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| << | < | > | >> |Pagina 11Garzón non capiva perché quel cadavere mi colpisse tanto, e non riusciva nemmeno a spiegarsi la natura della mia emozione. Secondo lui ormai avevamo visto più morti di Napoleone e Nelson messi insieme, e non si poteva certo dire che quella mattina il Parque de la Ciudadela fosse il campo di Waterloo dopo la battaglia. Un barbone sdraiato su una panchina, questo era tutto. Sembrava semplicemente che fosse rimasto addormentato e che, nonostante quel che gli stava capitando intorno, non si fosse ancora svegliato. L'avevano ammazzato di botte, ma nessuno era riuscito a cancellargli dalla faccia una serena dignità. Mani lunghe, barba bianca e fluente... era come re Lear nella tempesta, abbattuto dalla folgore, solo, immobile, a ricordare con la sua magnificenza che, perfino così abbandonato, era pur sempre un re. - Sciocchezze, ispettore... - La voce del mio sottoposto mi riportò alla realtà, - ... un re della zozzeria, vorrà dire. Provi a togliergli le scarpe e a dargli un'occhiata ai piedi. Di sicuro nessun re è mai stato profumato come lui. Perché mai dovremmo ritenere più vero il brutto del bello, quel che si vede e si tocca di quello che sta scritto sui libri, quel che si vive nella realtà di quel che si immagina? Inutili convenzioni. Mi sforzai di spiegarlo a Garzón; lo rispettavo troppo per non fare almeno un tentativo. - Vede, viceispettore, un barbone ha una sua grandezza: è come un santone, come qualcuno che ha raggiunto la vera saggezza, o un livello superiore di conoscenza. Un barbone può permettersi di non dare alcun peso alle miserie quotidiane che ci opprimono, vive libero come l'aria, è superiore. Non paga il mutuo, per esempio, non guarda la televisione, non compra il biglietto dell'autobus... Non bada a certe cose, non ha vincoli, mi spiego? Garzón fissava con attenzione il volto di quell'uomo, rifletteva sulle mie parole, le analizzava. Incoraggiata da questa reazione, proseguii: - Avere davanti un uomo simile è quasi un'esperienza mistica, capisce? Un po' come contemplare una grande cattedrale. - Capisco, sì. Ma lo sa che mi sarebbe piaciuto vederla parlare in tribunale, Petra? Lo fa così bene! - In un tribunale non avrei mai detto certe cose, Fermín, mi avrebbero presa per pazza. - Meno male che il giudice se ne è già andato, allora! Perché tutta questa storia della mistica e dei biglietti dell'autobus sarà anche bella, ma non vedo a cosa ci serva. Il suo santone l'hanno riempito di botte da lasciarlo secco, i fatti sono fatti, e di cattedrali per me quella di Burgos basta e avanza, quindi... Era proprio necessario che facesse tanto lo spiritoso? Che mi dimostrasse tutta la sua beceraggine iberica? Non gli si poteva muovere altra critica, perché aveva ragione. Una gran bella scarica di botte e la morte, erano toccate a quel poveraccio. Poi, il solito teatrino: la recinzione di nastri, agenti sguinzagliati per tutto il vicinato, il giudice, il medico legale, e noi due incaricati delle indagini. Triste corteo per un re defunto. - Con tutte le botte che ha preso, il sangue non è molto - disse il medico legale avvicinandosi di nuovo al cadavere. Lo osservò in silenzio. Era una donna giovane ed elegante, aveva posato la borsa di capretto sul marciapiede. - È morto da parecchio? - domandai. - Non me la sento di dire niente. È piuttosto rigido, ma le ecchimosi... Il mio collega che farà l'autopsia le saprà dire qualcosa, ispettore. Preferisco non arrischiarmi. Garzón la guardò allontanarsi, mentre i barellieri procedevano a rimuovere il cadavere. - Ecco come sono questi giovani, ispettore. Tutto deve essere preciso, ufficiale. Noi almeno siamo un po' più elastici, no? - È quello che dicevano i dinosauri delle gazzelle, e lo sa anche lei com'è finita. Il mio paragone non lo divertì. Per lui i giovani erano una banda di concorrenti sleali che veniva al mondo all'unico scopo di portargli via un posto onestamente guadagnato grazie a una vita di sforzi e alle inimitabili virtù della sua generazione. | << | < | > | >> |Pagina 77- D'accordo, proviamo all'ex caserma di San Andreu.Devo dire che visitare una caserma abbandonata piena di poveracci non era il mio programma ideale per la serata. Per la prima volta da quando conducevo quell'inchiesta mi vennero dei dubbi sulla mia capacità di portarla a termine. Mi era del tutto sconosciuto l'ambiente in cui ci muovevamo, il tipo di soggetto di cui stavamo ripercorrendo i passi e, per di più, quel mondo mi deprimeva. La passione con cui mi ero lanciata all'attacco cominciava a venir meno. Risolvere quel caso non sarebbe stato semplice: soltanto identificare la vittima avrebbe potuto richiedere settimane, forse mesi. Quanti altri luoghi oscuri avrei dovuto esplorare? La caserma di San Andreu era un piatto per stomaci forti. L'edificio era stato preso d'assalto da squatter d'ogni genere e risma. Non c'era acqua né luce, ma ognuno di quei diseredati si era dato da fare per trasformare l'angolo di propria competenza in una casa. Vidi stanze dove erano stati disposti perfino dei vasi di fiori. Non pareva logico né normale che gente che non possedeva il minimo necessario per la sopravvivenza desiderasse rendere accogliente perfino la propria miseria, eppure era così. Le convenzioni sociali sono molto più forti di quanto si possa immaginare. Muniti della foto del nostro uomo, cominciammo una ricerca alla cieca. Uno per uno, tutti quegli immigrati, giovani disadattati, barboni e vecchi malati furono interrogati. Le reazioni erano sempre le stesse: paura, incomprensione, indifferenza, stupore. Nessuno si mostrò imbarazzato o indignato per la nostra intrusione nella sua precaria intimità. Ormai avevano perso ogni capacità di ribellione. I più difficili da affrontare erano senza dubbio i barboni tradizionali. Ascoltavano senza capire e parlavano senza alcun senso logico. Sembravano appartenere a una razza a parte in cui nessuno è mai stato bambino, nessuno è stato giovane, né, invecchiando, conserva dei ricordi. Tre ore dopo uscimmo di lì a mani vuote. Nessuno aveva visto l'uomo assassinato. Mi domandavo se quei testimoni fossero affidabili. Anche se non mentivano, per loro la differenza tra averlo visto o non averlo visto doveva essere minima, non sarebbe stato che un'ombra in più nel loro deambulare senza senso. - Ma dove li trovano i soldi per vivere? - domandai a Yolanda, una volta in macchina. - Chiedono l'elemosina, suonano strumenti per la strada, ricevono piccoli aiuti da opere pie e servizi assistenziali. Tirano avanti con poco, soprattutto i barboni. Sono frequentatori assidui delle mense di carità, e una volta che hanno mangiato... non hanno molte esigenze. Non hanno moglie né figli... Vegetano, semplicemente. - Di quali aiuti dispongono? - Ci sono ricoveri notturni, pubblici e privati. Quando si ritiene che esista una possibilità di reinserimento, i barboni vengono avviati verso attività socialmente utili. Credo che non possano rimanere per più di quindici giorni in un ricovero, questo per evitare che si trasformino in «cronici». - Fenomenale! - esclamò Garzón. - Basta buttarli fuori perché si reinseriscano nella società? - A dire il vero non gli vengono date molte opportunità. E poi, quando se ne vanno, non sono più seguiti. Il peggio è che sono ritenuti politicamente scomodi e si cerca in ogni modo di toglierli di mezzo. Lo so per esperienza personale. Ogni volta che a noi vigili viene richiesto un servizio in merito ai barboni, è per farli sparire dalle strade: quando fa troppo freddo d'inverno, quando c'è qualche personalità in visita alla città o qualche importante evento pubblico... A volte il comune gli paga perfino il biglietto del treno perché se ne vadano. | << | < | > | >> |Pagina 105Era verissimo che Yolanda era una gran chiacchierona, ma a me non disturbava, anzi, devo dire che trovavo piacevole il suono della sua voce giovane e allegra. Probabilmente il disagio che provai nel visitare quei centri d'accoglienza sarebbe stato difficile da sopportare senza di lei. Lo squallore delle mense dei poveri piene di gente senza futuro, dei dormitori dove si ammassavano barboni e immigrati, assumeva per noi una dimensione tragica che alla volenterosa vigilessa era del tutto estranea. Credo che, dalla prospettiva della nostra età, vedessimo qualcosa di noi stessi in quei luoghi spaventosi. Nessuno supera indenne i quarant'anni, e chiunque, uomo o donna, si sia già lasciato metà della vita alle spalle, non può scacciare un pensiero angoscioso: «Sarebbe potuto succedere a me». C'era qualcosa di nostro nel fallimento di quegli emarginati, qualcosa che sapevamo di condividere con loro: i sogni svaniti, l'accumularsi delle frustrazioni, l'indifferenza in cui rinchiudiamo la nostra mente per riuscire a vivere senza troppo dolore.I centri di accoglienza del comune erano gestiti da personale entusiasta e cortese che ci ricevette molto bene, ma il compito da affrontare non era facile. Mostrare la fotografia del morto agli operatori non bastava, bisognava avvicinare tutti coloro che in quel momento si trovavano all'interno della struttura, e interrogare quella gente era davvero scoraggiante. Quelli che intervistai io mi guardavano con aria assente, come se non capissero le mie domande, come se rispondere o non rispondere fosse in realtà lo stesso. Non erano abituati a sentirsi chiedere qualcosa, le loro opinioni o le loro esperienze non interessavano mai a nessuno. Vivevano su un altro pianeta, parlavano un altro linguaggio, non eravamo sullo stesso piano di realtà. Mi vergognavo ad avvicinarmi a loro, provavo lo stesso senso di colpa che assale un turista sensibile in viaggio nel Terzo Mondo. Non c'erano lenzuola sui letti, solo coperte che sembravano dell'esercito. Accanto a ogni brandina, ciascuno teneva le sue cose. Una delle operatrici mi spiegò che nessuno voleva separarsene. - In quei fagotti c'è tutto quel che possiedono. È inutile pretendere che li mettano in un armadio o in un'altra stanza. Vogliono tenerli sotto controllo in ogni momento. E hanno ragione: vengono spesso derubati. Dai loro compagni, naturalmente, perché mi dica lei a chi possono interessare certi stracci. Mi tornò in mente l'immagine di tutti i vagabondi e mendicanti che avevo visto nel corso della mia vita e, in effetti, accanto a loro c'erano sempre sacchetti, borse, cartoni. Per quanto uno sia povero, ha sempre qualcosa di cui fare tesoro. Nel corso di quelle visite constatammo che, fra i disagiati, i barboni erano al livello più basso di degradazione. Nei giovani immigrati clandestini palpitava ancora la speranza di un lavoro, di un inserimento sociale, ma i vecchi mendicanti alcolizzati non aspiravano più a niente, erano giunti alla fine del percorso, e davano perfino l'impressione, a quanto mi dissero coloro che se ne occupavano, di disprezzare qualunque aiuto. - Se li buttiamo fuori, per loro è lo stesso, troveranno un altro posto dove andare. E se gli proponiamo di fare domanda per entrare in un centro di accoglienza permanente, loro dicono di no. Non vogliono assumersi nessun tipo di impegno. - Sono come principi orgogliosi - mi lasciai sfuggire. La ragazza mi guardò con indifferenza. - Qualcosa del genere. Quella frase mi valse, naturalmente, le sarcastiche rappresaglie del mio collega. - Ricominciamo con le favolette mistiche, ispettore? - Le favole del lupo cattivo le lascio a lei. La povera Yolanda non capiva granché di quel battibecco fra colleghi, ma da ragazza prudente che era, se ne rimase zitta. Meglio così, sarebbe stato difficile spiegarle che il nostro era un modo come un altro di andare d'accordo. | << | < | > | >> |Pagina 216Era vero: quasi nessuno denunciava i raggiri connessi con la beneficenza, e i delinquenti che ne approfittavano erano poco perseguiti. Ma uno degli individui coinvolti nel caso della Caritas era schedato, e trovarlo non fu difficile. Era un certo Juan de Dios Llorens, un piccolo truffatore arrestato più volte per furto e altri reati minori. Garzón andò a cercarlo all'indirizzo che risultava nei nostri archivi. Volevo rimanere sola per un po' in modo da poter riflettere tranquillamente sulle indagini, anche se per la verità non appena cercavo di riordinare le idee la mia mente deviava verso un pensiero ossessivo: Ricard. Sarebbe stato così arrischiato andare a vivere con lui? Una simile convivenza avrebbe avuto qualche possibilità di successo? Quell'uomo mi piaceva al punto da compiere un simile passo? Era davvero così importante condividere la propria abitazione con una persona dell'altro sesso? Le voci elaborate in altri tempi dalla mia coscienza mi assalirono all'improvviso: «Non riprovarci, Petra. Da sola starai sempre bene». Due matrimoni falliti alle spalle erano sufficienti per far sospettare una tendenza innata al disastro amoroso. Per di più, non doveva essere facile vivere con me, dal momento che io trovavo difficile vivere con gli altri. Questa volta però non ero trascinata dalla passione, e per la prima volta potevo considerare con lucidità i pro e i contro di una nuova organizzazione della mia vita. L'amore tende a sottovalutare gli inconvenienti anche quando si presentano con chiarezza. Si pensa sempre che la volontà di far funzionare le cose basterà per smussare gli attriti. La teoria è buona, ma giunge sempre un momento in cui la volontà stessa vacilla e non si sa più da dove tirar fuori le forze per andare avanti. Di Ricard non ero innamorata. Mi piaceva molto, ero lusingata dalle sue attenzioni, e mi pareva che vivere con lui avrebbe potuto presentare dei vantaggi: avere qualcuno con cui chiacchierare, per esempio, avere qualcuno con cui fare l'amore, avere qualcuno sulla cui spalla appoggiare la testa nei momenti difficili. In definitiva, avere qualcuno. La gente si sposa con tanto di abito bianco e banchetto di nozze per motivi molto meno convincenti. Eppure, se avessimo fatto la prova e gli avessi permesso di trascorrere un periodo a casa mia, avrei perso quei meravigliosi momenti di solitudine a cui ero abituata. E il peggio era che avrei potuto perderli definitivamente se la cosa avesse funzionato mediamente bene. I motivi per rifiutare anche solo una prova mi parvero meschini come quelli di una zitella egoista che non vuole sacrificare a nessuno le sue tazze di tè e le sue piacevoli letture. Ma ugualmente prosaici erano i motivi per accettare, come quelli di una vedova che ormai si è lasciata alle spalle la gioventù ma non vuole accontentarsi di dire parole affettuose al gatto. Ci pensai ancora un po' ed entrambi gli esempi mi parvero penosi stereotipi. Non potevo soccombere. Dovevo riflettere in modo maturo. Fortunatamente l'ingresso di Yolanda nel mio ufficio mi impedì di fare nulla di così noioso. Aveva i capelli legati in una coda e la faccia pulita e senza trucco. La invidiai, perché aveva un fidanzato che forse era il primo della sua vita e perché forse non aveva mai dubitato di volerlo sposare. - Ispettore, ci sarebbe una cosa. Magari è una sciocchezza, mi dica lei. - Siediti, Yolanda, non avrai perso il portachiavi... - No, eccolo qui. Lei non si fida di me! Quello che ho da dirle riguarda proprio il portachiavi. Un impiegato dei Cristiani Uniti l'ha riconosciuto. Mi ha detto che qualche mese fa due ragazzi sono venuti a chiedergli se volesse comprarne qualche centinaio da distribuire nella sua organizzazione. - Come? - Sì, dicevano di appartenere a una fondazione benefica senza grandi mezzi né infrastrutture. Purtroppo il tipo che me ne ha parlato non riusciva a ricordarsene il nome. Dice che ne esistono molte, va' a sapere. Gli hanno lasciato un numero di telefono nel caso decidesse di aiutarli. - Però l'ha perso. - No, è qui, ce l'aveva ancora. - Cavoli, Yolanda, potevi dirlo prima! Le strappai quasi il foglio di mano. La ragazza mi guardò senza capire. - Le avrei comunque spiegato il resto. Feci cercare il nome e l'indirizzo dell'abbonato e chiamai Garzón perché tornasse immediatamente in ufficio. Così fummo in tre a sorprenderci nello scoprire a chi era intestato quel numero: Tomás Calatrava Villalba. L'indirizzo che risultava all'azienda telefonica era in calle Princesa. Mandai Yolanda a verificare se l'appartamento fosse in affitto, o di proprietà di Tomás il Saggio. Mi infilai l'impermeabile e guardai Garzón, che rimaneva lì seduto. - Su, si mobiliti. - Lì fuori ci sarebbe Juan de Dios Llorens. Cosa ne facciamo? - Che aspetti. Poi gli diamo una bella ripassata. E dica agli agenti di non lasciarlo andare via. Ultimamente non c'è posto meno sicuro di questo commissariato. L'appartamento di Tomás il Saggio era in un vecchio stabile ben tenuto. Non sembrava potessero abitarvi emarginati o gente in gravi difficoltà. La vecchietta che viveva sullo stesso pianerottolo di Tomás ci fece entrare molto gentilmente in casa sua e ci invitò ad accomodarci nel suo salottino. Aveva due gatti che ci guardavano di traverso. - Gradite un caffè? Lo stavo giusto preparando. | << | < | > | >> |Pagina 260La cena del benedetto nume tutelare della sbirraglia si teneva in un salone nei sotterranei del commissariato. Prima almeno la si faceva in un ristorante, ma Coronas aveva deciso di sospendere l'iniziativa per ragioni di sicurezza. Doveva immaginarsi una specie di notte di San Valentino, come aveva giustamente congetturato Ricard. In effetti la possibilità che a qualcuno venisse in mente di far fuori un'intera squadra di poliziotti in un colpo solo era reale, ma noi tutti sapevamo che anche i motivi di ordine economico avevano il loro peso. In questo modo il commissariato risparmiava un bel po' di soldi. Lunghi tavoli con le tovaglie di carta, bicchieri e posate di plastica, accoglievano un catering modesto che lo stesso Coronas si premurava di ordinare in una trattoria. Il menu era quello d'uso: tortilla de patatas, calamari fritti, chorizo e prosciutto, crocchette fredde come ghiaccioli e fette di pane con olio e pomodoro a volontà. Roba da poveracci, in sostanza, anche se la cosa che mi riusciva più indigesta erano i commenti dei miei colleghi sulla cattiva qualità dei cibi, sulla loro eccessiva umiltà. Illustravano alla perfezione la nuova sindrome delle classi medie spagnole: tutti sembrano improvvisamente diventati perfetti conoscitori di vini e buongustai in grado di distinguere senza esitazioni fra un foie entier e un mi-cuit. Patetico, in un paese dove fino all'altro ieri ci si rimpinzava di lenticchie come unico rimedio contro la fame. I miei colleghi non facevano eccezione alla regola generale. Al momento dell'aperitivo non lesinarono battute su quel che ci aspettava. Io girellavo qua e là col mio bicchiere di spumante tiepido, del tutto imbevibile, cercando inutilmente Garzón. Dove diavolo si era ficcato? E proprio in una delle occasioni in cui avevo più bisogno di lui per di più. I miei rapporti con gli altri ispettori si limitavano all'ambito professionale, mai che riuscissi a trovare un argomento di conversazione minimamente piacevole ed educato. Ma il maledetto viceispettore non compariva. Come se la situazione non fosse già abbastanza grigia di per sé, all'improvviso mi si parò davanti Fernández Bernal.- E allora, Petra, come va? - Lo vedi. Festeggio anch'io il patrono. - Non credere, sai, anche a me queste cose non vanno troppo a genio. - Non so a cosa tu ti riferisca, io mi sto divertendo un mondo. - Dài, Petra, come puoi dire una cosa simile, tu sei al di sopra di tutto questo! Sono sicuro che pasteggi ogni sera a caviale e champagne. - Senti, Bernal, adesso basta. Non ho nessuna intenzione di stare ad ascoltare le tue idiozie. Che sono sofisticata, che sono viziata, che a casa ho il maggiordomo in livrea. Io vengo qui a sgobbare e tu anche, no? E allora non facciamola tanto lunga.
Gli voltai le spalle e lo
lasciai letteralmente a bocca aperta. Forse avevo esagerato, ma ne avevo fin
sopra i capelli delle insinuazioni di quel cretino. Mi autogiustificai, come
faccio ogni volta che mi comporto in modo terribilmente sgradevole. Perché
sorridere sempre? Perché essere sempre complici della commedia sociale? È così
essenzialmente sbagliato dire ogni tanto quello che si pensa? È davvero
necessario che gli altri abbiano una buona impressione di noi quando quella
buona impressione è basata sulla falsità? Dopo questa salva di domande retoriche
mi sentii un po' meglio. Per dimostrarmi che non ero un mostro mi avvicinai a
Eva e Begoña, due ispettori più giovani di me. Con le donne è più facile. Puoi
sempre parlare del nuovo colore di capelli, di come ti sta bene la camicetta o
di come ti cade bene il pantalone comprato in saldo. Quando ormai ero lanciata
nella piacevole frivolezza della chiacchierata estetica, vidi arrivare Garzón.
Strabuzzai gli occhi, perché non riuscivo a credere a quello che vedevo.
Sembrava vestito per un matrimonio di paese e portava al braccio una giovane
sposa un po' impacciata con la faccia tumefatta: Yolanda!
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