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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione 15 Ringraziamenti Introduzione 17 Del vivere con la differenza Parte prima Il pianeta Capitolo primo 55 La razza e il diritto di essere un umano Capitolo secondo 97 Cosmopolitismi a confronto Parte seconda Albione Capitolo terzo 135 'Has it Come to This?" Capitolo quarto 185 La dialettica negativa della convivialità 231 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 17Introduzione
Del vivere con la differenza
La società multiculturale pare essere stata abbandonata alla nascita. Giudicata impraticabile e lasciata a se stessa, la sua morte per conclamato disinteresse viene annunciata con grande strepito da ogni parte. La sua salma sta per essere deposta in mezzo alle varie ansie della "guerra al terrore". I responsabili della sua scomparsa sono l'indifferenza istituzionale e il risentimento politico, alimentati dalla distruzione del welfare e dall'azzeramento dell'idea stessa di bene pubblico a opera di privatizzazioni e imposizione della logica di mercato. La recrudescenza del potere imperiale degli Stati Uniti ha fatto del multiculturalismo un aspetto dello scontro tra civiltà monolitiche e incompatibili, trasmettendo un surplus di energia negativa in questo delicato processo postcoloniale. In Europa, i partiti che danno voce a un'opposizione generalizzata all'immigrazione hanno trionfato alle elezioni. Xenofobia e nazionalismo si rafforzano. In Gran Bretagna, le difficoltà che sorgono da quella che viene ora vista come una costrizione, irrealistica o indesiderata, a trovare un compromesso pacifico con stranieri e alieni, confermano in qualche modo questi amari sviluppi. È come se ogni desiderio di coniugare la diversità culturale con un ordine civico ospitale (capace, per esempio, di tradurre i termini locali in altre lingue o di vedere l'immigrazione come una potenziale risorsa invece che come un danno certo) dovesse essere ridicolizzato o aggredito. Certo, basta guardarsi un attimo intorno per avere conferma che la società multiculturale non è morta davvero. Quel fragoroso annuncio è un vero e proprio gesto politico, un atto di wishful thinking. È volto ad abolire ogni aspirazione alla pluralità e a consolidare la crescente percezione secondo cui sarebbe illegittimo che la multicultura possa e debba essere promossa dal governo nell'interesse pubblico. In circostanze del genere, la diversità diventa una componente pericolosa della società. Apporta solamente debolezza, caos e confusione. Dal momento che l'unanimità è la fonte migliore della forza e della solidarietà richieste, sarà l'omogeneità e non la diversità a costituire la nuova parola d'ordine. Piuttosto che lamentare la fine di iniziative che, in realtà, hanno gettato discredito sul sogno di una società multiculturale e lo hanno ridotto all'arido dogma di un multiculturalismo armonizzato a priori, il libro offre una difesa eterodossa di questa utopia novecentesca di tolleranza, pace e rispetto reciproco (Flugel 1951). In tale prospettiva, sostengo che i conflitti politici che caratterizzano la società multiculturale possono assumere una veste molto differente se intesi come elementi strettamente legati a un orizzonte segnato dalla storia imperiale e coloniale. Anche se questa storia, marginalizzata e largamente misconosciuta, emerge solo in funzione della nostalgia e della melanconia, essa rappresenta una riserva di connessioni inaspettate e di complesse risorse interpretative. Il passato imperiale e coloniale continua a dar forma alla vita politica dei paesi iper-sviluppati-ma-non-più-imperiali. Il discorso che segue intende mettere in guardia dai ritratti della vita imperiale e coloniale di stampo revisionistico che sono proliferati negli ultimi anni (v. David 2002; Ferguson 2002). Questi lavori, peraltro di ampia diffusione, possono salvare la coscienza nazionale, ma aumentano la marginalità della storia coloniale, rifiutano la sostanza delle sue lezioni e ostacolano lo sviluppo del multiculturalismo, rendendo l'esperienza imperiale meno profonda e potente di quel che realmente fu, quanto a capacità di dare forma alla vita delle potenze colonizzatrici. Un bilancio del genere, revisionistico e ormai di senso comune, è fuorviante e pericoloso perché alimenta l'illusione che la Gran Bretagna sia o possa essere scollegata dal suo passato coloniale. Coerentemente, gli assertori di questa posizione guardano con favore al fatto che si stia insediando una nuova forma di dominio coloniale, parte di un processo di globalizzazione fortemente militarizzato. È corretta anche la loro idea che una frequentazione del comportamento degli imperi europei ha molto da insegnare ai teorici contemporanei di geopolitica imperiale. Sbagliano, però, nel non realizzare che le ambiguità e i difetti delle relazioni coloniali passate sono ancora presenti, e anche nel non considerare che queste conseguenze possono essere implicate nel creare e amplificare molti problemi attuali. Ecco allora che i significati non chiariti della storia coloniale e del suo possibile valore per un multiculturalismo futuro riemergono nel nuovo ruolo globale assunto dagli Stati Uniti, successori degli imperi europei, sconfitti e trasformati nel corso del ventesimo secolo. Ancora più preoccupante è che quando trovano il modo di interrompere la trance in cui è immersa la cultura del consumatore contemporaneo, storia e memoria coloniale sono di solito purgate per promuovere la nostalgia dell'Impero o celebrate in modo da arruolarle a sostegno delle nuove forme di dominio coloniale, oggi appoggiate dai mezzi economici e militari a disposizione di un ordine globale unipolare. Questi modelli (elusi) di autoconsapevolezza e riflessione storica non sono naturali, automatici o necessariamente a beneficio di dominanti o dominati. Invece di reinflazionare i miti e strumentalizzare la storia imperiale, sostengo che un confronto schietto con i dettagli squallidi e brutali del passato coloniale del mio paese dovrebbe essere condotto in maniera da risultare utile, in primo luogo, per plasmare il carattere delle sue emergenti relazioni multiculturali, e in secondo, fuori dai propri confini, per sfidare quegli aggiornamenti del concetto di sovranità escogitati per venire incontro ai sogni di un nuovo ordine imperiale. Gli approcci revisionistici a nazionalità, potere, diritto e storia della dominazione imperiale sono, ovvviamente del tutto compatibili con le inedite regole geopolitiche elaborate dopo l'11 settembre. Tali approcci sono stati approntati anche per adattarsi alla macchina economica del capitalismo leggero e lavorano al meglio quando la sostanza della storia coloniale e le ferite della dominazione imperiale sono state mistificate o, meglio ancora, dimenticate. Col formarsi di modelli di autorità globale postcoloniali e post-guerra fredda e con la conseguente riconfigurazione delle relazioni tra mondi ipersviluppati, in via di sviluppo e a sviluppo bloccato, è importante chiedersi quali siano le prospettive critiche che potrebbero nutrire la capacità e il desiderio di vivere con la differenza, in un pianeta sempre più diviso ma anche sempre più coimplicato. Abbiamo bisogno di sapere quali sono gli spunti e le riflessioni che potrebbero aiutare individui ansiosi e società in crescente differenziazione a far fronte con successo alle sfide implicate dal convivere con il non familiare, senza con ciò diventare fobici o ostili. Abbiamo bisogno di considerare se la scala sulla quale misuriamo identità e differenza possa essere produttivamente alterata, in modo che l'estraneità degli stranieri diventi sfocata e altre dimensioni, indici di un'affinità elementare, possano essere riconosciute ed essere rese significative. Abbiamo anche bisogno di considerare in che modo una deliberata assunzione delle storie di sofferenza del ventesimo secolo possa fornire risorse per una pacifica accoglienza dell'alterità, ponendola in rapporto a una comunanza fondamentale. In particolare, abbiamo bisogno di chiederci come si possa trasformare un'aumentata familiarità con gli effetti sanguinosi del razzismo – e le specifiche azioni dei governi coloniali da esso ispirate e legittimate – in una lezione di applicabilità più generale, nei complessi contesti contemporanei segnati da relazioni sociali multiculturali. Questa possibilità non deve implicare l'esaltazione della condizione delle vittime o portare a stilare una sorta di classifica delle ingiustizie perpetrate in ogni tempo e luogo – dove la posizione occupata dalle vittime ha sempre l'aria di rimanere l'unica loro proprietà. Suggerirò, quindi, non scorciatoie di questo tipo, ma l'idea che l'etica e la politica multiculturale possano avere come premessa un umanismo attivo e planetario, capace di cogliere in maniera unitaria il carattere universale della nostra strutturale vulnerabilità a torti che tendiamo a prendere in esame separatamente. [...] Tutte queste difficoltà possono essere esaminate guardando al rifiuto di considerare quella politica della razza che, in realtà, ci rende tutti "colorati". Né l'umanismo né l'antiumanismo si sono trovati a proprio agio o entusiasti, se sollecitati ad affrontare l'impatto distruttivo del pensiero e della gerarchia razziale sui propri modi di comprendere storia e società. I problemi si sono moltiplicati laddove si è abusato dell'idea di cultura, semplificandola, strumentalizzandola o banalizzandola, e in particolare accoppiandola a nozioni di identità e appartenenza eccessivamente fisse o troppo disinvoltamente naturalizzate quali fenomeni esclusivamente nazionali. Ricalibrare gli approcci alla cultura e all'identità, in modo che siano meno facilmente reificati e quindi meno esposti a questi usi impropri, pare una degna ambizione di breve termine, compatibile con l'obiettivo di lungo termine di un multiculturalismo rivisitato e politicizzato. In effetti, è doppiamente benvenuto perché richiede la rinunzia agli appelli a buon mercato, oggi di moda, nei confronti di differenze assolute, nazionali ed etniche. L'abituale ricorso alla cultura come frattura non componibile va interpretato con attenzione. È stato spesso un atteggiamento difensivo, adottato da minoranze o da maggioranze quando immaginano, erroneamente, che le tenui certezze della "razza" e dell'etnia possano costituire una protezione unica contro i vari assalti postmoderni alla coerenza e all'integrità del sé. Sembra che siamo condannati a doverci relazionare con noi stessi secondo le leggi ferree di una meccanica culturale, se vogliamo tenere insieme le nostre identità, in bilico e perennemente instabili. In tale contesto, la differenza e la gerarchia razziale possono essere fatte giocare con apparente spontaneità come una forza stabilizzatrice. Possono mettere a disposizione risorse biologiche date per ancorare un mondo sociale sempre più inospitale e solitario, e per assicurare il destino di ognuno all'interno di un ambiente turbolento.
Accettare che razza, nazionalità ed etnia siano delle invarianti limita
l'ansia che sorge con la perdita di certezza sul chi si è e dove si è di casa.
L'insondabile complessità della vita sociale viene riarrangiata nella forma di
un immaginario manicheo, in cui i corpi non sono che unità codificate e
prevedibili che obbediscono alle regole di una biologia culturale profonda,
incise una volta per sempre nell'inaccessibile interiorità del genoma. Le
logiche di natura e cultura si sono incrociate, ed è soprattutto il potere della
razza che fa sì che esse parlino la stessa lingua deterministica.
Usare la razza per ripensare potere e politica La razza è stata essenziale nell'elaborazione dell'anatomia politica del diciannovesimo secolo. Quando divenne un concetto propriamente scientifico, la razza continuò a essere un importante aspetto della geopolitica europea in transizione verso un predominio globale che fu sostenuto e legittimato da un'applicazione creativa delle idee di Darwin. L'evidente riluttanza del pensiero sociale del ventesimo secolo a considerare il razzismo qualcosa di diverso da un'ideologia, o a vedere la razza come qualcos'altro che un effetto diretto di una naturale "lotta per l'esistenza", è un'estensione di un vecchio schema in cui assunzioni ad hoc riguardo progresso, nazionalità e sopravvivenza venivano sovradeterminate da, e rese congruenti con, diverse forme di teoria razziale. Quando gli imperi europei furono abbattuti o scomparvero, questi problemi non erano stati ancora superati. Gli aspetti razziali dell'ideologia fascista e le guerre contro i poteri coloniali riportarono l'attenzione verso il razzismo. Le guerre di liberazione degli africano-americani ne fecero una materia urgente. L'interesse si raffreddò quando quei conflitti si smorzarono, e a quel punto aspiranti professionisti di ontologia storica si fecero circospetti in fatto di razza e di razzismo. I più scelsero di perseguire le proprie critiche radicali al potere e all'identità in acque più calme, solitamente dove la creazione di differenze sessuali e di genere potesse essere esplorata tranquillamente, senza offendere le sensibilità politiche di minoranze razziali ed etniche che non apprezzavano che la loro singolarità fosse decostruita e fatta apparire assurda. Questo sviluppo può anche essere guardato in maniera più scettica. | << | < | > | >> |Pagina 42Alieni nemiciLa vessata questione del rapporto tra le differenze culturali e i principi che strutturano gli Stati nazionali è diventata un tema di enorme rilevanza politica e giuridica dopo gli attacchi agli Stati Uniti dell'11 settembre. Quegli eventi sono stati largamente interpretati quali momenti di un conflitto tra civiltà entrate in rotta di collisione. In effetti, la "guerra al terrorismo" dell'amministrazione Bush potrebbe essere considerata l'evento capace di fare ritornare alla vita i giganti civilizzatori addormentati, l'Occidente e l'Oriente. L'integrità di queste entità omogenee e monolitiche è data per scontata, ma, nel caso dell'Occidente, è significativo che, per quanto armata fino ai denti, questa totalità iperprotetta risulti insicura, angosciata dal fare i conti con la propria sopravvivenza e tormentata dalla consapevolezza del proprio inevitabile declino. Tale consapevolezza innesca un'ossessione apparentemente psicotica per il confronto tra la fedeltà politica locale e immediata, assicurata dai cittadini, e gli obblighi in capo a prigionieri, profughi, stranieri, coloni e dissidenti. Queste insicurezze hanno coinciso con l'inaugurazione di una versione più ampia di quel meccanismo polarizzante celebrato nella nota definizione di Schmitt, secondo cui la politica è capace di assimilare e attivare l'opposizione, originariamente teologica, amico-nemico (Schmitt 1927, pp. 27-28). La decisione del presidente Bush di costituire un impianto di relazioni politiche in cui non essere con lui, con il suo governo e, per estensione, con gli Stati Uniti, è elemento sufficiente per definirsi come loro nemico, non ha fatto che irrigidire e militarizzare la politica. La possibilità di un qualche legame più cosmopolita rispetto al sentimento di appartenenza nazionale è stata fortemente scossa. Le ricadute governamentali della sua iniziativa bellicista hanno messo in luce, entro l'UE e gli Stati Uniti, l'esistenza dello status infraumano di non-cittadini. All'interno di questo conflitto, apparentemente senza fine, sono state inaugurate inedite procedure legali che sono risultate ostiche da analizzare non essendo stati chiariti i loro antecedenti coloniali. Per più di due anni è stato negato l'accesso all'assistenza legale agli oltre 600 detenuti rinchiusi a Cuba, al "Camp Delta", dal governo americano. Queste persone, inoltre, sono state separate dai numerosi ed eterogenei paesi sovrani cui erano legati per nazionalità o cittadinanza. Questi uomini erano trattenuti indefinitamente e senza essere accusati di essere criminali o prigionieri di guerra, ma in quanto "battlefield detainees" e "enemy combatants". Si tratta di oscure categorie paralegali comparse un tempo ai margini dei conflitti. Sono sembrate utili in questo frangente perché hanno contribuito a popolare quello spazio d'eccezione, giuridico e governamentale, ritenuto adeguato per accogliere forme infraumane familiari in fasi precedenti del governo coloniale. Questo particolare spazio è governato da regole che sono molto più prossime alla legge marziale che ai codici civili. In tale contesto la delicata questione della soggettività legale dei prigionieri non può essere sollevata. Siamo nella info-war, e a quei terroristi non sarà dato il palcoscenico di un processo pubblico. La loro dubbia battaglia non sarà certo sostenuta dall"ossigeno della pubblicità". Val la pena chiedersi in che modo l'eccezionalità del loro status sia legata ai concreti precedenti stabiliti durante le guerre coloniali. Questi conflitti furono sempre condotti fuori dalle regole, sedimentatesi nel corso del tempo, con cui si tenevano sotto controllo le diverse forme di violenza che si avevano tra popoli e nazioni propriamente civilizzati. In quella onorevole compagnia, era più probabile che fosse riconosciuta la distinzione tra combattenti e non combattenti e che tutti i prigionieri catturati potessero persino essere trattati umanamente – invece che essere sommariamente condannati a morire in quello che, allora, era considerato un atto spontaneo di igiene razziale o di pulizia etnica. È ben noto che, riconoscendosi una certa reciprocità razziale, solo particolari tipi di armi furono giudicati accettabili tra gli europei. Non ci furono invece restrizioni nell'impiego creativo di tecnologie di sterminio, nei loro diversi incontri con le orde non civilizzate del pianeta. | << | < | > | >> |Pagina 50Il patriottismo a sponsor statale e l'assolutismo etnico sono ora dominanti, e il nazionalismo è stato riorganizzato per adattarsi alle nuove circostanze sociali e politiche in cui l'Occidente nel suo complesso e le zone in cui abitiamo sono ancora sotto attacco. Tuttavia, l'opera implicata nel conoscersi e nel comprendere le norme tradizionali che hanno definito la propria cultura ufficiale non è semplice come avrebbe potuto essere nel passato. Tecnologia, deindustrializzazione, consumismo, atomismo e disgregarsi delle forme familiari hanno cambiato carattere e contenuto di queste culture etniche e nazionali quanto o persino più di quanto fatto dall'immigrazione. Vedremo che sotto la pressione degli elementi livellanti e omogeneizzanti della globalizzazione culturale, l'identità nazionale e la coscienza nazionale hanno dovuto diventare oggetto di intervento governamentale condotto in forme raffinate. Le nuove tecnologie del sé neo-nazionale, soprattutto nella forma dell'elaborato spettacolo sportivo, sono un tratto rilevante di questa fase, in cui si è accentuato il fascino delle forme di identificazione sub- e sovra-nazionali. In Gran Bretagna, i nostri leader più tetragoni ci hanno confortato con una nuova regola, secondo cui da tutti i nuovi arrivati, d'ora in poi, ci si aspetterà che imparino e aderiscano alle norme tradizionali e ai valori, per quanto nel paese possano non essere praticati diffusamente. È forse significativo, in questo contesto, che alcuni dei giovani inglesi di discendenza asiatica implicati nei disordini dell'estate del 2001 siano stati sentiti rivolgersi ai razzisti bianchi che li attaccavano non con offese razziali, che invertissero gli insulti lanciati nei loro confronti, ma con frasi ben più provocatorie: loro, a differenza di quelli che si credevano razzialmente superiori, non erano disposti a mettere i loro genitori anziani e i loro nonni nelle case di cura. Un giovane intervistato dal «Daily Mirror» sfidò il folklore civiltario sulle origini del conflitto con un'importante e poco considerata spiegazione di come fosse nato l'odio dei bianchi contro gli asiatici:"Ti darò un esempio del perché gli siamo così tanto antipatici", disse sfiorando il miglior telefonino Nokia sulla piazza. "È l'invidia. Vedi, cominciamo a lavorare giovani – io ho cominciato ad aiutare mio padre a 11 anni – e qualsiasi cosa che compriamo, la paghiamo in contanti. A 17 anni abbiamo messo via abbastanza soldi per la nostra prima macchina. Può costare 2 mila sterline. Un paio di anni dopo la vendiamo e ne compriamo una da 5 mila sterline, e a 21 anni abbiamo una BMW nuova di zecca" (Jones 2001). Il tramonto dei movimenti socialista e femminista, impegnati a tener viva quella che potremmo chiamare una solidarietà aperta e non nazionalistica, ha contribuito a questa situazione, in cui il nazionalismo culturale, il patriottismo a buon mercato e l'assolutismo etnico costituiscono gli influenti schemi preconsci su cui si fondano identità politica e analisi dei conflitti postcoloniali. Il prossimo capitolo esplorerà il modo in cui la sconfitta di quelle utopie si sia accoppiata all'ascesa di un movimento dei diritti umani translocali che risolve le discrepanze tra gruppi diversi in una concezione armonica ma anche astratta, frustrante e talora etnocentrica dell'umano. | << | < | > | >> |Pagina 135Capitolo terzo
"Has It Come to This?"
I racconti degli atti di eroismo compiuti dagli ardimentosi piloti degli Spitfire e degli Hurricane furono importanti, per me bambino cresciuto nel dopoguerra. Le loro imprese antinaziste costituirono una dimensione del mio universo morale. Eppure, quando gli aeroplani rombarono sopra le teste durante la cerimonia del funerale della regina madre, nel 2002, fu impossibile non chiedersi perché quel particolare momento mitico di comunità e di rafforzamento della nazione fosse stato in grado di durare, mantenendo una tale presa sulla cultura e sull'autorappresentazione della Gran Bretagna. Perché quelle immagini marziali – la battaglia d'Inghilterra, il blitz e la guerra contro Hitler – circolano ancora e, cosa più importante, individuano ancora l'ora più alta della nazione? Com'è possibile che la loro potenza sia potuta rimanere intatta nonostante il trascorrere del tempo, e perché continuano a mantenere l'esclusiva sul modello desiderabile di vita in comune, tanto da essere ripetutamente evocate in modo da mettere in prospettiva il presente, caotico e multiculturale, e trovarlo insoddisfacente? Ogni spiegazione plausibile del nazionalismo inglese postmoderno deve essere abbastanza complessa da rispondere a queste domande. Deve essere anche capace di riconoscere che la prospettiva di una sia pur parziale restaurazione dell'omogeneità (da lungo tempo scomparsa) del paese produce sentimenti di conforto e compensazione eccezionalmente potenti. La cura di questa dolorosa perdita è rappresentata di solito dal recupero o dalla preservazione di una whiteness messa in pericolo – e dall'adrenalinico trionfo sul caos e sulla novità che quella vittoria implica. Se questa spiegazione parziale vuole essere valida, dovrà rendere conto del modo in cui il nazionalismo britannico si è interfacciato con il suo razzismo e la sua xenofobia, ma deve affrontare anche un'ulteriore sfida interpretativa. Abbiamo bisogno di sapere come sia accaduto che il tepore che scaturisce dal corroborante militarismo della nazione si sia felicemente combinato con la poco originale architettura morale di un mondo manicheo in cui una serie di coppie oppositive – bianco e nero, selvaggio e civilizzato, natura e cultura, bene e male – possono sovrapporsi ordinatamente l'una sull'altra. Dovremo considerare i piaceri che risultano dall'esperienza del sentirsi felici, gloriosi e vittoriosi in un contesto in cui la caratteristica miscela etnica della nazione, fatta di fortuna, forza d'animo e ostinazione, può essere identificata e fatta valere. Rivisitare il sentimento della vittoria in guerra offre la migliore prova che la civiltà britannica, pur minacciata, è in moto progressivo verso la sua realizzazione storica. Queste particolari combinazioni di affetto e sentimento fanno sì che si invochi ancora la guerra contro i nazisti. L'obiettivo è che noi britannici prendiamo conoscenza di chi siamo e di chi eravamo, in modo da convincerci che siamo ancora buoni, mentre i nostri nemici incivili sono irredimibilmente cattivi. In ogni caso, non è ovvio né il come né il perché delle generazioni per cui la guerra è più mito e fantasia che memoria riconoscano ancora un senso nei rigidi valori marziali del paese. Citazioni politiche della seconda guerra mondiale, fatte finché si stanno perseguendo altri obiettivi (la riconquista delle Falkland o la caduta di Saddam Hussein), hanno spremuto la storia dell'antifascismo ufficiale così tanto che essa, ormai, non può più svolgere tutto l'importante lavoro culturale che in misura crescente le viene scaricato. Una generazione disorientata, cui tutta la conoscenza del conflitto arriva per giri molto lunghi, di solito via Hollywood, è ancora indotta a usare artefatti costosi come memoria vicaria della seconda guerra mondiale, facendone gli strumenti privilegiati per trovare e restaurare un senso pur sbiadito di cosa significa essere inglesi. In queste condizioni, è divenuto istruttivo chiedersi perché quella guerra riesca, più di ogni altra cosa, a stringere le persone attorno al nucleo, sempre meno compatto, di una cultura e di una storia attraversate da una perdita di certezze sui contenuti che le costituiscono e sulla loro nobile missione mondiale. In fondo, il Regno Unita è stato impegnato in un sacco di altre guerre dopo il grande trionfo del 1945. Le sue truppe sono state inviate a combattere nelle Indie Orientali Olandesi, in Palestina, Malaysia, Carea, Kenia, a Suez, Cipro, Oman, Brunei e Borneo, in Arabia Saudita e Aden, Dofar, Irlanda, nelle Falkland, nella guerra del Golfo, e infine nei Balcani. Nessuno di questi conflitti – persino la guerra endemica in Irlanda del Nord e la funzionale istantaneità della vittoria della signora Thatcher alle Falkland – può istituire uno spazio ideologico e mitologico comparabile. Scala, durata e lontananza dalla madrepatria di alcuni di questi luoghi sono spiegazioni insufficienti del perché questi scontri siano largamente scomparsi dall'orizzonte. I problemi storici e concettuali sollevati diventano più complessi quando ci rendiamo conto che il potere totemico della grande guerra antinazista sembra addirittura aumentare, alla morte dei veterani. D'altro canto, la misteriosa evacuazione dei conflitti postcoloniali della Gran Bretagna dalla coscienza nazionale costituisce di per sé un significativo evento storico e culturale. Queste guerre dimenticate hanno lasciato segni rilevanti sul corpo politico, ma la loro memoria sembra essere stata assorbita dalla soverchiante immagine della Gran Bretagna in guerra contro i nazisti, attaccata eppure capace di stare in piedi e, alla fine, di trionfare. Questa immagine, prodotta con apparente spontaneità dal basso e talvolta oggetto di operazioni gestite politicamente dall'alto da Corona e governo, ha costituito la base dell'instabile equilibrio su cui si è retto il paese dopo il 1945. È stata indirizzata verso quello che è diventato uno stato di crisi permanente dell'identità nazionale, che ultimamente ha raggiunto un notevole punto di transizione e cambiamento nella resistenza popolare al sostegno dell'invasione dell'Iraq da parte degli USA, così come nel dibattito sui termini in cui dovrebbe ora procedere l'alleanza privilegiata ma ambigua con la superpotenza di George Bush. | << | < | > | >> |Pagina 149Nel 2003, l'inattesa marea di opposizione popolare al sostegno accordato dal governo britannico alla potenza militare statunitense ha creato occasioni per sviluppare questa inedita concezione dell'Inghilterra e per ridefinire il suo ruolo nel mondo. In quel momento, non solo divenne possibile saggiare le versioni autoritarie della modernizzazione che si spacciava per emancipativa, propugnata in malafede dal New Labour: si poté anche immaginare cosa sarebbe successo se ci si fosse separati dai modelli politici e culturali della forma mentale nazionalista che Anthony Barnett aveva identificato, molto tempo fa, come "churchillismo". Il nome di Churchill ha fornito un'etichetta particolarmente appropriata per questo groviglio di idee e sentimenti imperiali, dal momento che proprio costui aveva colto l'unicità della Gran Bretagna nel suo porsi all'intersezione di tre distinte formazioni geopolitiche: il mondo nordatlantico, l'Impero in via di trasformazione in un commonwealth, l'Europa. Questa particolare posizione definì gli obblighi della Gran Bretagna e specificò quali sarebbero state le azioni da compiere per essere e rimanere una grande potenza. I vantaggi per il paese sarebbero stati sostanziali, specialmente se ci si fosse liberati degli schemi socialisteggianti e poco flessibili di quello che potremmo ora chiamare "old Labour". Prima l'Impero/Commonwealth, poi l'acquisizione di armi nucleari furono decisivi per mantenere la statura del paese e per giustificare la sua presenza al tavolo dei Grandi. Le amministrazioni politiche del dopoguerra assegnarono priorità diverse ai vari elementi implicati nella gestione di questo schema tripartito, ma sono rimasti costanti i suoi tratti di fondo e la loro continuità, a livello immaginario, con la grandezza che distingue il carattere e il genio inglese. Lo sconcertante entusiasmo di Tony Blair per la diplomazia delle navi da guerra deve essere visto in questo contesto. Il suo ricorso a queste vecchie tattiche registra la fine dell'ordine politico in cui l'influenza globale dell'Unione Sovietica bilanciava la potenza e gli interessi americani, ma viene inteso in maniera più precisa se guardato come l'ultimo episodio della storia, più lunga e scomoda, delle mosse disperate con cui i governi britannici hanno cercato di attenuare gli effetti più aspri del loro inesorabile declino.Dovremmo ponderare la possibilità di rompere con una prospettiva sulla nostra nazione e sui nostri interessi dominata dal churchillismo, prima che altre campagne, contro l'Iran e la Siria o, più semplicemente, contro i richiedenti asilo, i nemici interni più recenti, ci ricaccino indietro per la stessa strada deprimente. Ciò che segue ha a che fare con il contesto culturale e le manifestazioni di questa formazione patologica e, ovviamente, con la multicultura vibrante e ordinaria che ora le si oppone. | << | < | > | >> |Pagina 189Per ogni spirito intrepido pronto a sostenere l'idea che in Gran Bretagna il razzismo esiste, o pronto a suggerire che è un problema ben radicato e meritevole di una valutazione politica e di un'attenta riflessione morale, è probabile che si leveranno almeno due indignate voci di protesta. La prima è spesso di tipo liberale. Sostiene, grosso modo, che fare della "razza" un oggetto dell'azione di governo conduce a una forma di trattamento speciale accordato illegittimamente a intrusi o ospiti temporanei, che non ne hanno titolo. La seconda è di solito conservatrice. Si fonda sull'idea che le identità nazionali, culturali e razziali costituiscono l'unico centro omogeneo e immutabile della vita sociale e della comunità morale. Questa posizione si professa non sorpresa dal fatto che, a molte generazioni di distanza da quando il cavallo di Troia della nuova immigrazione dal Commonwealth fu trainato per le strade pulite, pacifiche e ingenue dell'Inghilterra, gli ultimi discendenti di quei primi invasori mantengano provocatoriamente le culture aliene dei loro antenati. Lo scriteriato esperimento sociale che li ha condotti in Gran Bretagna era destinato a fallire fin dall'inizio. Il loro arrivo (inopinato) e il loro soggiorno (indesiderato) sono stati catastrofici perché hanno svenduto la coesione sociale e culturale necessaria per mantenere gli obblighi reciproci e la tolleranza che hanno caratterizzato la vita britannica e su cui si è fondato il suo welfare.Se aggiorniamo il quadro facendovi entrare l'impatto della cultura consumista del neoliberismo, capace di rendere la differenza razziale glamour, potremmo essere fuorviati dal fatto che un ristretto numero di britannici neri e asiatici può beneficiare del gusto per l'esotico sorto in reazione alle difficoltà del vivere con la differenza, dell'essere fianco a fianco con l'Altro. Questa confusione si aggrava quando scopriamo che culture stimolanti e non familiari possono essere consumate in assenza di un qualsiasi rapporto faccia-a-faccia o di un contatto diretto con i loro creatori reali. L'intensificarsi del desiderio per ciò che era in precedenza stigmatizzato e proibito può anche essere interpretato come parte di quel collasso della fede nelle proprie risorse culturali che aveva alimentato lo sviluppo di identità nazionali e locali insicure e ansiose. I nuovi odi di oggi provengono in misura minore dal sapere antropologico, di cui si presuppone l'attendibilità, centrato sull'identità fissa e la differenza prevedibile dell'Altro. Le loro nuove fonti risiedono nel problema di non essere capaci di localizzare la differenza dell'Altro nel lessico dell'alterità diffuso a livello di senso comune. Le persone diverse sono ancora odiate e temute, ma l'avversione nutrita nei loro confronti, oggi, è niente se comparata all'odio rivolto verso la minaccia, ben più grave, della mezza-differenza e del parzialmente familiare. Aver mescolato significa aver preso parte al grande tradimento della civiltà. Tutte le tracce inquietanti delle ibridazioni che ne sono risultate devono perciò essere escisse dalle aree - riordinate e sbiancate artificialmente – in cui si sviluppa una cultura che aspira a una purezza impossibile. | << | < | > | >> |Pagina 216I congestionati spazi metropolitani europei ospitano confronti spiazzanti con un'alterità aliena che non mostra timori reverenziali. Questi gruppi strani e minacciosi si rivelano essere gli stessi che conoscevamo già, saldamente bloccati sotto le insegne della razza. Le vecchie gerarchie prodotte dalle escursioni del pensiero razziale nell'anatomia politica sono riciclate e sostenute perché verificano l'assolutezza delle culture. In altre parole, il gergo culturale trae rinnovata forza dalle declinazioni della differenza razziale che vi vengono fatte filtrare. I critici e gli storici di questo periodo devono divenire più sensibili alle connessioni oblique che hanno trasformato la storia culturale europea in un campo di battaglia. Se deve essere intellettualmente e politicamente produttivo, un lavoro critico deve essere pronto ad affrontare il diniego della fase imperiale e l'impostazione accademica revisionista, sempre più diffusa, che la supporta. Un'opposizione efficace a razzismo, nazionalismo e assolutismo etnico deve essere capace di conferire un significato diverso alle complicate figure discorsive che, tacitamente, hanno fatto del senso comune a codice razziale un'opzione attraente per le popolazioni europee, ansiose e confuse, e per i loro leader politici, sempre più cinici e manipolatori – categorie alle prese, in entrambi i casi, con i rischi e le opportunità della globalizzazione.Sicuramente, va anche tenuto conto del più complessivo clima etico in cui, per l'Europa, può essere istituito un collegamento tra l'acceso razzismo governamentale o popolare e il Terzo Reich. D'altro canto, visto che anche la storia di quel genocidio viene mistificata e dimenticata, il potere correttivo della vergogna per l'apparentamento non può essere elemento in grado di assicurare o rinnovare risorse etiche scarse. Bisogna ripetere che le credenze biopolitiche, in precedenza autorizzate dalla gerarchia razziale old style, persistono in forma di senso comune anche dopo che il linguaggio della differenza culturale assoluta e del determinismo genetico hanno cominciato a guadagnare presa. Le tracce residuali del razzismo imperiale si combinano facilmente con nozioni meccanicistiche di cultura e un organicismo determinista a formare un cocktail mortale. Queste operazioni non sono più condotte esclusivamente dai neofascisti e dall'ultradestra. Fanno gola anche alle aspirazioni della sinistra socialdemocratica. In effetti, la metafisica populista di "razza", nazione e identità non fa che mescolare queste categorie sempre più fluide. | << | < | > | >> |Pagina 221Gli antirazzisti sono ora obbligati a giudicare dove finiscono i sentimenti nazionali accettabili e dove comincia il razzismo xenofobo. Dobbiamo trovare un coraggio nuovo per riflettere sulla storia del nazionalismo politico intrecciatasi con le idee di razza, cultura e civiltà, e per comprendere il modo in cui il dominio imperiale e coloniale europeo ha legato razzismi e nazionalismi in forme che hanno ancora effetti sul presente. Il duro lavoro della costruzione di una cultura postcoloniale comprende molte altre sfide: la prima punta alla realizzazione di un liberalismo più degno. Questa variante, per esempio, potrebbe prepararsi a essere profanata da riflessioni sistematiche sulle sue ascendenze e implicazioni coloniali (Tully 1995). Potrebbe anche essere in grado di affrontare gli impulsi che declinano le divisioni razziali, etniche e nazionali in strutture quasi impercettibili, tanto potenti quanto logicamente collegate. Il secondo conflitto implica un attacco alle massime pragmatiche che situano razzismo e antirazzismo fuori dal campo politico, facendoli diventare temi essenzialmente privati, questioni di gusto, preferenze e, alla fine, di scelte a livello di consumi o di stile di vita. Una terza sfida culminerebbe forse in una revisione dei modernismi europei e delle loro complesse relazioni con le esperienze coloniali e imperiali, in patria e fuori. Una quarta avrebbe per oggetto la comprensione dell'impatto di letteratura, cultura, arte e musica black sulla vita europea, e in particolare l'esame del modo in cui, nella seconda metà del ventesimo secolo, un'attrazione per diverse culture africano-americane fece parte del modo in cui l'Europa si riprese dopo la caduta del fascismo.
Questi
puzzle
interpretativi sono diventati più difficili da risolvere poiché il terreno
instabile su cui è stato eretto l'edificio dell'antirazzismo politico – in larga
parte, dovremmo ricordarlo, a opera di nuovi arrivati e di loro sostenitori – si
è ristretto. Questo notevole contributo alla qualità della vita civica e
alla salute politica dell'Europa passa inosservato, sotto gli occhi di gente
che, invece, pensa a ciarlare del conflitto infinito tra solidarietà locale e
diversità straniera. Non è stato l'antirazzismo a chiedere forme più profonde e
flessibili di democrazia? Una solidarietà dinamica e degna non poteva forse
essere articolata attorno al nobile desiderio di non lasciar spazio al razzismo
nelle culture politiche democratiche dell'Europa?
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