questo sistema è costituito tanto dagli attori quanto dalle regole del gioco. Un necessario ripensamento deve tenere conto del fatto che il processo di globalizzazione richiede a sua volta strumenti di misurazione e di valutazioni che siano condivisi, indipendenti e soggetti al controllo e alla verifica da parte di organismi internazionali super partes, dove anche gli esperti dei paesi emergenti possano avere voce in capitolo. La sensibilità verso i rischi non è un patrimonio di una sola parte del pianeta e in tal senso dovrebbero essere salutate con favore le possibili aperture in Europa dell'agenzia cinese di rating Dagong e di un'eventuale realtà tutta «made in Europe»: potrebbero essere almeno nuovi punti di vista e di valutazione, che affiancherebbero quelli delle tre agenzie tradizionali e in un certo senso potrebbero anche ridimensionarne lo strapotere oligopolistico. Dal canto suo, la disciplina del rating può e deve essere collegata in rete, grazie all'esperienza di diversi centri di ricerca e di analisi che, come nodi estesi, possono assurgere al ruolo di sensori istituzionali sparsi nei cinque continenti. Diversamente si potrebbe giungere a una frammentazione multipolare di questa importantissima metodologia, con paesi che sfrutterebbero il piano dei giudizi per continuare a farsi la guerra economica e commerciale con mezzi accessori. Sarebbe davvero un triste mondo quello in cui agenzie di rating asiatiche dovessero sconfessare stati e società occidentali come ritorsione per presunti torti subiti sul fronte delle attività economiche. Non sono impressioni o fantasticherie. Questa ipotesi potrebbe diventare realtà, ed è un'eventualità che non possiamo permetterci. Indipendenza, valore e internazionalità del metodo sono i principi su cui puntare per difendere un patrimonio conoscitivo che altrimenti rischia di diventare uno strumento collaterale con cui gruppi privati perseguono interessi particolari del tutto estranei al senso di bene pubblico e di salvaguardia della comunità internazionale. Le agenzie di rating sono soggetti che hanno goduto di situazioni di privilegio assoluto potendo decretare il successo o il fallimento dell'emissione o del collocamento di uno strumento finanziario, hanno avuto comportamenti irresponsabili e soprattutto sostanzialmente e fino a poco tempo fa erano legibus solutae. Lo scenario sta cambiando ed è tempo di riforme. Le normative approvate negli Stati Uniti e in Europa e quelle che presto saranno introdotte vanno nella direzione di imporre maggiore trasparenza e professionalità e contenere il potere economico degli operatori oligopolisti allo scopo di rendere sempre più affidabili per gli investitori le valutazioni che vengono fornite. I Signori del Rating hanno goduto e godono di rendite di posizione. È necessario aprire il settore a una maggiore concorrenza. Ma, in conclusione, qual è la strada giusta e corretta da seguire? Maggiore o minore regolamentazione? Si è detto infatti che piuttosto che nuove regole sarebbe sufficiente sostituire il rating con altri indici per ottenere il risultato di ridimensionamento dei rischi, del potere, e come risposta alla crisi di fiducia nelle agenzie di rating. La questione non è da affrontare in questi termini e soprattutto con atteggiamento manicheo. Al contrario occorre introdurre nuovi indici accanto al rafforzamento della disciplina normativa. | << | < | > | >> |Pagina 173[...] il socialista Francois Hollande, che, secondo l'Ansa, al suo primo grande discorso elettorale, il 22 gennaio 2012, se la prese contro il sistema finanziario, sostenendo che «il mio reale avversario non ha un nome, non sarà mai candidato e non verrà dunque mai eletto. Ma ci governa, perché il mio reale avversario è il mondo della finanza, che ha preso il controllo dell'economia e della società».| << | < | > | >> |Pagina 175Nel giorno del suo insediamento al Parlamento europeo di Strasburgo, il 17 gennaio 2012, il neo-presidente eletto, con 336 voti su 670 validi, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, non ha usato mezzi termini. Nel suo discorso inaugurale, ripreso e trasmesso in diretta dai principali canali all news satellitari si è pronunciato così: «Bisogna dire un no chiaro al sistema delle agenzie di rating, che è una minaccia per il progetto europeo. Cresce il sospetto che anonime agenzie con sede a New York siano più potenti di governi democraticamente eletti».| << | < | > | >> |Pagina 180Nuove minacce e voglia di riformaIn questo strisciante conflitto, però, le agenzie di rating non sembrano mollare la presa. Anzi. Più il gioco si fa duro e più loro sembrano voler scendere in campo, con nuove e rinnovate valutazioni. Si sta parlando di Europa e di nuovi possibili declassamenti di paesi del Vecchio Continente e ciò crea angosce e accuse? Si alza la mira e si spara ancora più lontano, a confermare che la gittata balistica dello sguardo è potente e temeraria. Il primo colpo - con obiettivo il futuro anno 2050 - lo ha sparato ancora Standard & Poor's, sopravanzando se stessa e, ovviamente, le altre consorelle del rating. Secondo quanto ha riportato Reuters in una nota del 31 gennaio 2012, «l'agenzia Standard & Poor's ha avvertito che potrebbe declassare una serie di rating elevati di paesi appartenenti al G20 a partire dal 2015 se i loro governi non riusciranno a mettere in atto riforme per frenare l'aumento della spesa sanitaria e gli alti costi connessi con l'invecchiamento della popolazione». Molti paesi in Europa, oltre che Stati Uniti e Giappone, sono destinati a subire il maggior deterioramento delle finanze pubbliche nei prossimi quarant'anni per via dell'allungamento della vita media della popolazione. Per Marko Mrsnik, credit analist di Standard & Poor's, «il costante aumento della spesa sanitaria peserà costantemente sui cordoni della borsa pubblica nei prossimi decenni e se i governi non cambiano i loro sistemi di protezione sociale, probabilmente diventeranno insostenibili». Il gioco è abbastanza chiaro e la tecnica - in sostanza presentata come un caso nei comuni manuali di retorica - viene insegnata anche nelle scuole dei Gesuiti: se qualcuno ti accusa per un giudizio su questioni attuali che viene considerato incoerente, tu rispondi con un accrescimento della gravità del problema nel prossimo futuro. Si può fare leva sulla paura e indurre l'interlocutore ad accettare la propria tesi prospettando un caso ancora più grave in futuro. È l'espediente usato ad esempio dagli assicuratori per far sottoscrivere polizze ai clienti contro i danni dal clima o da atti teppistici: «Ti può andare bene adesso, ma domani potrebbe essere peggio». Che la situazione economica dell'Occidente, dell'Europa e di gran parte dei paesi industrializzati possa anche essere considerata grave è accettabile, ma che si debba pregiudicare la sostenibilità di un percorso, più che un giudizio appare una minaccia. E l'esito è la paura tra gli stati e gli operatori. E questo lo scopo che le agenzie di rating si sono prefissate?
Quali fini reconditi vogliono raggiungere coloro che
siedono alla guida di queste strutture? Perché non
chiariscono al pubblico i metodi seguiti per le loro
previsioni e le valutazioni quantitative sulle quali
compiono le loro indagini? C'è il fondato sospetto che
l'azione dei «Signori del Rating» abbia propositi anche emotivi, per suscitare
stati di coscienza che siano
preparatori di cambiamenti oggi inaccettabili, ma più
praticabili in futuro se la «mentalità» delle prossime
generazioni verrà opportunamente preparata. Anche
questa è una sottile riflessione che serpeggia tra coloro che subiscono i
giudizi, talvolta emessi senza giustificabili motivazioni.
Che lezione trarre dall'insieme di queste vicende e dall'intreccio di questa varietà di temi, proposte e accuse? Gli esperti e gli opinionisti a livello europeo concordano su questi punti basilari: 1) sarebbe opportuno aprire a una sana concorrenza il mercato del rating (che vale alcuni miliardi di dollari e che oggi è detenuto per il 95% da tre sole agenzie) a più operatori e, possibilmente, anche ad un'agenzia europea; 2) il rating è uno strumento tecnico-conoscitivo che ha la sua importanza ma non deve essere sovrastimato, al fine di mantenere i mercati in una traiettoria di minore volatilità e quindi meno esposti alle possibili ondate speculative; 3) le attività delle agenzie di rating devono essere più trasparenti e si deve avere la possibilità di supervisionare l'operato nel merito e nel metodo. A tal fine le agenzie devono poter essere considerate civilmente e penalmente responsabili della loro attività;
4) Si deve rendere palese il conflitto di interessi che
possono manifestare coloro che lavorano all'interno
delle agenzie o che ne sono i diretti amministratori o azionisti.
Senza queste riforme il mondo del rating continuerebbe ad essere una sfera
particolare, a sé stante, che
non risponde ad alcuna istituzione o autorità e
che rischia di perseguire scopi non conclamati, con
pesanti ripercussioni sugli stati, sui mercati e sull'opinione pubblica. Senza
una correzione, i «Signori del Rating» continueranno ad agire nell'ombra e a
giocare con gli specchi. Un rischio che, soprattutto come
europei, non possiamo più permetterci.
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