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| << | < | > | >> |Pagina 15Barcellona, settembre 1956Carlos Infante notò con soddisfazione che quella mattina il cielo era sereno e splendeva il sole. Solitamente non gli importava nulla del tempo che faceva. Gli bastava avere un ombrello se pioveva o il suo vecchio giaccone se faceva freddo. Ma quel lunedì era un giorno speciale, o almeno prometteva di esserlo. Nella sua monotona vita, nella monotona vita di tutti gli spagnoli, un semplice appuntamento inaspettato poteva trasformarsi in un evento eccezionale. E lui a mezzogiorno aveva un appuntamento talmente insolito da sembrargli addirittura irreale. Aveva valutato la possibilità che si trattasse dello scherzo di uno dei suoi colleghi giornalisti, oppure di un equivoco, di un malinteso. Eppure no, il timbro postale indicava chiaramente che la lettera veniva da Parigi. La rilesse ancora una volta mentre faceva colazione con una misera tazza di caffè nella sua cucina semibuia: «Egregio signor Infante, ho letto con enorme interesse il suo articolo del mese scorso sul quotidiano "La Vanguardia". Mi chiamo Lucien Nourissier. Sono medico psichiatra e docente alla Sorbona. Ho voluto concedermi un anno sabbatico per potermi dedicare a un lavoro di ricerca su una particolare tipologia di criminali chiaramente affetta da patologie psichiche. E il personaggio cui lei ha dedicato il suo lavoro mi ha affascinato fin dal primo istante. Conosco la storia del movimento partigiano nel vostro paese, il maquis spagnolo, ma non avrei mai immaginato che uno dei suoi membri fosse ancora latitante. Le caratteristiche di questa "Pastora" da lei delineata nel suo scritto sono di enorme interesse per le mie ricerche. Un individuo dalla personalità antisociale, crudele e spietato, dall'identità sessuale incerta, capace di sopravvivere per anni in montagna sottraendosi ai suoi innumerevoli persecutori, al punto da trovarsi ancora oggi a piede libero, rappresenta per me un oggetto di studio irrinunciabile. Desidererei sapere di più su quella donna, riguardo alla quale, ove si eccettui il suo articolo, non credo esista documentazione alcuna...». Per concludere, il professor Nourissier lo pregava di concedergli un incontro a Barcellona. Non capita tut- ti i giorni di ricevere una lettera del genere. «Il mito della Pastora» questo era il titolo dell'articolo che aveva tanto colpito il francese. Cosa del resto comprensibile, perché era forse il solo pezzo interessante che avesse scritto per un giornale. Gli articoli che vendeva non trattavano mai temi troppo avvincenti. «Funghi velenosi, questi sconosciuti», «Gli eroi del ring», «Le grandi collezioni di automobili d'epoca». Non poteva permettersi il lusso di affrontare questioni di maggior peso. Si guadagnava da vivere scrivendo, lo stretto indispensabile per vivere. Con «Il mito della Pastora» aveva costeggiato un territorio pericoloso. In tutti i commissariati di Barcellona era affissa la foto segnaletica di quella donna, la sola che di lei si conoscesse. Era un'immagine strana, che colpiva. La mostrava ritratta a mezzobusto, vestita di nero, con un volto duro e angoloso, gli occhi gelidi. Il poliziotto che gli aveva passato il materiale aveva fatto una cosa sorprendente. Aveva preso un foglio di carta e aveva coperto verticalmente una metà di quel volto: la metà visibile apparteneva senza alcun dubbio a una donna. Poi aveva spostato il foglio e coperto l'altra metà; ora quello che si vedeva nella foto era un uomo. Ovviamente, affinché l'articolo superasse il vaglio della censura, lui si era attenuto alla versione ufficiale dei fatti, e aveva caricato le tinte attribuendo alla Pastora gli epiteti di rigore: «donna senz'anima», «essere violento e spietato», «autrice di un numero incalcolabile di atroci delitti», «iena assetata di sangue»... In realtà sapeva ben poco del personaggio. E poco avrebbe potuto raccontare, al di là di quanto pareva avere affascinato il francese. In ogni caso quell'appuntamento prometteva di essere un momento da ricordare nella sua vita miserevole. Aveva un ammiratore straniero! Non erano molti a poter dire altrettanto in quel suo paese chiuso al mondo. Si preparò con cura. Il suo guardaroba non offriva molto da scegliere, ma almeno si premurò di indossare una camicia pulita, un paio di pantaloni ben stirati. Alle undici uscì e si incamminò senza fretta. Intorno a plaza de Cataluña tutti sembravano muoversi incalzati da un problema da risolvere. Nessuno aveva l'aria di passeggiare per godersi la città. Un'intera folla si spostava da un punto all'altro con la determinazione indifferente dell'abitudine. Infante gettava intorno occhiate sdegnose: impiegati, commercianti, militari, massaie..., prototipi replicati fino alla nausea che si aggiravano come morti in vita. Se non altro lui non apparteneva a nessuna categoria riconoscibile; lui se ne andava per il mondo a modo suo, e basta. Il luogo convenuto per l'appuntamento era il Café Zurich, all'interno se avesse piovuto, fuori se ci fosse stato bel tempo. Infante scelse un tavolino all'aperto, ma sufficientemente al riparo dagli sguardi dei passanti, allontanò con un ampio gesto della mano i piccioni che assediavano il suo angolo e sedette. Si era portato appresso un giornale, sapendo che non ci si può aspettare grande puntualità da un francese arrivato il giorno stesso da Parigi. Ma sbagliava; erano appena le dodici e cinque quando ebbe la certezza di avere avvistato Nourissier fra la gente. Nessuno se non uno straniero porta un basco inclinato a quel modo sulla fronte, come un attore o una donna. Lo osservò per un momento: era alto, prestante, con i capelli di un biondo tendente al rosso, vestito con abiti troppo pesanti per la stagione. Lo vide fermarsi davanti alla prima fila di tavolini e far scorrere lo sguardo sugli avventori come ipnotizzato. Allora si alzò e gli andò incontro, intercettando la direzione del suo sguardo. «Professor Nourissier?». «Carlos Infante, è lei?». Si strinsero la mano senza sorridere, quasi senza guardarsi in faccia. Come se, ritrovandosi l'uno di fronte all'altro, nessuno dei due fosse troppo sicuro di voler essere lì. Infante rimase stupito della padronanza dello spagnolo di quell'uomo, della sua aria malinconica, dei modi eleganti in contrasto con l'espressione smarrita. Lo vide estrarre un paio d'occhiali da sole e nascondere gli occhi di un celeste chiarissimo. «Mi scusi, sono un po' accecato da tutta questa luce». «Come vede questo è un paese felice: i bar sono affollati e il sole splende radioso» ironizzò Infante. «È vero» mormorò il francese con lo sguardo a terra. Venne il cameriere e ordinarono due birre. Quando furono serviti si guardarono con un certo imbarazzo. Infante levò il suo boccale e disse: «Brindiamo a un suo felice soggiorno a Barcellona!». Bevvero. Infante con la foga di un forsennato. Nourissier con misura, assaporando con calma quel primo sorso. Quindi prese a parlare con una certa precipitazione: «Signor Infante...». «Mi chiami Carlos, per favore. Credo che abbiamo su per giù la stessa età. Quanti anni ha lei?». «Quarantatré». «Io trentanove. Non c'è poi una gran differenza. Mi scusi, la stavo interrompendo e di sicuro lei sarà molto occupato». «No, in realtà sono venuto espressamente per vedere lei» disse Nourissier con convinzione. «Volevo farle i miei complimenti per il suo magnifico articolo». «Ha fatto un viaggio così lungo solo per dei complimenti?». «Non ha letto la mia lettera?». «Certo! Quando me l'hanno fatta arrivare dal giornale, sono rimasto stupefatto dalla scoperta di essere conosciuto anche in Francia. E poi ho trovato sorprendente che un illustre professore della Sorbona si interessasse a un tema di portata così locale». «In psicopatologia non esistono temi di portata locale; tutti gli uomini, di qualunque nazionalità, tendono ad assomigliarsi, anche se la donna che lei descrive è forse unica per le sue caratteristiche. Sono convinto che possa rappresentare un oggetto di studio molto importante per le mie ricerche. La sua inchiesta mi è parsa magnifica, davvero». Infante lo guardò con un mezzo sorriso che non significava nulla. Bevve un altro sorso deciso. Poi finalmente sorrise con tutti i muscoli della faccia. «La mia inchiesta è pura spazzatura, mio caro professore, lei lo sa quanto me. Un uomo di scienza non può lasciarsi impressionare da un ammasso di retorica truculenta: "donna senza cuore", "assassina efferata", "mostro della natura"... Non mi sottovaluti, la prego!». «So benissimo che il linguaggio obbedisce a esigenze di ordine... stilistico, diciamo. E tuttavia mi ha impressionato la quantità di particolari che lei conosce riguardo alla storia, la natura, l'orografia della regione dove quella donna finora si è mossa, e sulla mentalità dei suoi abitanti». «In questo non c'è nessun mistero. La mia famiglia è originaria di Cálig, un piccolo paese del Maestrazgo. Sono stato molte volte su quelle montagne: il Mestrat, Els Ports... Sono posti bellissimi, selvaggi, ancora sconosciuti. E la famigerata Pastora è ormai una leggenda: l'assassina che la Guardia Civil non è mai riuscita a catturare. Ma se devo essere sincero, dubito che lei possa ricavare qualcosa di utile dal poco che so». «Stando a quanto lei scrive, quella donna è ancora viva, nascosta da qualche parte su quelle montagne». «Così dice la gente, e così afferma anche la Guardia Civil, ma sono anni che non commette più alcun reato, nessuno l'ha più vista, nessuno sa dove si nasconda e nemmeno da dove cominciare a cercarla. È assai probabile che ormai il suo cadavere stia marcendo in qualche fosso. In ogni caso, anche se io le fornissi una lista dettagliata di tutte le voci che circolano su di lei, ritiene che le servirebbe per la sua ricerca? Temo proprio di no». «Non è questo che voglio da lei». «E allora?». «Io voglio parlare con La Pastora, incontrarla di persona» dichiarò Nourissier, con appassionata solennità. | << | < | > | >> |Pagina 96Mi ero abituata a dormire fuori nelle notti calde. Non tornavo al mas. Preferivo starmene sotto le piante. La gente mi chiedeva se non avevo paura. Paura di cosa? I cani mi svegliavano se veniva qualcuno. Paura dei fantasmi, dicevano i bambini del mas. Fantasmi non ce ne sono. Io lo sapevo anche allora che ci sono solo le cose che si vedono. E poi le pecore mi facevano compagnia. Molto meglio loro dei ragazzini del paese. Non mi dicevano niente e non stavano lì a guardarmi come se avessero visto un mostro o un demonio. Ma quelli che ridevano delle mie sottane lunghe non si azzardavano più, come mi vedevano se ne andavano. «Puzzi di pecora» mi aveva detto uno. «Stai coi fantasmi su in montagna». Erano ignoranti. Puzzavano peggio di me. Io profumavo di rosmarino e di timo, me li sfregavo sulla faccia e sulle mani per avere un buon odore.Sapevo a memoria tutti gli agnelli, uno per uno, tutti. Quando una pecora partoriva, io stavo lì vicino, le davo da mangiare. Era bello vedere gli agnelli appena nati mettersi in piedi, fare due passi e cadere. Ridevo da sola, lassù in montagna, sembravo scema. Le bestie erano morbide quando le toccavi, davano caldo. Mi venivano contro le gambe a cercare le carezze. Mi conoscevano dalla voce, e io conoscevo loro. Con l'andar del tempo imparavo. Venivano a cercarmi in molti dalle altre masserie. Magari si mescolavano le pecore di un gregge con quelle di un altro, non erano marchiate e nessuno sapeva dire di chi fossero. Mi chiedevano di riconoscerle. Io non mi facevo pregare e andavo. Sapevo tutte le bestie di tutti perché la domenica andavo in giro a vederle. Volevo capire quali erano le più belle per accoppiarle col montone, e fare gli incroci giusti per farle nascere sane. Eccome se li riconoscevo gli agnelli, dal carattere li riconoscevo! E le capre le riconoscevo dagli occhi. Quella ha gli occhi di sua madre che è quella là. Per chi di bestie non ne capisce tutte le pecore sono pecore e le capre sono capre. Per me invece no. Certe volte un agnello la madre lo rifiutava, lo cacciava via. E allora io prendevo la madre, la legavo, e l'agnellino glielo strofinavo ben bene sul sedere e sulle mammelle, così prendeva il suo odore e lei lo accettava di nuovo e gli dava il latte. A quindici o sedici anni avevo già la forza di cinque uomini messi insieme, non esagero, andate a chiedere in giro. Non sono mai stato grasso, ed ero una ragazzina magra magra, lunga lunga come un palo. Delle volte c'era da prendere una pecora in spalla, di quelle da mezzo cafís. Per farvi capire quant'è posso dirvi che dodici barcellas fanno un cafís, e ogni barcella saranno dodici quattordici chili. Prima prendevo la pecora e la sdraiavo con la pancia all'aria, poi la prendevo fra la pancia e le zampe di dietro, e op!, d'un colpo me la buttavo sulla schiena. Veniva perfino gente da altri mas a vedere come facevo, perché tanti giovanotti mica ci riuscivano, e una ragazza che lo faceva era un fenomeno. Avevo dodici giorni liberi l'anno, quasi sempre di domenica, uno al mese. Mi piacevano tanto quei giorni. Andavo a vedere le bestie, come vi ho detto, correvo per la campagna, intagliavo il legno con un coltellino e facevo i giocattoli per Diego, che non vedeva l'ora di venire con me. Mi buttavo sull'erba se c'era il sole, e mi rotolavo giù per i prati fino a valle. Quello del bar mi dava una latta di sardine, e così io me la portavo su, la mettevo su una roccia e facevo il tirassegno con le pietre. Mi era venuta una buona mira con questo sistema. La domenica quelli del mas d'en Tena mi davano un'oncia di cioccolata. Io non volevo finirla subito e allora la mordevo piano piano, finché delle volte mi si scioglieva in mano e me la dovevo succhiare. Nei giorni normali mi portavo il mangiare su in montagna: pane, lardo, olive, riso, due pomodori strofinati con l'aglio... non mi ricordo altro. Sì, mi ricordo che delle volte accendevo il fuoco e mettevo su qualcosa: verdure, rape, un po' di cavolo... Quando facevo la pastora, la fame non l'ho mai fatta, magari freddo sì l'ho avuto, d'inverno, ma non sempre. Teresot, Teresot, cos'hai fra le gambe, Teresot? Quando scendevo in paese ricominciavano con questa musica, ma era diverso. Correvo dietro a chi rideva e se lo beccavo lo riempivo di botte. Avevano cominciato a portarmi rispetto perché le davo forte. A stare sempre su in montagna col gregge le mani mi erano venute dure come la pietra. Avevano paura di me, e avevano paura per due motivi: primo, perché potevo far male davvero se mi prendevano i cinque minuti. E poi perché non andavo tanto in paese, ero sempre su al pascolo, e loro non sapevano che tipo ero, che cosa avevo in testa. Parlavo poco, ho sempre parlato poco. Non avevo niente da dire. Cosa dovevo dire, che le pecore e i cani mi facevano compagnia, che mi piaceva dormire fuori e guardare il cielo? Rischiavo che mi prendevano per matta. Con Diego sì, ci parlavo. Lui mi voleva bene e quando mi vedeva scendere per il sentiero si metteva a correre per venirmi incontro. Anche se si stava facendo grande, voleva sempre stare con me. Mi chiedeva questo e quell'altro e io gli insegnavo. Gli insegnavo quel che sapevo, ma non tutto. Teresa, tu come lo sai che viene a piovere? Devi guardare dove sono le nuvole e da dove tira il vento. Teresa, come fai a dire che il gatto è femmina se non l'hai neanche toccato? Se ha il pelo di tre colori è una gatta, si vede subito. Mi veniva sempre dietro, poverino, e io gli rispondevo sempre e avevo tanta pazienza. Era sveglio e non si dimenticava mai niente di quello che gli insegnavo. Quando si era fatto più grandicello veniva con me in montagna, ma sua madre non voleva che gli insegnassi a star dietro alle pecore, perché non voleva farlo crescere pastore. Lui doveva rimanere al mas a lavorare, poteva avere di meglio che stare sempre con le bestie. Tutto quello che ho imparato sulle bestie me lo porterò nella tomba. Non sapevo né leggere né scrivere, ma di bestie ne sapevo più di tutti, e questo lo sapevano anche gli altri come lo sapevo io. | << | < | > | >> |Pagina 177È vero che ai tempi della guerra la gente ne ha passate tante, la fame e tante cose brutte. Io no. Non è che stavo bene, ma almeno ero già abituata a certe cose che gli altri neanche si immaginavano. Dormire fuori, per esempio, mangiare quel che capitava, mai un piatto caldo per giorni. E poi io non ero andato al fronte perché ero donna, e a parte che mi hanno ammazzato un fratello, altri morti non ne ho avuti. Io ero sempre in montagna con le pecore di questa o quell'altra masseria, che tanto cambiare padrone non m'importava perché conoscevo tutto e tutti. Ero dura come una pietra, non dico di no, e non sono mai stata malata, mai una febbre, mai un mal di schiena, e dire che di notte c'era umidità.Tutti lo sapevamo che un giorno o l'altro la guerra doveva finire, e quando poi è finita c'erano quelli che erano contenti perché aveva vinto Franco, e quelli che non erano contenti perché aveva perso la Repubblica, ma stavano un po' meglio tutti perché c'era la pace. Vi ho già detto che di brutte cose ne ho viste, tutti ne hanno viste, ma là dov'ero io la maggior parte delle bestialità che succedevano le sapevo solo perché le raccontavano. Che c'era la guerra si capiva soprattutto da come piangevano le donne. Piangevano e piangevano e raccontavano le disgrazie che erano successe, le canagliate che avevano fatto a un figlio o a un nipote. Tante piangevano perché gli era morto il marito, un fratello, un parente. Faceva male al cuore sentirle. Io lavoravo, e non solo da pastora. Filavo la lana e dicevano che ero brava, mi chiamavano un po' qua un po' là, e così guadagnavo qualcosa. Dopo la guerra mi chiamavano anche per far legna, perché bisognava andarla a prendere su in montagna. Il carbone costava caro e si bruciava la legna. Per me non era pesante perché al pascolo avevo tempo per riposare. E poi mi piaceva perché mi ero messa in testa una cosa importante e dovevo risparmiare. Ne ho fatti di sacrifici; nel '44 avevo ventisette anni, e avevo già messo da parte un bel po'. Spendevo poco o niente, un vestito all'anno, non ero vanitosa, e alle feste prendevo solo un bicchiere, dolci e capricci neanche a parlarne. C'era gente che teneva i soldi nel materasso, dicevano che era il posto più sicuro. Per me era più sicuro sotto una pietra, fuori da La Pobla de Benifassá. Lì non li trovava nessuno, anche se si mettevano in cento a cercarli. E adesso vi dico perché facevo tanti sacrifici. Lo vede questo segno che ho qui? È il segno di un'operazione. Per questo mettevo via i soldi, per pagare il dottore e operarmi. Ero nata col labbro diviso, leporino dicevano i dottori. Era come tagliato, tutto girato, mi faceva la faccia strana. Mi era venuto il complesso. Già non ero tanto bella come donna, mancava solo quel difetto, e per di più che non parlavo bene. Emilia, la mia amica, quella che era rimasta vedova, si era messa a fare la pescivendola, e portava il pesce al dottore di Rossell, che operava questo labbro leporino. L'aveva già fatto a tanti nella valle, e non si vedeva quasi niente. Quando ho avuto i soldi ci sono andata. Si chiamava Sáiz Muñoz, era di Valenza, una brava persona, gli piaceva scherzare. Lui mi dice che va bene, che mi opera, doveva fare un raschiamento e poi cucire così si chiudeva bene. Diceva che poi diventavo bella e bisognava trovarmi lo sposo. Quel giorno c'era lì anche Faustino, dell'Hostalás. Il dottore si volta e fa: «Ecco, questo è proprio lo sposo che ti ci vuole». E Faustino diceva: «No, che io non mi voglio sposare». Sfido, poverino, era più basso di me! Gli facevo paura. Che risate quella volta. Poi il dottore mi ha operata e ha fatto un bel lavoro. Che bel lavoro che ha fatto! Stavo proprio bene. Non da trovare marito, che a me non si è mai avvicinato nessuno in vita mia, nessuno mi ha mai voluta neanche per scherzo. Ma almeno nessuno si accorgeva di quel difetto che avevo avuto e che mi ero fatta operare. Ero contenta come una Pasqua. Io, che non mi guardavo mai allo specchio, me ne sono comprato uno al mercato e non la finivo più di guardarmi la bocca. Allora mi è venuta voglia di farmi la fotografia per mandarla a mio fratello Juan che stava in Francia. Volevo che fosse orgoglioso di me, che vedesse che ero cambiata e non ero più la bambina brutta che aveva lasciato al Els Ports. Così sono andata giù a Rossell. Mi ero messa un vestito che mi stava bene: nero, con una fibbia nella parte davanti che brillava, tutto elegante. Era venuta anche l'Emilia a scegliere, quando ero andata dalla sarta. E allora mi sono messa quel vestito per andare a Rossell e ho detto all'Emilia che volevo anche andare dalla pettinatrice e farmi la permanente. Non lo sapevo dove andare, perché dalla pettinatrice non c'ero mai stata, e lei mi ha detto di andare dalla Aguideta, cosa le dovevo dire e quanto dovevo pagare. Io non sapevo niente. La Aguideta era piccolina e a momenti non mi parlava. Mi guardava con una faccia che sembrava avesse paura a toccarmi. Sempre la stessa storia! Certe volte mi faceva anche comodo, ma certe volte non era mica facile. "Guarda che non ti mangio mica" veniva voglia di dire. Però alla fine mi ha fatto la permanente e sono uscita di lì tutta elegante, col vestito nuovo e il labbro operato. Bisogna proprio dire che facevo una gran figura. Così sono andata al mercato e mi sono fatta fare il ritratto. Il sabato dopo, quando sono andata a prenderla sono rimasta molto contenta, anche il vestito risaltava bene. Mi ero fatta scrivere una lettera per mio fratello, dalla Pepita la d'en Fornell che era andata a scuola. Gli dicevo che di salute stavo bene, che ero contenta, che avevo tanta voglia di vederlo e lo pensavo sempre. E poi gli dicevo dell'operazione, che vedesse com'ero venuta bella nella fotografia. Poi ho messo la fotografia nella busta e l'ho spedita in Francia. Una cosa così non l'avevo mai fatta. Sono cose che si fanno da giovani. Ero rimasta amica con quel dottore, nessuno mi aveva mai trattata bene come lui, e quando andavo a Rossell passavo sempre a trovarlo. Mi facevo accompagnare dall'Emilia perché mi vergognavo e gli portavo dei piccoli regali: certe matasse di lana che avevo filato, di quella più fine. E stavo attenta a essere sempre in ordine, mica doveva pensare che mi aveva operata per niente. Mi uscivano i baffi, e allora me li strappavo, pelo dopo pelo, col dito poggiato contro la lama del coltello. L'Emilia mi voleva bene. Se restavo tutto il giorno da lei non voleva che andassi via da sola col buio e allora mi dava da dormire nel fienile, così stavo ben calda. Una mattina che andava via presto a vendere il pesce, è entrata lì nel fienile e mi ha vista che mi levavo i baffi. Ha fatto finta di niente, e anch'io. Non mi ha detto mai niente. Forse pensava che tanto io ero così e non c'era bisogno di farmi vergognare. Mi voleva bene, l'Emilia, e anche a lei portavo la lana per fare la maglia. Peccato che una così brava donna abbia fatto la vita che ha fatto, vedova tanto presto, con tutti quei figli... Dopo, quando sono andata coi partigiani non le ho mai chiesto niente, per non farle passare dei guai. E se ci penso devo dire che chiedere, quel che si dice chiedere, non ho mai chiesto niente a nessuno. Ti devi arrangiare da te, una volta che hai deciso una cosa. E poi io da sola stavo bene, sarà che ero abituata. Certo, a quei tempi avevo i cani. Erano due, grossi e robusti, e più furbi dei cristiani. Mi venivano dietro dappertutto. Li avevo presi da piccoli, se non li prendevo io li ammazzavano. E non mi sono mai pentita. Certe volte mi sono tolta il pane di bocca per darlo a loro. Un cane ti vede come sei, e non gli importa se sei uomo o donna. | << | < | > | >> |Pagina 182Nourissier fu molto colpito alla vista di Morella: l'imponenza della sua alta rocca, le antiche mura di pietra, il paesaggio che la circondava. Avvicinarsi a Morella era come approdare al cuore di un territorio misterioso. Ma l'inaccessibilità della fortezza lo inquietò, quasi volesse suggerirgli che quello che cercava era inavvicinabile, segreto. L'analogia fra la città chiusa fra le mura e la chiusura dei suoi abitanti non era così fuori luogo, ma Infante non si mostrò disposto a considerarla.«Fesserie» disse. «Tutte impressioni tue». Quella zona lui la conosceva molto meno dei luoghi che avevano lasciato, ma certo non lo avrebbe mai ammesso davanti a Nourissier. Tanto più che l'idea di affrontare una nuova tappa lo tirava su di morale. Aveva cominciato a stancarsi dopo tanti giorni passati a La Sénia. Gli piaceva cambiare, se non altro scenografia. Non era mai stato capace di rimanere fermo troppo a lungo, forse per questo era uno scrittore mancato, si diceva. Per approfondire una storia, un argomento, è meglio essere sedentari, saper perseverare, non arrendersi ai passi falsi o alla mancanza di ispirazione. Di romanzi ne aveva cominciati tanti, ogni volta con grande entusiasmo. Ottimista e sicuro che nessuna difficoltà lo avrebbe fermato, si sentiva capace di inventare, di organizzare, di giocare con le parole, di architettare macchine narrative appassionanti. Ma ogni volta, superata la soglia delle cento pagine, il suo slancio veniva meno. Cominciava ad assalirlo la noia, avere sempre a che fare con gli stessi personaggi lo stancava e ciò che aveva scritto fino a quel momento gli appariva di colpo superficiale, ripetitivo, prevedibile. A quel punto cadeva in una sorta di paralisi, e scrivere gli era del tutto impossibile. Era come se la sua immaginazione si fosse prosciugata, come se non avesse più nulla da dire. Le prime volte aveva attribuito quell'inaridimento ai temi che aveva scelto. Forse non erano abbastanza importanti, forse erano già troppo triti per eccitare la sua mente nel modo giusto. Poi aveva pensato che se c'era una qualità che gli mancava per diventare un vero romanziere era la fiducia in se stesso. E a questo, con l'impegno, avrebbe potuto rimediare. Più tardi, però, era giunto a conclusioni più pessimistiche: non era una sola la qualità che gli mancava, erano molte. Non aveva abbastanza inventiva, senso poetico, profondità, spirito di osservazione. In una parola: non aveva talento. Quell'analisi demolitiva della sua vocazione l'aveva condotto al disprezzo di sé. Se non poteva essere uno scrittore, nessun'altra carriera avrebbe mai destato il suo entusiasmo. Certamente non sarebbe stato un buon insegnante, né un buon giornalista. Avrebbe lavorato per tirare avanti, e basta. Una sola cosa sfuggiva al rigore della sua autocritica: se non altro si era reso conto di essere un incapace e aveva avuto il coraggio di ammetterlo. Molti imbecilli incolpano il mondo dei loro fallimenti. E molti scrivono libri che oscillano fra la perfetta idiozia e il plagio, e hanno addirittura il coraggio di vantarsi di quella che chiamano la loro «opera». Gente da commiserare. Lui non era così, non lo sarebbe mai stato. Era meglio vivere con un paio di solide certezze, per quanto amare, che con la testa piena di vane illusioni. E aveva imparato ad applicare questa filosofia a tutti gli ambiti della vita: se non speri in nulla, nulla ti deluderà. Con un po' di allenamento era possibile sviluppare una tale indifferenza nei confronti del mondo da ritrovarsi pressoché al riparo da qualunque dolore. In fondo, lui era orgoglioso di come viveva. Ma Nourissier sembrava davvero preoccupato. «Smettila di tormentarti! Che la città ti appaia ermetica, va bene. Ma questo non vuoi dire che per noi lo sarà. Il tuo è un atteggiamento molto poco scientifico». «E invece io temo che quelle mura nascondano molte cose». «Le aprirò a cannonate affinché possiamo penetrarvi. E se non hai fiducia in me, cerca di averne almeno nella provvidenza». «Questo sì che sarebbe poco scientifico!». La pensione era più grande e più confortevole di quella che avevano lasciato. In tutte le stanze c'erano uno scrittoio, una stufa elettrica, robusti mobili di legno e abbondanza di coperte e trapunte. Le finestre davano sui campi che si estendevano sul retro. Nourissier provò una certa malinconia ripensando alla sua casa, ma subito si consolò pensando alla tranquillità che quel luogo gli avrebbe offerto per lavorare. Una volta sistemati, uscirono a fare una passeggiata sotto i portici della via principale, dove furono oggetto dei primi sguardi curiosi. Ma a Morella c'era molta gente di passaggio: escursionisti, villeggianti, viaggiatori di commercio... Presto quella curiosità avrebbe ceduto all'abitudine. «Che te ne è parso della signora della pensione?» domandò Infante nel tentativo di cancellare l'espressione cupa sul volto del francese. «Bene». «Mi ha promesso che per cena penserà lei a prepararci qualcosa di leggero. Niente sanguinacci o salsicce. E avremo spremuta d'arancia a colazione. Proprio come piace a te, Lucien!». «Non calarmi nella parte del bambino capriccioso. Un'alimentazione corretta è importante per la salute». «E l'alimentazione di noi spagnoli ti sembra una barbarie». «Quella che impera da queste parti, sì». «Però in Spagna non si cucina col burro, ma con l'olio d'oliva, che è più sano». «Hai ragione». «Non hai mai pensato di venire a vivere in Spagna, dal momento che tua madre era di qui?». «Fu lei a sconsigliarmelo, pur amando il suo paese con tutta l'anima». «È stata lei a dirti che noi spagnoli siamo crudeli?». «No, mi diceva che siete rigidi e bigotti. Che pensate sempre alla colpa, al peccato, al destino, alla morte. Che siete tragici. Ed era convinta che fosse un bene essere un po' più frivoli, cercare la felicità in questa vita, godere dei piaceri della natura, della buona tavola, dell'amore». «Tua madre aveva ragione». «Eppure diceva che la Spagna è un grande paese per l'arte, l'ironia, la passione». «Che fortuna avere una madre come la tua! La mia non mi parlava mai di quello che pensava. A dire il vero parlava pochissimo e ogni volta finiva per dirmi la stessa cosa: "Carlos, tu non combinerai mai niente nella vita, vedrai"». Nourissier, imbarazzato, si sentì tenuto a rimediare: «È evidente che sbagliava». «È evidente che era una donna saggia, e che aveva ragione. E su questo punto ti prego di non contraddirmi, sarebbe molto scortese da parte tua». | << | < | > | >> |Pagina 251Alle otto e mezzo Nourissier scese in sala da pranzo. Ordinò una birra e andò a sedersi al solito posto. La padrona, già avvertita che aspettavano un ospite, aveva apparecchiato il tavolo per tre. Guardò la gente che entrava e usciva. Lo stupiva l'affollamento di quella sera, ne chiese il motivo. Erano cacciatori venuti per i cinghiali. Tanto meglio, nella confusione avrebbero potuto parlare con più libertà. Venti minuti dopo, Infante comparve. Pareva avesse bevuto.«Ti senti bene?» gli chiese. «No, ho solo riflettuto un po'». «Riflettuto e basta?». «Senza un paio di bicchieri, lo sai che non riesco a riflettere». «E sei giunto a qualche conclusione?». «Sì, che dobbiamo andarcene da Morella». «Per questo non avevi bisogno di ubriacarti; è un'eternità che lo dici». «Chi ti ha detto che sono ubriaco?». «Lasciamo stare, Carlos. Solo non capisco come mai ogni volta che qualcuno mi racconta qualcosa di veramente importante, il tuo primo pensiero è scappare». «Ho dimenticato le sigarette in camera, torno subito». Era il suo modo di dire che preferiva non discutere, e Nourissier non lo disapprovava. Cinque minuti dopo comparve il giudice, in abiti da città, impeccabile come se si disponesse a esercitare il suo ruolo di magistrato. I cacciatori si voltarono a guardarlo, ma lui non vi badò. Nello stringergli la mano, Nourissier, che si era alzato in piedi per riceverlo, si accorse con sorpresa che puzzava distintamente di alcol. Pareva che per più d'uno quello fosse stato un pomeriggio gravido di tentazioni etiliche, ampiamente soddisfatte. «È solo, professore?» domandò il giudice. «Il mio collega arriva subito». Come se lo avesse sentito, Carlos Infante sopraggiunse in quel momento. «Che piacere rivederla, signor giudice». Nourissier si accorse che si era lavato la faccia e ravviato i capelli, e che grazie a queste operazioni aveva un'aria molto più presentabile. La cena ebbe inizio con una squisita zuppa tradizionale al timo, alla quale seguì un agnello al forno con patate. Il vino rosso che accompagnava il menu era aspro e forte, tanto che Nourissier lo assaggiò appena. Ma evidentemente i suoi commensali ritenevano di non avere ancora raggiunto il tasso alcolico ottimale, e continuavano a versarsi da bere l'un l'altro. Per concludere si deliziarono con una finissima crema catalana. Il giudice aveva l'aria di essere più che alticcio. La padrona si avvicinò e chiese con un mezzo sorriso se per il caffè non preferissero passare nella saletta in fondo. «Il giudice starà molto più comodo di là, su una bella sedia a dondolo. Lo dico nel caso si sentisse stanco». La saletta così cerimoniosamente offerta non veniva aperta quasi mai, e vi stagnava un'aria gelida, cosa che a Nourissier non parve del tutto controproducente. Forse il freddo sarebbe servito a snebbiare le menti dei due bevitori. E probabilmente funzionò, perché Infante, non appena il giudice si fu seduto sulla tanto decantata sedia a dondolo, lo mise alle strette: «Signor giudice, credo che ora dovrebbe cominciare a raccontarci quello che ha in serbo per noi. Non vorremmo fare troppo tardi». La padrona entrò e depose il vassoio con caffè e cognac su un tavolino. Se ne andò subito e richiuse la porta dietro di sé. Infante guardava il giudice con insistente fissità. Il giudice, che continuava a perdersi in chiacchiere mentre attendeva il momento di ricominciare a bere, si ritrovò a parlare da solo. Il silenzio che lo circondava era tale che si rese conto lui stesso di non poter più rinviare il suo racconto. Ma tentò un ultimo sotterfugio: «Forse non è il momento adatto, dopo una cena così copiosa. Non potremmo rivederci domani?». Infante batté una manata sul tavolo che fece tintinnare tazze e cucchiaini. «La pianti con le sciocchezze, Santillana! Dica quello che ha da dire e facciamola finita con questa farsa!». Nourissier, imbarazzato nel veder trattare a quel modo un uomo anziano, fu sul punto di intervenire. Ma si trattenne. Forse era meglio lasciar fare a Infante. Santillana, lo sguardo a terra, balbettava frasi sconnesse. Poi, di colpo, si coprì il viso con le mani e si mise a piangere. Infante, inflessibile, strinse il pugno. Stava per gridare. Allora Nourissier gli fece segno di tacere e si rivolse al giudice con voce pacata: «Cosa c'è, Eusebio, si sente tormentato dai ricordi?». Il vecchio, senza alzare la faccia rigata di lacrime, annuì. «Mi tormentano ogni giorno, ogni notte, ogni minuto della mia vita. Sono un miserabile, un essere vergognoso, e non merito il titolo di giudice». Dopo un silenzio afflitto, si riprese, e parlò con perfetta lucidità, come se non avesse bevuto neppure un bicchiere. «Olivier Herrera era nato in Francia, figlio di spagnoli, ed era venuto qui per arruolarsi nell'esercito repubblicano. Sposò una ragazza di Alcalà de Xivert. Alla fine della guerra fu condannato a vent'anni, ma uscì con l'amnistia del '43, non essendosi macchiato di delitti di sangue. Tempo dopo la Guardia Civil venne a sapere, attraverso le delazioni di alcune persone tratte in arresto, che alla sua masseria veniva dato aiuto alla guerriglia. La casa fu messa sotto sorveglianza, e quando fu chiaro che l'Herrera dava ospitalità a tre partigiani, venne formata una squadra di diverse guardie, due commissari di polizia e alcuni civili volontari. L'operazione era a carico del comandante Hernández de los Ríos, di Morella. Fu per questo che toccò a me istruire il processo». Tacque. Guardò a terra. La voce di Nourissier suonò tranquilla: «Successe qualcosa di orribile e lei fu costretto ad assistervi? Qualcosa che la tormenta? Mi dica. È passato molto tempo, erano circostanze estreme, e non c'è nulla che non si possa dire. Parlare le farà bene». «I tre partigiani erano nella casa, ma l'Herrera era andato in paese in bicicletta a comprare dei viveri che potessero portare con sé. Le guardie, appostate di fronte alla masseria, mandarono avanti una donna, una di quelli che avevano parlato. Lei gridò ai partigiani di consegnarsi, che ormai erano circondati e non avevano scampo. Loro gettarono una granata e tentarono di fuggire approfittando dell'esplosione. Furono mitragliati sul posto. Erano due». Infante era così preso dal racconto del giudice, che quando questi faceva una pausa doveva mordersi la lingua per non incitarlo a continuare. «Rimaneva il terzo, "Deseado" era il suo nome di guerra. Aveva solo diciott'anni. Tentò di uscire dalla porta di dietro, ma si accorse che sparavano anche da lì. Allora annunciò da una finestra del primo piano la sua intenzione di consegnarsi e buttò di sotto le armi. Il comandante, che voleva prenderlo vivo, entrò nella casa. Quando lo vide da in cima alle scale, il ragazzo fece esplodere una bomba a mano. Saltarono in aria tutti e due». «È terribile» disse Nourissier. «L'Olivier Herrera non era tornato. Lo aspettarono sul viottolo che portava al podere. Tornava con una damigiana d'olio, del pane. Me lo raccontò sua moglie quello che era successo. Lo fecero scendere dalla bicicletta e lo caricarono su un camion per portarlo a casa. Lì, in presenza di sua moglie, incinta all'ultimo mese e con un bambino piccolo in braccio, gli chiesero i nomi dei partigiani che aiutava. Lui aprì la bocca soltanto per salvare sua moglie: disse che lei non sapeva niente, che era un'incapace e nei suoi contatti con i partigiani gli era solo di disturbo. Le guardie, vedendo che i nomi non venivano fuori, presero a picchiarlo col calcio dei fucili. Prima ai piedi, poi alle gambe. E più taceva, più le percosse salivano. Gliene diedero da tutte le parti, gli ruppero le ossa. Alla fine, ormai convinti che non avrebbero cavato nulla, lo spinsero contro un muro. La moglie si allontanò portando con sé il bambino. Sentì le raffiche di mitraglietta, e poi uno sparo: il colpo di grazia. Erano sposati da tre anni. Lo vide portare via morto insieme ai tre partigiani. Il comandante lo avvolsero in una coperta e lo caricarono su un'ambulanza. Quando tutti se ne furono andati, la donna trovò le scarpe di suo marito sopra una gabbia delle galline. Pensò che le guardie gliele avessero fatte togliere. Solo settimane dopo seppe che uno di loro andava in giro a dire che...». Al giudice si spezzò la voce. Cercò di riprendere il racconto ma non ci riuscì. Abbassò la testa. Nourissier gli mise una mano sulla spalla, gli sussurrò: «Si calmi, Eusebio, per favore». Il giudice si mise a singhiozzare apertamente, senza coprirsi gli occhi. Aveva la faccia rossa, solcata di lacrime e muco. Il mento gli tremava. Ritrovò la voce, ora acuta e insicura:
«Diceva che era stato suo marito a chiedere di potersi togliere le scarpe.
"Non sono vecchie" aveva detto.
"Magari a mio figlio andranno bene quando sarà
grande". Questo fu tutto. Pensate, fu tutto». Il giudice si fermò, e il suo
sguardo ebbe un lampo di furia.
Le parole che seguirono furono pronunciate a gran voce: «Lo sapete che cosa
scrissi io negli atti? Volete saperlo? Scrissi: "Oliver Herrera, favoreggiatore
e complice dei banditi, tentò di darsi alla fuga quando
stava per essere fermato dalle forze dell'ordine. Essendo armato, dovette essere
abbattuto con un colpo d'arma da fuoco". Punto. Questa è la versione che
accreditai. Questi sono i fatti che rimarranno registrati a causa della mia
vigliaccheria. Ma il cadavere io l'avevo visto, distrutto dalle botte,
crivellato di colpi. Me lo vedo davanti giorno dopo giorno, notte dopo
notte».
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