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| << | < | > | >> |IndicePrefazione XIII IL FORMAGGIO E I VERMI 1. Menocchio 3 2. Il paese 5 3. Primo interrogatorio 8 4. «Spiritato»? 9 5. Da Concordia a Portogruaro 10 6. «Dir assai contra li superiori» 12 7. Una società arcaica 17 8. «Strussiano li poveri» 21 9. «Luterani» e anabattisti 23 10. Un mugnaio, un pittore, un buffone 27 11. «Opinioni ... cavate dal mio cervello» 35 12. I libri 36 13. Lettori di paese 38 14. Pagine stampate e «fantastice opinioni» 40 15. Vicolo cieco? 41 16. Il tempio delle vergini 42 17. Il funerale della Madonna 43 18. Il padre di Cristo 45 19. Il giorno del Giudizio 46 20. Mandavilla 52 21. Pigmei e antropofagi 55 22. «Dio de natura» 59 23. I tre anelli 61 24. Cultura scritta e cultura orale 64 25. Il caos 64 26. Dialogo 68 27. Formaggi mitici e formaggi reali 70 28. Il monopolio del sapere 73 29. Le parole del Fioretto 75 30. La funzione delle metafore 77 31. «Padrone», «fattore» e «maestranze» 77 32. Un'ipotesi 81 33. Religione contadina 84 34. L'anima 86 35. «Io non so» 87 36. Due spiriti, sette anime, quattro elementi 88 37. Traiettoria di un'idea 90 38. Contraddizioni 93 39. Il paradiso 95 40. Un nuovo «muodo de vivere» 96 41. «Amazar delli preti» 100 42. «Mondo nuovo» 101 43. Fine degli interrogatori 107 44. Lettera ai giudici 107 45. Figure retoriche 110 46. Prima sentenza 113 47. Carcere 115 48. Ritorno al paese 118 49. Denunce 121 50. Dialogo notturno con l'ebreo 124 51. Secondo processo 126 52. «Fantasie» 127 53. «Vanità et sogni» 130 54. «Ho magno omnipotente et santo Idio...» 134 55. «Fus'io così morto [d]a quindese ani» 135 56. Seconda sentenza 135 57. Tortura 136 58. Scolio 138 59. Pellegrino Baroni 144 60. Due mugnai 148 61. Cultura dominante e cultura subalterna 154 62. Lettere da Roma 155 Note 159 Postfazione 2019 211 Indice dei nomi 223 |
| << | < | > | >> |Pagina XIIIIn passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto le «gesta dei re». Oggi, certo, non è più così. Sempre più essi si volgono verso ciò che i loro predecessori avevano taciuto, scartato o semplicemente ignorato. «Chi costruì Tebe dalle sette porte?» chiedeva già il «lettore operaio» di Brecht. Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori: ma la domanda conserva tutto il suo peso.
La scarsezza delle testimonianze sui comportamenti e
gli atteggiamenti delle classi subalterne del passato è certo
il primo - non l'unico - ostacolo in cui s'imbattono ricerche del genere. Ma è
una regola che ammette eccezioni.
Questo libro racconta la storia di un mugnaio friulano - Domenico Scandella
detto Menocchio - morto bruciato per ordine del Sant'Uffizio dopo una vita
trascorsa nella più completa oscurità. Gli incartamenti dei due processi
tenutisi contro di lui a quindici anni di distanza ci dànno
un ricco quadro dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti,
delle sue fantasie e delle sue aspirazioni. Altri documenti
ci dànno notizie sulle sue attività economiche, sulla vita
dei suoi figli. Abbiamo perfino pagine scritte da lui, e un
elenco parziale delle sue letture (sapeva infatti leggere e
scrivere) . Molte altre cose, certo, vorremmo sapere di Menocchio. Ma già quello
che sappiamo consente di ricostruire un frammento di quella che si è soliti
chiamare «cultura delle classi subalterne», o anche «cultura popolare».
L'esistenza di dislivelli culturali all'interno delle cosiddette società civilizzate è il presupposto della disciplina che si è autodefinita via via folklore, demologia, storia delle tradizioni popolari, etnologia europea. Ma l'uso del termine «cultura» per definire il complesso di atteggiamenti, credenze, codici di comportamento e così via, propri delle classi subalterne in un dato periodo storico, è relativamente tardivo, e mutuato dall'antropologia culturale. Solo attraverso il concetto di «cultura primitiva» si è arrivati infatti a riconoscere il possesso di una cultura a quelli che una volta venivano definiti paternalisticamente «volghi dei popoli civilizzati». La cattiva coscienza del colonialismo si è saldata così con la cattiva coscienza dell'oppressione di classe. Con questo si è superata, almeno verbalmente, non solo la concezione antiquata del folklore come mera raccolta di curiosità, ma anche la posizione di chi vedeva nelle idee, credenze, visioni del mondo delle classi subalterne nient'altro che un coacervo disorganico di frammenti di idee, credenze, visioni del mondo elaborate dalle classi dominanti magari molti secoli prima. A questo punto si è aperta la discussione sul rapporto tra la cultura delle classi subalterne e quella delle classi dominanti. In che misura la prima è subalterna alla seconda? In che misura esprime invece contenuti almeno parzialmente alternativi? È possibile parlare di una circolarità tra i due livelli di cultura? Solo recentemente, e con una certa diffidenza, gli storici si sono accostati a questo tipo di problemi. Ciò è dovuto in parte, senza dubbio, alla diffusa persistenza di una concezione aristocratica di cultura. Troppo spesso idee o credenze originali vengono considerate un prodotto per definizione delle classi superiori, e la loro diffusione tra le classi subalterne un fatto meccanico di scarso o nullo interesse: tutt'al più, si rilevano con sufficienza lo «scadimento», la «deformazione» subiti da quelle idee o credenze nel corso della loro trasmissione. Ma la diffidenza degli storici ha anche un altro motivo, più apprezzabile, di ordine metodologico anziché ideologico. Rispetto agli antropologi e agli studiosi di tradizioni popolari, gli storici partono, com'è ovvio, clamorosamente svantaggiati. Ancora oggi la cultura delle classi subalterne è (e a maggior ragione era nei secoli passati) in grandissima parte una cultura orale. Ma purtroppo gli storici non possono mettersi a parlare con i contadini del '500 (e del resto, non è detto che li capirebbero). Devono allora servirsi soprattutto di fonti scritte (oltre che, eventualmente, di reperti archeologici) doppiamente indirette: perché scritte, e perché scritte in genere da individui più o meno apertamente legati alla cultura dominante. Ciò significa che i pensieri, le credenze, le speranze dei contadini e degli artigiani del passato ci giungono (quando ci giungono) quasi sempre attraverso filtri e intermediari deformanti. Ce n'è abbastanza per scoraggiare in anticipo i tentativi di ricerca in questa direzione. | << | < | > | >> |Pagina XXVIIDue grandi eventi storici resero possibile un caso come quello di Menocchio: l'invenzione della stampa e la Riforma. La stampa gli diede la possibilità di porre a confronto i libri con la tradizione orale in cui era cresciuto, e le parole per sciogliere il groppo di idee e di fantasie che avvertiva dentro di sé. La Riforma gli diede l'audacia di comunicare ciò che sentiva al prete del villaggio, ai compaesani, agli inquisitori - anche se non poté, come avrebbe voluto, dirlo in faccia al papa, ai cardinali, ai principi. Le gigantesche fratture determinate dalla fine del monopolio dei dotti sulla cultura scritta e del monopolio dei chierici sulle questioni religiose avevano creato una situazione nuova e potenzialmente esplosiva. Ma la convergenza tra le aspirazioni di una parte dell'alta cultura e quelle della cultura popolare era già stata battuta in maniera definitiva più di mezzo secolo prima del processo di Menocchio - allorché Lutero aveva condannato ferocemente i contadini in rivolta e le loro rivendicazioni. A quell'ideale, ormai, s'ispiravano soltanto esigue minoranze di perseguitati come gli anabattisti. Con la Controriforma (e, parallelamente, con il consolidarsi delle Chiese protestanti) era cominciata un'età contrassegnata dall'irrigidimento gerarchico, dall'indottrinamento paternalistico delle masse, dalla cancellazione della cultura popolare, dall'emarginazione più o meno violenta delle minoranze e dei gruppi dissidenti. E anche Menocchio finì bruciato. Abbiamo detto che è impossibile operare tagli netti all'interno della cultura di Menocchio. Solo il senno di poi consente di isolare quei temi, già allora convergenti con le tendenze di una parte dell'alta cultura del '500, che sono diventati patrimonio della cultura «progressiva» dei secoli seguenti: l'aspirazione a un rinnovamento radicale della società, la corrosione dall'interno della religione, la tolleranza. Grazie a tutto ciò Menocchio s'inserisce in una sottile, contorta, ma ben netta linea di sviluppo che arriva fino a noi: è, possiamo dire, un nostro antenato. Ma Menocchio è anche il frammento sperduto, giuntoci casualmente, di un mondo oscuro, opaco, che solo con un gesto arbitrario possiamo ricondurre alla nostra storia. Quella cultura è stata distrutta. Rispettare in essa il residuo d'indecifrabilità che resiste a ogni analisi non significa cedere al fascino idiota dell'esotico e dell'incomprensibile. Significa semplicemente prendere atto di una mutilazione storica di cui in un certo senso noi stessi siamo vittime. «Nulla di ciò che si è verificato va perduto per la storia» ricordava Walter Benjamin. Ma «solo all'umanità redenta tocca interamente il suo passato». Redenta, cioè liberata. | << | < | > | >> |Pagina 3Si chiamava Domenico Scandella, detto Menocchio. Era nato nel 1532 (al tempo del primo processo dichiarò di avere cinquantadue anni) a Montereale, un piccolo paese di collina del Friuli, venticinque chilometri a nord di Pordenone, proprio a ridosso delle montagne. Qui era sempre vissuto, tranne due anni di bando in seguito a una rissa (1564-65), trascorsi ad Arba, un villaggio poco lontano, e in una località imprecisata della Carnia. Era sposato e aveva sette figli; altri quattro erano morti. Al canonico Giambattista Maro, vicario generale dell'inquisitore di Aquileia e Concordia, dichiarò che la sua attività era «di monaro, marangon, segar, far muro et altre cose». Ma prevalentemente faceva il mugnaio; portava anche l'abito tradizionale dei mugnai, una veste, un mantello e un berretto di lana bianca. Così vestito di bianco si presentò al processo. Un paio d'anni dopo (1586) disse agli inquisitori di essere «poverissimo»: «non ho altro che doi mollini a fitto et doi campi a livello, et con questi ho sustentato et sostento la mia povera famiglia». Ma certo esagerava. Anche se una buona parte dei raccolti sarà servita a pagare, oltre al canone gravante sui fondi, l'affitto (verosimilmente in natura) dei due mulini, ne doveva restare abbastanza per tirare avanti, e eventualmente cavarsi d'impaccio nei momenti difficili. Così, allorché si era trovato a Arba bandito, aveva subito affittato un altro mulino. Quando sua figlia Giovanna si sposò (Menocchio era morto all'incirca un mese prima) ricevette una dote pari a 256 lire e 9 soldi: non ricca ma nemmeno troppo misera, rispetto alle consuetudini della zona negli stessi anni. In complesso, sembra che la posizione di Menocchio nel microcosmo sociale di Montereale non fosse delle più trascurabili. Nel 1581 era stato podestà del paese e delle «ville» circostanti (Gaio, Grizzo, San Lonardo, San Martino) nonché, in una data imprecisata, «camararo», cioè amministratore della pieve di Montereale. Non sappiamo se qui, come in altre località del Friuli, il vecchio sistema della rotazione delle cariche fosse stato sostituito dal sistema elettivo. In questo caso, il fatto di saper «leggere, scrivere et abaco» aveva dovuto favorire Menocchio. I camerari, infatti, venivano scelti quasi sempre fra persone che avevano frequentato una scuola pubblica di livello elementare, imparando magari anche un po' di latino. Scuole di questo genere esistevano anche a Aviano o a Pordenone: a una di esse si sarà recato Menocchio. Il 28 settembre 1583 Menocchio fu denunciato al Sant'Uffizio. L'accusa era di aver pronunciato parole «ereticali e empissime» su Cristo. Non si era trattato di una bestemmia occasionale: Menocchio aveva addirittura cercato di diffondere le sue opinioni, argomentandole («praedicare et dogmatizare non erubescit»). Ciò aggravava subito la sua posizione. Questi tentativi di proselitismo furono ampiamente confermati dall'inchiesta informativa che si apri un mese dopo a Portogruaro, per continuare poi a Concordia e nella stessa Montereale. «Sempre contrasta con alcuno della fede per modo di disputar, et ancho con il piovano» riferì Francesco Fasseta al vicario generale. E un altro testimone, Domenico Melchiori: «Sol disputare con l'un et l'altro, et volendo disputtar con me io li disse: "Io son calligaro, et ti molenaro, et tu non sei dotto: a che far disputtar di questo?"». Le cose della fede sono alte e difficili, fuori dalla portata di mugnai e calzolai: per discuterne ci vuol dottrina, e i depositari della dottrina sono anzitutto i chierici. Ma Menocchio diceva di non credere che lo Spirito santo governasse la Chiesa, aggiungendo: «Li prelati ne tien sotto di loro, et fanno per tenerne in bona, ma si danno bon tempo»; quanto a lui, «conosceva meglio Iddio di loro». E quando il pievano del villaggio l'aveva condotto a Concordia, dal vicario generale, perché si chiarisse le idee, dicendogli «questi capricii che tu tieni sono heresie», Menocchio aveva promesso di non immischiarsi più in queste faccende - ma per ricominciare subito dopo. In piazza, all'osteria, andando a Grizzo o a Daviano, venendo dalla montagna: «sole con ciascheduno che parla» disse Giuliano Stefanut «introdure il ragionamento sopra le cose de Dio, et sempre interponergli qualche ramo di heresia: et così disputa et crida per mantenere quella sua opinione». [...] Questo mugnaio, già podestà del paese e amministratore della parrocchia, non viveva certo ai margini della comunità di Montereale. Molti anni dopo, al tempo del secondo processo, un testimone dichiarò: «Io lo vedo a praticare con molti et credo che sia amico de tutti». Eppure a un certo punto era scattata una denuncia contro di lui, che aveva dato il via all'istruttoria. I figli di Menocchio, come vedremo, individuarono subito nell'anonimo delatore il pievano di Montereale, don Odorico Vorai. Non si sbagliavano. Tra i due c'era un vecchio contrasto: da quattro anni Menocchio andava addirittura a confessarsi fuori dal paese. È vero che la testimonianza del Vorai, che chiuse la fase informativa del processo, fu singolarmente elusiva: «Non mi posso recordare particularmente che cose habbia detto, et questo per haver poca memoria, et per esser impedito da altri negotii». Apparentemente nessuno meglio di lui era nella posizione di dare informazioni al Sant'Uffizio su questa materia: ma il vicario generale non insistette. Non ne aveva bisogno: era stato proprio il Vorai, istigato da un altro prete, don Ottavio Montereale, appartenente alla famiglia dei signori del luogo, a trasmettere la denuncia circostanziata su cui si erano basate le precise domande rivolte dal vicario generale ai testimoni. Questa ostilità del clero locale si spiega facilmente. Come abbiamo visto Menocchio non riconosceva alle gerarchie ecclesiastiche nessuna speciale autorità nelle questioni di fede. «Che papi, prelati, che preti! le qual parole diceva in disprezzo, ché non credeva a loro» riferì Domenico Melchiori. A furia di discutere e argomentare per strade e osterie, Menocchio doveva aver finito quasi col contrapporsi all'autorità del pievano. Ma che cosa diceva, insomma, Menocchio? Tanto per cominciare, non solo bestemmiava «smisuratamente», ma sosteneva che bestemmiare non è peccato (secondo un altro teste, che bestemmiare i santi non è peccato, ma Dio sì) aggiungendo con sarcasmo: «ognuno fal il suo mestier, chi arrar, chi grapar, et io fazzo il mi mestier di biastemar». Poi faceva strane affermazioni, che i compaesani riferirono in maniera più o meno frammentaria e scucita al vicario generale. Per esempio: «l'aere è Dio ... la terra è nostra madre»; «che vi maginate che sia Dio? Iddio non è altro che un può de fiato, et quello tanto che l'homo se immagina»; «tutto quello che si vede è Iddio, et nui semo dei»; «'l cielo, terra, mare, aere, abisso et inferno, tutto è Dio»; «che credevù, che Giesu Christo sia nasciuto della vergine Maria? non è possibile che l'habbia parturito et sia restata vergine: puoi ben esser questo, che sia stato qualche homo da bene, o figliol di qualche homo da bene». Infine, si diceva che avesse dei libri proibiti, in particolare la Bibbia in volgare: «sempre va disputando con questo et con quello, et ha la Bibia vulgare et si immagina fundarsi sopra di quella, et sta ostinato in questi suoi ragionamenti». | << | < | > | >> |Pagina 9Durante la fase istruttoria del processo, di fronte alle strane voci riferite dai testimoni, il vicario generale aveva chiesto in un primo tempo se Menocchio parlava «da dovero o pur burlando»; poi, se era sano di mente. In entrambi i casi la risposta era stata nettissima: Menocchio parlava «da dovero», e era «in cervello, non ... mato». Dopo l'inizio degli interrogatori era stato invece uno dei figli di Menocchio, Ziannuto, su suggerimento di alcuni amici del padre (Sebastiano Sebenico, un non meglio identificato pre Lunardo) a spargere in giro la voce che quest'ultimo era «matto» o «spiritato». Ma il vicario non vi aveva prestato fede, e il processo era continuato. La tentazione di liquidare le opinioni di Menocchio, e in particolare la sua cosmogonia, come un ammasso di empie ma innocue stravaganze (il formaggio, il latte, i vermi-angeli, Dio-angelo creato dal caos) c'era stata, ma era stata scartata. Cento o centocinquant'anni più tardi Menocchio probabilmente sarebbe stato rinchiuso in un ospedale tra i pazzi, perché affetto da «delirio religioso». Ma in piena Controriforma le modalità dell'esclusione erano diverse - passavano anzitutto attraverso l'individuazione, e quindi la repressione dell'eresia. | << | < | > | >> |Pagina 17Ma il processo era tutt'altro che terminato. Alcuni giorni dopo (1° maggio) gli interrogatori ripresero: il podestà aveva dovuto allontanarsi da Portogruaro, ma i giudici erano impazienti di sentire ancora Menocchio. «Nel constituto di sopra» disse l'inquisitore «vi havemo detto che nel processo appareva l'animo vostro esser pieno di questi humori e de cative dotrine, però desidera il santo tribunale che voi finite de dechiarare l'animo vostro». E Menocchio: «L'animo mio era altiero, et desidera[va] che fusse uno mondo nuovo et muodo de vivere, che la Chiesa non caminasse bene, et che si facesse che non vi fusse tante pompe».Sul significato dell'accenno al «mondo nuovo», al nuovo «muodo de vivere», torneremo più avanti. Prima bisognerà cercare di capire in che modo questo mugnaio friulano avesse potuto esprimere idee del genere. Il Friuli della seconda metà del '500 era una società con caratteristiche fortemente arcaiche. Le grandi famiglie della nobiltà feudale avevano ancora un peso preponderante nella regione. Istituzioni come la servitù detta di «masnada» si erano conservate fino a un secolo prima, molto più a lungo cioè che nelle regioni circostanti. L'antico Parlamento medievale aveva conservato le proprie funzioni legislative, anche se il potere effettivo era ormai da tempo nelle mani dei luogotenenti veneziani. In realtà la dominazione di Venezia, cominciata nel 1420, aveva lasciato nei limiti del possibile le cose com'erano. L'unica preoccupazione dei veneziani era stata quella di creare un equilibrio di forze tale da neutralizzare le tendenze eversive di una parte almeno della nobiltà feudale friulana. Al principio del '500 i contrasti all'interno della nobiltà si erano inaspriti. Si erano creati due partiti, gli zamberlani, favorevoli a Venezia, riuniti attorno al potente Antonio Savorgnan (che sarebbe morto transfuga nel campo imperiale) e gli strumieri, ostili a Venezia, guidati dalla famiglia dei Torreggiani. Su questo contrasto politico di fazioni nobiliari s'innestò un violentissimo scontro di classe. Già nel 1508 il nobile Francesco di Strassoldo in un discorso tenuto in Parlamento avvertiva che in varie località del Friuli i contadini si erano riuniti in «conventicule» comprendenti anche duemila individui, in cui tra l'altro erano state dette «alcune nefandissime e diaboliche parole massime de tagliar a pezzi prelati, zentilhomeni, castellani et cittadini, et denique de far uno vespro cicilian et molte sporchissime parole». Del resto non erano soltanto parole. Il giovedì grasso del 1511, poco dopo la crisi seguita alla sconfitta veneziana ad Agnadello e in coincidenza con un'epidemia di peste, i contadini fedeli al Savorgnan insorsero, prima a Udine e poi in altre località, facendo strage di nobili appartenenti a entrambi i partiti e incendiando i castelli. All'immediata ricomposizione della solidarietà di classe tra i nobili seguì una feroce repressione della rivolta. Ma la violenza dei contadini aveva da un lato, impaurito l'oligarchia veneziana, dall'altro, indicato la possibilità di un'audace politica di contenimento della nobiltà friulana. Nei decenni successivi all'effimera rivolta del 1511 si accentuò la tendenza veneziana ad appoggiare i contadini del Friuli (e della Terraferma in genere) contro la nobiltà locale. In questo sistema di contrappesi prese corpo un'istituzione eccezionale negli stessi domini veneziani: la Contadinanza. Quest'organo aveva funzioni non solo fiscali ma militari: attraverso i cosiddetti «fuochi di lista» raccoglieva una serie di tributi; attraverso le «cernide» organizzava una milizia contadina su base locale. L'ultimo punto, in particolare, costituiva un vero e proprio schiaffo per la nobiltà friulana, se si pensa che negli statuti della Patria, così impregnati di spirito feudale (tra l'altro vi si minacciavano pene per i contadini che avessero osato ostacolare il nobile esercizio della caccia mettendo lacciuoli alle lepri o cacciando pernici di notte) era inserita una rubrica intitolata De prohibitione armorum rusticis. Ma le autorità veneziane, pur mantenendo alla Contadinanza una fisionomia sui generis, erano ben decise a farne il rappresentante autorizzato degli interessi degli abitanti delle campagne. Cadeva quindi anche formalmente la finzione giuridica secondo cui il Parlamento era l'organo rappresentativo dell'intera popolazione. La serie dei provvedimenti di Venezia in favore dei contadini friulani è lunga. Già nel 1533, in risposta alla petizione presentata dai «decani» di Udine e di altre località del Friuli e della Carnia, che lamentavano di «esser molto oppressi di più condition di livelli, che si pagano in quella Patria a diversi nobili cittadini et altri di quella, et a qualunque altra persona seculare, per lo eccessivo pretio delle biave che hanno valso da alcuni anni in qua» si concesse la possibilità di pagare i canoni livellari (esclusi quelli enfiteutici) in denaro anziché in natura, sulla base di prezzi unitari stabiliti una volta per tutte - il che, in una situazione di prezzi rapidamente crescenti, favoriva evidentemente i contadini. Nel 1551 «a supplicatione della contadinanza della Patria» tutti i canoni livellari fissati dal 1520 in poi furono ridotti del sette per cento, in base a un decreto ribadito e ampliato otto anni dopo. Ancora, nel 1574 le autorità veneziane cercarono di porre un limite all'usura nelle campagne stabilendo che «a li contadini di quella Patria non si possa tior per pegno alcuna sorte d'animali grossi o minuti atti al lavorar de le terre, né sorte alcuna d'instrumenti rurali ad instantia di alcun creditor, salvo che de li patroni medesimi». Inoltre, «per sollevar li poveri contadini, ai quali da l'avidità de' creditori che danno loro diverse robbe a credenza, vien tiolta poi la biava quasi prima che sia tribiata, et in tempo che il pretio di essa è di minor summa che sia in tutto l'anno» si decretava che i creditori avrebbero potuto esigere ciò che spettava loro soltanto dopo il 15 agosto.
Queste concessioni, che miravano anzitutto a tenere
sotto controllo le tensioni latenti nelle campagne friulane,
creavano nello stesso tempo un rapporto di solidarietà oggettiva tra i contadini
e il potere veneziano, in contrapposizione alla nobiltà locale. Di fronte al
progressivo alleggerimento dei canoni livellari, quest'ultima cercò di
trasformare i livelli in affitti semplici - e cioè in un tipo di contratto che
peggiorava nettamente le condizioni dei contadini.
Tale tendenza, generale in questo periodo, dovette incontrare in Friuli forti
ostacoli, soprattutto demografici.
Quando le braccia mancano, è difficile che si arrivi alla
stipulazione di patti agrari più favorevoli ai proprietari. Ora, nell'arco di un
secolo, tra la metà del '500 e la metà del '600, sia per effetto delle ripetute
epidemie, sia per l'intensificarsi dell'emigrazione, soprattutto verso Venezia,
la popolazione complessiva del Friuli diminuì. Le relazioni
dei luogotenenti veneziani di questo periodo dànno un'immagine drammatica della
miseria dei contadini. «Io ho sospese tutte le esecutioni de debiti privati fino
al raccolto» scriveva Daniele Priuli nel 1573, affermando che venivano «tolti i
vestidi delle donne trovati a torno le loro
creature, et fino alle serrature delle porte, cosa empia et
inhumana». Carlo Corner, nel 1587, sottolineava la povertà naturale della
Patria, «molto sterile per esser parte
montuosa, et ne la parte piana giarosa, et sottoposta a inondationi di molti
torrenti, et a i danni di tempeste, che ordinariamente regnano nel paese» e
concludeva: «perciò sì come i nobili non hanno gran richezze, così il popolo, et
massimamente i contadini sono poverissimi». Alla
fine del secolo (1599) Stefano Viaro tracciava un quadro
di decadenza e di desolazione: «da alcuni anni in qua è talmente destruta detta
Patria, che non vi è villa, che doi terzi delle case di essa, et anco li tre
quarti non siano ruinate, et dishabitate, et poco meno della mittà delli terreni
di esso sono pustoti [= incolti], cosa veramente da compassionar molto, poi che
se di questo modo anderà declinando, come per necessità doverà essere partendosi
ogni giorno li habitanti di essa (come fano) resterano tutti quelli
poveri sudditi miserabili». Nel momento in cui si profilava
la decadenza di Venezia, l'economia friulana appariva già
in uno stato di avanzata disgregazione.
Ma un mugnaio come Menocchio, che cosa sapeva di quest'intrico di contraddizioni politiche, sociali, economiche? Che immagine si faceva dell'enorme gioco di forze che silenziosamente condizionava la sua esistenza? Un'immagine rudimentale e semplificata; molto chiara, però. Al mondo esistono molti gradi di «dignità»: c'è il papa, ci sono i cardinali, ci sono i vescovi, c'è il pievano di Montereale; c'è l'imperatore, ci sono i re, ci sono i principi. Ma al di là delle gradazioni gerarchiche c'è una contrapposizione fondamentale, quella tra i «superiori» e i «pover'homini»: e Menocchio sa di far parte dei poveri. Un'immagine nettamente dicotomica della struttura di classe, tipica delle società contadine. Tuttavia, sembra d'intravedere nei discorsi di Menocchio almeno un indizio di un atteggiamento più differenziato nei confronti dei «superiori». La violenza dell'attacco contro le massime autorità religiose - «Et mi par che in questa nostra lege il papa, cardinali, vescovi sono tanto grandi et ricchi che tutto è de Chiesa et preti, et strussiano li poveri...» - contrasta con la critica molto più blanda, che segue immediatamente dopo, nei confronti delle autorità politiche: «Mi par ancho che questi signori venetiani tengono ladri in quella città, che se uno va comprar qualche cosa, et si dimanda "Che vuo' tu di quella robba?" dicono un ducato, et nondimeno val solamente tre marcelli; et vorria che facessero le sue parti...». Certo, in queste parole c'è anzitutto la reazione del contadino venuto bruscamente a contatto con la scostante realtà cittadina: da Montereale o Aviano a una grande città come Venezia, il salto era forte. Ma rimane il fatto che, mentre papa, cardinali e vescovi sono accusati direttamente di «strussiare» i poveri, dei «signori venetiani» si dice semplicemente che «tengono ladri in quella città». Questa diversità di tono non era certo dovuta a prudenza: allorché pronunciò quelle parole, Menocchio aveva dinanzi a sé tanto il podestà di Portogruaro che l'inquisitore di Aquileia e il suo vicario. Ai suoi occhi l'incarnazione principale dell'oppressione era la gerarchia ecclesiastica. Perché? | << | < | > | >> |Pagina 35«Volete che vi insegni la vera strada? attender a far ben et caminar per la strada de mi antecessori, et quello che commanda la S. Madre Chiesa»: queste erano le parole che, come si ricorderà, Menocchio sostenne (quasi certamente mentendo) di aver detto ai compaesani. Di fatto, Menocchio aveva insegnato proprio il contrario, a discostarsi dalla fede degli antenati, a respingere le dottrine che il pievano predicava dal pulpito. Mantenere questa scelta deviante per un periodo così lungo (forse addirittura una trentina d'anni) prima in una piccola comunità come quella di Montereale, poi di fronte al tribunale del Sant'Uffizio, richiedeva un'energia morale e intellettuale che non è esagerato definire straordinaria. Né la diffidenza dei parenti e degli amici, né i rimproveri del pievano, né le minacce degli inquisitori erano riusciti a incrinare la sicurezza di Menocchio. Ma che cosa lo rendeva così sicuro? In nome di che cosa parlava? Nelle battute iniziali del processo egli attribuì le proprie opinioni a un'ispirazione diabolica: «quelle parole da me predette le diceva per tentation ... è stato il spirito maligno che me faceva creder così quelle cose». Ma già alla fine del primo interrogatorio il suo atteggiamento era diventato meno remissivo: «questo che ho detto o per inspiracion de Dio o del demonio...». Quindici giorni dopo pose un'alternativa diversa: «Il diavolo o qualcosa mi tentava». Di lì a poco precisò che cosa fosse questo «qualcosa» che lo tormentava: «quelle opinioni ch'io ho havuto le ho cavate dal mio cervello». Da questa posizione per tutta la durata del primo processo non si mosse più. Anche quando si risolse a chiedere perdono ai giudici, attribuì gli errori commessi al proprio «cervel sutil». Menocchio, dunque, non vantava rivelazioni o illuminazioni particolari. Nei suoi discorsi metteva invece in primo piano il proprio raziocinio. Già questo bastava a distinguerlo dai profeti, dai visionari, dai predicatori itineranti che tra la fine del '400 e il principio del '500 avevano proclamato oscuri vaticini sulle piazze delle città italiane. Ancora nel 1550 un ex benedettino, Giorgio Siculo, aveva cercato di riferire ai padri riuniti a Trento in concilio le verità che Cristo stesso, apparendogli «in propria persona», gli aveva rivelato. Ma ormai il concilio di Trento si era chiuso da vent'anni; la gerarchia si era pronunciata, la lunga fase d'incertezza su ciò che i fedeli potevano e dovevano credere era finita. Eppure questo mugnaio sperduto tra le colline del Friuli continuava a rimuginare sulle «cose alte», contrapponendo le proprie opinioni in materia di fede ai decreti della Chiesa: «io credo ... quanto al mio pensier et creder...».
Accanto al raziocinio, i libri. Il caso del
Sogno dil Caravia
non è isolato. «Havendomi più volte confessato da un prete de Barcis» dichiarò
nel corso del primo interrogatorio
«io li dissi: "Puol esser che Iesu Christo sia concetto de
Spirito santo, et nato de Maria vergine?" dicendoli però
che io lo credeva, ma che alle volte il demonio mi tentava
in questo». L'attribuire a una tentazione demoniaca i propri dubbi rifletteva
l'atteggiamento relativamente cauto di
Menocchio al principio del processo; di fatto, egli espose
immediatamente il duplice fondamento della propria posizione: «Questo mio
pensiero lo fondava perché tanti homini sono nati al mondo, et niuno è nato di
donna vergene; et havendo io letto che la gloriosa Vergine era sposata
da s. Iseppo, credeva che nostro signor Iesu Christo fusse
fiolo de s. Iseppo, perché ho letto dell'istorie che s. Iseppo
chiamava nostro signor Iesu Christo per figliolo, et questo
ho letto in un libro che si chiama
Il Fioreto della Bibia».
È un esempio scelto a caso: più volte Menocchio indicò in questo o quel libro la
fonte (non esclusiva, in questo caso) delle sue «opinioni». Ma che cosa aveva
letto Menocchio?
Purtroppo non abbiamo un elenco completo dei suoi
libri. Al momento dell'arresto il vicario generale fece perquisire la sua
abitazione: vennero trovati, sì, dei volumi,
ma non sospetti né proibiti, cosicché non ne fu redatto un
inventario. Possiamo ricostruire con una certa approssimazione un quadro
parziale delle letture di Menocchio unicamente sulla base dei sommari accenni da
lui fatti nel corso degli interrogatori. I libri menzionati nel primo processo
sono i seguenti:
1) la Bibbia in volgare, «la maggior parte in lettere rosse» (si tratta di una stampa non identificata); 2) Il Fioretto della Bibbia (è la traduzione di una cronaca medievale catalana che mescolava fonti diverse, tra cui, oltre naturalmente alla Vulgata, il Chronicon di Isidoro, l' Elucidarium di Onorio di Autun, e un cospicuo numero di vangeli apocrifi; di quest'opera, che ebbe una larga circolazione manoscritta fra '300 e '400, si conoscono una ventina di edizioni a stampa, variamente intitolate - Fioretto della Bibbia, Fiore di tutta la Bibbia, Fiore novello - che arrivano fino alla metà del '500); 3) Il Lucidario (o Rosario?) della Madonna (va identificato verosimilmente con il Rosario della gloriosa Vergine Maria del domenicano Alberto da Castello, anch'esso più volte ristampato nel corso del '500); 4) Il Lucendario (sic, per Lugendario) de santi (è la traduzione della diffusissima Legenda aurea di Jacopo da Varagine, curata da Niccolò Malermi, apparsa sotto il titolo Legendario delle vite de tutti li santi); 5) Historia del Giudicio (si tratta di un anonimo poemetto quattrocentesco in ottave, che circolava in molte versioni, di varia ampiezza); 6) Il cavallier Zuanne de Mandavilla (è la traduzione italiana, ristampata più volte fino a tutto il '500, del famoso libro di viaggi redatto a metà del '300 e attribuito a un fantomatico sir John Mandeville);
7) «un libro che si chiamava
Zampollo»
(in realtà
Il sogno dil Caravia,
stampato a Venezia nel 1541).
A questi titoli vanno aggiunti quelli menzionati durante il secondo processo: 8) Il Supplimento delle cronache (si tratta della traduzione in volgare della cronaca redatta alla fine del '400 dall'eremitano bergamasco Jacopo Filippo Foresti, più volte ristampata con aggiornamenti fino al tardo '500, sotto il titolo Supplementum supplementi delle croniche..); 9) Lunario al modo di Italia calculato composto nella città di Pesaro dal ecc/mo dottore Marino Camilo de Leonardis (anche di questo Lunario si conoscono molte ristampe); 10) il Decameron di Boccaccio, in edizione non purgata;
11) un libro non meglio identificato, che un testimone, come abbiamo visto,
suppose essere il Corano (di cui era uscita a Venezia, nel 1547, una traduzione
italiana).
Vediamo prima di tutto in che modo Menocchio riuscì a avere tra le mani questi libri. | << | < | > | >> |Pagina 99«Fece una nova setta, et un novo modo di vivere»; «desidera[va] che fusse uno mondo nuovo et muodo de vivere, che la Chiesa non caminasse bene, et che si facesse che non vi fusse tante pompe». Nel momento in cui rivelava le aspirazioni a una riforma religiosa (dell'accenno al «mondo nuovo» parleremo tra poco) dettategli dal suo «animo ... altiero», Menocchio riecheggiava forse, consapevolmente o no, la raffigurazione di Lutero letta nella cronaca del Foresti. Certo, non ne riecheggiava le idee religiose - sulle quali del resto la cronaca non si soffermava, limitandosi a condannare il «novo stilo de dottrina» proposto da Lutero. Ma soprattutto non poteva accontentarsi della reticente, e forse ambigua conclusione dell'anonimo: «Et in questo modo have acecato il volgo indotto, et quelli li quali hanno scientia et dottrina, udendo dire le male operatione del stato ecclesiastico, li adheriscono, non considerando che non vale questa conseguentia: li clerici et ecclesiastici sono di mala vita, adunque la Chiesa romana non è bona; perché ancora che loro siano di mala vita, nientedimeno la Chiesa romana si è bona et perfetta; et anchor che li christiani siano di mala vita, nientedimeno la fede christiana si è bona et perfetta». La «legge et commandamenti della Chiesa» sembravano a Menocchio, sulle orme del Caravia, «tutte mercantie» per ingrassare i preti: rinnovamento morale del clero e modificazione profonda della dottrina andavano per lui di pari passo. Attraverso il veicolo imprevisto della cronaca del Foresti, Lutero gli veniva presentato come il prototipo stesso del ribelle religioso - come colui che aveva saputo coalizzare «il volgo indotto, et quelli li quali hanno scientia et dottrina» contro la gerarchia ecclesiastica, sfruttando il «rancore» dello «stato ... temporale» contro quest'ultima «per esser quasi la maggior parte de le loro ricchezze in mano di clerici». «Tutto è de Chiesa et preti» aveva esclamato Menocchio, rivolto all'inquisitore. Chissà se aveva riflettuto anche sulle analogie tra la situazione friulana e quella dei territori situati al di là delle Alpi, dove la Riforma aveva trionfato.| << | < | > | >> |Pagina 121Nel carnevale dell'anno precedente, infatti, Menocchio aveva lasciato Montereale e si era recato a Udine, col permesso dell'inquisitore. Sulla piazza, all'ora del vespro, aveva incontrato un certo Lunardo Simon e si era messo a chiacchierare con lui. I due si conoscevano, perché Lunardo andava in giro per le feste suonando il violino, e Menocchio come abbiamo visto faceva lo stesso suonando la chitarra. Qualche tempo dopo, saputo della recente bolla contro gli eretici, Lunardo aveva scritto al vicario dell'inquisitore, fra Gerolamo Asteo, per riferire quella conversazione; a voce, quindi, aveva confermato con qualche variante la sostanza della lettera. Il dialogo sulla piazza si era svolto più o meno così. «Intendo» aveva detto Menocchio «che tu vuoi andar frate: è vero?». E Lunardo: «Non è buona legenda?». «No, perché è cosa da pittocco». Lunardo aveva replicato ritorcendo la battuta: «Non [devo] andar io frate per far il pittocco?». «Di tanti santi, heremiti et altri che han fatto vita santa, non si sa dove sian andati». «Il signor Iddio non vuole che noi adesso sappiamo questi secreti». «Se io fossi turco, non vorria diventar christiano, ma sono christiano, et non voglio diventar neanco turco». «Beati qui non viderunt, et crediderunt». «Io non credo se non vedo. Credo ben Iddio esser patre di tutto il mondo, et poter fare et disfare». «Anco li Turchi et Giudei credono, ma non credono che sia nato di Maria vergine». «Che vuol dire, che quando Christo era in croce, et li Giudei gli dissero "Se tu sei Christo discendi di croce", lui non discese?». «Ciò fu per non dar obedientia ai Giudei». «Ciò fu perché Christo non poté». «Adunque non credete nell'Evangelio?». «No, mi non credo. Chi credi tu che faccia questi Evangelii se non preti et frati, che non hanno altro che fare? Si van pensando queste cose et le mettono una dietro l'altra». «Li Evangelii non li fanno né preti né frati, ma avanti di adesso [furon] fatti» aveva obiettato allora Lunardo: e se n'era andato, giudicando il suo interlocutore «huomo heretico». Dio padre e padrone, che può «fare et disfare»; Cristo uomo; i Vangeli opera di preti e frati oziosi; l'equivalenza delle religioni. Dunque, nonostante il processo, l'abiura infamante, il carcere, le clamorose manifestazioni di pentimento, Menocchio aveva ricominciato a sostenere le vecchie opinioni, che evidentemente in cuor suo non aveva mai rinnegato. Ma di lui Lunardo Simon conosceva soltanto il nome («un Menocchio, molinaro da Montereale»): e nonostante la voce corrente che si trattasse di un recidivo, già condannato dal Sant'Uffizio «per lutherano», la denuncia fu lasciata cadere. Solo due anni dopo, il 28 ottobre 1598, per caso o in seguito a una revisione sistematica degli atti precedenti, gli inquisitori ebbero il dubbio che Menocchio e Domenico Scandella fossero in realtà la stessa persona. Allora la macchina del Sant'Uffizio si rimise in moto. Fra Gerolamo Asteo, che nel frattempo era diventato inquisitore generale del Friuli, cominciò a raccogliere nuove informazioni su Menocchio. Risultò che don Odorico Vorai, l'autore della denuncia che tanti anni prima aveva portato all'incarcerazione di Menocchio, aveva pagato cara la sua delazione: «è stato perseguitato dai parenti di Menocchio e scacciato da Montereale». Quanto a Menocchio, «si ha creduto et si crede che egli habbia l'istesse opinioni false che haveva prima». A questo punto l'inquisitore si recò a Montereale, e interrogò il nuovo pievano, don Giovan Daniele Melchiori. Costui riferì che Menocchio aveva smesso d'indossare l'«habitello» crociato e usciva dai confini del paese, trasgredendo le disposizioni del Sant'Uffizio (ciò che, come abbiamo visto, era vero solo in parte). Però si confessava e si comunicava più volte all'anno: «io quanto a me lo tengo per christiano et per huomo da bene» concluse. Non sapeva che opinione avessero di lui gli abitanti del villaggio. Ma dopo aver fatto e firmato queste dichiarazioni, il Melchiori tornò indietro: evidentemente temeva di essersi esposto troppo. Alla frase «lo tengo per christiano et per huomo da bene» fece aggiungere: «per quel che si vede esteriormente». Don Curzio Cellina, cappellano di San Rocco e notaio del villaggio, fu più esplicito. «Io lo tengo per christiano, perché io l'ho veduto che si confessa et si comunica» confermò. Ma dietro quest'apparente sottomissione vedeva trasparire l'antica inquietudine: «Questo Menocchio ha certi humori che quando vede la luna o stelle o altri pianeti e sente a tonare o altra cosa, subito vuol dir il suo parere sopra quella cosa occorsa: et infine si rimette al parer dei più con dire che sa più il mondo tutto di lui solo. Et io credo che questo suo humore sia cattivo, ma che si rimetti al parer d'altri per timore». Dunque la condanna e il carcere del Sant'Uffizio avevano lasciato una traccia profonda. Apparentemente Menocchio non osava più - almeno in paese - parlare con l'insolente libertà d'una volta. Ma neanche la paura aveva potuto soffocare la sua indipendenza intellettuale: «subito vuol dir il suo parere». Nuova era invece l'amara e ironica consapevolezza del proprio isolamento: «si rimette al parer dei più con dire che sa più il mondo tutto di lui solo». Era un isolamento soprattutto interiore. Lo stesso don Cellina osservò: «Io lo vedo a praticar con molti et credo che sia amico de tutti». | << | < | > | >> |Pagina 138Col suo silenzio Menocchio volle sottolineare fino all'ultimo di fronte ai giudici che i suoi pensieri erano nati nell'isolamento, a contatto soltanto con i libri. Ma come abbiamo visto egli proiettava sulla pagina a stampa elementi tratti dalla tradizione orale. È questa tradizione, profondamente radicata nelle campagne europee, che spiega la tenace persistenza di una religione contadina insofferente ai dogmi e alle cerimonie, legata ai ritmi della natura, fondamentalmente precristiana. Spesso si trattava di vera e propria estraneità al cristianesimo, come nel caso di quei guardiani d'armenti delle campagne di Eboli che a metà del '600 apparvero ai padri gesuiti costernati «huomini, che d'huomo non haveano che la figura, nella capacità e scienza poco dissomiglianti a quelle bestie medesime che custodivano: affatto ignoranti, non che dell'orationi, o altri misterii particolari della santa Fede, anche della stessa cognitione di Dio». Ma anche in situazioni di minore isolamento geografico e culturale è possibile scoprire le tracce di questa religione contadina, che aveva assimilato e riplasmato gli apporti estranei - a cominciare da quelli cristiani. Il vecchio contadino inglese che pensava a Dio come a un «buon vecchio», a Cristo come a un «bel giovanotto», all'anima come a «un grosso osso confitto nel corpo», e all'aldilà come a un «bel prato verde» dove sarebbe andato se avesse agito bene, non ignorava certo i dogmi del cristianesimo: semplicemente, li ritraduceva in immagini che aderivano alla sua esperienza, alle sue aspirazioni, alle sue fantasie. Anche nelle confessioni di Menocchio assistiamo a un'analoga traduzione. Certo, il suo caso è molto più complesso: sia perché implica la mediazione della pagina a stampa, sia perché presuppone lo sgretolamento di gran parte della religione tradizionale sotto i colpi delle tendenze più radicali della Riforma. Ma il procedimento è lo stesso. E non si tratta di un caso eccezionale.
Una ventina d'anni prima del processo contro Menocchio, un ignoto popolano
della campagna lucchese, che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Scolio, parlò
delle proprie visioni in un lungo poema di argomento religioso
e morale, qua e là punteggiato di echi danteschi, rimasto manoscritto: il
Settennario.
Il tema centrale, insistentemente martellato, è che le varie religioni hanno un
nocciolo comune, costituito dai dieci comandamenti. Apparendo
in una nube d'oro Dio spiega a Scolio:
Tra i «capitani» inviati dall'«imperador» c'è dunque
anche Maometto, «reputato dai rei tra buoni un rio: / pur fu
profeta e gran guerrier di Dio», posto a conclusione di un
elenco che comprende Mosè, Elia, Davide, Salomone, Cristo, Giosuè, Abramo e Noè.
Turchi e cristiani devono smettere di combattersi, e arrivare a una
conciliazione:
Ciò è possibile in quanto i dieci comandamenti costituiscono
la base non solo delle tre grandi religioni mediterranee (si avverte il ricordo
della favola dei tre anelli) ma
anche delle religioni che sono venute e che verranno: la
quarta, non specificata, la quinta che «a giorni nostri Idio ci diede» e che è
rappresentata dalla profezia di Scolio, e le due future che compiranno il
fatidico numero di sette.
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