Copertina
Autore David R. Gillham
Titolo Sei mesi, sette giorni
EdizionePiemme, Milano, 2013 , pag. 472, cop.ril.sov., dim. 13,5x22x3,5 cm , Isbn 978-88-566-2689-6
OriginaleCity of Women [2012]
TraduttoreBarbara Porteri
LettoreElisabetta Cavalli, 2013
Classe narrativa statunitense , paesi: Germania , storia criminale , shoah
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BERLINO, 1943



1



Il cieco batte il bastone a tempo – un-due-tre, un-due-tre, un-due-tre – per attirare l'attenzione dei passanti. Con la testa pelata coperta da un vecchio cappello militare, sembra quasi una cadaverica sentinella; tiene in un barattolo legato al collo le matite che cerca di vendere. Al braccio porta una fascia con una piramide di puntini; le lenti degli occhiali, rotonde e scure, sono come due orbite buie che fendono la luce del giorno. Sigrid sta uscendo dalle scale mobili della U-Bahn, la metropolitana di Berlino; fruga nella borsa e lascia cadere qualche Groschen nella tazza del cieco. «Che Dio ti benedica» le dice con voce stridula quando sente il tintinnio delle monete. «Prego, prendi una matita.» Lei lo ringrazia, e lui, voltandosi nella direzione della sua voce, sembra quasi averla riconosciuta da dietro le lenti scure. Sigrid mette la matita nella borsa e attraversa la strada al semaforo.

I biglietti per le matinée sono aumentati di cinquanta Pfennige, adesso costano tre marchi e mezzo, ma Sigrid paga senza protestare. Il cartellone annuncia Soldati di domani, con immagini di ragazzi biondi, esaltati, nelle loro divise della Gioventù hitleriana, che attraversano un campo a passo di marcia imbracciando un fucile di legno, fanno esercizi ginnici oppure ispezionano la canna di una pesante mitragliatrice, sotto lo sguardo sorridente di un ufficiale dell'esercito. A lei comunque non importa molto dello spettacolo. Non è li per vedere il film.

All'interno del cinema, la consueta clientela del tempo di guerra accoglie l'arrivo di Sigrid senza particolare entusiasmo. L'ingresso puzza di muffa e i tappeti avrebbero bisogno di una bella pulita; il lampadario a bracci ha perso l'antico splendore, adesso emana una luce fioca, qualche lampadina manca o non funziona più. La vetrinetta dei dolci è vuota: non c'è merce da vendere, come nel resto della città. L'addetto al guardaroba si intrattiene leggendo una rivista sportiva. Non ha molto da fare: nessuno deposita il cappotto, a causa del freddo atroce e del pessimo riscaldamento del locale. Nonostante tutto, c'è una certa ressa ad attendere che le maschere aprano le porte della sala. In città il cibo è scadente e sempre più scarso, il razionamento ha svuotato i negozi e le conseguenze immediate di un altro anno di guerra rendono l'atmosfera sempre più soffocante, eppure nei cinema è ancora possibile spendere qualche marco senza sopportare lunghe ore di fila né staccare cedolini dalla tessera annonaria.

Ci sono pensionati dal volto cinereo, curvi sul loro bastone, operaie con i capelli raccolti in turbanti che approfittano della pausa tra un turno e l'altro e si passano una sigaretta prima di entrare. Ci sono prostitute dallo sguardo duro in cerca di clienti tra i soldati in licenza e Hausfrauen che stringono pesanti sporte e aspettano pazientemente, sollevate all'idea di fuggire per qualche ora dai figli e dai soliti lavori di casa.

Sigrid Schröder non interagisce con gli astanti. Resta chiusa nel suo silenzio.

Lavora come stenografa all'Ufficio Brevetti di Gitschiner Straße, vicino a Belle-Alliance-Platz, nella sezione Richieste. Si ritiene una donna ancora attraente. I capelli, coperti dal foulard annodato sulla testa, sono folti e biondi. Ha un corpo robusto e ben proporzionato. Le piace l'immagine che le rimanda lo specchio, sebbene non perda molto tempo a rimirarsi. La guerra ha ridotto la sua vita a termini essenziali: non è altro che un numero sul libro matricole e sulla tessera annonaria, un volto sulla carta d'identità. Lei è Frau Schröder, una Kriegsfrau, sposata con un soldato che sta al fronte. Il suo nome è soltanto un suono al quale lei risponde.

Sale le scale calpestando il tappeto ormai logoro e arriva ai palchi che sovrastano la sala centrale, a forma di ferro di cavallo. A volte le prostitute portano lassù i clienti, per offrire le loro prestazioni: di certo è più intimo e le maschere non ci fanno caso. O forse sperano in una mancia. Sigrid ha imparato a non fare caso a loro; in fondo, anche lei conta sul fatto che i palchi siano quasi deserti durante gli spettacoli mattutini.

La maschera è un vecchietto che oggi ha deciso di schiacciare un pisolino vicino alla porta; quando Sigrid se ne accorge, ignora il posto assegnatole e si accomoda in ultima fila, contro il muro. È il posto dei suoi ricordi.

Faceva un freddo terribile durante il primo inverno di guerra. La città era stretta in una morsa di ghiaccio, non si registravano temperature così rigide da decenni. A gennaio il termometro era sceso a meno venti; la gente, provando a ironizzare, diceva che nel patto di non aggressione firmato con i sovietici dovevano aver scambiato Berlino con la Siberia. Alla fine del mese, però, le scorte di carbone e quelle di buonumore erano quasi finite, anche nella capitale. Il gelo non dava tregua, si insinuava nei buchi degli abiti e penetrava lentamente nel corpo, fino a raggiungere il cuore e gelarti il sangue nelle vene.

A letto, lei cercava di scaldarsi stringendosi al marito, che però si sottraeva alle carezze più audaci. «Sigrid, per favore, domani mi aspetta una giornata molto impegnativa» la ammoniva ogni volta. Allora lei rimaneva a fissare il soffitto, nell'oscurità della stanza gelida, finché non era vinta dal sonno.

Una notte finalmente gli chiese: «È per via dell'aborto?». «Adesso devo dormire» rispose lui dopo un lungo silenzio «e anche tu. Ne parliamo un'altra volta.»

Ovviamente non lo fecero mai. Da quando era scoppiata la guerra in Polonia, Kaspar rimaneva in banca a lavorare fino a tardi, era sempre più lunatico e taciturno. Molti dei suoi colleghi erano già stati richiamati alle armi, era certo che presto sarebbe toccato anche a lui. Sigrid provava a immaginarselo in divisa, con il fucile in mano, ma non ci riusciva, le sembrava assurdo. Lui aveva quasi trentacinque anni, di sicuro c'erano parecchi uomini più giovani, più adatti alla vita militare. Anche la madre di Kaspar era d'accordo con lei, il che accadeva di rado. «Tu occupi un ruolo importante in banca» diceva convinta l'anziana donna. «Il governo sa bene che alcuni dei nostri migliori uomini devono rimanere a casa, per garantire il buon funzionamento del sistema.» A quel punto, Kaspar guardava entrambe con distacco, poi chiedeva educatamente un altro po' di caffè.

Si apre il sipario, si abbassano le luci. Sigrid si toglie il foulard. Lo spettacolo inizia con le riprese di un coro di soldati che intonano Horst Wessel Lied, l'inno del partito. Dalla sala si levano in risposta voci confuse. Gli spettatori sono invitati a unirsi al canto degli inni patriottici, così almeno dice il cartello appeso all'ingresso, ma Sigrid rimane in silenzio. Non c'è nessuno seduto vicino a lei e non corre il rischio di essere denunciata. Dopo la doccia fredda della sconfitta subita dalla 6a Armata a Stalingrado, la stessa armata che pochi anni prima aveva annientato la Francia, il partito si è dato da fare per favorire la ripresa del fervore patriottico. Più bandiere, più slogan e più manifesti sui muri. Però, sotto la superficie, un terrore corrosivo sta erodendo le certezze della propaganda ufficiale. La vittoria non è più così scontata. Durante la prima settimana di febbraio, la normale programmazione radiofonica era stata interrotta all'improvviso da una marcia funebre di Wagner. Goering, maresciallo del Reich, aveva fatto un solenne annuncio dal ministero dell'Aria. I soldati della 6a Armata avevano combattuto fino all'ultimo proiettile. Dopo qualche settimana, Goebbels aveva trasmesso un messaggio dallo Sportspalast, in cui sosteneva che l'unica risposta al sacrificio dei soldati tedeschi era la guerra totale. Volete la guerra totale? Se necessario, volete una guerra più assoluta e radicale di quanto oggi non possiamo neppure immaginare?

Il pubblico dello Sportspalast aveva ruggito il suo incontenibile entusiasmo, ma la maggior parte dei berlinesi si era limitata a un silenzio attonito. Quella di Stalingrado doveva essere la più grande vittoria della Wehrmacht dopo la conquista di Parigi, si diceva che l'Armata Rossa sul Volga fosse ridotta a brandelli. Come era potuta succedere una cosa simile? Trecentomila soldati tedeschi morti o fatti prigionieri. Come era potuto accadere? Molti se lo chiedevano, a bassa voce, ma nessuno conosceva la risposta.

Le immagini frenetiche del cinegiornale irrompono sullo schermo: truppe che saltano in aria sui crateri delle esplosioni, un carro armato che si schianta contro un muro. L'assalto furibondo al fronte orientale continua, almeno al cinema. Sígrid inspira profondamente: adesso anche Kaspar è là. Era stato richiamato due mesi prima dell'inizio dell' Aufmarsch, la marcia verso la Russia, e adesso è bloccato da qualche parte a sud di Mosca, con altre centinaia di migliaia di mariti tedeschi. Pensa a lui ogni sera, quando va a dormire. Ha paura per lui, lo immagina esposto alle intemperie, ma non riesce a desiderare la sua presenza nel letto, accanto a lei. Forse è diventata gelida come l'inverno russo? Forse solo il suo cuore lo è diventato, pensa.

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6



«Sei sicura che ci abiti qualcuno qui?» chiede Sigrid quando arrivano al piano superiore. Vicino alla porta non c'è più la targa con il nome – di cui è rimasto il segno sul muro – ma solo un numero. Ericha le fa segno di tacere e bussa. Due volte, poi tre. Il corridoio è buio e puzza di muffa.

La donna anziana che apre la porta è imponente, con profonde borse sotto gli occhi e la voce roca. «Mi hai fatto venire un colpo» esordisce arrabbiata, poi fissa Sigrid. «E questa chi è?»

«Un'amica» risponde Ericha. «È qui per aiutarci.»

«Aiutarci? E come?» La vecchia la guarda di sbieco, con animalesco sospetto. «Andando a raccontare in giro cose che non la riguardano?»

«Mi chiamo...» inizia Sigrid, ma l'altra la interrompe bruscamente.

«Non mi interessa sapere il suo nome, gnädige Frau, e a lei non deve interessare chi sono io.»

«Zia, per favore» la rimprovera Ericha, aggressiva.

«Puoi fidarti di lei.»

«No, tu puoi fidarti di lei» sbuffa la donna. Non riesce a celare la sua contrarietà. «Ma suppongo di non avere voce in capitolo. Ormai siete qui, tanto vale che entriate.»

La porta si apre su una stanza disordinata e piena di mobili. Nell'aria c'è puzza di piscio di gatto e liscivia. Sigrid fa per coprirsi il naso, ma poi si ferma. I gatti scappano tutti nei loro nascondigli, tranne uno, gigantesco, acciambellato sullo scaffale di una libreria e circondato da alcuni libri contabili lerci. La vecchia chiude la porta e tira il chiavistello.

«Questa è la signora di cui ti ho parlato, quella che mi ha dato i vestiti» dice Ericha.

«I vestiti...» La donna le lancia uno sguardo obliquo. «Ah, quel bel cappellino di pelliccia. Davvero carino» si rivolge a Sigrid mentre attraversa la stanza con andatura dinoccolata.

«Lei lo ha...» inizia Sigrid, mentre cerca ancora di dare un senso a quanto le sta succedendo. «Lei lo ha indossato?»

La vecchia si mette a sghignazzare.

«Indossato? Ma certo!» annuisce con aria canzonatoria e si mette in posa, come se stesse partecipando a una sfilata con lo zibellino sulla zazzera grigia. «L'ho indossato giusto ieri per andare all'opera, sa. Davano Die Fledermaus di Strauss» continua con un ghigno falso, che però le scompare subito dalla faccia.

Dà una delicata spinta al gattone per farlo spostare dalla libreria, poi ride della sua stessa battuta. «È tutto a posto, Hektor» dice al gatto. «Sei stato bravissimo.» Il gatto salta giù dallo scaffale, la donna traffica un po' e poi tira quella che deve essere una serratura a scatto, perché la libreria cigola e ruota su un cardine, rivelando un passaggio nel muro.

«Piuttosto ingegnosa, vero?» commenta la donna con caustico orgoglio. «Mio marito, buonanima, a volte riusciva persino a rendersi utile.»

«Dove porta?»

«Ha visto la tabaccheria in strada? Era la nostra attività, fino a quando quel vecchio idiota una notte si è addormentato al bancone con il sigaro acceso. Aveva paura che i commessi rubassero la merce, così aveva chiuso l'accesso dal basso al magazzino in solaio e aperto questa porta nel nostro appartamento.» La donna alza le spalle, come se volesse scacciare quel pensiero. «Adesso mi serve per dare alloggio ai miei ospiti speciali. La chiamo la Pensione Unsagbar» conclude. La Pensione Innominabile. «Non è proprio l'Hotel Adlon, ma è sempre meglio delle alternative.» Quando si apre la porta, la prima faccia che Sigrid vede è smunta e ha lo sguardo vigile: è un vecchio, che la fissa con occhi acquosi, carichi di sospetto. Poi una vecchia con il volto bianco come la neve, piena di rughe, e un'espressione torva e assente. Guarda Sigrid che entra nel locale freddo e umido come un fantasma guarderebbe un essere vivente. Ericha entra e annuncia: «Questa signora è venuta per aiutarci, potete fidarvi di lei». Ma sembra parlare una lingua che gli abitanti di quello spazio non sono in grado di comprendere.

Sigrid è tesa, ha tutti i muscoli contratti e un nodo nelle viscere. Apre la bocca per dire qualcosa – dev'esserci una frase adatta alla circostanza – ma non riesce ad articolare nemmeno una parola. L'unica cosa che può fare è cercare di scacciare la sensazione di spavento che la paralizza, come se fosse rimasta intrappolata in una rete calata dal soffitto.

Si guarda intorno, lentamente, e vede tre bambini, pallidi, che hanno l'aria di non mangiare da molto tempo. C'è anche una ragazzina dallo sguardo vacuo, con indosso il suo cappello di zibellino. Due gemellini in abiti troppo grandi per loro – probabilmente non vanno ancora a scuola – sono raggomitolati nelle coperte nel solaio non riscaldato. Una donna di mezz'età si strofina le mani per riscaldarle, ha gli occhiali tenuti insieme da un pezzo di fil di ferro. La Judenstern è stata strappata dalla giacca, ma il segno è rimasto.

Raggirata.

È così che d'un tratto si sente Sigrid. Come una stupida, ha oltrepassato la soglia e si è trovata in un mondo al di fuori della legalità.

«L'avevo avvertita, Frau Schröder» sospira Ericha. «Mi sbagliavo, forse?»


«Ti ha dato di volta il cervello?» è tutto quello che Sigrid riesce a dire alla ragazza quando ritornano in strada. Camminano veloci lungo il marciapiede, seguendo il tenue raggio blu della torcia tascabile. Sigrid cerca di liberarsi dalla rabbia e dalla paura, di scacciare il gelo che le attanaglia lo stomaco e il calore che le arde sotto la pelle. Lascia che Ericha le cammini accanto, ma non le permette di penetrare il muro di silenzio che ha eretto tra di loro.

Brandisce quel silenzio come un'arma, come il coltello che porta nella borsa. La torcia colora di blu il marciapiede. «Frau Schröder, non vada così veloce» la esorta Ericha. «Rischia di cadere e rompersi una caviglia.»

«Sta' zitta» replica Sigrid. «Non dire una parola. Non ci credo che ti importa qualcosa della mia salute, vista la valanga di merda che mi hai appena scaricato addosso.»

«Io cosa? No, l'ho solo accontentata, Frau Schröder. È stata lei a insistere per sapere chi stavo nascondendo. Quella valanga di merda se l'è andata a cercare.»

Sigrid fissa il marciapiede, furiosa. «Sono tutti ebrei?»

«La maggior parte, ma non tutti» risponde Ericha. «Alcuni sono colpevoli di reati politici o religiosi, alcuni sono omosessuali, o tutte e tre le cose. Non importa, ciò che conta è proteggerli dalle grinfie della Gestapo.»

«Ammassandoli nella soffitta di un edificio andato a fuoco?»

«La zia è solo un anello della catena. Li spostiamo in continuazione.»

«E la polizia non è abbastanza furba da trovarli?»

«A volte sì, altre no. Può capitare che i canali si interrompano, che qualcuno commetta un errore, o sia solo sfortunato. Oppure qualcuno fa la spia» dice in tono piatto. «Per questo non sappiamo come si chiamano: preferiamo non conoscere i loro nomi, non è sicuro. Arrivano come estranei, e come estranei se ne vanno.»

«Estranei» ripete Sigrid. «E come fate a dare loro da mangiare con il razionamento?»

«Non è facile, anzi, questa forse è la parte più complicata. Mi aiuta il fatto che vado a fare la spesa per Frau Granziger.»

«Mi stai dicendo che rubi il cibo alla tua datrice di lavoro?» Se la sua vuole essere un'accusa, Ericha sembra non farci caso.

«Qualche patata, una o due pagnotte, sardine in scatola, non è molto. Lei ha un sacco di cedolini, mi creda. Le autorità sono molto generose con chi ha ricevuto la Croce d'onore per la madre tedesca. I suoi figli non vanno mai a letto con la pancia vuota.»

«Quindi sei diventata una ladra provetta.»

«Quel tipo di furto lo vedo più come un dovere morale.»

«Parole pesanti. Chissà se la Gestapo ne rimarrebbe impressionata.»

«Se sta cercando di spaventarmi, Frau Schröder, sappia che lo sono già abbastanza.»

«Non ci credo. Per te questa è una specie di crociata. Ma hai riflettuto seriamente sulle conseguenze?»

«Le conseguenze mi sono chiarissime, Frau Schröder.»

«Ne dubito, ma non mi riferivo solo a te. Non pensi agli altri? Alla proprietaria dell'appartamento, per esempio, quella che hai chiamato zia.»

«È così che si fa chiamare.»

«Hai idea di cosa rischia?»

«Quella donna ha fatto una scelta, proprio come me.»

Sigrid le lancia un'occhiataccia, poi si volta. «È una follia» sussurra.

«Sì, una follia totale» concorda Ericha.

«Da quanto tempo sei con loro?»

«Con questo gruppo? Da pochi giorni.»

«E non sai da dove arrivano?»

«No, non devo saperlo. È così che funziona, nessuno di noi conosce più dello stretto necessario.»

«Nessuno di noi? Chi sarebbero gli altri?»

Ericha ci pensa un istante, poi risponde: «Altre persone, Frau Schröder, molto più coraggiose di me e di lei. Ma io faccio del mio meglio. E, se sono costretta a mentire e a rubare, non mi tiro certo indietro».

Inizia a cadere una pioggia leggera; Sigrid recupera un foulard e se lo lega intorno alla testa. «Ma questo non significa che sia giusto.»

«Forse no» replica Ericha. «Ma decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato è una questione troppo grande in questo momento. Molto più grande di qualche cedolino per la spesa.»

«Dunque li tenete in quella soffitta orrenda senza farli uscire, come se fossero prigionieri?»

Ericha alza le spalle. Che altro potrebbe fare?

Sigrid scuote la testa. «Non vedono mai la luce del sole?»

«Di giorno un po' di luce filtra dai buchi del tetto, insieme al freddo e talvolta alla pioggia. Di notte appendono delle coperte per tapparli, così possono accendere le candele.»

«E come fanno quando devono andare in bagno?»

«La zia apre la porta due volte al giorno, così ci vanno uno alla volta. È il momento più pericoloso. Lei ha un fratello che è iscritto al partito e spesso le fa visita senza avvertirla. Non gli piacerebbe trovare un ebreo in bagno. Di notte, se non possono farne a meno, fanno pipì in un secchio. Abbiamo appeso una coperta per garantire loro un minimo di intimità.»

Sigrid deglutisce e scuote la testa, mentre si passa una mano sulla fronte. Il silenzio tra loro è come una spugna che assorbe la debole pioggia.

«E allora,» chiede Ericha alla fine «cosa farà adesso?»

«Dici a me?»

«Sì. Chiamerà la polizia?»

«No» ammette Sigrid, con poco entusiasmo. «Se ti può consolare, non ti eri sbagliata su di me, non chiamerò la polizia.»

«E poi?»

«E poi cosa? Poi niente, Fräulein Kohl.»

«Oh no, Frau Schröder, mi dispiace, ma non sarà così facile tirarsi fuori. Lei voleva sapere tutto, io l'avevo avvertita. È stata lei a insistere. Nel momento in cui ha messo piede in quella stanza, lei si è compromessa.»

«Ah sì? È così che funziona?» chiede Sigrid caustica, ma Ericha si limita ad annuire.

«Sì, dal punto di vista morale è così che funziona.»

«Già, il tuo dovere morale.»

«Questa sera lei mi ha detto di essere una buona cittadina tedesca. E adesso ha l'opportunità di dimostrarlo. Tutto qui.»

«Non ho bisogno di prendere lezioni di morale da una diciannovenne.»

«Certo che no, lei è più matura e molto più saggia di me. Può anche credere che le basterà chiudere gli occhi ancora per far scomparire tutto quello che ha visto. Torni a casa, Frau Schröder, torni al suo lavoro, alle sue occupazioni quotidiane e si convinca che lei non può farci nulla quando la polizia va a strappare le sue vittime dai loro letti.»

«Nel mondo ci sono anche i criminali, ragazzina, non solo le vittime» ribatte Sigrid. «Ci sono persone che commettono reati e meritano l'arresto.»

Di colpo Ericha si calma. «La primavera scorsa c'erano tre bambine ebree che frequentavano la scuola per ciechi; non avevano più di dieci anni. Uno dei nostri stava cercando di spostarle in una casa sicura a Friedrichshain, ma qualcosa è andato storto. Forse sono stati visti da qualcuno che li ha denunciati, o forse non sono stati abbastanza veloci, ma quando la SIPO li ha arrestati in strada non c'è stato niente da fare. Le bambine non sono più tornate. E adesso mi dica, per favore, Frau Schröder, quale reato crede avessero commesso? A parte quello di essere ebree, intendo.»

«Non hai diritto di rivolgerti a me con questo tono» reagisce Sigrid, arrabbiata. «Sei davvero un'ingenua.»

«Lei trova?» protesta la ragazza. «Solo perché considero la moralità un valore?»

«No, perché pensi che tutto sia bianco o nero, e che non esistano sfumature nel mezzo.»

«Questo non è vero» obietta Ericha. «L'ho imparato molto bene. Il compromesso è all'ordine del giorno, è scontato. Una donna incinta con una stella gialla sul braccio è costretta a camminare sotto la pioggia battente perché gli ebrei non possono salire sui mezzi pubblici. Basta guardare dall'altra parte. La polizia picchia un uomo davanti ai suoi figli. Non guardare. Le SS spingono una fila di scheletri vestiti di stracci sporchi e a strisce, proprio al centro della maledetta strada. E allora guardate dall'altra parte. A forza di distogliere lo sguardo si finisce per diventare ciechi, per non vedere più nulla.»

«Basta, ne ho abbastanza di tutto questo.» Sigrid fa per andarsene, ma la ragazza la afferra per un braccio.

«Lasciami, per favore» le ordina, con voce ferma.

«Frau Schröder, lei ascolta la BBC? Se la ascolta, allora non può non sapere cosa succederà a quelle persone che si trovano nella soffitta della zia, se la Gestapo dovesse riuscire a prenderle.»

Sigrid fatica a respirare. «Gli inglesi raccontano sempre storie atroci, anche nell'ultima guerra. Fa parte della loro propaganda.»

Ericha le si avvicina, con glí occhi spiritati, come se volesse leggerle dentro. «E adesso chi è l'ingenua tra noi due?»

Sigrid la guarda, sbatte le palpebre per far scivolare via le gocce di pioggia.

«Prenda la sua decisione, Frau Schröder. Lei non è come quelle persone nella soffitta, lei ha ancora il privilegio di poter scegliere. O sì o no.»

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Per anni, prima della guerra, la burocrazia nazionalsocialista aveva codificato l'odio antisemita attraverso numerose strettoie legali. Le Leggi di Norimberga, con il loro linguaggio ufficiale, avevano privato gli ebrei della cittadinanza tedesca, li avevano banditi dalle professioni, calunniati, ridicolizzati e penalizzati, segregandoli di fatto dalla vita del paese.

Erano ingiuste, forse, ma erano pur sempre leggi. Come poteva un singolo cittadino opporsi a esse?

Giravano voci di ebrei picchiati per strada e prelevati nel cuore della notte dai loro letti per essere torturati nei bunker dalle Camicie brune, ma sembravano episodi isolati e non riguardavano l'intera comunità ebraica. Erano storie terribili, ma bastava chiudere gli occhi e le orecchie durante la vita di tutti i giorni. Non era difficile. E in fondo cosa si poteva fare?

Ma poi, nel novembre del 1938, un impiegato del ministero degli Esteri che faceva parte della delegazione tedesca a Parigi fu ucciso con un proiettile allo stomaco. Il suo aggressore era un giovane ebreo di nome Grynszpan, che non fece resistenza all'arresto da parte della polizia francese, e dichiarò di aver compiuto quel gesto in segno di protesta contro la persecuzione tedesca degli ebrei polacchi. L'impiegato morì due giorni dopo, il 9 novembre, giorno del quindicesimo anniversario del Putsch di Monaco, il fallito tentativo di colpo di stato organizzato da Hitler, il giorno più sacro del calendario nazionalsocialista.

Sigrid era rimasta incinta. Al terzo mese di gravidanza, la suocera le fece notare che non aveva messo su abbastanza peso e le ripeteva che stava facendo morire di fame il bambino. Sigrid aveva nausee continue, riusciva a mandare giù solo un boccone a colazione. Mamma Schröder si sedeva di fronte a lei al tavolo della cucina e controllava che mangiasse tutta la pappina brodosa che le aveva preparato e che non ne lasciasse nemmeno una goccia nel piatto.

«Potrebbe spegnere la sigaretta, per cortesia?» le chiedeva Sigrid. «Mi dà fastidio.»

«Tutto ti dà fastidio» ribatteva la suocera brontolando, ma poi la spegneva nel piccolo posacenere. «Mangia» le ordinava. «Il mio nipotino deve fare un'abbondante colazione.»

Sigrid sospirava. «Come fa a sapere che è un maschio?»

«Lo so e basta» replicava la suocera scrollando le spalle.

Era un autunno freddo. Qualche mese prima Sigrid aveva iniziato a lavorare mezza giornata per l'Ufficio Brevetti, e ora la madre di Kaspar insisteva perché lasciasse l'impiego.

«È assurdo che ti ostini a volerci andare.»

«Io voglio lavorare.»

«Mio figlio non è forse in grado di provvedere a te?»

«Mi piace avere qualcosa da fare, non voglio dedicarmi solo alle faccende domestiche.»

«E perché no? È quello che faccio da quando avevo dodici anni. E che fanno tutte le donne rispettabili.»

«Mamma,» interveniva Kaspar con aria malinconica da dietro il giornale «per favore, lascia stare.»

«Perché dovrei lasciar stare?»

«Perché Sigrid non è come te, lei ha bisogno di stimoli intellettuali.»

«Ah sì? E io cosa sarei, un pezzo di legno?» rispondeva piccata la donna, ma poi il figlio riusciva a correggere il tiro.

«No, sei una madre.»

«Be', se è per quello, anche tua moglie lo sarà, tra sei mesi. Devo essere io a spiegartelo?»

«Lascia stare e basta.»

«Pensa di avere bisogno di stimoli intellettuali fino a quando partorirà il bambino sul pavimento di un ufficio polveroso?»

«Scusatemi» mormorò d'un tratto Sigrid. Sapeva che non ce l'avrebbe fatta ad arrivare fino in bagno, così vomitò nel lavello della cucina.

La suocera guardò la scena senza avvicinarsi. «E adesso dovrei lavare i piatti lì dentro?»

Anche in ufficio a volte le capitava di sentirsi poco bene. Un leggero malessere quando si sedeva, seguito da fitte improvvise che le facevano perdere il controllo delle dita sui tasti della macchina per scrivere. La settimana precedente aveva parlato di questi spasmi con il medico, durante una visita alla quale l'aveva accompagnata mamma Schröder, ma lui aveva minimizzato le sue lamentele e preoccupazioni.

«Queste giovani madri, tutte così nervose» aveva commentato sogghignando in maniera poco delicata. «Frau Schröder, esercito la professione da trentasette anni e posso assicurarle di avere sentito di tutto. Non c'è niente di cui preoccuparsi: è solo che la gravidanza, come potrà confermare la sua deliziosa suocera, non è tutta rose e fiori.»

Mamma Schröder aveva inarcato un sopracciglio con aria perplessa, ma non aveva protestato.

Mentre tornavano a casa, Sigrid le aveva detto: «Non mi piace».

«Chi?»

«Il dottore, non mi piacciono i suoi modi.»

«Non ti devono piacere. Lui è lo specialista, non importa che lo trovi simpatico oppure no.»

«Non mi ha dato nulla da prendere.»

«Cosa avrebbe dovuto darti, nuora?»

«Qualcosa per il dolore.»

«Come ha detto lui, la gravidanza non è tutta rose e fiori. La vita è piena di dolori, non puoi certo eliminarli. E poi quel medico ha fatto nascere mio figlio, ovvero tuo marito, nonché padre del tuo futuro figlio, senza alcun problema. Dovresti apprezzare la sua esperienza.»

Sigrid tacque. Di colpo si vergognò di se stessa, per avere chiesto qualcosa che eliminasse il dolore. Era una debole, sua nonna sarebbe inorridita. Sua madre, sul letto di morte, aveva implorato, supplicato, pianto e singhiozzato perché qualcuno la aiutasse ad alleviare le sue pene atroci, ma Sigrid, che si trovava nella stanza accanto, si era tappata le orecchie per non sentirla.

Un giorno, mentre rientrava dal lavoro, incontrò una donna sul treno; era la tipica Hausfrau berlinese, dallo sguardo pacato e imperturbabile, che reggeva in mano una sporta enorme. La donna lanciò un'occhiata a Sigrid e le chiese: «Non ti senti molto bene, vero?».

Molte facce nel vagone si erano girate a guardarla, un po' preoccupate; Sigrid si era limitata a replicare: «Sono al terzo mese».

«Ecco perché hai quella faccia.» La donna aveva annuito: ora le era tutto chiaro. «Del resto la gravidanza non è altro che sofferenza. Sei al terzo mese? Credimi, sarà sempre peggio. Ci sono passata cinque volte: la più devastante è stata la prima, il mio Hansel. Quel mostriciattolo mi ha fatto vomitare tutte le mattine, per mesi, e poi al momento di venir fuori se l'è pure presa comoda. Diciotto ore di travaglio. Mi sembrava di partorire un vitello» aveva concluso la donna con una risatina. «Sono passati dodici anni, ma adesso non è che vada molto meglio: è ancora una peste.»

Arrivata al Ku'damm, Sigrid era scesa dal treno, ma sulle scale della metropolitana era stata di nuovo colpita da fitte lancinanti che le serravano il ventre in una morsa. Fu costretta a fermarsi e aggrapparsi al corrimano per non cadere a terra. Giunta in cima alle scale, si fermò per riprendere fiato, e aspettare che il dolore diventasse più sopportabile. In strada alcune persone stavano gridando e nell'aria c'era un odore acre; Sigrid sentì un sapore di cenere in bocca. Sollevò la testa e si asciugò la fronte. Molti passanti stavano indicando un punto lontano e anche lei vide la colonna di fumo denso e nero che si innalzava al di sopra dei tetti fino alle nubi.

Una donna fermò la bicicletta in mezzo alla strada e rimase a guardare con gli occhi spalancati. «Mio Dio, che cos'è? Cosa sta andando a fuoco?» si mise a gridare.

Un uomo corpulento le rispose con un ghigno malvagio. «La sinagoga di Fasanenstraße.»

Prima che salisse sull'autobus della T-Line, si erano levati altri sei pennacchi di fumo. Un'autopompa era sfrecciata a sirene spiegate. Dal finestrino dell'autobus vide una donna anziana che si prendeva cura di un uomo seduto sul marciapiede con un fazzoletto in mano e la bocca insanguinata. Un gruppetto di ragazzi stava tirando sassi alla vetrina di un negozio. Sulla porta era stata dipinta una stella a sei punte; la vernice gialla sgocciolava sulle parole MORTE AGLI EBREI!

«Adesso sì che i giudei se la vedono brutta!» gridò un uomo seduto nelle prime file dell'autobus. Il silenzio che seguì suonò come una tacita conferma.

Un'altra contrazione; Sigrid spalancò gli occhi per il dolore.

Più tardi avrebbe rivisto tutto quello che era successo nelle immagini del cinegiornale: le sinagoghe divorate dalle fiamme che crollavano in una nube di fuoco; le SS vestite di nero che tagliavano la barba a un anziano rabbino; i presenti che impedivano ai bambini di guardare la scena oppure li sollevavano in aria perché vedessero meglio; negozianti ebrei che spazzavano il tappeto di cocci di vetro, scintillanti come frammenti di cristallo.

L'immagine che più la turbò fu quella di un pianoforte a coda che era stato scagliato giù da un balcone del secondo piano e giaceva in strada, ridotto in frantumi. La carcassa puntava verso il cielo, le corde saltate, i tasti sparpagliati dappertutto come denti rotti. L'immagine le era rimasta impressa perché, ai suoi occhi, rispecchiava una violenza in un certo senso più intima di quelle impersonali mostrate dalla pellicola in bianco e nero. La bellezza del pianoforte era rovinata per sempre. Il dolore si unì a quello dell'ennesima contrazione, Sigrid si voltò e andò via.

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Sigrid è immobile come una statua, in attesa. Prima di decidersi a parlare, Egon deglutisce e fissa in faccia la verità.

«Poco prima dell'inizio della guerra, mia moglie mi aveva implorato e supplicato di trasferirci in Palestina. Aveva un cugino che diceva di essere sionista. Aveva pagato una fortuna per aggiudicarsi una cabina su un piroscafo portoghese ed era riuscito a entrare nei territori del Mandato sotto il naso degli inglesi. Ma io pensavo che la vita all'interno di un kibbutz non facesse per me. Non mi interessava mangiare sabbia a colazione insieme a un gruppo di fanatici religiosi. Ma mi sono comunque dato da fare per ottenere i visti, e non per qualche località termale nel Mar Morto. Mio fratello aveva preso contatti con l'ambasciata americana, diceva di avere una liaison con la moglie del segretario della legazione, ma non si poteva mai essere sicuri di quello che raccontava. La Gestapo lo ha catturato prima che potessi verificare la sua storia, quel coglione. Forse loro sono riusciti a fargli dire la verità, ma io non lo saprò mai perché tre settimane dopo hanno mandato a mia cognata un'urna con le sue ceneri e il conto da pagare per le spese della cremazione.» Le immagini sullo schermo si riflettono come macchie sul suo viso. «Cercai di riprendere il lavoro che aveva iniziato con l'ambasciata, ma era troppo tardi, gli americani non parlavano più con gli ebrei, poi la Wehrmacht ha invaso la Polonia e non era più possibile lasciare la Germania.» Fa un respiro profondo. «È stato allora che Anna è rimasta incinta. Era arrabbiata con me, diceva che sarebbe stata colpa mia se suo figlio fosse nato in un campo di concentramento. Io le ripetevo che esagerava, che i nazisti erano dei maiali, ma che capivano il valore dei soldi e quindi potevo trattare con loro. Per un po' ci riuscii; passò un anno, poi un altro ancora. Ero stupito di me stesso. Avevamo perso l'appartamento di Schöneberg, ma avevo trovato un altro posto vicino al fiume. Un po' rumoroso, ma non era male. Era abbastanza pulito e avevamo cibo e carbone per la stufa.»

È che, dopo averla vista, avevo bisogno di sentire il suono della sua voce.

«È lì che abitavi quando hai scopato con me la prima volta?»

«Era quella poltroncina laggiù, vero?»

«Non ne hai la più pallida idea, quindi non fare finta di ricordartelo.»

Lui scrolla le spalle. «Forse. Ma sono certo che tu invece te lo ricordi bene.»

«La tua arroganza non ti assolve» replica lei, poi lo riporta in carreggiata. «Quindi tua moglie ha ricevuto una lettera dalla jüdische Gemeinde che le ordinava di presentarsi alle SS insieme alle figlie, è così che continua la storia?»

«Sì, è andata così.»

«E tu ti sei organizzato per vivere in clandestinità: hai preso in affitto alcune stanze sopra un magazzino a Rixdorf.»

«Esatto. Mi costavano una bella somma, ma a quanto pare l'onesto padrone di casa faceva affari anche con la Sicherheitspolizei: prima prendeva soldi dagli ebrei, poi dalla Gestapo. Arrivarono di notte, mentre dormivamo. Riuscii a buttarmi giù dalla finestra e a scappare sui tetti, ma fui l'unico a mettersi in salvo. Forse sarebbe stato meglio che fossi caduto dal tetto, sarebbe stata una fine molto più nobile, vero?»

«Quindi non sei stato arrestato in un caffè. Non sei fuggito come un disperato durante i lavori forzati. E non sei ritornato in un appartamento vuoto sopra a un magazzino. Erano tutte bugie.»

«Un uomo che scappa mentre la moglie e le figlie vengono catturate? Non è proprio un atto eroico. Ma a quell'epoca pensavo che sarei riuscito a tirarle fuori. Che cosa se ne faceva la Gestapo di una donna e di due bambine? Avrei potuto ricomprarle, pagare per riaverle, così ho rispolverato un'identità che avevo utilizzato anni prima e ho iniziato a darmi da fare. Ho scoperto dove le avevano condotte e ho stabilito un accordo con un tizio di nome Dirkweiler, uno del campo di smistamento di Große Hamburger Straße. Non è stato difficile. Quelli della Gestapo sono avidi come delle puttane quando trovano qualcuno che è disposto a riempire loro le tasche. E Dirkweiler lo era più di tutti gli altri. Prometteva mari e monti, diceva di poter liberare un centinaio di ebrei soltanto con la sua firma, ma poi esigeva sempre di più. Così arrivò la fine di febbraio e la polizia organizzò un'imponente operazione congiunta: Gestapo, Kriminalpolizei, persino plotoni di Waffen-SS, svuotarono le fabbriche e caricarono gli ebrei sugli autocarri. Ne arrestarono più di diecimila. Tutti í campi di raccolta erano pieni, incluso quello di Große Hamburger Straße, così qualcuno ordinò di liberare un po' di spazio. Tre giorni dopo, Dirkweiler mi comunicò di aver ordinato il trasferimento della mia famiglia a Theresienstadt, in Boemia. Lo chiamava il "campo del paradiso". Sarebbero rimaste lì, vive e ben nutrite, fino a che io avessi collaborato con le sue operazioni.» Egon fissa la luce che arriva dallo schermo. «È così che sono diventato un cacciatore.» Egon scrolla le spalle. «Ero in gamba. Quando si lavora nel commercio dei diamanti, si impara a leggere i volti delle persone. È un po' come riconoscere l'autenticità delle pietre preziose con una sola occhiata. Puntavo un tizio qualsiasi in un caffè e lo fissavo, finché non mi guardava, e allora capivo. Ero diventato un esperto nell'arte del tradimento. Un giorno Dirkweiler mi ha convocato nel suo ufficio; era felice, grazie a me stava facendo bella figura con i suoi superiori, e voleva dimostrarmi il suo apprezzamento. Aveva messo le grinfie su una bottiglia di brandy Napoleon, probabilmente requisito nella cantina di qualche ebreo. Era di seconda scelta, ma lui lo considerava un premio, e voleva condividerlo con me. Era un grande onore, dal suo punto di vista: un ufficiale delle SS che invita un ebreo a bere una bottiglia di cognac non si era mai visto.»

Sigrid serra i denti. «E tu cos'hai fatto?»

Egon la guarda, solo per un momento. «Gli ho detto che non mi importava del suo brandy, e nemmeno delle sigarette, degli orologi e degli altri gingilli. Non mi interessavano più. Se voleva che continuassi a fargli fare bella figura con í suoi superiori, doveva fare una cosa per me.»

«Una cosa per te» gli fa eco Sigrid.

Egon sospira. «All'inizio non ha reagito, forse era curioso, voleva sentire la mia richiesta, sapere cosa potesse essere tanto prezioso per uno come me, più degli oggetti di contrabbando. Così gliel'ho detto: volevo che facesse rientrare mia moglie e le mie figlie a Berlino.»

Sigrid rimane immobile. Egon ha lo sguardo fisso, come se si trovasse ancora davanti all'ufficiale delle SS. «Di colpo, Herr Untersturmführer non era più così felice. Un attimo dopo, era balzato in piedi e batteva il pugno sul tavolo gridando che lui non prendeva ordini da un giudeo. Ma era una sceneggiata, avevo capito tutto guardandolo in faccia. E forse lo avevo sempre saputo.»

Egon si ferma un attimo, trae un respiro profondo prima di proseguire. «Il giorno dopo mi ritrovai su un treno con un agente della Gestapo, un certo Purzel. Non era neanche tanto male, ne avevo conosciuti di peggiori. Era un macellaio, ma, a modo suo, era persino premuroso. Gli piaceva fare giochetti con le carte. Forse pensava di farmi un favore dicendomi la verità. Anna e le bambine non erano state inviate al "campo del paradiso": il 26 febbraio erano state destinate a un campo in Polonia, un posto che si chiama Auschwitz. Alla stazione, quando le hanno strappato dalle braccia una delle bambine, Anna si è messa a gridare in mezzo alla folla. Alle SS non piace che ci siano scene di panico durante i trasferimenti, non sopportano le donne che urlano. Così una guardia l'ha colpita alla testa con il calcio del fucile, talmente forte da ucciderla. E poi ha gettato il cadavere sul treno.»

La sua voce è piatta, priva di emozioni, ma ha lo sguardo fisso nel vuoto. «Questa è la storia che mi ha raccontato Purzel. Probabilmente pensava di farmi un favore, di compiere un gesto di umanità, chissà. Quando gli ho conficcato il coltello nel ventre, è rimasto molto sorpreso, forse persino un po' deluso. In quel momento è terminata la mia carriera con la Geheime Staatspolizei.»

Sigrid piange. Vorrebbe toccarlo, vorrebbe sentire la consistenza del dolore sul volto di lui, ma teme di bruciarsi le dita. C'è qualcosa che arde sul suo viso. Tutto quello che riesce a fare è asciugarsi le lacrime e domandargli: «E le tue figlie?».

«Come faccio a saperlo?» chiede al buio che lo avvolge, poi si volta a guardare Sigrid. Per un attimo la fissa come se la stesse valutando, come se fosse una gemma preziosa. «Vieni via con me» le sussurra.

Per un attimo lei si sente svuotata. «Non posso.»

«Certo che puoi. Tutto è possibile. Credevo che ormai lo avessi capito anche tu. Vieni via con me.»

Lei scuote la testa. «E come facciamo?»

«Come facciamo? In treno: Madrid non è lontana, meno di un giorno di viaggio.»

«No, io ho delle cose da fare qui, ci sono delle persone che dipendono da me.»

«Dipendono da te? Per quanto tempo ancora? Quanto ci vorrà prima che la Gestapo venga a bussare alla tua porta, nel cuore della notte? Ho visto quello che fanno negli scantinati di Große Hamburger Straße, ce ne sono altri in giro per la città. La parola tortura non rende l'idea di quello che succede lì dentro.»

«Non mi spaventi.»

«Io non voglio spaventarti, voglio solo salvarti la vita.»

Sigrid osserva la luce che si è accesa negli occhi di lui.

«Vediamoci qui, domani, c'è una matinée» le propone lui.

«Non posso.»

«Sto elaborando un piano. Certo, è un po' rischioso, ma se funziona avrò dei soldi anche per te, potrai comprare una decina di passaporti. Però mi serve quel ferro che hai nella borsetta.»

«Che cosa ti serve?»

«La pistola.»

«Cosa devi farne?»

«Niente, dammela e basta.»

Lei esita, ha lo stomaco in subbuglio. «E se poi mi viene voglia di spararti?»

«Puoi sempre chiedermi di restituirtela» le risponde Egon allungando la mano verso di lei.

Alla fine lei gli passa il piccolo oggetto metallico scintillante, che lui si infila subito in tasca. «Non aspettarmi, domattina non ci sarò.»

«Lo vedremo. Potrebbero succedere molte cose prima di domani: il mondo potrebbe spostarsi dal suo asse, le montagne potrebbero emergere dal mare, gli asini potrebbero imparare a volare. E potrebbe persino succedere che una donna cambi idea» conclude Egon, poi scivola via dal posto accanto a quello di lei.

Fuori, in strada, Sigrid cerca con lo sguardo il Kommissar con le grandi orecchie e lo individua mentre sta comprando un giornale da un veterano di guerra. Questa volta è proprio contenta di saperlo lì. Tenta di non perderlo di vista tra la folla della stazione. All'interno del vagone, lui si siede dall'altra parte del corridoio e si concentra sul giornale. Non è uno di quei giornalacci di partito, come il «Völkischer Beobachter», ma una rivista scandalistica, famosa per le storielle piccanti e gli annunci con donne poco vestite. Sulla prima pagina c'è un mucchio di crani coperti di fango e il titolo Colpa della Russia!

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