Copertina
Autore Alicia Giménez-Bartlett
Titolo Nido vuoto
EdizioneSellerio, Palermo, 2007, La memoria 711 , pag. 402, cop.fle., dim. 12x16,7x2 cm , Isbn 978-88-389-2204-6
OriginaleNido vacío
TraduttoreMaria Nicola
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa spagnola , gialli
PrimaPagina


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Un centro commerciale non è certo il sogno della mia vita per trascorrere un sabato pomeriggio. Ma chi può permettersi di pensare ai sogni quando le necessità, come sempre, s'impongono? Decisi di farmi forza. Sarei uscita due ore prima dal lavoro per dedicarmi agli acquisti. Stesi una lista di tutto quanto mi occorreva e finii per stupirmene io stessa: calzettoni da ginnastica, dischetti per il computer, lampadine, riso integrale, l'ultimo libro di Philip Roth e... stracci per la polvere. Neanche volendolo sarei riuscita a mettere insieme un campionario più eterogeneo. Evidentemente sono una donna dalle esigenze molteplici. Proprio questo mi costringe a recarmi di tanto in tanto in un centro commerciale, il solo luogo al mondo dove tutto coesiste con tutto in insensata contiguità.

Ne scelsi uno non troppo lontano da casa. Mi armai di coraggio, oltre che di carta di credito, e mi avviai verso il tempio del consumo, giurando a me stessa di non perdere la pazienza come di solito mi capita in simili occasioni. Purtroppo i buoni propositi, fondati su un'autoconsapevolezza sempre incerta, hanno poche possibilità di successo. E dire che ce la misi tutta. Parcheggiai in uno degli immensi e sotterranei multipiano disposti allo scopo e cercai con gli occhi un contrassegno, sotto forma di lettera, numero o colore, che mi aiutasse a ritrovare l'auto al mio ritorno. Niente da fare, né numeri, né lettere, né colori, nessuno di questi semplici segnali era in vista. Ci misi un po' a capire che qualche decerebrato aveva avuto la brillante idea di sostituire i codici consueti con figure di animali. Ma certo! Alla mia area di parcheggio corrispondeva un leoncino disneyano con sorrisetto ammiccante. Più in là, scorsi un vezzoso ippopotamo, mentre a pochi metri si estendeva la zona dei canguri. Mio Dio! L'infantilizzazione della nostra società è inarrestabile. Diventa sempre più difficile vivere da adulti, circondati come siamo da cartoni animati. Eppure mi imposi di mantenere la calma. Fare shopping è ritenuta un'attività piacevole, addirittura ludica, per quale motivo avrei dovuto viverla diversamente? Infilai le scale mobili e salii verso i piani di vendita.

A quell'ora le gallerie di negozi non erano affollate. Adottai un ottimistico sorriso interiore e presi a passeggiare lentamente. Non tardai a rendermi conto che gli scarsi clienti del primo pomeriggio erano per lo più ragazzi, riuniti in piccole bande. Non che una simile scoperta richiedesse grande perspicacia: i ragazzi facevano di tutto per non passare inosservati. Gridavano parolacce, camminavano bevendo bibite in lattina e, quel che è peggio, si presentavano in modo spaventoso. I maschi, con la testa rapata (alcuni alla mohicana), calzavano enormi scarpe da ginnastica e avevano le orecchie e la faccia perforate da numerosi piercing; le ragazze, con i capelli tinti di colori impossibili, portavano magliene di cinque taglie troppo piccole e pantaloni cascanti sotto l'ombelico. Sono orribili, pensai, fanno di tutto per cancellare la naturale bellezza della gioventù. A pensarci bene, diceva la stessa cosa mia madre, negli anni della mia adolescenza, ogni volta che mi vedeva uscire con un vecchio cappotto «da poeta maledetto», così lei lo definiva. Eppure era un cappotto niente male, solo un po' logoro. Povera mamma, pensai, se vedesse questi «giovinastri» (espressione sua anche questa) abbandonarsi a comportamenti francamente inadatti alla loro età... Ma forse ero io ad avere idee inadatte alla mia età. Dovevo proprio giudicare il mondo come una zitella inacidita? Potevo ancora aspettare qualche anno prima di diventarlo veramente. E così feci un altro eroico sforzo per scacciare il malumore. Decisi di concedermi un caffè prima dello shopping. A pochi metri, un minuscolo bar aveva sparso i tavolini nella galleria come in una piazzetta all'aperto. Guardai con scetticismo le aiuole di plastica, la fontanella, perfino un paio di lampioni che non gettavano luce. Tutto fasullo. Ma il problema era mio, ero io che non mi adattavo ai tempi. Eppure, cosa potevo farci? Nessuno sarebbe riuscito a togliermi dalla testa che dipingere animaletti in un parcheggio è un'idiozia, che i ragazzi di oggi sono maleducati e malvestiti, e che decorare i negozi con fiori finti è una caduta di gusto imperdonabile. Per non parlare dei centri commerciali per loro stessa definizione. Non conosco luoghi più inospitali, volgari e nauseabondi sull'intero pianeta. Questa era la mia opinione, e sarei stata disposta a sostenerla anche di fronte a un tribunale popolare.

Sentendomi lievemente più tranquilla dopo questa dichiarazione di principi, bevvi il mio caffè, che stranamente era squisito, e mi proposi di effettuare i miei acquisti nel minor tempo possibile per poi scapparmene via di corsa. Prima, però, dovevo fare una sosta alle toilette. Ci andai. Si presentavano come una fila di cubicoli perfettamente asettici chiusi da porticine basse, sollevate dal pavimento come quelle delle scuderie; semplici barriere a impedire la vista. Appesi la borsa al gancio fissato all'interno della porta e procedetti all'operazione. Un attimo dopo, un rumore mi fece trasalire. Sbarrando gli occhi, vidi una manina spuntare da sopra la porta, procedere a tentoni, afferrare la tracolla della borsa e farla sparire. Un tonfo, due piccoli piedi toccarono terra e partirono di corsa. Ormai, tirati su i jeans, con più o meno dignità mi lanciavo all'inseguimento. Uscii dalle toilette e riuscii a scorgere il ladro. Una bambina con i capelli neri, coda di cavallo al vento, tuta da ginnastica azzurra, filava come un razzo a una cinquantina di metri da me. Anch'io correvo a più non posso, col cuore che scoppiava, ma lei mantenne il vantaggio e, svoltato l'angolo, sparì. Imprecai e continuai a correrle dietro, ma mi accorsi che su quel corridoio si apriva un'uscita secondaria. Inutile continuare l'inseguimento nel parcheggio, non l'avrei più trovata. Non l'avevo nemmeno vista in faccia. A giudicare dalla corporatura non doveva avere più di sette, otto anni, ma nemmeno questo mi avrebbe aiutata a ritrovarla. Tornai sui miei passi, e cominciai a far domande a chiunque incontrassi. Avete visto una bambina così e così? Quasi tutti mi rispondevano di no, e i pochi che l'avevano notata riuscivano tutt'al più a dirmi: «Sì, una bambina che correva», nient'altro. Mi sentivo impotente, stupida, sprovveduta. Quel furto era la cosa più assurda che mi fosse capitata in vita mia, e non potevo certo dire che la mia vita fosse un modello di sensatezza e normalità. Quando, in preda allo sconforto, mi fermai, ormai sul punto di piangere, sentii qualcuno che mi tirava per la giacca. Mi voltai e vidi un'altra bambina sui sette otto anni, bionda, con occhi grandi chiari, che mi guardava e mi porgeva qualcosa: la mia borsa! Non ci potevo credere. Senza una parola, gliela strappai di mano, la aprii, bastò un istante perché la mia gioia sfumasse. Mancava la pistola! Tutto il resto c'era: portafogli, carte di credito, documenti... Mio Dio! Proprio quel che temevo, e che mi aveva spinta a correre come una disperata. La mia Glock era sparita. Farsi rubare la pistola da una bambina, il colmo del ridicolo per un poliziotto.

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- C'è tempo per tutto. Da dove cominciamo?

- Dalla pausa pranzo, Petra, e non faccia storie, sono le due del pomeriggio. Va bene La Jarra de Oro?

Accettai. Ci diedero un buon tavolo e il solito menu. Accanto a noi sedeva Yolanda con altri giovani agenti. Ci salutò agitando la mano come se fossimo tutti in gita domenicale. Garzón le rispose e io grugnii.

- Sempre incazzata, ispettore.

- Vedo che cominciamo bene.

- No, permetta che glielo dica da amico. Come l'altra volta con quella storia della consulente sentimentale. Sia lei che io ne abbiamo viste di cose nella vita. E allora perché se la prende tanto per una semplice chiacchierata personale?

- Mi spiace, i miei attacchi non erano rivolti a lei.

- Ma li ho ricevuti io.

- Reagisco male perché ci sono cose che mi infastidiscono per principio. Per esempio, che tutti si preoccupino tanto per le questioni di cuore. La nostra è una società decadente, ci interessiamo solo ai problemi individuali, e visto che abbiamo la pancia piena...

Il mio vice fece una faccia da ragazzetto davanti a un professore rompipalle. Poi si gettò sul suo piatto di fagiolini in umido come un Pantagruele a digiuno.

- Lei e la sua mania di fabbricare teorie per ogni cosa... Avrebbe dovuto fondare una scuola filosofica o come diavolo si chiama.

- Meglio una setta religiosa, è più redditizio. Ormai la gente ha il cervello in pappa per colpa della stupidità imperante, e prenderebbe le mie rivelazioni come oro colato.

- Da quando la conosco, sembra che per lei la fine del mondo sia sempre dietro l'angolo, ma a quanto pare non è ancora arrivata.

- Si sta avvicinando.

- Voi intellettuali non vedete altro che il peggio.

- E io sarei un'intellettuale? Non dica sciocchezze, Fermín.

- Dico solo che lei è così pessimista perché se ne sta sempre chiusa in casa a leggere libri.

- Magnifico! Condannare il vizio della lettura è una tradizione molto spagnola.

- Accidenti, Petra. Sa cosa le dico?

- Sì, di andare a farmi friggere.

- Ecco, preferisco che se lo sia detta da sé. Ci portarono due bistecche così grandi che il piatto non bastava a contenerle. Il viceispettore ne annusò gli effluvi con l'espressione estatica di un assaggiatore di vini. Pensai che un uomo che ama a tal punto mangiare non potesse sbagliarsi poi tanto sull'umanità.

- Non mi dia retta, Fermín. In fondo ha ragione, faccio la vita di una vecchia orsa.

- Volevo solo tirarla un po' su in previsione degli ambienti che ci toccherà visitare fra poco. Proprio del genere che le piace: informatori, pregiudicati, ruffiani... Divertimento garantito. Solo a vedere la lista che mi ha dato Machado mi è passata la voglia di ritrovare quella sua benedetta pistola.

- Lei non mi crede veramente preoccupata per la sorte di quella bambina, vero? Secondo lei tutto il mio interesse si riduce a una questione di orgoglio ferito per aver perso l'arma.

- Non mi provochi, ispettore, non mi va di discutere. Non le piace la sua bistecca? Posso finirla io? Visto che adesso c'è chi pensa a mettermi a dieta, quando mangio da solo devo recuperare.

- E dire che non si è ancora sposato. Aspetti ancora un po' e vedrà!

- Ecco, un'altra bella silurata sotto la linea di galleggiamento. Torni pure alla sua caverna da orsa, ispettore, e mi lasci perdere. Sarà meglio.

Risi come una strega soddisfatta del suo maleficio. Che sant'uomo. Nessun altro mi avrebbe sopportata con tanta pazienza. In quel momento si avvicinò Yolanda, che aveva finito il suo pranzo.

- Volevo dirvi che domani è il mio compleanno.

- Auguri!

- Ci sarà una festa. Ho affittato un'intera discoteca, vicino a casa mia. Poi vi do l'indirizzo. Verrete, vero? E in compagnia, mi raccomando. Potete portare chi volete.

- Io volentieri. Sarò puntualissimo. A che ora è?

- Alle otto. E lei, ispettore?

- Non crede che potremmo essere un po' fuori posto fra tanti giovani?

- Io non mi considero certo fra i vecchi - intervenne Garzón. - Ho intenzione di ballare come un invasato -. Poi mi lanciò uno sguardo di biasimo mentre cercavo il modo di declinare l'invito senza offendere.

Di colpo mi vidi con una pelle d'orso sulle spalle, rannicchiata in fondo a una caverna a leggere un libro.

- E va bene, vengo anch'io.

- Fantastico! - canterellò Yolanda. Stampò un bacio sulla guancia del viceispettore e si allontanò lasciandosi dietro una scia di profumo fiorito.


Attraversammo in silenzio il quartiere della Barceloneta. Ce la prendevamo comoda perché mancavano ancora tre quarti d'ora all'appuntamento. Il viceispettore sembrava perfino mezzo addormentato.

- Ha la digestione difficile, Garzón?

Lui sbatté gli occhi, sforzandosi di apparire incredulo, ma era evidente che stava solo cercando di riscuotersi.

- No, niente affatto, stavo riflettendo.

- E va bene, ma fra riflessione e riflessione, perché non mi racconta qualcosa del confidente che dobbiamo incontrare?

- Non è un confidente, ma un pregiudicato con la condizionale. È stato condannato per un reato ai danni di minori. Si è fatto otto anni di carcere e adesso va a firmare di tanto in tanto. L'ispettore Machado è convinto che abbia dei contatti o, almeno, che sappia cosa succede in giro. Dice che è il caso di metterlo sotto torchio.

- Che cos'ha fatto?

- Una brutta storia. Agiva come intermediario fra certi genitori poco coscienziosi e alcuni fotografi che pagavano un tanto all'ora per fotografare i bambini in pose «artistiche», per dirla nel modo meno schifoso.

- Che orrore!

- Ma dove crede che siamo finiti Petra? Questo è un ambientaccio.

- Sarà meglio che prenda l'iniziativa lei, io non saprei cosa dire a un tipo del genere.

- Come vuole, ma le assicuro che non lo tratterò con i guanti. Poi non mi venga fuori con la predica che non sono stato un signore.

Certo che neanche quel tipo poteva definirsi un signore. E, nel suo caso, le apparenze non ingannavano. Bastava vederlo per capire che era un ruffiano della peggior specie. Cos'altro avrebbe potuto fare con quei capelli radi, quegli occhi cisposi, quelle orecchie pendule e quella cicatrice in faccia, se non il delinquente? La sola cosa paradossale, in lui, era il nome: si chiamava Abel. Abel Sànchez. Ma se Abele avesse avuto un aspetto del genere, chiunque avrebbe giurato che avesse ucciso Caino.

Non sembrava spaventato, eppure, prima di sedersi con noi in quel bar bisunto, si guardò intorno con diffidenza. Temeva di essere visto in nostra compagnia. Il viceispettore fece le presentazioni in tono formale.

- L'ispettore Petra Delicado. Io sono il viceispettore Garzón.

- Piacere - biascicò lui, imponendosi una certa urbanità. Ma subito, senza darci modo di aprir bocca, ci sommerse con un fiume di parole. - Sentite, signori, avrà anche fatto benissimo l'ispettore Machado a mettermi in galera, ma la mia condanna l'ho avuta e sto ancora pagando per quello che ho fatto. Quindi non può permettersi di mandarmi continuamente i suoi colleghi a rompermi l'anima a forza di domande. Io sono pulito, adesso, capite? Pulito. Non ho niente da dire perché non conosco nessuno. Un uomo non può essere tormentato per tutta la vita solo perché ha commesso un errore. Le mie abitudini sono cambiate e non conosco nessuno che traffichi con i minori.

Il silenzio si stese fra noi come una nebbia. A dir la verità il ragionamento di quell'avanzo di galera non faceva una grinza. Ma sul viceispettore non sortì alcun effetto. Lasciò passare qualche secondo, si accese una sigaretta, e poi disse:

- Tu, l'unico che non conosci è tuo padre, Sànchez. A ben pensarci, meglio per lui. Prova a farmi un altro predicozzo del genere e ti tiro una bottigliata in faccia lì dove sei.

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- Petra? Sono Marcos Artigas.

- Come va, Marcos? Hai dormito bene sul mio divano?

- Come un ghiro. Che assurdità, vero?

- Non tutto quel che è insolito è assurdo. Ci siamo tenuti una discreta compagnia, e questo va bene.

- Hai ragione. Senti, volevo proporti una cosa ancora più insolita. E anche un po' strana. Avresti voglia di assistere a uno spettacolo teatrale in cui recita Marina?

- Non sapevo che Marina facesse anche l'attrice.

- È una recita della scuola. Sua madre non può venire e ho pensato che ti facesse piacere un altro po' di discreta compagnia.

- Credi sia una buona idea? A scuola penserebbero...

- Non vedo che cosa ci sia di strano se un genitore si fa accompagnare da un'amica.

- Va bene. Non mi farà male vedere qualche bambino felice dopo le cose che mi tocca affrontare ultimamente.

- Perfetto. Lo spettacolo è alle otto.

Nemmeno nei miei incubi peggiori, nei periodi più depressivi e catastrofici, avrei accettato un invito simile: andare a una recita scolastica in compagnia di un padre separato. I pericoli erano molteplici: l'orrido spettacolo delle creaturine impegnate in patetiche attività che avrebbero dovuto apparire incantevoli, e la possibilità per nulla remota che il genitore pensasse di confidarmi tutti i problemi della sua difficile situazione familiare. Una prospettiva indigesta, che però ero disposta ad affrontare pur di non ritrovarmi chiusa nella temibile prigione della mia casa.

Cominciai a stendere un desolante verbale sulle indagini, dal quale non poteva risultare altro che la nostra disinformazione. Eppure, cercavo di farmi coraggio. Ero consapevole che il furto della pistola rendeva particolarmente inquietante quel delitto, facendo ricadere su di me una parte di responsabilità. Avevamo lavorato ad altri casi complessi, in cui la mancanza di indizi tingeva di incertezze ogni nostro passo, eppure non mi ero mai sentita tanto scoraggiata. Dovevo ripetermi che non era colpa mia se mi era stata rubata la pistola. Era stata una stupida fatalità, angosciosa soprattutto per l'età dell'insolita ladra. Come consigliavano quegli immondi libri di self-help che tanto piacevano a Yolanda e a Garzón, dovevo sforzarmi di pensare positivo; ossia convincermi che i passi incerti compiuti fino a quel momento ci avrebbero sicuramente portati da qualche parte.

Alle sette meno un quarto spensi il computer. Avevo appena il tempo di andare a casa e cambiarmi. Come ci si deve vestire per assistere a una recita scolastica? Ci avrei pensato. Certo non com'ero in quel momento: maglione nero, jeans e impermeabile. Presentandomi così avrei puzzato di sbirro lontano un chilometro. Uscii senza dir nulla a Garzón: di sicuro mi avrebbe chiesto dove andavo. Se gli avessi detto la verità mi avrebbe presa in giro, e non solo, sarei diventata la vittima della sua malsana curiosità e tendenza ai fraintendimenti. Avrebbe di sicuro pensato che uscissi con Artigas e che lo facessi per ragioni sentimentali. Nemmeno per sogno, non avevo nessuna voglia di aggiungere carne al fuoco sentimentale che pareva divorare tutti quanti.

Un tailleur di tweed grigio, ecco che cosa poteva andar bene, e per contrastare l'impressione di serietà, un maglioncino dolcevita verde pistacchio. Mi pettinai e mi truccai, e lo specchio mi restituì l'immagine di una donna piuttosto elegante, dalla figura armoniosa e dall'aria un po' accigliata. Be', cosa avrebbe avuto da dire un libro di self-help a questo proposito? Sforzatevi di sorridere e comincerete a sentirvi meglio. Lo feci, e una donna dalla figura armoniosa con un sorriso forzato mi rispose dallo specchio. Al diavolo! Cosa volevo far credere? Di essere una casalinga matura, nonché professionista di successo, felice di andare a vedere il suo tenero virgulto sulle tavole del palcoscenico? No, niente da fare, nessun libro mi avrebbe aiutata a dimenticare di essere un poliziotto di cattivo umore che accetta un appuntamento insensato pur di distrarsi da indagini che alterano il suo equilibrio psichico.

La scuola di Marina si trovava nella parte alta di Barcellona. Era uno di quegli istituti progressisti e costosissimi, del tutto laici, dove i figli dell'élite passano dal castigliano al catalano all'inglese con la massima naturalezza. C'erano gruppi di genitori sulla porta che si salutavano con l'inconfondibile contegno borghese di questa città. Mi parve che il mio abbigliamento fosse abbastanza in tono e, ormai soddisfatta del mio aspetto, cercai Artigas fra la gente. Finalmente lo vidi, in compagnia di due ragazzini sui dodici anni che mi presentò:

- Questi sono i miei figli Hugo e Teo.

Per poco non svenivo lì sul marciapiede. Ma quanti figli aveva Marcos Artigas? Non dissi niente, ma non riuscii a nascondere lo sbalordimento.

- Hugo e Teo sono gemelli, anche se non si assomigliano. Li ho avuti dalla mia prima moglie.

- Ah, piacere, ma che bei ragazzini! - dissi stupidamente.

- E poi ho un figlio più grande, Federico, di sedici anni, che oggi non è potuto venire perché domani ha un compito in classe.

- Fantastico, vedo che ti sei impegnato a fondo nella procreazione!

Lui rise e scosse la testa.

- In un altro momento ti racconterò nei particolari la storia della mia famiglia.

Strinsi la mano ai ragazzi, che mi guardavano come una bestia rara. Di sicuro sapevano che ero un poliziotto. Entrammo nella scuola e ci dirigemmo verso l'attrezzatissimo teatrino. Mi sedetti accanto ad Artigas. Lui mi disse sottovoce:

- Scommetto che non avevi mai ricevuto un invito così entusiasmante. Serata con bambini dall'inizio alla fine.

- Sono preparata a tutto.

Lui rise di nuovo.

- Non ti avevo detto che avevo anche tre figli maschi?

- Non sapevo nemmeno che fossi divorziato.

- Il mio primo matrimonio è stato molto lungo, al contrario del secondo, che è durato solo sette anni.

- Non mi sembra così scarso, come risultato.

- In ogni caso, adesso sono un padre da fine settimana. Sto cercando un appartamento grande per poter ospitare tutti i miei figli.

Mi accorsi che uno dei ragazzini allungava il collo per osservarmi di nascosto. Aveva i capelli cortissimi, la faccia piena di lentiggini e occhi estremamente vivaci.

- Hai detto loro che sono un poliziotto, vero?

- Come lo sai?

- Da come mi guardano.

- Se non hai niente di meglio da fare, quando questa barba sarà finita, perché di sicuro sarà una barba, potremo andare a cena da qualche parte. Anche se ti avverto che i miei figli hanno già un fuoco di fila di domande da farti.

- Immagino che saprò rispondere.

Le luci si spensero e io spensi il cellulare. Artigas mi sussurrò all'orecchio:

- È uno spettacolo a cui partecipano tutti gli alunni, indipendentemente dall'età. A quanto dice l'invito, gli attori non parlano, si esprimono con il corpo.

Mi guardò con ironica rassegnazione e io sorrisi. La cosa si preannunciava divertente. Cominciò a suonare una marcia molto vivace e sincopata. In un angolo del palcoscenico comparve un bambino, o una bambina?, travestito da papera. Lo seguivano, tenendosi per mano, un gran numero di anatroccoli gialli, sempre più piccoli. Il pubblico di genitori, deliziato, proruppe in gridolini di piacere. Senza dubbio dovevano essere bambini dell'asilo di non più di tre anni. Camminavano esitanti, disorientati, guardandosi intorno e minacciando di rompere la fila. Era davvero comico, e la gente cominciò a ridere. Avevano zampe da papero ritagliate nel cartone che li costringevano ad avanzare ancora più goffamente. Al bambino che veniva per ultimo, un anatroccolo lillipuziano, le zampe si girarono dietro i talloni, ma lui non se ne accorse, così come non si accorse delle risate che suscitava fra il pubblico. Anche noi ridevamo scambiandoci uno sguardo di momentanea felicità. Ci furono altri momenti come quello. Una recita di bambini è soggetta a un tale grado di imprevedibilità da sortire un effetto comico irresistibile. Tutto aveva un che di non riuscito, ma proprio questo rendeva irresistibile ogni scena: gli elefanti camminavano velocissimi, una delle gazzelle inciampò, e i bambini più grandi che facevano le giraffe si videro in serie difficoltà per la lunghezza del collo. Gli spettatori più divertiti erano indubbiamente Hugo e Teo. Ridevano a crepapelle scambiandosi gomitate. Verso la metà di quell'anarchica parata di animali, uno sciame di libellule in tutù e ali iridescenti entrò in scena sulle note di un'aria di Debussy. Fra loro c'era Marina, bionda ed eterea, tutta seria, concentrata nel suo balletto sulle punte. Era davvero incantevole, e non potei reprimere un sorriso d'affetto ripensando al suo inestimabile aiuto. Guardai suo padre e dissi:

- È bravissima.

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