Copertina
Autore Alicia Giménez-Bartlett
Titolo Vita sentimentale di un camionista
EdizioneSellerio, Palermo, 2010 [2004], La memoria 827 , pag. 312, cop.fle., dim. 12x16,7x1,7 cm , Isbn 978-88-389-2497-2
OriginaleVida sentimental de un camionero
TraduttoreMaria Nicola
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe narrativa spagnola
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Alla radio ripetevano instancabilmente le canzoni di un tempo. Boleri e ballate che avevano fatto sospirare tutta una generazione, rabbrividire padri e madri, giovani, allora. Molti avrebbero rifiutato di mettersi per strada in una notte come quella. Faceva freddo e non c'era tempo per dormire, il carico era urgente. Molti si tiravano indietro davanti al lavoro duro. Doveva far controllare il riscaldamento, non funzionava bene. Cambiò stazione. Un fascio di luce lo abbagliò. Le auto che si avventuravano in una notte come quella avanzavano timorose, tardavano ad abbassare i fari, andavano piano. Sentì il segnale orario, le cinque del mattino. C'era un programma di jazz, gli strumenti sembravano andare ciascuno per conto suo, ma l'insieme suonava compatto e vivace. Il ritmo della musica si fece più lento. Sentì la voce di una donna che cantava in inglese, trascinando le sillabe come se trascinasse se stessa. Si pensano tante cose quando si è inchiodati per ore a un sedile, il volante fra le mani e i piedi sui pedali. Si pensa tanto quanto i guardiani dei fari o i pastori con le greggi nei pascoli. Le inflessioni erano dolci, sensuali. Si può spogliare una donna solo sentendone la voce. Si comincia dalle gambe, le cosce. Al volante i pensieri sono veloci, non si fermano, scorrono ai lati come il paesaggio, uno dopo l'altro. La cantante lanciava un lamento, ripeteva un nome insistendo nel pronunciarlo. Era buio pesto, l'umidità divorava i contorni delle cose, i fari proiettavano un alone opaco. Anche se le condizioni erano pessime, si proponeva di arrivare in tempo. Ce l'aveva fatta altre volte, non aveva mai mancato una consegna urgente. Nei paesi che attraversava la gente dormiva ancora, non si sarebbero svegliati prima di un paio d'ore. Allora sarebbero corsi nelle officine o nelle fabbriche, per rimanerci a lavorare fino a sera. Poi, sarebbero tornati a casa, avrebbero guardato la televisione, si sarebbero di nuovo messi a letto con le loro mogli. La gente non si muove mai, rimane sempre nello stesso posto, appiccicata a quel che vede dalle finestre di casa, tante volte il muro del vicino, un palo della luce. Lui non ce la faceva. Gli era sembrata una cosa normale, all'inizio, un lavoro fisso e alzarsi presto tutte le mattine. Ma non c'era riuscito. Si accese una sigaretta. Forse come camionista lavorava di più, doveva reggere più ore senza riposo, ma ogni giorno vedeva una città diversa, stava sveglio di notte. Poteva godersi il piacere di correre sul camion mentre gli altri dormivano nei loro buchi, piantati lì come alberi in fila senza protestare. Il brutto erano i pensieri, lunghe ore per pensare, aveva tutto il tempo che voleva per pensare. Certe volte le immagini del passato gli si ficcavano nella testa, battute e ribattute come chiodi. Allora doveva dominarle, allontanarle.

Albeggiava, la luce cominciava a estendersi come una nube bassa, galleggiava sulla strada, tinta di grigio. C'erano poche auto a quell'ora, qualche camion. Sentì freddo. Forse Los Amigos era già aperto. Aveva tutto il tempo per prendere un caffè, mangiare qualcosa. Era stata una lunga notte e l'aveva trascorsa senza sonno, nessun bisogno di buttar giù anfetamine o di fermarsi a dormire. Non sempre era così, la strada ipnotizza, ti fa addormentare come un incantatore di serpenti, è un'ossessione accertarsi ogni momento se si è davvero svegli o se si sta crollando. Era una cosa di cui aveva sofferto spesso, della fascinazione del sonno.

Vide da lontano la grande sala illuminata di Los Amigos, le insegne al neon a forma di prosciutto. Gli pareva di poter già sentire il profumo delle salsicce alla griglia. Mise la freccia e diresse il camion verso la grande spianata davanti al bar. I clienti non erano molti, un'autocisterna di San Sebastián, un'auto targata Madrid. Rosa, la padrona, lo salutò sorridendo. Loquace e ben sveglia, a quell'ora doveva aver già finito di arrostire i peperoni, di friggere le tortillas di patate. Anche lui sorrise, quando entrò, saltellando per il freddo, strofinandosi le mani, soffiandosi sulla punta delle dita. Due sole persone mangiavano a due tavoli diversi. Rosa lo conosceva da tempo, scherzava con lui ogni volta che lo vedeva, lo consigliava sui piatti del giorno, se le polpette erano venute saporite o il coniglio tenero, glielo diceva. Non volle niente di complicato, due uova al tegamino potevano bastare. Non digeriva facilmente cose troppo pesanti la mattina. La birra fresca lo rianimò. Ruppe i tuorli con la forchetta e il piatto si copri di un giallo denso. Mangiò con piacere, facendo crocchiare il pane in bocca. Mai, nemmeno quand'era più giovane, si era sentito meglio. Fra qualche mese avrebbe compiuto trentacinque anni. Adesso era sicuro, solido. La gioventù non era stata un periodo d'oro per lui. Si era sposato a ventidue anni, con Mercedes già incinta. Erano cose che capitavano. A quei tempi lavorava come apprendista in un garage, ma poi aveva mollato. Tirava avanti a stento, i soldi non bastavano mai per mantenere sua moglie e Silvia, la prima bambina. Lasciare quel lavoro non gli era dispiaciuto, detestava passare ore e ore sdraiato sotto una macchina, ricevere ordini, fare commissioni. Aveva trovato un posto come caricatore di camion. Lavorava otto ore al giorno al deposito di una ditta di trasporti, spostando grandi casse e macchinari industriali avvolti in imballaggi complicati. Quando la giornata finiva aveva la schiena a pezzi, i muscoli contratti. Di notte la bambina piangeva, e non era facile riposare. Guardava il soffitto, insonne, e si chiedeva se davvero quella fosse la vita che voleva fare. Cominciava ad affacciarglisi alla mente il pensiero che sposarsi così giovane fosse stato un errore. Si domandava fino a quando avrebbe potuto reggere a una routine senza prospettive di cambiamento. La mattina, in ditta, incontrava i camionisti che andavano a prendere i camion per mettersi in viaggio. Aspettavano che fossero carichi, non davano mai una mano, non li si vedeva mai sudare. Mentre trasportava casse di qua e di là, li sentiva ridere fra loro. Fumavano sigarette americane, parlavano di ristoranti dove si mangiava bene, dove si beveva del buon vino. Poi salivano in cabina, accendevano il motore e si perdevano oltre il portone, verso le strade. Capì che quello era esattamente quel che voleva fare. Si propose di prendere la patente, e ci riuscì in poco tempo. Ci volle un anno prima che la ditta lo assumesse come camionista. Ma alla fine salì su un camion. La prima volta che mise le mani su un volante, gli parve che bruciasse, le ritrasse stupito, sorrise a se stesso. Il camion. Gliene diedero uno fisso solo sei mesi dopo. Avevano paura che non lo trattasse bene, che lo rigasse, che fondesse il motore. Ma non ebbe mai nessun problema. Si sentì subito in intimità con quel mostro dalle grandi ruote. Era un vecchio catenaccio, ma lui lo dominava, sapeva come tirarne fuori il meglio quando era il caso di correre. Le consegne erano sempre puntuali. Sapeva lavorare, il lavoro non lo spaventava, e così finirono per affidargli un camion nuovo, dieci tonnellate, triplo asse, un Mercedes 480 cavalli, un mastodonte leggero come una piuma. Per otto anni aveva fatto con lui tutte le strade, tutte le autostrade. Conosceva ciascuno dei suoi pezzi meglio del suo stesso corpo. Conosceva ogni rumore: il cambio, i freni, gli erano entrati nell'orecchio fino a far parte della sua mente, come un'eco.

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Vide un bar già aperto ed entrò a prendere un caffè. La luce del giorno era intensa. Girò il cucchiaino sorridendo. Le donne. Era il camion a mandarle fuori di testa. Forse altri potevano tenersi delle amanti per molto tempo senza subire rivendicazioni amorose. Avrebbe fatto meglio a rinunciare alle donne da un bel po', sapersi limitare alla praticità e semplicità delle puttane. Doveva essere difficile per loro stare con un tipo che corre continuamente di qua e di là, non poter telefonare, non poterlo controllare. Non ce la facevano.

Quando arrivò al deposito tutti si davano già un gran daffare. Casse e pacchi si impilavano accanto ai camion in attesa di essere caricati. Gli impiegati controllavano le etichette spuntando lunghe liste. Nel gran capannone squallido e freddo il movimento era frenetico. Sul piano di carico dei veicoli c'erano uomini che ricevevano al volo i pacchi lanciati da sotto, mentre le casse più pesanti dovevano essere sollevate con i muletti. I camionisti erano gli unici a non far niente, aspettavano, a gruppi, che i carichi fossero pronti. Ridevano, si scambiavano sonore pacche sulle spalle, informazioni sulle strade, le previsioni del tempo per la giornata. Il sole non era ancora penetrato nel capannone, e la luce giallognola delle lampadine si estendeva su ogni cosa. Rafael apprezzava quei momenti di cameratismo, partecipava alle chiacchiere, si lasciava prendere in giro per la sua fama di donnaiolo, non gli dispiaceva che lo chiamassero don Giovanni. Tutti erano al corrente del suo successo con le ragazze dei bordelli lungo le strade, che lo preferivano agli altri, che lo trovavano un bell'uomo. Lui rideva e li lasciava dire. Preferiva quei discorsi alle noiose tirate sui problemi sindacali. Per lui certe questioni erano risolte da tempo. Lo pagavano il dovuto per il lavoro fatto, e quando faceva consegne straordinarie o urgenti, nel fine settimana, era pagato il doppio. Era un accordo semplice, non c'erano mai stati problemi, quindi, se mai gli fosse venuto in mente di chiedere di più o non fosse stato soddisfatto del trattamento, sapeva già cosa doveva fare, andarsene da un'altra parte. Al di fuori di questa semplice regola, non gli sembrava possibile altro. Le rivendicazioni dei delegati erano stupide. Era gente che finiva per dedicarsi al sindacato e basta, disinteressandosi del camion. Tutti li conoscevano, non passavano per buoni lavoratori. Le loro richieste di giornate di riposo in più o di altri miglioramenti marginali non gli interessavano. Il lavoro per lui era una faccenda personale, individuale, lui i problemi li aveva quando si trovava sul camion, da solo, e allora nessuno poteva venire a risolverli al posto suo.

Il vento gelido della mattina si insinuava sotto il tetto del deposito. Presto tutti quei pacchi sarebbero scomparsi, avrebbero intrapreso il viaggio verso la loro destinazione, a chilometri e chilometri di distanza. Quel pensiero bastava ad allontanarlo da qualunque tipo di problema, perfino dalle donne. Era come se la sua vera vita cominciasse nelle rimesse. Poi, quando era seduto da ore al volante, i problemi si presentavano, ma mai nel momento vibrante dell'inizio del viaggio. Lì aveva sempre vent'anni, stava sempre per affrontare la sua prima consegna. Per certi suoi colleghi era diverso. I cinquantenni non avevano voglia di fare diversi viaggi di seguito, volevano avere più tempo per stare a casa. Erano quelli che lo prendevano in giro sulle ragazze. I vecchi sapevano molto bene quanto pesi la voglia, al volante, dentro la cabina comoda, calda, quando si ascoltano certe musiche romantiche alla radio. Tutti i camionisti lo sanno. Vedevano il camion di Rafael parcheggiato nei piazzali dei bordelli lungo le statali, a qualunque ora, perfino davanti ai posti più infami. Nessuno l'avrebbe detto vedendo la sua faccia da bravo ragazzo, o entrando nella cabina del suo mezzo, dove non c'era una sola foto o calendario di donne nude. Gli altri sì che li avevano, appiccicati alla parete posteriore o ai finestrini, ragazze dai seni enormi, coi capezzoli turgidi e scuri come cioccolatini.

Rafael, con un gruppetto di autisti, si diresse verso il bar vicino al capannone. Erano solo le sette, ma il locale era pieno di gente e la cucina funzionava come per una festa. Al di là di una parete di vetro si vedeva il busto di Feli, la cuoca, con la faccia sudata, china sui fornelli. Sbatteva le uova, i capelli le scendevano a ciocche sulla fronte. Aveva sempre lo stesso grembiule grigio a fiori gialli. Rafael pensò che non era neanche brutta, forse con un altro vestito, i capelli puliti e scostati dal viso... Gli avventori mangiavano filetti e frittate, parlavano gridando da un tavolo all'altro, brindavano sbattendo i bicchieri e giravano i cucchiaini nelle tazze facendo un gran chiasso. Fu bersagliato da altre battute sulle sue soste ai locali lungo la strada, da pacche compiaciute sulle spalle. Buttò giù un caffè forte che gli bruciò la gola. Un ragazzo della ditta si affacciò sulla porta: «Rafael, il camion è pronto!». Guardò Feli per l'ultima volta, unta e scarmigliata, non l'aveva mai vista sorridere. Forse con un po' di trucco, con le calze velate e i tacchi alti... Finì il caffè in un sorso, salutò e fece una breve corsa fino al portone.

Parecchi camion avevano già messo in moto, gli autisti facevano ruggire i motori premendo a lungo sull'acceleratore. Il frastuono riempiva l'aria, copriva ogni altro suono, le grida dei caricatori. Era come un segnale di partenza su cui tutti fossero d'accordo. Rafael posò un piede sul predellino, appoggiò la mano sulla portiera e si sollevò di scatto fino al sedile. Sette, dodici ore di guida con le soste regolamentari, il riscaldamento a posto, a guardare scorrere il paesaggio freddo da dietro il volante. Alzò una mano, e gli altri risposero al saluto. Diede le ultime accelerate prima di uscire dalla rimessa.

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9



Mercedes stava lavando i piatti della cena. Le bambine la chiamavano per l'ennesima volta. Si asciugò le mani nel grembiule e andò nella cameretta. Le figlie erano in due lettini gemelli con le trapunte rosa. Nella camera c'erano anche due piccole scrivanie e uno scaffale bianco pieno di puzzle e pupazzi.

- Raquel continua ad accendere la luce appena io mi addormento.

Raquel si tirò su per protestare con energia.

- No, è lei che fa finta di russare e mi sveglia!

La madre le guardò con aria stanca. Poi uscì, andò in cucina e riempì due bicchieri di latte. Tornò.

- Adesso bevete questo e poi non voglio più sentirvi.

Udì ancora per un po' il bisbiglio delle loro voci, poi silenzio. Si diede da fare per finire in fretta. Quando fu tutto in ordine, bagnò una pianta che teneva sul davanzale. La prese fra le mani e la osservò sotto la lampadina per vedere se le foglie fossero lucide. Sentì dei crampi alle gambe, si sedette. Rimase assorta a guardare il verde della pianta, lo strano aspetto che assumeva sotto la luce elettrica, artificiale. Finalmente le bambine si erano addormentate. Sentì che anche lei aveva le palpebre pesanti. Suonò il campanello. Doveva essere Pili. Infatti. Pili entrò trionfale con una bottiglia di Drambuie in mano.

- Eri ancora in cucina? Sarà meglio che adesso andiamo in soggiorno.

Mercedes corse a chiudere la porta delle figlie, per paura che si svegliassero. Accese le numerose luci del salone. Tutto era perfetto. I mobili erano molto voluminosi, di legno lucido e scuro. I divani color tabacco formavano una L in un angolo. Sulla parete più visibile si stagliava un grande quadro, un paesaggio al tramonto, con le montagne innevate.

- Ho portato anche i bicchieri, così non devi lavorare.

Infilò le mani nelle tasche del golf e tirò fuori due bicchieri da whisky.

- Sei pazza.

Pili versò il liquore canticchiando tutta allegra.

- Sì, e voglio anche essere ubriaca.

- Ma Pili!

Pili era così, capace di comparire a metà del giorno o della notte per bere qualcosa, farsi una chiacchierata, guardare la televisione. Lo faceva anche quando suo marito non era al lavoro, anche quand'era in casa. Lo piantava lì, mezzo addormentato davanti a una partita o a un telequiz. Aveva sempre voglia di ridere, e le poche volte che era arrabbiata faceva in modo che tutto apparisse comico e teatrale. Scagliava oggetti a terra, ruggiva, inventava imprecazioni lunghe e altisonanti che ogni volta finivano per riuscire divertenti. Si tolse le scarpe e allungò le gambe sul tavolino basso. Assaporò il liquore schioccando la lingua.

- Oh, merda!

- Cosa c'è, adesso?

- Mi sono dimenticata di prendere le sigarette.

Mercedes si alzò e ne tirò fuori un pacchetto da una grande scatola a motivi cinesi. Ne diede una alla sua amica, una la accese per sé. Rimasero in silenzio, soffiando il fumo verso il lampadario.

- Dài, togliti le scarpe anche tu!

Mercedes lo fece, senza entusiasmo. Posò i piedi accanto a quelli di Pili. Agitarono entrambe le dita dentro i collant. Scoppiarono a ridere tutte e due.

- Dormono, le bambine?

- Si.

- Anche la mia. Sembra che il momento di metterle a letto non arrivi mai.

Assaporarono il liquore a piccoli sorsi.

- Perché non metti della musica? No, lascia stare, faccio io.

Pili si alzò e si avvicinò all'impianto stereo. Accese la radio e si sintonizzò su una canzone romantica e pastosa.

- L'hai vista la puntata di oggi?

- Sì, mentre stavo mettendo via la roba stesa.

- Come ci sei rimasta quando Armando le ha parlato?

- Be', me lo aspettavo.

- A me ha fatto impressione quando lei gli dice: «Il nostro matrimonio è morto».

Mercedes rimase zitta, aspirava profondamente la sigaretta.

- Non mi ricordo cosa risponde lui.

- Qualcosa in generale, tipo che non è facile riconoscerlo.

Rimasero di nuovo zitte. Pili tirò fuori un'altra sigaretta dal pacchetto e la accese col mozzicone della precedente.

- E come vuoi che sia facile riconoscere una cosa del genere!

Mercedes si piegò in avanti per guardare in faccia la sua amica.

- Tu credi che i nostri matrimoni siano morti?

Pili rispose senza pensarci un attimo:

- Ma certo.

Mercedes si diede a spegnere energicamente la cicca nel portacenere.

- Sai, certe volte penso che si potrebbe riprovare, metterci tanta buona volontà, correggere gli errori e ricominciare da capo.

- È impossibile, non si può far rivivere una cosa morta. Una volta che l'affetto muore, non si può ricominciare, andrà sempre male.

La canzone seguente aveva un ritmo più incalzante. Mercedes si alzò e spense la radio.

- A me è piaciuto anche quando lei ha il coraggio di dirgli che se ne va con Héctor, che cercheranno di dimenticare il passato e di cercare insieme la felicità.

Pili spense la sigaretta.

- Con quello non può andarle meglio. Héctor sembra uno che non ha mai fatto altro che spassarsela. Tu ci credi che un tipo così cambi dall'oggi al domani per occuparsi di lei e diventare il padre dei suoi figli?

- Non lo so.

- E poi, la televisione non è la vita.

- No, questo è vero.

Mercedes si alzò, andò al finestrone e tirò giù la serranda.

Pili la fissava.

- La vita ti fa mandare giù dei rospi grossi così. Credi che per me sia facile sopportare mio marito? No che non lo è. Da un mucchio di tempo mi fa perfino schifo che mi tocchi. Non ce la faccio più quando gli viene la fregola e mi si butta addosso.

- Non dire così, dài.

- E perché non dovrei dirlo, se è vero? All'inizio credevo di non averne voglia io, perché ero stanca, davo la colpa a me. Poi mi sono convinta che non devo raccontarmi storie, che mi fa schifo lui e basta.

Mercedes rimaneva pensierosa.

- Mi fa paura che tu dica questo.

- Non capisco perché.

- Succede anche a me, ma solo perché non posso fare a meno di pensare che è stato con qualche puttana. È solo questo il motivo.

- Non cambia niente.

- Rafael è un bell'uomo, mi piace ancora, se non fosse per quello che combina in giro...

- Mio marito no. Ha la pancia, ed è ridicolo in mutande. In realtà, non è mai stato granché come uomo.

Mercedes rise. Era allarmata da quei discorsi, la facevano star male. Le sembrava che ci fossero cose che non si potevano mai dire a voce alta, nemmeno quando si è sole in una stanza. Era come riconoscere che la vita era un disastro, che non c'era neppure un pizzico d'affetto; e se non c'era più niente, nemmeno loro e la loro presenza lì avevano più senso. Che cosa ci facevano al fianco di due uomini con i quali non erano più disposte ad andare a letto per amore? Erano come due puttane.

- Prima era diverso, vero, Pili?

- Per me no. Non ho mai amato mio marito. L'ho sposato perché sembrava che fosse obbligatorio sposarsi.

- Questo non è vero.

- Perfino la psicologa della scuola l'ha detto alla riunione dei genitori, l'altro giorno. Molte donne si sono sposate per la pressione sociale, non perché lo volessero realmente. Così ha detto. E se ci pensi bene, ti accorgi che è vero. Tu quanti anni avevi quando ti sei sposata?

- Diciannove.

- E allora lo sai anche tu che a quell'età una ragazza non può essere sicura di quello che vuole.

- Io ero innamorata di Rafael.

Mai, mai avrebbe riconosciuto, né di fronte ad altri, né di fronte a se stessa, che si era sposata perché era incinta. Era falso, lei amava Rafael. Anche se Pili era la sua migliore amica, l'aveva sempre tenuta all'oscuro di quel capitolo della sua vita. È facile interpretare le cose nel modo sbagliato giudicando solo dalle apparenze. E lei amava Rafael, lo amava molto, per questo gli si era data. Forse era stata una ragazzina incosciente, ma aveva pensato che quello fosse il modo per tenerselo accanto tutta la vita, senza paura di perderlo. E in tutti quegli anni di matrimonio, nemmeno loro ne avevano mai parlato, come se il fatto non fosse mai accaduto.

- La psicologa diceva che una può anche credere di essere innamorata, e invece non è così.

- Le psicologhe non dicono altro che sciocchezze. Quella della scuola di Silvia ha detto che è una bambina... non ricordo la parola che ha usato, tipo che non si fidava mai di nessuno. L'ha scritto anche in un giudizio. E con le loro chiacchiere mettono idee strane nel la testa della gente. Io non ci vado più ai corsi per i genitori.

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Antonia Layas dormiva nuda. Era un'abitudine che aveva preso da tempo. La deprimeva, al mattino, vedersi allo specchio con addosso una camicia da notte stazzonata. La sera era troppo stanca per preoccuparsi del suo aspetto. Le gambe le formicolavano per la giornata passata in piedi e aveva ancora nelle orecchie i rumori di fondo del bar. Poteva mettersi a letto subito, ma preferiva rilassarsi un po' nel soggiorno. Si preparava una cena leggera, un uovo, due fette di prosciutto, che mangiava in cucina sotto il chiarore della lampada. Poi si sistemava sul grande divano viola. L'aveva comprato per farne il posto più comodo della casa. Poteva appoggiare la nuca allo schienale e stendere le gambe sul tavolino. Accendeva il televisore. Le piacevano solo i programmi a quiz, la gente che faceva figure ridicole, le grida, le piccole crisi isteriche alla risposta esatta. I film di Hollywood, con i loro ambienti lussuosi, le sembravano falsi. Si indignava per i finali immancabilmente felici. La vita non è così. In genere preferiva la radio, dove voci senza una faccia invitavano ad ascoltare melodie piene di suggestione. La musica non mentiva. Non leggeva mai i giornali, non sfogliava riviste. Si faceva un'idea generale diquel che capitava nel mondo in base ai frammenti di notiziari televisivi che vedeva lavorardo all'autogrill. Poi c'erano i commenti dei clienti, dei colleghi, quasi sempre critici, scettici, come se non credessero mai a niente di quel che vedevano alla tele. Comunque, lei non era interessata all'attualità, aveva l'impressione che quel che succedeva lontano dall'ambito della sua vita non potesse toccarla. Solo le notizie di terremoti o di lontane calamità naturali riuscivano brevemente a tirarla fuori dalla sua realtà immediata. Si domandava che effetto facesse sentir tremare la terra sotto i piedi, veder crollare le case. Aveva avuto perfino degli incubi. Sognava che era seduta in cucina; di colpo le porte degli armadietti sbattevano con violenza per una forte scossa e le piastrelle bianche si incrinavano tutte insieme. Il tremore durava solo un attimo, ma quando era finito e poteva uscire di lì, scopriva che la casa era completamente distrutta. Si aggirava disperata fra le macerie e constatava che il divano, il suo mobile migliore, era a pezzi, buttato in un angolo. Allora si sentiva in preda a un'angoscia immensa perché capiva che era di nuovo senza niente e doveva ricominciare da capo. Si svegliava terrorizzata, grondante di sudore.

Non era stato facile vivere senza casa. Per cinque anni aveva abitato nelle pensioni. Quando aveva lasciato suo marito scappando con Riqui, erano stati per qualche mese a casa della sorella di lui, sposata con un tornitore. I genitori di Riqui l'avevano sbattuto fuori di casa dopo la fuga, ma la sorella si era impietosita. Lei allora non lavorava. Dormivano nella stanza degli ospiti, un buco piccolissimo con una sola finestra che dava su un cavedio. La mattina si sentiva il rumore delle caldaie a gas che venivano messe in funzione, le prime grida dei vicini. Non aveva molto da fare, e così la sorella di Riqui le aveva chiesto di darle una mano nelle pulizie di casa. Passavano la mattinata a battere tappeti e a dare la cera ai pavimenti. In casa sua non aveva mai lavorato tanto. Suo marito non era esigente, non gli importava che le cose fossero lustre. Si buttava su una poltrona appena arrivava dall'officina e non si alzava più fino all'ora di andare a dormire. Cenava perfino lì, davanti al televisore. Era la sua unica mania. Parlava poco, ma voleva che lei gli stesse vicino. Protestava se lei andava a dormire. «Tu puoi anche dormire di giorno» sosteneva convinto. E così lei mangiava una cosa qualsiasi in cucina e poi si metteva accanto a lui, a guardare distrattamente lo schermo.

La sorella di Riqui guardava la tele a metà mattina. Smetteva di pulire e accendeva. Davano un serial che le piaceva. Pelava una mela standosene seduta, rigida e scomoda, in punta a una sedia. «Di mattina non è il caso di stravaccarsi in poltrona» diceva. «Non sta bene». Tona andava a chiudersi nel bagno, a depilarsi le sopracciglia o a schiacciarsi con la punta delle dita minuscoli punti neri. La sorella di Riqui ci mise un po' a dirle che doveva trovarsi un lavoro, non erano ricchi e avevano fatto già abbastanza ospitandoli. Lei era uscita qualche volta e ci aveva provato, ma non sapeva fare quasi niente, e tornava a casa con un pugno di mosche. Alla fine il cognato di Riqui le aveva trovato una scala da pulire. Ci andava tre volte la settimana e strofinava i gradini a uno a uno, dall'ultimo piano al pianterreno. Poi lucidava i corrimano e deodorava l'aria con uno spray. Con quello che le davano e lo stipendio di Riqui non ne avevano abbastanza per andare a stare da un'altra parte. Tanto più che Riqui non sembrava averne molta voglia. Quando lei gli aveva detto che aveva lasciato suo marito, era rimasto sconcertato. L'aveva accettata così come avrebbe potuto respingerla, perché non aveva saputo come reagire, colto di sorpresa. Ormai rimpiangeva la vita tranquilla a casa dei suoi. Quando tornava dal lavoro al supermercato, facevano una passeggiata. In quei momenti lei si sentiva libera, dopo tutte quelle ore nel sordido ambiente di casa, e si divertiva, ma presto a Riqui era passata la voglia di ridere. Di certo avrebbe preferito andarsene al bar con gli amici, giocare a biliardo.

Un pomeriggio, rientrando dopo aver pulito la scala, trovò il cognato di Riqui già in casa. Era in cucina con la moglie, a confabulare a bassa voce. Volevano parlarle. Immaginò subito che cosa dovessero dirle. Fu lui a prendere la parola, imbarazzato e inquieto, ma incoraggiato dallo sguardo imperioso di sua moglie. Il succo era chiaro, lei era una donna abbastanza grande per capire, Ricardo non voleva più vederla. Nessuno le aveva chiesto di lasciare suo marito e suo figlio, solo lei poteva sapere perché aveva fatto una cosa simile. Ricardo non aveva colpa, aveva fatto già tanto portandola a casa loro. Quella storia gli aveva già rovinato i rapporti con i suoi. Era giovane, aveva un contratto da apprendista, ma un giorno avrebbe potuto anche diventare cassiere, perfino direttore di negozio. Non era il caso che si caricasse di responsabilità. E poi non era bello che la gente sapesse, lei era una donna sposata, aveva quattordici o quindici anni più di lui... «Tredici» aveva precisato Tona senza alzare la voce. La sorella si spazientì: «Tanto più che non possiamo tenerti qui tutta la vita a mangiar pane a ufo». Lei si sentì avvampare. «Non ho mai mangiato pane a ufo. Ho aiutato in casa e appena ho trovato lavoro vi ho sempre dato una parte di quello che prendevo». La sorella di Riqui aveva perso la pazienza, le parole le si accavallavano: «Una parte di quasi niente, e non ho mai visto nessuno così incapace nei lavori di casa. Tutte le volte che pulivi qualcosa tu, poi mi toccava ripassarci io!». Suo marito l'aveva presa per un braccio, l'aveva fatta star zitta. Riprese lui il filo del discorso, imbarazzato e infastidito: «Ricardo è un bambino, Tona, e si è stufato di questa storia, te lo potevi aspettare». Lei sorrise amareggiata, si girò e andò in camera. Poco dopo la coppia tirò un sospiro di sollievo, l'avevano sentita raccogliere le sue cose. Quando uscì con due borse da ginnastica che erano tutto il suo bagaglio, chiese: «Riqui non viene?». Il marito scosse la testa. «Meglio così» disse. Se ne andò quasi senza salutare. Riqui era un bambino e si era stufato. Perfettamente comprensibile. Certo, era una cosa che si era sempre aspettata, ma di cui non aveva calcolato le conseguenze. A dir la verità lei non si era stufata, ci avrebbe messo ancora un po' ad averne abbastanza del contatto col suo corpo giovane ogni notte. Un corpo elastico e muscoloso, che non si stancava mai, nemmeno dopo molte battaglie silenziose e confuse.

Mentre aspettava l'autobus, carica delle sue borse, pensò che in ogni caso ne era valsa la pena, che conoscere quelle sensazioni fisiche era stata la cosa migliore che le fosse capitata nella vita, molto meglio degli anni vuoti e noiosi del suo matrimonio. Però avrebbe almeno voluto salutarlo, Riqui, poterglielo dire. E invece no. Non cercò mai di rivederlo.

La domenica era il suo giorno preferito. Lo dedicava tutto a se stessa. Riempiva la vasca da bagno e vi gettava sali che tingevano l'acqua di colori vivaci profumandola intensamente. Poi si spalmava il corpo di crema. Davanti allo specchio si applicava maschere alle erbe sulla pelle pulita. A volte metteva la faccia su una pentola d'acqua bollente perché il vapore le aprisse i pori. Erano operazioni lente e complicate che la tenevano occupata per ore. Le piaceva curare tutte le parti del proprio corpo: ungersi i capelli di oli, lavarli, ritoccarsi le unghie con strumenti piccoli e precisi. Quando aveva finito era già mezzogiorno. Allora si guardava nuda nello specchio. Non era male, le piaceva osservare i risultati, soprattutto se era stata con un uomo la notte precedente. Allora le piaceva ricordare tutte le posizioni adottate: come si era piegata sedendosi sul pavimento, o la rigidità della sua schiena mentre parlavano. A vent'anni era vissuta come se non esistesse, a quaranta viveva come se non esistesse nient'altro.

Nel pomeriggio si preparava un cuba libre e lo beveva sdraiata sul divano. Di solito non usciva, la domenica escono solo le serve, pensava, la gente che non ha una casa per sé. Per troppi anni era stata costretta a farlo, pomeriggi interminabili in cui cercava di farsi invitare da qualcuno in un caffè o al cinema, qualunque cosa pur di non rimanere chiusa nella lugubre stanza alla pensione. Ogni tanto si ricordava del figlio, e così aveva deciso di incontrarsi con suo marito e gli aveva espresso il desiderio di vederlo. Lui non aveva fatto obiezioni, ma aveva posto delle condizioni. Non era disposto ad accettare che lei andasse a trovarlo quando ne aveva voglia, senza un ordine prestabilito. Doveva impegnarsi ad andarlo a prendere tutte le domeniche e passare l'intera giornata con lui. Lei fu d'accordo. Andava a casa del suo ex marito, che era la sua vecchia casa, alle undici del mattino, suonava il citofono e poco dopo il suo figlioletto di quattro anni scendeva a passi incerti spalancando gli occhi. Lo portava al parco, a prendere una bibita, poi nella sua stanza della pensione, e di nuovo a prendere qualcosa. Mangiavano in una trattoria e passavano il pomeriggio a vagare. Il bambino si stancava, piangeva, non voleva camminare. Lo riportava sempre a casa un paio d'ore prima dell'orario stabilito. Semplicemente non sapeva cosa fare con lui. Per di più il piccolo non si dimostrava molto felice di vederla, e nemmeno lei provava nessuna emozione particolare. A poco a poco rimase inorridita della prospettiva di passare tutte le domeniche della sua vita in quel modo. Mancò all'appuntamento per qualche settimana, con la scusa che doveva lavorare. Dopo due mesi smise di andare. Il padre del bambino doveva capire le sue difficoltà. Forse, più avanti, quando avesse smesso di pulire scale e avesse potuto prendere in affitto una vera casa... Eppure ebbe dei rimorsi. Un giorno, dopo parecchi mesi, chiamò suo marito perché le permettesse di vedere il bambino, ma lui le disse che non si era attenuta al patto delle domeniche, e che quindi non gliel'avrebbe più affidato. Non l'aveva più rivisto, e telefonargli le sembrava ridicolo. Forse quando viveva con Paco avrebbe potuto riprovarci, ma Paco non era il tipo da volere bambini fra i piedi la domenica. In ogni caso, considerava chiusa la faccenda. Il bambino stava bene, non si può passare la vita a guardarsi indietro.

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