Copertina
Autore Alicia Giménez-Bartlett
Titolo Gli onori di casa
EdizioneSellerio, Palermo, 2013, La memoria 912 , pag. 518, cop.fle., dim. 12x16,7x2,6 cm , Isbn 978-88-389-2906-9
OriginaleNadie quiere saber
TraduttoreMaria Nicola
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa spagnola , gialli
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Era terribile. Mi avvicinavo a poco a poco a quella bara aperta senza vedere chi ci fosse dentro. Era un feretro imponente, di legno lucido e sontuoso. Enormi ceri e svariate corone di fiori circondavano da ogni lato il defunto. Ma più mi avvicinavo, più il mio passo si faceva sicuro, e meno intenso il timore. Quando arrivavo ai piedi del catafalco scoprivo, guardando dentro, la salma di un vecchio, in un impeccabile abito nero, con una fascia tricolore e il petto coperto di medaglie e onorificenze. Non lo avevo mai visto, non sapevo chi fosse, ma era di certo una persona importante. A quel punto, con decisione, infilavo la mano nella borsetta e tiravo fuori un lungo coltello. E di colpo, come se a guidare il mio braccio fosse un odio che prorompeva impetuoso dentro di me come un torrente, cominciavo a pugnalarlo, e a pugnalarlo, senza fermarmi. I colpi erano forti, decisi, e sarebbero stati tutti cruenti su un uomo vivo, ma da quel corpo non usciva nient'altro che segatura e vecchie carte. Questo mi faceva infuriare ancora di più, spingendomi a un parossismo di pugni e coltellate, perché non potevo accettare che tutto si riducesse a un cumulo di cose morte sopra altra morte.

Mi svegliai sudata, angosciata e tremante. Non soffro quasi mai di incubi, e così, non appena riuscii a pensare con un minimo di lucidità, mi interrogai sull'esperienza che avevo attraversato. Si trattava di un tipico sogno freudiano con tanto di uccisione della figura paterna? Molto improbabile. Era forse un ritorno del sentimento antifranchista, frustrato per il fatto che il dittatore era morto di vecchiaia dentro un letto? Troppo lambiccato. Smisi di azzardare ipotesi e andai a farmi un caffè. Sarebbero passati mesi prima che potessi riconoscere, contro ogni criterio ragionevole, che si era trattato di un sogno profetico riguardante il mio lavoro.

Ma cominciamo dai fatti e lasciamo da parte i sogni. Tra i compiti affidati alla Policía Nacional vi è quello di rivangare il passato. Sembra un'assurdità, un paradosso, una semplice battuta. Tutti pensano che l'intervento della polizia debba essere rapido, tempestivo, risolutivo, e che il sangue versato, quanto prima si asciuga, meglio è. Vige la convinzione che un agente della Omicidi sia un tizio armato e addestrato per entrare in azione quando il cadavere è ancora fresco o, per meglio dire, ancora tiepidino. E invece no. Capita che i presunti specialisti del tempo presente o, tutt'al più, del passato prossimo, si vedano rispediti verso il passato remoto per dare la caccia ad assassini ormai scomparsi, volatilizzati, dissolti nell'aria. Curioso. Il passato non è territorio esclusivo di storici e poeti, ma appartiene anche a noi piedipiatti. Il crimine ha la sua archeologia.

Questa attività va sotto il nome di «riapertura delle indagini», espressione che richiama alla mente opportunità inedite, folgoranti scoperte, nuovi inizi con rinnovate energie. Eppure, quasi mai è così. Un caso riaperto è una faccenda dannatamente complicata, perché, come si sa, il tempo cancella ogni cosa. Ci sono fascicoli che si riaprono perché un presunto colpevole risulta innocente, magari dopo un test del DNA che ai tempi del delitto non esisteva. Altri, perché il vero colpevole, fuggito all'estero, è rispuntato da qualche parte. Comunque sia, un'indagine costa denaro dei contribuenti, e i casi non vengono riaperti per capriccio.

Il nostro, quello che venne affidato a Garzón e a me, fu rispolverato su richiesta della vedova della vittima. La signora si era messa in contatto col giudice Juan Muro, un veterano che aveva fama di perseguire fino in fondo la verità fino a stanarla, e lo aveva persuaso a riprendere in mano un caso che risaliva a ben cinque anni prima, quando suo marito, di nome Adolfo Siguán, imprenditore tessile sulla settantina, aveva trovato la morte in circostanze scabrose. Il corpo era stato rinvenuto in una casa di sua proprietà, dove si era recato in compagnia di una giovane prostituta di infimo livello. L'omicidio era stato attribuito all'uomo che sfruttava la ragazza, il quale però era stato ucciso a Marbella due mesi dopo. Pur muovendosi su binari apparentemente sicuri, l'indagine si era chiusa con un nulla di fatto: il presunto colpevole non poté mai dire la sua sull'accaduto. La ragazza era finita in carcere con una condanna per complicità in un delitto mai del tutto chiarito, dopo di che col passare dei mesi e degli anni la vicenda era sfumata nell'oblio. Fino al momento in cui il viceispettore ed io ereditammo quel morto già sepolto e rassegnato in silenzio alla sua sorte.

Nella sua insensatezza, il mio collega era già tutto contento, sosteneva che mai prima di allora si era occupato di un caso archiviato e poi riaperto, e che una nuova esperienza lavorativa sarebbe stata molto stimolante.

- Anzi, le dirò, ispettore - tenne a spiegarmi, - lavorativa o privata, ogni esperienza nuova alla mia età è preziosa, come un dono del cielo. Se le dico che soltanto ieri ho assaggiato per la prima volta il pâté di olive, e a momenti piangevo dall'emozione... Un caso riaperto è come una sfida, ed è così che dovremo prendere tutte le complicazioni che presenterà.

Io non ne ero così convinta. Sono più giovane di lui, eppure già da un pezzo le difficoltà hanno smesso di apparirmi come una sfida, per trasformarsi in quello che sono veramente: una grana in più. Non sono una donna fatta per le sfide, la mia mente non si affina davanti alle difficoltà, né il mio impeto raddoppia davanti alle barriere. Non capisco la gente che si prefigge mete sempre più elevate. Per me sono marziani gli alpinisti che scalano vette inarrivabili fino a ritrovarsi con i piedi congelati, e gli atleti che, raggiunto il traguardo, crollano a terra schiantati dalla fatica. Decisamente, la mia natura è meno passionale, a muovermi è un'intenzione che definirei scientifica, se così riesco a farmi capire. Gli scienziati agiscono spinti dall'ansia di sapere, non da una cocciutaggine insensata che conduce sempre lungo la linea ascendente. Forse che Madame Curie scoprì il radio a forza di esclamare: «Il premio Nobel me lo devo guadagnare io, costi quello che costi»? No, per me, e immagino anche per Madame Curie, le cose si fanno per il desiderio di arrivare da qualche parte, per la necessità di rendere più chiaro ciò che si cela nell'oscurità. Però, una volta giunti in porto, perché continuare a gareggiare con se stessi, perché uscire di nuovo in mare alla ricerca di terre più lontane? No. Bisogna saper accettare i propri limiti, saperci convivere, tenerne conto ogni volta che si intraprende una nuova attività. Sarà che ormai i miei limiti li conosco, so bene il peso che hanno sulla mia vita, o sarà che semplicemente sono molto più conservatrice di quanto sia disposta ad ammettere. Sta di fatto che l'idea del caso riscaldato non mi sconfinferava neanche un po'.

E neppure il commissario Coronas faceva salti di gioia. A suo tempo era stata la nostra squadra a condurre le indagini sul caso Siguán, e dover rimestare nelle stesse acque per tentare di far riaffiorare qualcosa gli pareva una penitenza che non credeva di meritare.

- Non ci posso credere! - esclamò. - Con tutte le energie che abbiamo buttato in quella faccenda, adesso ci tocca ricominciare. Ma cosa crede quel giudice del cavolo, che dopo cinque anni la luminosa fiamma della verità potrà levarsi a rischiarare il sacro impero della legge? Gli manca poco alla pensione e si comporta come se fosse fresco di concorso. Lo sanno tutti che se non è saltato fuori nessun indizio nuovo, indagare sul passato è una solenne fesseria.

Ma non poté far altro che adattarsi, il giudice Muro era ben saldo nella sua decisione, e il corpo di Siguán doveva risorgere metaforicamente dalla tomba. Una volta edotta su quanto poco il mio capo apprezzasse la riapertura di quel fascicolo, osai domandare:

- Lei cosa dice, commissario, dobbiamo darci da fare al massimo o possiamo prendercela con calma?

La sua faccia subì, a quelle parole, una metamorfosi singolare, acquistando ipso facto una gran somiglianza con il muso di un pitbull pronto all'attacco.

- Come? Come ha detto, ispettore? Non capisco la domanda. È mai successo in questo commissariato, e sotto i miei ordini, che qualcuno si sia occupato di un caso «prendendosela con calma»? Perché, se così è stato, può stare certa che io non l'ho saputo.

- Era solo un modo di dire.

- Allora cambi registro stilistico, ispettore. Qui le indagini si fanno sempre con impegno, con ardore, con dedizione, a testa bassa, sputando l'anima, sudando sangue, se necessario. Intesi? Voglio che con tutte le vostre forze e la vostra perizia cerchiate di scoprire chi diavolo ha ammazzato il presunto assassino di Adolfo Siguán. Ora più che mai è in gioco l'onore di questo commissariato. A pochi è data la possibilità di rimediare agli errori del passato.

- Sissignore, sarà fatto, commissario! - risposi in un grido soldatesco.

- E non mi risponda come un sergente dei marines! Mi prende in giro, o cosa? Certe volte lei ha il dono di mettermi di cattivo umore, Petra Delicado.

Può darsi che avessi incrementato la sua irritazione, ma sono certa che Coronas era già di umore pessimo prima ancora di parlare con me. E in fondo non era difficile capirlo: dover destinare due persone a un servizio che non gli risolveva il normale carico di lavoro, non era certo un piacere per lui; come non lo era l'eventualità di riconoscere errori commessi in passato. Ma questo non mi riguardava, Garzón ed io a quel tempo eravamo in altre faccende affaccendati, e certo non eravamo stati noi a metterlo in quel pasticcio.

Se analizzavo la situazione con un minimo di distacco e di ottimismo, dovevo ammettere che occuparsi di un caso riaperto poteva presentare i vantaggi di un'innegabile pulizia, dal punto di vista teorico come da quello della prassi poliziesca. Almeno non piombavamo nel vortice dei fatti con l'urgenza imposta da un crimine appena commesso. Non rischiavamo che un testimone fosse drammaticamente soggetto alla stretta della paura o della passione. E neppure avremmo avuto la stampa alle calcagna... Per noi era un po' come essere chiamati a dare una lezione magistrale all'accademia di polizia, un'opportunità per applicare a freddo il puro ragionamento deduttivo. Ma come in tutte le imprese importanti, il problema era partire bene. Detto in altre parole: da dove cominciare? Quando sottoposi questo interrogativo metodologico a Garzón, lui si grattò il mento mal rasato per quasi cinque minuti, il che è quasi sempre un segnale eccellente, e alla fine disse:

- Io credo, ispettore, che dovremmo chiedere consiglio a qualcuno che ne sappia più di noi. Un collega che si sia già occupato di casi riaperti, tanto per farsi un'idea. Se il suo orgoglio professionale glielo consente, è ovvio.

- Il mio orgoglio generale è già finito alle ortiche la prima volta che ho dovuto chiedere aiuto per cambiare una gomma.

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Frugare nei doppifondi di quell'individuo cominciava a farmi venire l'orticaria, come sempre mi succede quando entro in contatto con gente dall'animo banale. Avrei preferito di gran lunga trovarmi alle prese con una personalità terribile, mossa da istinti criminali, con un uomo truculento, un sadico vero, piuttosto che con un poveretto del genere. Ma le aspirazioni che uno ha nella vita non si realizzano quasi mai. Ci si trova sempre a brigare con vittime o colpevoli della stoffa più mediocre, nelle cui pieghe non alligna il cancro della vera malvagità, ma solo il sentore sgradevole della miseria morale, delle false ambizioni o di tare psicologiche minori. Garzón non apriva bocca, si limitava a camminarmi accanto con aria affaticata. Decisi di fare qualcosa per salvare la situazione.

- Vuole che ci prendiamo una birretta da qualche parte prima di andare a casa, Fermín?

Non si fece pregare. Si fermò, si guardò intorno, sicuro di trovare un bar a meno di cinquanta metri, e infatti, come sempre nel nostro paese, a pochi passi vedemmo brillare un piccolo e nuovissimo caffè mai visto prima. Ci servirono due birre gelate che bevemmo senza neanche alzare i bicchieri alla reciproca salute.

- Non le viene mai voglia di mollare tutto, viceispettore?

- Anch'io oggi sono stanco morto.

- Mi riferivo a una stanchezza più profonda. Ma non mi dia retta, forse è solo questa storia vecchia di cinque anni a farmi straparlare. Affondare le mani nel passato potenzia la mia sensazione di inutilità. Sa dirmi a cosa serve fare i poliziotti? Corriamo dietro alla chimera di sradicare il male e riportare la giustizia nel mondo, ma in realtà siamo sempre allo stesso punto.

- Immagino che questo valga per ogni genere di lavoro. I maestri corrono dietro alla chimera di far venir voglia di studiare ai bambini, i medici di ridare la salute agli ammalati, gli spazzini di rendere pulite le strade; ma cosa succede il più delle volte? Che i bambini restano ignoranti e zucconi, che i malati si tengono i loro acciacchi, e che le strade sono piene di cartacce e di cacche di cani. Ma non bisogna scoraggiarsi, perché qualcuno è meno zuccone, qualcun altro sta un po' meglio, e magari riusciamo anche a non camminare in un immondezzaio. Quindi, anche noi, se non sradichiamo il male dal mondo, ogni tanto facciamo passare a qualche figlio di puttana la voglia di rompere le scatole al prossimo. E magari qualcuno lo sbattiamo in galera. O no? E allora si accontenti di questo perché è quello che c'è.

- Se sta cercando di tirarmi su di morale, lasci perdere, mi sento peggio che mai.

- Pensa di sentirsi meglio se ci facciamo un'altra birra?

- Può darsi.

- E allora ordiniamola.

Uscimmo dal bar semidistrutti. Garzón, che aveva parcheggiato lì vicino, mi portò a casa, e solo con un cenno degli occhi, ci salutammo.

I tempi in cui Marcos mi preparava ogni genere di prelibatezze per il mio ritorno a casa erano tramontati. Finalmente ero riuscita a fargli capire che quelle dimostrazioni pratiche d'affetto non erano indispensabili per la quotidianità. C'era da dire che si era notevolmente rilassato quanto a premure nei miei confronti. La vita di coppia non ha un andamento uniforme, ma conosce variazioni di ritmo a seconda dei periodi e delle età. E questo non è negativo, sebbene possa sembrarlo, perché evita una gran perdita di tempo in sciocchezze e smancerie che in fondo contribuiscono molto poco alla causa dell'amore.

Marcos stava lavorando nel suo studio quando arrivai. Mi sorrise, mi chiese se fossi stanca e mi propose di scendere in cucina a prendere qualcosa. Lo pregai di lasciarmi stare sul divano mentre continuava a fare le sue cose. Avevo voglia di rimanere lì, distesa, immobile, senza parlare. Allora lui si rimise al computer. Socchiusi gli occhi; vedevo attraverso le fessure delle palpebre la sua schiena forte, i suoi movimenti sicuri. Udivo di tanto in tanto i piccoli suoni che emette un essere umano quando sta in silenzio: un sospiro, un lieve raschiare di gola, l'attrito dei gomiti sul tavolo. Mi pareva un grande privilegio poter stare in una stanza con un'altra persona senza alcun bisogno di far niente in comune: parlare, mangiare, ascoltare musica. Il sonno mi vinse a poco a poco.

Mi svegliai a notte fonda con un sussulto. Marcos non era più nello studio. Mi aveva steso addosso una coperta, per lasciarmi dormire. Una buona decisione. Tirai su le mie povere ossa scricchiolanti e me ne andai in camera da letto. Feci molta attenzione a non svegliarlo. Mi stesi accanto a lui e ripresi sonno, con una gran sensazione di pace.

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Tutti i fantasmi che mi erano apparsi quando avevo saputo che saremmo stati affiancati da due ispettori romani si erano materializzati d'un sol colpo. Ormai, con l'esperienza che avevo alle spalle, avrei dovuto saperlo: i problemi che si profilano come possibili finiscono sempre per dimostrarsi reali. Come evitare che un ispettore di polizia straniero, che se ne sta nel suo paese, e che ha l'incarico di assisterti nelle indagini, cerchi di importi i suoi criteri personali? Abate voleva farsi bello col nostro caso, non solo aiutarci nella ricerca di un indiziato. E io non potevo farci niente.

Se avessi protestato, o avessi anche solo tentato di correggere le sue direttive, la cosa più facile per lui sarebbe stata disinteressarsi della faccenda. Quell'italiano del cavolo ci avrebbe complicato la vita più del previsto. E non sarebbe stata tutta colpa sua, bensì di quel sistema perverso che duplicava le forze, in realtà dimezzandole, senza che ce ne fosse alcun bisogno. Non bastava che Garzón ed io rendessimo conto del nostro operato alla polizia locale e chiedessimo il loro aiuto passo dopo passo? No, adesso eravamo lì come due salami, privati dell'arma d'ordinanza e guardati a vista tutto il santo giorno! Quando mi trovai seduta in macchina accanto a Garzón glielo accennai sotto voce, e lui si limitò a sbuffare come un bisonte, stringendosi nelle spalle.

Poi venne la scenetta del giudice. È vero che in Spagna noi poliziotti esageriamo nel voler preservare la nostra indipendenza dal potere giudiziario, e prendiamo un po' sottogamba la figura del magistrato. In Italia non è così. In Italia, il giudice, che loro chiamano Pubblico Ministero, è il padreterno e la bestia nera, tutto insieme. Proprio come una figura totemica, gli si rende omaggio e lo si tratta con rispetto reverenziale. Ed ecco che Sua Eccellenza il Pubblico Ministero era lì, più vecchio di Matusalemme, racchiuso in un abito scuro blindato, simile a quelli che portava Garzón ai tempi della sua vedovanza.

Fu naturalmente Abate a condurre la riunione in vece nostra, fornendo al magistrato tutte le precisazioni che questi chiedeva. Stranamente, il nostro impulsivo ispettore mostrava la pazienza di un santo, e neppure per un attimo cercò di accelerare il pignolissimo esame di tutti i documenti. Io cominciavo ad averne fin sopra i capelli di tante formalità, ma non potevo che starmene zitta e attendere che finisse il rosario di domande dell'anziano Cesare Bono. Finalmente, quando ormai non ci speravo più, il solerte magistrato si decise a firmare una quantità inverosimile di carte. Ma prima, estrasse dalla tasca interna della giacca un paio di occhialetti a pois di un luminoso verde fosforescente. Santo cielo! Nessun giudice in Spagna, giovane o vecchio, pedante o facilone che sia, trovandosi nell'esercizio delle sue funzioni, oserebbe inforcare un accessorio simile! Quello fu un insegnamento fondamentale: gli italiani sono disposti ad accettare l'uniformità che un ruolo determinato impone, ma vi introducono immancabilmente un particolare bizzarro, una nota spiritosa, che sancisce il loro distacco dalle convenzioni. Una gran bella cosa, pensai. Magari Coronas ne fosse capace.

Ma non era ancora finita. Seguì il capitolo delle raccomandazioni. Il giudice Cesare Bono ci pregò di essere prudenti, di rispettare il più possibile la presunzione d'innocenza, di non forzare mai le situazioni, di prendere le cose con calma e di tenerlo scrupolosamente informato. Credo che neppure un padre dei tempi andati si sarebbe mostrato così puntiglioso con i più discoli dei suoi figli. Quando credetti che avesse finito, si mise a rispolverare i ricordi dei suoi soggiorni a Barcellona, accompagnandoli con profondi sospiri di nostalgia. Sembrava sentire la mancanza di un'amante più che di una città, e forse entrambe le cose erano vere. Poi si mise a farmi domande. Continuava a palpitare lungo le Ramblas lo spirito sensuale e bohémien che lui aveva conosciuto? Mi astenni dal dirgli che orde di turisti avevano trasformato quella passeggiata e tutto il centro di Barcellona in un luogo impercorribile, e che ormai lungo i marciapiedi e sotto i platani si susseguivano negozi di souvenir e fast-food. Ma non potei impedire a Garzón di diffondersi su quanto fosse cara la vita e fino a che punto fosse difficile trovare parcheggio. Per fortuna, credo che il giudice non capì o non volle capire. Meglio così. Non avevamo nessun diritto di avvicinare uno spillo al palloncino dell'illusione che quel brav'uomo aveva gonfiato anno dopo anno.

Finalmente, due ore dopo esservi entrati, lasciammo il palazzo. Nel parcheggio, mi lamentai col mio collega italiano, credendo che la pensasse come me:

- Abbiamo perso un mucchio di tempo prezioso. Temevo non ci lasciasse più andare!

Abate mi guardò con sufficienza. Capii che quel commento gli pareva del tutto inopportuno:

- Niente affatto! Direi che il tempo lo abbiamo impiegato benissimo. Per salire una scala senza rischiare di cadere, è bene non saltare neppure un gradino.

- Il gradino di Barcellona era così indispensabile?

- Era quello fondamentale. Noi italiani, ispettore, attribuiamo grande importanza al contatto personale. Dopo questo piacevole scambio di vedute, il giudice Bono si fiderà di noi e non si permetterà nessuna intromissione. Guadagneremo tempo, perché non ci chiederà resoconti precisi sui nostri progressi e non pretenderà di vedere i verbali ogni momento.

Lo guardai con la coda dell'occhio. Sorrideva. Che cosa bisognava dire a un tipo così per farlo arrabbiare? Mentre Gabriella andava a prendere la macchina, lui continuava a sorridere serafico. Cercai nuovamente di strapparlo alla sua beatitudine.

- Vedo che la sua assistente le fa tutte le commissioni. È anche una brava poliziotta?

Raccolse la palla al balzo e, senza battere ciglio, me la rispedì.

- Gabriella è il nostro fiore all'occhiello. Domina l'informatica, ha fatto un master in criminologia ed è cintura nera di karate. Se non l'ha sentita intervenire nella conversazione è perché in questi giorni è un po' preoccupata. È appena rientrata in servizio dopo la maternità, e questa è la prima settimana che lascia suo figlio con una baby-sitter. Lei che è una donna potrà capirlo. Le donne cambiano quando sono madri. Diventano belve col resto del mondo, sono dolci solo col loro bambino.

Stavo per dirgli che per me quella era una solenne cretinata, ma mi trattenni. Un conto era punzecchiarlo un pochettino, un altro aprire uno scontro diretto prima ancora di aver cominciato a lavorare. Mi accontentai di rispondere:

- Può darsi. Io non ho figli.

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