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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 11 Nota sui caratteri di trascrizione 14 Introduzione 15 1. Struttura sociale e identità religiosa 19 Un luogo di passaggio 19 La frammentazione etnica 22 La struttura tribale 27 L'isiam afgano 28 La tradizione sufi 32 Onore e controllo sociale 34 2. Da confederazione tribale a monarchia costituzionale 37 La nascita del regno durrani 37 Il "grande gioco" 39 Abdur Rahman e la formazione dello stato moderno 42 II periodo delle riforme 44 La reazione di Baccà-ye Saqqao 47 Zahir Shah e la fase costituzionale 49 Il dissidio sulla Durand Line e i suoi riflessi internazionali 50 3. La diffusione dell'islamismo e il progetto comunista 57 La nascita del PDPA 57 Il movimento islamista 59 La repubblica presidenziale di Mohammed Daud 61 La rivoluzione di Saur 67 Le riforme di Taraki e Amin 68 La rivolta dilaga 71 4. Dai mujaheddin ad al-Qaeda 75 L'invasione sovietica: «aggressione al mondo libero» o risposta a un «complotto reazionario»? 75 L'internazionalizzazione del conflitto 81 I partiti di Peshawar 85 Da Karmal a Najibullah 88 I volontari del jihad 91 L'espansione del jihad fuori dai confini afgani 92 Il ritorno della guerra civile 94 Alleanze e tradimenti 97 5. Dai talibani a Enduring Freedom 101 L'ascesa dei talibani 101 Un'autenticità inventata 103 Alla conquista del paese 106 La politica dei gasdotti e degli oleodotti 107 Washington prende le distanze dai talibani 110 Verso un'economia "criminalizzata" 111 Sotto l'influenza di Osama ben Laden 113 6. La ricostruzione post-talibana: dilemmi e sfide future 115 Enduring Freedom 115 La road map di Bonn 117 Instabilità e violenze 118 Il ritorno dell'oppio 121 La nuova Costituzione 122 Il "trionfo della democrazia"? 125 Le donne: il barometro della democrazia afgana 127 La politica ambigua del Pakistan 129 Il contesto regionale 131 Cronologia 133 Glossario 135 Riferimenti bibliografici 137 Indice analitico 147 |
| << | < | > | >> |Pagina 19Se si guarda più indietro nel tempo, si vede che la collocazione geografica di questo paese, situato all'incrocio tra le steppe centro-asiatiche, la catena himalayana e l'altopiano iraniano (quello che il poeta Mohammed Iqbal chiamava «il cuore dell'Asia»), ha determinato anche la sua storia antica. Da tempi immemorabili le terre che oggi costituiscono l'Afghanistan sono state attraversate da spostamenti di popoli, a partire dagli Arya che verso la metà del II millennio a.C. attraversarono queste terre per dirigersi verso l'India; sono state percorse da pellegrini, missionari e mercanti e più volte contese dai regni circostanti. Nel IV secolo a.C. Alessandro Magno conquistò i territori dell'attuale Afghanistan, allora sottoposti al dominio achemenide, portandovi la cultura ellenistica, e da lì procedette a invadere l'India, finché le sue truppe si rifiutarono di proseguire e lo obbligarono a tornare indietro. Alla sua morte, avvenuta nel 323 a.C., i territori conquistati dai macedoni passarono sotto la giurisdizione seleucide, per essere di lì a poco smembrati: le regioni nordoccidentali furono incluse nel regno dei parti; quelle orientali poste a sud dell'Hindu Kush furono inglobate nell'impero indiano dei maurya, mentre nella Battriana, tra il fiume Amu Darya (l'antico Oxus) e la catena dell'Hindu Kush, venne fondato un regno greco-battriano che arrivò a comprendere nel III-II secolo a.C. parte della Persia orientale e l'alto corso dell'Indo. Il regno greco-battriano si frantumò in seguito all'invasione dei saci e poi, nel II secolo d.C., con l'arrivo degli yueh-chi, provenienti dal Turkestan cinese. Gli yueh-chi diedero vita all'impero kushan, che nel suo momento di massima espansione arrivò a comprendere l'area tra il Mar Caspio e la vallata indo-gangetica. Oltre a stimolare gli scambi commerciali tra Cina ed Europa attraverso la Via della seta, l'impero kushan incoraggiò la fioritura di una sintesi culturale, l'arte greco-buddista del Gandhara, i cui semi erano già stati gettati da Alessandro Magno. L'impero kushan fu distrutto sul finire del V secolo dagli unni eftaliti, di origine turca. L'impero eftalita, che nel suo momento di massima espansione arrivò a coprire l'area tra il Sinkiang cinese e la Persia, tra l'Asia centrale e il Panjab, fu distrutto dai sasanidi intorno alla metà del VI secolo. L'impero sasanide fu a sua volta distrutto nel VII secolo dalle truppe arabe, che dalla Persia entrarono in Afghanistan portando con sé una nuova religione, l'islam, che nel giro di pochi secoli avrebbe soppiantato altre tradizioni religiose, dallo zoroastrismo, che era stato introdotto dagli achemenidi, al buddismo, che era fiorito sotto i maurya. La conversione all'Islam della popolazione locale fu completata sotto due dinastie turche pervase di spirito persiano, i ghaznavidi, che tra il X e l'inizio del XII secolo giunsero a controllare l'intero Afghanistan, l'India nord-occidentale e il Panjab, e i ghoridi, che regnarono nel secolo successivo. Nel XIII secolo le orde mongole di Gengis Khan dilagarono in Afghanistan causando morte e devastazione. Dopo avere attraversato l'Oxus nel 1220, le sue truppe saccheggiarono Herat; avanzarono quindi verso Balkh, allora un fiorente centro artistico, e la rasero al suolo. La stessa sorte toccò a Ghazni e a Peshawar. Alla morte di Gengis Khan il suo impero, che includeva tutta l'Eurasia dall'Europa centrale al Pacifico, si frantumò in seguito alle lotte per il potere tra i suoi discendenti. Nella seconda metà del secolo successivo Timur-e Leng, o Tamerlano come viene chiamato in Occidente, creò un nuovo vasto impero che comprendeva la Persia, l'India settentrionale, l'Anatolia e la Siria settentrionale. La dinastia timuride a cui diede vita continuò a governare nei territori dell'attuale Afghanistan, in Turchestan e in Persia fino all'inizio del XVI secolo, dando vita a una nuova fusione, quella tra cultura persiana e centro-asiatica, e a una nuova fase di fioritura delle arti, che aveva in Herat un importante centro. Nel Cinquecento e nel Seicento le aree occidentali e centrali dell'attuale Afghanistan furono inglobate nell'impero safavide, mentre quelle meridionali e orientali furono occupate nel Cinquecento dalle truppe di Zahiruddin Mohammed, detto Babur ("tigre"), un discendente di Tamerlano e, forse, di Gengis Khan che si vide costretto dalla pressione degli uzbeki shaibanidi a lasciare la valle di Ferghana e a dirigersi verso sud. Da Kabul, conquistata nel 1504, Babur procedette nel 1525 a invadere l'India settentrionale, dove diede vita all'impero Moghal, che si sarebbe steso sotto i suoi successori a gran parte del subcontinente indiano. | << | < | > | >> |Pagina 57L'intellighenzia che si formò in questi ambienti, pur non appartenendo più alla società tradizionale, che anzi disprezzava in quanto arretrata, non sarebbe tuttavia riuscita, se non in una fase iniziale e in maniera limitata, a entrare nei gangli del potere, che rimasero nelle mani di un'elite ristretta. Anche l'ascesa economica rimase bloccata da logiche di potere tradizionali, che sembravano resistenti a ogni tentativo di cambiamento. E da queste speranze di rinnovamento e da queste delusioni che negli anni sessanta e settanta si svilupparono, complice la limitata apertura di Zahir Shah, i movimenti islamisti e comunisti, in maniera analoga a quanto accadeva nello stesso periodo, e per motivi analoghi, in quasi tutto il mondo musulmano. Nel 1965 fu fondato per iniziativa di alcuni membri della Gioventù risvegliata il Partito popolare democratico dell'Afghanistan (PDPA). Il partito, a cui al momento della fondazione non aderirono più di 300 membri, era strutturato secondo il modello del Partito comunista sovietico e sin dall'inizio utilizzò, secondo la testimonianza di Mitrokhin, finanziamenti provenienti da Mosca (Mitrokhin, 2002, p.20). Indubbia era anche la sua ispirazione marxista-leninista: secondo la sua costituzione, «il PDPA è il più alto organo politico e l'avanguardia della classe operaia e di tutti i lavoratori in Afghanistan» e ha lo scopo di «costruire una società socialista in Afghanistan basata sull'adattamento [...] dei principi rivoluzionari marxisti-leninisti alle condizioni prevalenti in Afghanistan». L'adattamento a cui si faceva riferimento nel documento era inevitabile, poiché la classe operaia era quasi inesistente in Afghanistan: alla metà degli anni sessanta gli operai non erano più dell'1% della popolazione. I membri del PDPA provenivano dalla classe media, un altro gruppo che aveva scarsissimo peso nel paese. La maggior parte della popolazione svolgeva attività agricole e agiva non in base a considerazioni di classe, ma secondo l'appartenenza al proprio qaum. Sarà proprio l'incapacità di comprendere l'importanza delle relazioni di solidarietà primordiali e clientelari che caratterizzano la società afgana a votare al fallimento le riforme, astratte e ideologiche, che l'ala radicale del PDPA, una volta al potere, tenterà di imporre alla fine degli anni settanta. Sin dal 1966 il PDPA si trovò ad essere diviso in due correnti, una guidata da Nur Mohammed Taraki, a cui si aggiungerà in un secondo momento Hafizullah Amin, e l'altra da Babrak Karmal. La divisione seguiva non tanto linee ideologiche quanto tattiche. Karmal, pienamente consapevole delle peculiarità della società afgana, privilegiava un approccio graduale che non spaventasse l'esigua classe media ed era favorevole alla collaborazione con il sovrano e il suo entourage. Taraki sosteneva, invece, che il sistema dovesse essere cambiato senza arrivare a compromessi con il potere costituito e con la realtà afgana che annacquassero la purezza degli obiettivi originari. Era una differenza dovuta, forse, a differenze caratteriali: Taraki era un intellettuale introverso, portato a seguire un corso solitario, mentre Karmal, che aveva guidato il movimento studentesco di sinistra, era più estroverso e pragmatico. I due avevano anche un diverso background: Karmal, come gran parte dei suoi seguaci, proveniva dal ceto medio urbano, mentre Taraki e i suoi accoliti provenivano da ceti medio-bassi rurali. Non solo: sebbene entrambi fossero pashtun, la corrente di Karmal, più cosmopolita, attirava anche molti non pashtun, soprattutto fra i tagiki, mentre la corrente di Taraki era prevalentemente costituita da pashtun. La rottura definitiva avvenne nel 1967, quando il partito si divise in due raggruppamenti che divennero noti col nome dei loro giornali: il Parcham ("Bandiera"), guidato da Karmal, e il Khalq ("Popolo") guidato da Taraki. | << | < | > | >> |Pagina 101Le circostanze in cui i talibani apparvero sulla scena afgana sono significative: gli "studenti" presentavano agli occhi degli autotrasportatori di Quetta e Chaman, in Pakistan, e di Kandahar, la possibilità di facilitare i commerci, leciti e illeciti, con l'Iran e con l'Asia centrale, che erano ostacolati dai continui posti di blocco che arricchivano signori della guerra e comandanti locali. Alla liberazione delle vie di transito verso l'Asia centrale, che con la disintegrazione dell'URSS nel 1991 si era aperta alla competizione tra le potenze regionali, era naturalmente interessato anche il governo pakistano. Benazir Bhutto, che era andata al potere nel 1988, dopo la morte di Zia, era interessata a controllare Kabul anche per altri motivi, che avevano già caratterizzato la politica estera del suo predecessore: mettere a tacere la questione del Pashtunistan e assicurarsi alle spalle una "profondità strategica" in funzione antiindiana. La Bhutto, pur tentando di ridurre l'autonomia dell'esercito e dei servizi segreti in politica estera, ne sposava, quindi, gli imperativi. Questi imperativi dovevano però essere perseguiti al di fuori del Jamaat-e islami, inviso per motivi personali (all'insistenza di questo partito si deve l'impiccagione del padre di Benazir, avvenuta nel 1979). Si trattava quindi di trovare un nuovo partito pakistano che avesse accesso privilegiato al contesto afgano: fu così che il Jamiat-e ulama-e islam, un partito tradizionalista che aveva grande seguito tra i pashtun pakistani delle aree tribali, e dalle cui madrasa provenivano importanti figure religiose afgane, entrò a far parte nel 1993 della coalizione di governo. Il secondo passo da fare era trovare una forza politica afgana che corrispondesse agli interessi pakistani: l'Hezb era troppo legato al Jamaat, mentre il Jamiat-e islami era troppo legato all'Iran e, per la sua composizione etnica, era comunque poco propenso a risolvere la questione del Pashtunistan in senso favorevole ai desideri di Islamabad. Occorreva trovare una forza pashtun (pashtun era, tra l'altro, Nasrullah Babar, il ministro degli Esteri della Bhutto), ma in Afghanistan il panorama politico pashtun era eccessivamente frammentato in gruppuscoli diversi, nessuno dei quali aveva largo seguito. Fu così che, tramite il Jamiat-e ulama-e islam, si creò una nuova forza afgana: nel 1994 la Bhutto e Babar presero la decisione di fornire sostegno logistico, denaro, armi e i rudimenti di un addestramento militare ai rifugiati afgani pashtun che erano ospitati nelle madrasa del Jamiat-e ulama-e isiam. L'ISI appoggiò, e secondo alcuni promosse, questi piani, ma per un certo tempo continuò a sostenere anche l'Hezb-e islami, finché, intorno al 1995, dinnanzi alla rapida avanzata talibana e all'evidente inaffidabilità di Hekmatyar, che come si è visto si era avvicinato agli hazara e all'Iran, fornì agli "studenti" sostegno incondizionato. Vi era, però, un problema: il Pakistan, che in quella fase era oggetto delle sanzioni americane e intratteneva una costosa corsa agli armamenti con l'India, non poteva sostenere da solo la creazione di una nuova forza afgana. In qualità di presidente del Comitato permanente dell'Assemblea nazionale per gli Affari esteri, Fazlur Rahman, il leader del Jamiat-e ulama-e islam, si prodigò per fare ottenere ai talibani generosi finanziamenti dai paesi del Golfo e in particolare dall'Arabia Saudita. Non fu difficile convincere i Saud: Ryadh non aveva rinunciato a espandere il credo wahhabita e a impedire che si installasse a Kabul un governo legato all'Iran. Il suo sostegno si concretizzò in centinaia di milioni di dollari. | << | < | > | >> |Pagina 127
Il futuro delle donne afgane è ovviamente legato all'evoluzione dello stato.
Solo un governo che sia capace di coagulare intorno a sé un largo consenso su un
progetto incentrato sullo sviluppo sociale e i diritti umani potrà indebolire la
natura patriarcale della società. Affinchè ciò avvenga occorrono due
precondizioni, dipendenti entrambe dalla lungimiranza della comunità
internazionale: che le condizioni di sicurezza migliorino e che siano fatti
investimenti significativi nella ricostruzione delle infrastrutture fondamentali
e dei servizi di base. La presenza dello stato potrà essere in tal modo
associata a sviluppi positivi nella vita quotidiana della popolazione e quindi
legittimata su basi che non siano quelle particolaristiche che hanno
caratterizzato tutta la storia del paese.
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