Copertina
Autore Alicia Giménez-Bartlett
Titolo Riti di morte
EdizioneSellerio, Palermo, 2002, La memoria 541 , pag. 392, dim. 120x167x19 mm , Isbn 978-88-389-1780-6
OriginaleRitos de muerte [1996]
TraduttoreMaria Nicola
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa spagnola , gialli
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Pagina 9

Qualche tempo dopo la mia seconda separazione decisi di cercarmi una casetta con giardino in città. Un obiettivo difficile, ma ci riuscii. Era qualcosa di più che un capriccio. Troppi anni passati in appartamenti con mobili funzionaLi e un gran congelatore. Ora mi si presentava l'occasione di abitare da sola in un posto tranquillo, e volevo che fosse un'opportunità per cambiare. La casa era a Poblenou, un quartiere non troppo lontano dal centro. Tutt'intorno c'erano case vecchie e cadenti come quella che avevo comprato, fiancheggiate da capannoni industriali, imprese di trasporti, rimesse degli autobus. Un paesaggio abbastanza desolato, malgrado i tentativi di recupero compiuti dal comune. Ma la domenica i cancelli delle fabbriche erano chiusi, i camion sparivano e si respirava un'inusitata tranquillità.

Pensavo che il mio unico scopo fosse organizzarmi meglio, coltivare qualche pianta nel giardinetto di casa e mangiare più spesso una cena calda. In realtà pulsioni più profonde animavano sotterraneamente quella decisione. Possedere una casa tutta mia era come gettare una gomena al pontile, toccare terra ferma, mettere radici. Una premessa che condizionava tutto il resto, come il semplice fatto di essere biondi o bruni, di essere brutti o belli, o di essere nati in Europa píuttosto che in Giappone. Come in tutti i progetti grandiosi l'importante è studiare prima la scenografia, il resto non è che una serie di conseguenze verso il lieto fine.

I muratori ci misero sei mesi a rifare gli interni e, quando ebbero finito, i miei magri risparmi si ritrovarono dilapidati in cose apparentemente assurde come telai di finestre e condutture del gas. In polizia non si guadagna molto, sicché l'idea di riuscire ad accumulare di nuovo una simile somma mi appariva come qualcosa di remoto se non impossibile, una pia illusione. Eppure ero soddisfatta, perché nell'insieme la casa era venuta abbastanza bene. Il giorno prima del trasloco mi fermai a esaminare il risultato: aveva un aspetto solido e quotidiano: allegre porte dipinte di bianco, molta luce... In cucina facevano bella mostra di sé gli armadietti realizzati su misura e una magnifica vecchia stufa, che avevo voluto mantenere. A lato avevo fatto installare un piano cottura in vetroceramica che era l'ultimo grido della tecnologia. Lì sopra avrei preparato elaborati manicaretti, piatti che avrebbero fatto perdere la pazienza perfino alle nostre nonne, ollas podridas e stufati che avrebbero richiesto giorni interi di cottura a fuoco lento. Avrei detto addio, per quanto possibile, ai pasti precotti, alla pizza telefonica, all'hot dog, al taco messicano e al chop-suey in vaschetta. Avrei smesso di andare a cena in trattoria col minimo pretesto. Quando si cambia si cambia e, contrariamente a quanto si creda, bisogna cominciare dalle piccole cose, ingredienti indispensabili di ogni profondità esistenziale.

Pepe mi aiutò nel trasloco; era inevitabile, mi aiutò. In linea di principio non avrei dovuto neanche lasciarlo avvicinare alla mia nuova casa, ma poi pensai che al punto in cui eravamo temere la sua presenza fosse infantile, e così mi diede una mano. D'ogni modo, la nostra separazione era avvenuta in termini così amichevoli che non accettare la sua offerta sarebbe stato scorretto, quasi offensivo. Si presentò vestito come sempre: jeans logori, maglione, occhiali che gli scivolavano sul naso. Quella sua aria da ragazzino mi diede una stretta al cuore. Come avevo fatto a sposare un uomo così giovane, così indifeso? E, soprattutto, come avevo fatto a sposarmi, dal momento che non era il mio primo matrimonio, che stavo venendo fuori da un'esperienza difficile, finita in un divorzio cruento e doloroso? Gli esperti del dipartimento di psicologia avrebbero avuto molto da dire in proposito. Solo che erano troppo occupati in altre faccende per fornire il loro parere sui problemi personali dei colleghi. E lungi da me l'idea di consultarli. Ero entrata in polizia proprio per lottare contro un eccesso di riflessione che minacciava di sommergermi a ogni minimo problema. Volevo solo pensieri pratici: induzione, deduzione, azione. Sempre al servizio della concretezza. Basta con le assorte meditazioni intime al banco di un bar.

Pepe posò gli scatoloni pieni di libri nel salone. Si mise a guardare dalla finestra, stordito, coperto di sudore e di polvere. Probabilmente si era dimenticato di pranzare.

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Hugo aveva un aspetto signorile e stanco, come se fosse appena uscito da una lunga convalescenza in una stazione termale. Il passare del tempo gli donava, così come le tempie grigie, la cura nel vestire. Scaduti i termini della Natura, l'esperienza e il denaro facevano la loro parte. Le camicie di Agnelli, come diceva Garzón. Gli avevo dato appuntamento a La Jarra de Oro, dove il suo aspetto distinto contrastava con la semplicità del proletariato bevitore. Alzò gli occhi al cielo come era solito fare prima delle sue filippiche. Il lato istrionesco della sua personalità non doveva essere cambiato. Bene, avrei ascoltato tutto quel che aveva da dirmi, con umiltà, con riserbo, senza esibire gli aspetti positivi della mia vita attuale. Neppure per scherzo potevo farlo partecipe dei miei nuovi progetti di tranquillità casalinga e gerani nel giardino. Per lui ero una disgraziata e mi comportavo come tale.

Non appena fummo seduti guardò gli angoli del soffitto come se lì si trovasse concentrata tutta la miseria morale del bar La Jarra de Oro. Guardò anche con disprezzo il cameriere, che esibiva sul grembiule la sua mappa di macchie quotidiane.

- Ci porti due tè.

Aveva scelto anche per me, senza rendersene conto.

- Ormai prendo solo tè - dichiarò. - Il caffè mi uccide. Sai bene che dopo che te ne sei andata mi è venuta un'ulcera gravissima e ci ho messo un sacco di tempo a farmela passare. Anche se mi sono ristabilito, preferisco fare attenzione.

Quell'ulcera saltava fuori sempre, anche per telefono. La nostra separazione, che lui chiamava invariabilmente «quando te ne sei andata», era avvenuta sette anni prima, ma quell'ulcera si comportava come i chiodi di Cristo, lasciava una traccia indelebile che sembrava rendersi degna di adorazione col tempo. E io ero il soldato romano col martello levato sulla croce, pronta a sferrare un altro colpo, io e soltanto io ero stata la causa della sua sofferenza. Armata di una lancia appuntita l'avevo rigirata nei suoi visceri fino a farli sanguinare. Tirò fuori delle carte e non osò posarle sul tavolino sporco. Me le passò:

- In questo documento verde sono specificate le condizioni di vendita, spero che ti paiano interessanti. Solo in quello verde, gli altri contengono dettagli finanziari di cui mi occuperò io.

Quell'insistenza sulla chiarezza del documento verde mirava a sottolineare la mia incapacità di cavarmela in questioni pratiche e organizzative. La sua conversazione era un campo minato, ma già da molto tempo avevo imparato a girare con un detector.

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Arrivata a casa mi versai un bicchiere di chinchón. Sdraiata sul sofà, cominciai a domandarmi chi fosse in realtà il mio nuovo collega. Un classico piedipiatti, di quelli che hanno passato trent'anni a prendere cappuccini al bar dell'angolo aspettando ordini superiori. Di certo brutale negli interrogatori, che non me la venisse a raccontare. Solo che non riusciva a tollerare che quegli stessi metodi li usassi io. Ci si aspetta altro da una donna. Comprensiva con i deboli, solidale col suo sesso, castigata nell'espressione, addolorata dalla malvagità del mondo. Povero Garzón, aveva trovato pane per i suoi denti, e di sicuro, non conoscendo Shakespeare o Tirso de Molina, nemmeno la Bisbetica domata gli sarebbe servita da guida spirituale. Orizzonti limitati, una vita lineare, niente a che vedere con i profondi abissi e le improvvise risalite della mia esistenza. Bene, ora avevo un caso di cui occuparmi, come desideravo da sempre. Era indispensabile che mi creassi il mio ruolo. C'erano stati tempi in cui pensavo che diventare poliziotto avrebbe fatto dei miei giorni qualcosa di interessante, vicino al midollo delle cose. Ma forse quel caso era arrivato troppo tardi, come ogni illusione che si avvera. Mi prendeva in contropiede, in un periodo di assestamento, con una casa con giardino e il proposito di resistere agli assalti della passione. Era come sedersi al banchetto della vita convinta che mangiare troppo mi avrebbe fatto male. Ma è difficile tirarsi indietro dinanzi al potere dell'azione: anche gettato nelle acque più tranquille il sasso solleva degli spruzzi. Comunque, era inutile preoccuparsi troppo: prima o poi quel caso ci sarebbe stato tolto dalle mani, me lo aspettavo ed ero sicura che quando fosse venuto il momento non ne avrei patito. Questo non valeva per Garzón, per quanto dicesse che ne aveva viste di tutti i colori. Lui era stato appena trasferito e di sicuro ci teneva a concludere in bellezza la sua grigia e irreprensibile carriera. Anche se forse desiderava solo che lo licenziassero, per potersene tornare a casa e giocare al biliardo con gli altri vecchiettí. Una prospettiva ragionevole, tranquillità per entrambi. Ma io non potevo dirgli: «Va bene, viceispettore, freghiamocene, mandiamo avanti la faccenda come possiamo, e poi ognuno per la sua strada». No, dovevo rimanere lì a combattere in nome del dovere, dimostrare che ero una belva capace di impugnare le redini di un'inchiesta; una donna non può permettersi il lusso di avere delle esitazioni, soprattutto se fa il paracadutista, il poliziotto o il conducente d'autobus. Quanto a Garzón, doveva imparare ad accettare gli ordini di una novellina come me, dopo essersi trascinato per tutti i vicoli del paese arrestando ubriachi e prostitute. Troppo per due come noi, c'era solo da sperare che ci sollevassero presto dalle indagini.

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Passeggiammo sulle Ramblas. Faceva un freddo del diavolo, ma il mio Hercule Poirot personale sembrava non accorgersene nemmeno. Portava l'impermeabile sul braccio e aveva inalberato la sua faccia più serafica. Era contento. A cosa era dovuta la sua metamorfosi? Era la prima volta che vedeva contraddire un ordine? Probabilmente sì. Nella sua lunga carriera doveva aver assistito a ribellioni di colleghi riottosi, perfino a qualche reazione violenta di un subordinato nei confronti di un superiore, ma evidentemente le mie rivendicazioni argomentate e retoriche gli risultavano nuove, piene di lustro formale. Meglio così, gli sarebbe rimasto un buon ricordo di me, dopo tutti i nostri contrasti. La causa femminista aveva segnato un punto a favore. Cinquanta e passa anni trascorsi sull'attenti dovevano far venire un terribile mal di schiena, ma Garzón aveva retto bene. Eppure rimettersi in discussione è molto più nocivo del fumo, dei grassi animali e del caffè. È di questo che muore la gente in realtà: del colpo ricevuto nel domandarsi un bel giorno se le convinzioni di tutta una vita valessero la pena o no. Speravo che questo non fosse il caso del viceispettore, che la sua solidarietà con me fosse solo un episodio, una scappatella, uno svolazzo senza importanza.

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[...] Bene, era tutto finito, stop. Ci avevano tolto dalle mani un caso ancora da risolvere. Avevamo passato un breve periodo della nostra vita a contatto con una terribile realtà, e non eravamo riusciti a combinare niente. Eravamo ridicoli, incapaci, patetici: il grasso viceispettore e la quarantenne che rivendica i diritti delle donne. Un quadretto farsesco!

La settimana seguente tornai al mio solito lavoro al servizio documentazione. Era stato come assaggiare un cucchiaino di nettare degli dèi: adesso tutto mi sembrava insapore. C'era una forte componente di eccitazione nel lavoro investigativo, sarebbe stato sciocco negarlo. Era come viaggiare seduti in treno: anche se il tuo corpo rimane immobile, le cose avanzano intorno a te, i personaggi coinvolti sono sempre in azione. Tu te ne stai li, a pensare, a riordinare i fatti, con gli occhi bene aperti per non lasciarti scappare niente. Era stato emozionante quel contatto brutale con la realtà, essere testimoni della miseria morale, del marciume, dell'orrore. Mai prima di allora mi sarei creduta capace di sopportarlo, eppure era dannatamente facile. Non giudicavi, non ti immischiavi, mettevi a tacere la tua sensibilità e finivi per credere che la provvidenza ti avesse messa lì per raddrizzare le cose e lottare per la giustizia. Ma non era affatto così. Anche se riuscivi a catturare il colpevole, potevi solo aspirare a spedire ciascuno nel suo inferno personale: la vittima con i suoi traumi e il malfattore in galera. Tuttavia, il cocktail di lotta in nome del bene e di potere sugli altri funzionava come una droga potente che ora mi era stata sottratta.

Tuttavia dopo qualche giorno ero quasi riuscita a raggiungere la tranquillità che mi ero prefissa. Tornavo a casa presto, mi preparavo la cena, prendevo un caffè con qualche amico e facevo in modo che nessuno mi dicesse a chi era stata affidata l'indagine: meglio non sapere. Un venerdì sera, guidata dal desiderio di essere perfetta, cominciai perfino a sistemare i libri sugli scaffali. Come tutti i compiti lungamente rimandati, presto quell'incombenza mi parve insopportabile, e feci una pausa per prendere un tè. Mi sedetti sul divano, accesi una sigaretta, aspirai, mi guardai intorno. I gerani imbrattati di terra non davano segni di vita. All'improvviso suonò il telefono. Era Garzón.

- Accenda subito la tele, metta sul terzo.

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Si sentì visibilmente lusingato. Lo vidi dirigersi verso il bar con l'impermeabile sbottonato e quel suo obbrobrioso vestito marrone. Se a un bambino delle elementari avessero chiesto di disegnare un poliziotto, quello sarebbe stato il ritratto del mio vice. Accesi una sigaretta e sospirai domandandomi se il mio aspetto non fosse ugualmente stereotipato. Poco dopo se ne uscì col passo elastico di uno schiacciasassi.

- I proprietari sono una coppia senza figli. È un bar normalissimo. Ci viene la gente che lavora nel quartiere. Di sera è chiuso.

- Niente di sospetto?

- No. Non danno mai il numero di telefono a nessuno, né si assumono l'incarico di prendere delle telefonate.

- Non hanno nipoti, non è frequentato da gente giovane?

- Bisognerebbe tenerli d'occhio. Che ne dice di farlo per una settimana?

- Va bene - mi morsi le labbra. - È esasperante, siamo a un palmo da qualcosa di decisivo, eppure non riusciamo a toccarlo. Ha presente il supplizio di Tantalo?

- Lo sa che non ho tutta la cultura che ha lei.

- Di nuovo con questa storia? Non dica sciocchezze, Garzón! A cosa serve la cultura nel lavoro di merda che facciamo? Qui contano solo i fatti, le cose concrete e palpabili, le inezie: un individuo che entra, un altro che esce, un terzo che ha visto. Noi dipendiamo da un'infinità di fesserie per arrivare a capire qualcosa. Cultura, ma mi faccia il piacere!

Rimase a guardarmi un po' stupito, taciturno.

- Lei dice delle cose interessanti, Petra, però è così strana! Disprezza i valori che ha, quelli che le sono stati trasmessi.

- Me ne sbatto dei valori, Fermín.

Rise sotto i baffi e scosse la testa. Bella roba. Fare della filosofia con un poliziotto davanti al Café del Picador, in una macchina piena di fumo da far schifo. Buñuel non lo avrebbe immaginato diversamente, anche se forse al posto di un poliziotto ci avrebbe Messo un cardinale.

Andammo due giorni di seguito a ficcare il naso in quel maledetto bar. Cosa stavamo cercando? Di preciso non lo sapevamo neanche noi. Non c'erano movimenti né tipi sospetti. Andavamo lì, fermavamo la macchina poco distante, ascoltavamo la radio. Di tanto in tanto, mentre Garzón rimaneva al volante, io entravo a prendere un caffè. Nel giro di poche ore l'unica sospetta ero io. Cosa ci facevo in quel posto? I padroni e i clienti mi guardavano con diffidenza. Che cosa potevo volere? Osservavo tutti i ragazzi alti cercando di scoprire se portassero l'orologio. Naturalmente tutti avevano un orologio. Stavamo perdendo tempo in modo idiota.

Il secondo giorno, rientrando a casa, mi stupii di me stessa. Tutto mi appariva distante e indifferente. Non cercai nemmeno di mettere della musica o di prepararmi la cena. Ero completamente assorbita dall'indagine, che si era trasformata in un pensiero ossessivo, e non me ne importava più niente della mia casa, della mia vita, della mia parte privata. Perfino i gerani non mi interessavano più, potevano continuare a dormire nella loro ibernazione per i secoli dei secoli. Mi misi nel letto gelato e mi raggomitolai. Un bastardo, forse uno squilibrato, se ne andava in giro in mezzo alla gente con una macchina per marchiare ragazze. Caddi in un sonno leggero. Intravidi un campo pieno di fiori con le corolle circondate di punte sanguinolente. Il vento li faceva dondolare di qua e di là con un'oscillazione ipnotica. Non cessavano di muoversi né di gocciolare sangue. Erano fragili, esposti, ma fortemente radicati a terra, e questo rendeva loro impossibile la fuga. Ci misi un po' a ricostruire e a riconoscere il suono del telefono, che sembrava venire da molto lontano. Dopo aver alzato il ricevitore faticai a capire cosa mi stesse dicendo Garzón.

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- Lei crede troppo nella psicologia, ispettore. Io l'ho sempre considerata una cosa che va bene per i ricchi.

Per la povera gente non c'è altra psicologia che il proprio interesse, quello più semplice e materiale.

- Allora, secondo lei, soffrono solo quelli che non hanno niente da mangiare?

- No, perché alla fine chiunque si rende conto che, anche quando i problemi materiali sono risolti, la vita è abbastanza disastrosa lo stesso.

- Ma Garzón! Questo non si confà alla sua visione positiva delle cose. Vuole spiegarsi meglio?

- Nemmeno per sogno! È lei che mi costringe alle discussioni filosofiche. Non dico altro che fesserie. Se davvero vuole tentare una cosa così azzardata, sarà meglio che ce ne andiamo subito a dormire.

Dormire. Personalmente, non ci provai nemmeno. Ero troppo scossa dagli avvenimenti per mettermi a letto. Mi versai un bicchiere, misi della musica sinfonica e mi sedetti tirando su i piedi. Guardai gli scaffali ancora semivuoti, le pareti. La mia personalità si rifletteva intorno a me: litografie di Chagall, libri di giurisprudenza e romanzi, qualche piccola riproduzione dei primitivi fiamminghi, dischi di Beethoven, di Chopin, di jazz, qualche ricordo, oggetti d'artigianato senza valore... Quegli oggetti indicavano chiaramente che una persona con un suo carattere, una sua storia, le sue manie, viveva in quella casa. Ricordai l'appartamento dei Jardiel. Vi era qualcosa di angoscioso: la falsa lucentezza dei grandi mobili, la disposizione regolare e simmetrica dei quadretti di fiori disseminati dappertutto. Una tremenda impressione di uniformità. Nessuno degli abitanti di quella casa aveva segnato il suo territorio, aveva lasciato impronte della sua personalità, tutti si muovevano in quello spazio ridotto circondati dal gusto anonimo di un albergo modesto. Gli strofinacci accuratamente ripiegati in cucina, il trespolo della carta igienica nel bagno, un copriwater a pois. Immaginai l'esistenza che si poteva condurre lì dentro. Colazioni nel tinello, con la madre in vestaglia, a presiedere il primo pasto della giornata come avrebbe presieduto gli altri. Sempre con un'espressione scura sul volto. Ordine e pulizia erano la regola. Ciascuno usciva per andare al lavoro, poi tornava per cena e passava la serata davanti al televisore. Il corridoio incerato, il bucato stirato. Come in un formicaio ciascun obbligo era inserito in un'organizzazione perfetta. Qualunque velleità personale doveva restarne fuori. Sì, forse era come sentirsi sul vetrino di un microscopio, osservati continuamente dall'occhio materno. Un giovane sottoposto a una ferrea disciplina spersonalizzante, un giorno avrebbe potuto non farcela più, desiderare di essere diverso, perfino opposto, e decidere di vendicarsi sul genere femminile. E scegliere delle ragazze fragili per farlo, temendo troppo la ciclopica figura della madre. L'elemento scatenante? Quel matrimonio imminente che aveva le caratteristiche di un atto contro natura. E poi c'erano i misteri invischianti del rapporto fra madre e figlio, meandri oscuri, difficili da sondare.

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