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| << | < | > | >> |Indice1. INCONTRI SULL'ALBERO DELLA VITA 13 Due incontri e un distacco, 13 A grandi linee, 21 2. UNA STORIA DEGLI ANIMALI 25 Gli esordi, 25 Convivere, 31 Neuroni e sistemi nervosi, 34 L'Eden, 40 I sensi, 49 La biforcazione, 55 3. MALIZIA E SLEALTÀ 57 In un giardino di spugne, 57 L'evoluzione dei cefalopodi, 58 Gli enigmi dell'intelligenza del polpo, 65 Visita a Octopolis, 76 Evoluzione del sistema nervoso, 83 Corpo e controllo, 87 Convergenza e divergenza, 91 4. DAL RUMORE BIANCO ALLA COSCIENZA 97 Che cosa si prova?, 97 L'evoluzione dell'esperienza, 98 Gli ultimi arrivati e la trasformazione, 109 Il caso del polpo, 121 5. LA FABBRICA DEI COLORI 131 La seppia gigante, 131 La fabbrica dei colori, 134 Vedere i colori, 145 Essere visti, 150 Il babbuino e il calamaro, 156 Sinfonia, 161 6. LA NOSTRA MENTE E LE ALTRE 165 Da Hume a Vygotskij, 165 Il verbo fatto carne, 168 L'esperienza cosciente, 178 Il cerchio si chiude, 183 7. ESPERIENZA COMPRESSA 189 Declino, 189 Vita e morte, 192 Uno sciame di motociclette, 195 Vite lunghe e vite brevi, 202 Fantasmi, 209 8. OCTOPOLIS 213 Polpi e ancora polpi, 213 Le origini di Octopolis, 221 Linee parallele, 229 Gli oceani, 237 Note 243 Ringraziamenti 285 Indice analitico 287 |
| << | < | > | >> |Pagina 14Un paio di anni prima, mi ero trovato a nuotare con maschera e boccaglio in un'altra baia, nei pressi di Sydney. Il sito era disseminato di massi e scogli. Vidi qualcosa muoversi sotto una sporgenza rocciosa - qualcosa di sorprendentemente grosso - e scesi a vedere. Quello in cui m'imbattei sembrava un polpo attaccato a una tartaruga: corpo appiattito, capo prominente, e otto braccia - flessibili, dotate di ventose, approssimativamente simili a quelle di un polpo - che si dipartivano direttamente dalla testa. Il dorso aveva un bordo che ricordava la balza d'una sottana, ampia diversi centimetri, delicatamente fluttuante. L'animale sembrava essere al tempo stesso di tutti colori - rosso, grigio, verde-azzurro, con disegni che andavano e venivano in una frazione di secondo. In mezzo alle chiazze di colore correvano venature argentee simili a linee elettriche luminescenti. Rimase lì sospeso, galleggiando a qualche centimetro dal fondale, e poi venne avanti a esaminarmi. Come avevo già sospettato quand'ero in superficie, questa creatura era grossa: lunga circa un metro. Le braccia si muovevano, erranti e vagabonde; i colori andavano e venivano, l'animale avanzava e arretrava.Era una seppia gigante. Le seppie sono imparentate con i polpi, benché siano più vicine ai calamari. Questi tre gruppi - polpi, seppie e calamari - sono tutti membri della classe dei cefalopodi. Altri cefalopodi conosciuti sono i nautili, molluschi che vivono nelle profondità del Pacifico in modo molto diverso dai polpi e dai loro cugini. Polpi, seppie e calamari hanno qualcosa in comune: un sistema nervoso ben sviluppato e complesso. Mi immersi ripetutamente, trattenendo il respiro, per osservare questo animale. Presto mi ritrovai sfinito, ma ero riluttante a fermarmi, giacché la creatura sembrava interessata a me proprio come lei (lui? esso?) interessava a me. Questa fu la mia prima esperienza con un aspetto di questi animali che non ha mai smesso di affascinarmi: il senso di reciproco coinvolgimento che si può avere stando con loro. Ti osservano con attenzione, in genere mantenendo una certa distanza, spesso non molta. In qualche caso, quando mi sono avvicinato troppo, una seppia gigante ha proteso verso di me un braccio, di qualche centimetro soltanto, così da toccare il mio. Di solito vi è un solo contatto - e poi basta. I polpi, invece, mostrano un più intenso interesse tattile. Se ci si mette davanti alla loro tana e si protende una mano, spesso allungano un braccio o due: prima per esplorarti, e poi - questo è proprio assurdo - per cercare di trascinarti nel loro nascondiglio. Senza dubbio si tratta perlopiù di un tentativo un po' troppo ambizioso di trasformarti nel loro pranzo; è stato dimostrato, però, che i polpi si interessano anche a oggetti che sanno benissimo di non poter mangiare. Per comprendere questi incontri tra esseri umani e cefalopodi, dobbiamo risalire a un evento di tipo opposto: un distacco, un allontanamento, che accadde molto tempo prima degli incontri - circa 600 milioni di anni prima - e che, come quelli, interessò animali che vivevano nell'oceano. Nessuno sa quale fosse, nei dettagli, il loro aspetto, ma forse avevano la forma di piccoli vermi piatti, lunghi solo un millimetro o poco più. Può darsi che nuotassero, oppure che strisciassero sui fondali, o che facessero entrambe le cose. Forse avevano occhi semplici, o quanto meno delle aree fotosensibili su ciascun lato del corpo. In tal caso, a definire la «testa» e la «coda» ci sarà stato poco altro. Avevano un sistema nervoso - costituito da reti di nervi diffuse, o magari comprendente anche un piccolo raggruppamento cellulare che formava un minuscolo cervello. Che cosa mangiassero questi animali, come vivessero e in che modo si riproducessero - sono tutte cose che ignoriamo. Da un punto di vista evolutivo, però, presentavano un aspetto di grandissimo interesse, visibile soltanto in retrospettiva: queste creature furono gli ultimi antenati comuni degli esseri umani e dei polpi, di mammiferi e cefalopodi. «Ultimi» antenati comuni nel senso di più recenti, gli ultimi in una linea di discendenza. | << | < | > | >> |Pagina 19Adesso cerchiamo invece l'antenato comune tra questo primo gruppo di animali, che comprende noi stessi, e un polpo. Per vederlo dobbiamo spostarci molto più in basso lungo i rami dell'albero. Quando lo troviamo, distante circa 600 milioni di anni da oggi, si tratta di quella creatura simile a un verme piatto che ho menzionato in precedenza.Questo passo a ritroso nel tempo è lungo circa il doppio di quello che abbiamo compiuto per arrivare all'antenato comune di mammiferi e uccelli. Il progenitore di esseri umani e polpi visse in un'epoca in cui ancora nessun organismo si era spinto sulle terre emerse, quando probabilmente gli animali più grandi in circolazione erano spugne e meduse (insieme a qualche singolare creatura di cui parlerò nel prossimo capitolo). Supponiamo di aver trovato questo animale e di osservare adesso il punto del distacco - la ramificazione - nel momento in cui si verificò. In un oceano torbido (sul fondale, oppure nella colonna d'acqua) stiamo osservando moltissimi di questi vermi vivere, riprodursi e morire. Per una ragione sconosciuta, alcuni di essi si separano dagli altri e, accumulando modificazioni casuali, cominciano a vivere in modo differente. Con il passare del tempo, i loro discendenti evolvono un'anatomia diversa. I due rami continuano a dividersi, più e più volte, e non passa molto tempo prima che ci troviamo di fronte non due gruppi di vermi, ma due enormi rami dell'albero della vita. A partire da quella scissione subacquea, una via porta al nostro ramo dell'albero: tra gli altri, conduce ai vertebrati, e all'interno di essi ai mammiferi e infine agli esseri umani. L'altra via porta invece a una grandissima varietà di specie di invertebrati, compresi i granchi, le api e i loro parenti, molti tipi di vermi, e anche i molluschi, cioè il gruppo che include vongole e affini, ostriche e chiocciole. Questo ramo non comprende tutti gli animali comunemente noti come «invertebrati», ma vi si trova la maggior parte di quelli più familiari: ragni, centopiedi, pettini e falene. In questo ramo, la maggior parte degli animali - con qualche eccezione - ha dimensioni alquanto contenute e un piccolo sistema nervoso. Alcuni insetti e ragni assumono comportamenti molto complessi, soprattutto comportamenti sociali, ma hanno comunque un sistema nervoso piccolo. In questa porzione dell'albero, funziona così - salvo che per i cefalopodi. Questi ultimi sono un sottogruppo dei molluschi, e perciò sono imparentati con vongole e chiocciole; nondimeno, hanno evoluto grandi sistemi nervosi e la capacità di comportarsi in modo molto diverso dagli altri invertebrati. E lo hanno fatto percorrendo una via evolutiva completamente distinta dalla nostra. I cefalopodi sono un'isola di complessità mentale nel mare degli invertebrati. Poiché il nostro più recente antenato comune era una creatura semplicissima ed è tanto lontano nel tempo, i cefalopodi rappresentano un esperimento indipendente nell'evoluzione di grandi cervelli e comportamenti complessi. Se è possibile stabilire con loro un contatto come esseri senzienti, non è per via di una storia condivisa, non è per via di un'affinità - ma perché nel corso dell'evoluzione la mente si sviluppò due volte. È probabile che questo sia quanto di più vicino all'incontro con un alieno intelligente ci possa mai capitare. | << | < | > | >> |Pagina 21Uno dei classici problemi della mia disciplina - la filosofia - è quello del rapporto tra mente e materia. In che modo senzienza, intelligenza e coscienza si collocano nel mondo fisico? In questo libro mi ripropongo di fare qualche progresso su questo tema, per quanto esso sia vasto. Mi ci accosterò seguendo un approccio evoluzionista; voglio capire in che modo la coscienza emerse a partire dalle «materie prime» presenti negli esseri viventi. Milioni e milioni di anni fa, gli animali non erano che uno tra i molti aggregati di cellule indisciplinate che, in mare, cominciavano a vivere come insiemi unitari. Da allora, però, alcuni di essi adottarono uno stile di vita particolare. Imboccarono una via all'insegna della mobilità e dell'attività, si fecero spuntare occhi e antenne, e svilupparono strumenti per manipolare gli oggetti intorno a loro. Evolsero così il movimento strisciante dei vermi, il volo ronzante dei moscerini, i viaggi su scala planetaria delle balene. In tale contesto, a un certo stadio imprecisabile, evolse anche l' esperienza soggettiva: alcuni animali provano una sensazione particolare a essere ciò che sono. Vi è un sé di qualche tipo che vive l'esperienza di quel che accade. Sono interessato al modo in cui evolse qualsiasi tipo di esperienza; in questo libro, però, i cefalopodi riceveranno maggiore attenzione. In primo luogo perché sono creature decisamente straordinarie: se potessero parlare, avrebbero moltissimo da raccontarci; d'altra parte, questa non è l'unica ragione che spiega perché nuotino e si arrampichino dappertutto nelle pagine che seguono. Il fatto è che sono stati proprio loro a tracciare la via che ho poi imboccato per addentrarmi nei problemi filosofici; osservarli in mare, cercare di capire che cosa stessero facendo, è diventato una parte importante del mio percorso. Nell'accostarsi ai temi della mente animale, è facile lasciarsi influenzare troppo dal nostro caso specifico. Quando immaginiamo la vita e le esperienze degli animali più semplici, spesso finiamo per visualizzare altrettante versioni di noi stessi su scala minore. I cefalopodi, invece, ci mettono a contatto con qualcosa di molto diverso. Come gli appare il mondo? L'occhio di un polpo è simile al nostro: ha la struttura di una macchina fotografica, con una lente regolabile che mette a fuoco l'immagine sulla retina. D'altra parte, benché gli occhi siano simili, il cervello a cui sono collegati è diverso praticamente a qualsiasi livello. Se vogliamo comprendere le altre menti, quella dei cefalopodi è la più altra di tutte. L'attività del filosofo è tra le meno materiali: la sua è, o può essere, una vita esclusivamente mentale. Non c'è attrezzatura da gestire, non sono previsti siti o stazioni sul campo. Non c'è niente di male in questo: lo stesso vale per la matematica e la poesia. In questo mio progetto, tuttavia, il versante fisico è stato importante. Mi sono imbattuto nei cefalopodi per caso, passando del tempo in acqua. Cominciai a seguirli nei loro giri, e alla fine mi misi a riflettere sulla loro vita. Questo progetto è stato molto influenzato dalla presenza fisica e dall'imprevedibilità di queste creature. Così come è stato influenzato dalla miriade di aspetti pratici legati alle immersioni subacquee: l'indispensabile attrezzatura, i gas, la pressione dell'acqua e l'allentamento della forza di gravità nella luce verde-azzurra dell'oceano. Gli sforzi che un essere umano deve fare per affrontare tutto questo rispecchiano le differenze tra vita terrestre e vita acquatica - e il mare è la culla originaria della mente, o quanto meno dei suoi primi barlumi. All'inizio di questo libro, ho riportato in epigrafe una citazione del filosofo e psicologo William James , che scriveva alla fine dell'Ottocento. Interessato a capire in che modo la coscienza fosse arrivata ad abitare l'universo, aveva in merito a questo tema un orientamento evoluzionista in senso lato, tale da abbracciare non soltanto l'evoluzione biologica ma anche quella del cosmo nel suo complesso. James pensava che avessimo bisogno di una teoria fondata sulla continuità e su transizioni comprensibili: nessun esordio improvviso, niente balzi. Come James, anch'io desidero comprendere il rapporto tra mente e materia, e presumo che la storia da raccontare sia quella d'uno sviluppo graduale. A questo punto, qualcuno potrebbe dire che, a grandi linee, questa storia già la conosciamo: i cervelli evolvono, si aggiungono altri neuroni, alcuni animali diventano più intelligenti di altri, e questo è quanto. Metterla così, d'altra parte, significa rifiutarsi di affrontare alcune tra le questioni più enigmatiche. Quali furono i primissimi animali, i più semplici, ad avere esperienze soggettive di qualche tipo? Quali animali furono i primi ad avvertire un danno, a sentirlo come un dolore, per esempio? Il fatto di essere uno dei cefalopodi dotati di un grosso cervello è associato a una qualche sensazione, oppure questi animali sono semplici macchine biochimiche per le quali interiormente non vi è che buio? Il mondo ha due aspetti che devono in qualche modo combaciare e che però sembrano farlo in una maniera che attualmente non comprendiamo: uno è l'esistenza delle sensazioni e degli altri processi mentali avvertiti da un agente; l'altro è il mondo della biologia, della chimica e della fisica. Questi problemi non saranno interamente risolti in Altre menti, tuttavia sarà possibile compiere qualche passo avanti tracciando l'evoluzione dei sensi, del corpo e del comportamento. Da qualche parte, in quel processo, sta l'evoluzione della mente. Questo è perciò un libro di filosofia, ma anche un libro sugli animali e sull'evoluzione. Il fatto che si occupi di filosofia non lo colloca in un regno arcano e inaccessibile: in larga misura, fare filosofia significa cercare di mettere insieme le cose, provare a fare in modo che i pezzi di grandissimi puzzle abbiano un qualche senso. La buona filosofia è opportunistica; si serve di qualsiasi informazione, di qualsiasi strumento sembri utile. Io spero che, procedendo, il libro entri ed esca dalla filosofia varcando confini di cui neanche vi accorgerete. Scopo di Altre menti, quindi, è di trattare la mente e la sua evoluzione, e di farlo con una certa ampiezza e profondità. L' ampiezza comporta che si trattino diversi tipi di animali; la profondità riguarda invece la dimensione temporale, giacché il libro abbraccia i lunghi periodi e i regimi avvicendatisi nella storia della vita. | << | < | > | >> |Pagina 28Gran parte della sensibilità di questi microrganismi è mirata a reperire il cibo e ad evitare sostanze tossiche. Fin dalle prime ricerche su E. coli, però, sembrava che vi fosse qualcos'altro, giacché i batteri in questione erano attratti anche da sostanze chimiche dalle quali non potevano trarre nutrimento. I biologi che lavorano su questi microrganismi sono sempre più propensi a ritenere che i batteri siano sensibili alla presenza e alle attività di altre cellule vicine a loro, e non solo a ondate di sostanze chimiche commestibili e non. I recettori sulla superficie delle cellule batteriche sono sensibili a molte cose, comprese sostanze chimiche che gli stessi batteri tendono a eliminare per varie ragioni, a volte solo come prodotti metabolici in eccesso. Può sembrare che questo non sia chissà che, invece apre una possibilità importante. Quando l'organismo è in grado di avvertire la presenza delle stesse sostanze che produce, diventa possibile la coordinazione tra le cellule: è la nascita del comportamento sociale.[...] Un tale scenario acquatico è l'ambiente giusto da tenere a mente quando si riflette su questi primi passi della storia della vita - anche se siamo a uno stadio evolutivo che precedette di molto la comparsa di qualsiasi calamaro. La chimica della vita è una chimica acquatica. Noi possiamo vivere sulla terraferma solo portandoci dietro un'enorme quantità d'acqua salata. E molte delle mosse evolutive compiute in quelle prime fasi - quelle che diedero origine alla sensibilità, al comportamento e alla coordinazione - dipesero dal libero movimento delle sostanze chimiche nell'ambiente marino. Finora, tutte le cellule che abbiamo incontrato sono sensibili alle condizioni esterne. Alcune hanno anche una speciale sensibilità per gli altri organismi, compresi quelli del loro stesso tipo. Tra queste, ve ne sono certe sensibili a sostanze chimiche che altri organismi sintetizzano per essere rilevati, contrapposte a quelle che rappresentano meri sottoprodotti. Questa categoria di sostanze chimiche - sintetizzate perché siano rilevate da altri individui suscitandone la risposta - ci porta sulla soglia della segnalazione e della comunicazione. | << | < | > | >> |Pagina 50Nell'Ediacarano gli altri animali potevano essere presenti nei dintorni, senza per questo essere particolarmente rilevanti; nel Cambriano ogni animale diventa invece una componente importante dell'ambiente degli altri. Questo intreccio di una vita con le altre, insieme alle sue conseguenze evolutive, va attribuito al comportamento e ai meccanismi che lo controllano. Da questo momento in poi, la mente evolve in risposta ad altre menti.Quando dico questo, potreste replicare che il termine «mente» sia fuori posto. In questo capitolo, non ribatterò. Va bene. Il punto, però, è che i sensi, i sistemi nervosi e i comportamenti di ciascun animale cominciarono a evolvere in risposta ai sensi, ai sistemi nervosi e ai comportamenti degli altri: le azioni di uno creavano - al tempo stesso - opportunità e necessità per gli altri. Se un anomalocaride lungo un metro, un veloce nuotatore, sta piombando su di noi come un gigantesco scarafaggio predatore con due appendici prensili sulla testa pronte all'azione, è un'ottima cosa sapere che questo sta accadendo e fare in modo di defilarsi. È più che probabile che nel Cambriano i sensi siano stati di importanza cruciale: gli organismi si aprirono al mondo, soprattutto gli uni agli altri. Sembra siano comparsi allora i primi occhi sofisticati, in grado di formare immagini. Il Cambriano fu testimone della comparsa sia degli occhi composti oggi presenti negli insetti, sia degli occhi a fotocamera come i nostri. Immaginate le conseguenze, in termini di comportamento e di evoluzione, del poter vedere per la prima volta gli oggetti circostanti, soprattutto quelli posti a una certa distanza e in movimento. Come sostiene il biologo Andrew Parker, l'invenzione degli occhi fu l' evento decisivo del Cambriano; altri studiosi hanno sviluppato prospettive più ampie, peraltro di tenore simile. Secondo il paleontologo Roy Plotnick e i suoi colleghi, il risultato di questa apertura sensoriale fu, nel Cambriano, una «rivoluzione dell'informazione». Con l'afflusso di informazione sensoriale, nasce l'esigenza di un'elaborazione interna complessa. Quando si sa di più, le decisioni diventano più complicate. (L'anomalocaride ha più probabilità di intercettatmi se scappo in quel buco, o se mi rifugio in quell'altro?). Un occhio che forma immagini rende possibili azioni inconcepibili in sua assenza. | << | < | > | >> |Pagina 55Il piano corporeo dei bilateri comparve prima del Cambriano, in qualche forma piccola e poco appariscente, ma in seguito divenne la struttura portante a cui fu aggiunta una lunga serie di potenziamenti della complessità comportamentale. In questo libro i primi bilateri hanno anche un altro ruolo. A un certo punto, subito dopo la loro entrata in scena, probabilmente ancora nell'Ediacarano, avvenne una ramificazione, una delle infinite biforcazioni evolutive che hanno luogo nel corso dei millenni. Una popolazione di quegli animali si divise. Con ogni probabilità, gli animali che inizialmente si allontanarono imboccando le due vie saranno stati piccoli vermi piatti; dotati di neuroni, e forse di occhi molto semplici, mostravano ben poco della complessità che sarebbe arrivata in seguito. Le loro dimensioni si misuravano forse in millimetri. Dopo questa innocua scissione, gli animali su ciascun versante della biforcazione andarono divergendo, e ciascuno divenne l'antenato d'un ramo - enorme e duraturo - dell'albero della vita. Uno di essi portò a un gruppo che comprende i vertebrati insieme ad alcuni compagni inaspettati come le stelle marine; l'altro ramo portò invece a un'immensa gamma di altri invertebrati. Sull'albero, il punto che si trova subito prima della divisione è l'ultimo in cui esiste una storia evolutiva condivisa tra noi e il grande gruppo di invertebrati comprendente coleotteri, formiche, falene, astici e lumache. Ecco uno schema di questa porzione dell'albero della vita. Nel disegno moltissimi gruppi sono stati omessi, sia all'interno che all'esterno dei rami riportati. Il momento di cui stiamo parlando è contrassegnato come «biforcazione». Dopo la biforcazione, lungo ciascuna via si verificarono altre ramificazioni. Alla fine, su un lato si assistette alla comparsa dei pesci, quindi dei dinosauri e infine dei mammiferi: questo è il nostro versante. Sull'altro lato, ulteriori ramificazioni diedero origine agli artropodi, ai molluschi e ad altri gruppi. Su entrambi i versanti - passando dall'Ediacarano al Cambriano, e poi oltre - la vita diventa una rete intricata, i sensi si aprono al mondo e i sistemi nervosi si espandono. Finché a un certo punto, in un piccolo esempio di questo intreccio di sensibilità e comportamento, un mammifero avvolto in una guaina di neoprene e un cefalopode dalla colorazione mutevole si ritrovano a fissarsi l'un l'altro nell'Oceano Pacifico. | << | < | > | >> |Pagina 81Nel capitolo precedente, servendomi di alcune idee di Michael Trestman, ho scritto che, nell'ampia gamma dei piani corporei animali, solo tre gruppi comprendono specie con un «corpo attivo e complesso». Si tratta dei cordati (come noi), degli artropodi (per esempio insetti e crostacei) e di un piccolo gruppo di molluschi: i cefalopodi. I primi a imboccare questa via, nel Cambiano inferiore, più di 500 milioni di anni fa, furono gli artropodi. Il modo in cui lo fecero probabilmente avviò un processo di feedback evolutivo che ben presto coinvolse tutti gli altri. Gli artropodi furono i primi; cordati e cefalopodi li seguirono.Mettendo da parte il nostro caso specifico, possiamo scorgere una differenza nelle vie imboccate dagli altri due gruppi. Molti artropodi si sono specializzati nella vita e nel coordinamento sociali. Non lo fanno tutti - in realtà la maggior parte di essi non lo fa - ma nell'ambito del comportamento, molte delle grandi conquiste degli artropodi sono di natura sociale. Lo si vede soprattutto nelle colonie di api e formiche, e nelle città climatizzate costruite dalle termiti. I cefalopodi sono diversi. Non si avventurarono mai sulle terre emerse (altri molluschi invece lo fecero); inoltre, benché probabilmente abbiano imboccato la via del comportamento complesso dopo gli artropodi, alla fine - rispetto a quelli - evolsero cervelli di dimensioni maggiori. (Qui io penso a una colonia di formiche come a numerosi organismi con molti cervelli, e non come a un unico organismo). Gli artropodi tendono a realizzare comportamenti molto complessi attraverso il coordinamento di numerosi individui. Nonostante esistano alcuni calamari sociali, la loro organizzazione non ha nulla a che vedere con quella delle formiche o delle api. I cefalopodi, con la parziale eccezione dei calamari, acquisirono una forma di intelligenza non sociale; il polpo, più di tutti, seguì una via di solitaria, peculiare complessità. | << | < | > | >> |Pagina 91Ho descritto come le prime fasi della storia degli animali, nella misura in cui le conosciamo, conducano a una biforcazione in cui un ramo procede verso i cordati come noi, e l'altro porta ai cefalopodi, polpi compresi. Facciamo il punto, allora, e confrontiamo quanto emerse lungo le due linee evolutive. La somiglianza più impressionante è quella degli occhi. Probabilmente i nostri antenati comuni avevano un paio di macchie oculari, ma nulla di simile a occhi come i nostri. I vertebrati e i cefalopodi evolsero poi in modo indipendente occhi «a fotocamera», dotati d'una lente che mette a fuoco le immagini su una retina. Capacità di apprendimento di diverso tipo si osservano anch'esse in entrambe le linee: a quanto pare, apprendere facendo attenzione a gratificazioni e punizioni, memorizzando quello che funziona e quello che non funziona, è un'invenzione comparsa indipendentemente diverse volte nel corso dell'evoluzione. Se era presente nell'antenato comune di esseri umani e polpi, venne in seguito enormemente elaborata in ciascuna delle due linee. Vi sono poi anche altre somiglianze psicologiche più sottili. Nei polpi, come in noi umani, sembra esistere una distinzione tra memoria a breve e a lungo termine. Questi animali si lasciano coinvolgere nel gioco con oggetti nuovi non commestibili e privi di alcuna utilità apparente. Si direbbe che abbiano qualcosa di simile al sonno. Pare che nelle seppie esista una forma di sonno REM (con rapidi movimenti oculari), la fase di sonno in cui noi sogniamo (non è ancora chiaro se tale fase sia presente anche nei polpi). Altre somiglianze sono più astratte, per esempio un interesse per singoli individui, compresa la capacità di riconoscere particolari esseri umani. Di certo il nostro antenato comune non poteva fare nulla del genere (è difficile immaginare che cosa rilevasse, del suo mondo, una creatura tanto semplice). Questa capacità ha senso se un animale è sociale o monogamo, ma i polpi non sono monogami, conducono una vita sessuale disordinata, e non sembrano molto sociali. Qui c'è qualcosa da imparare sul modo in cui gli animali intelligenti gestiscono le cose nel proprio ambiente: lo suddividono in oggetti che possono essere re-identificati nonostante i continui cambiamenti nel loro modo di presentarsi. Trovo che questo sia un aspetto notevolissimo della mente dei polpi: notevolissimo nella sua familiarità, nella sua somiglianza con noi. Alcuni aspetti particolari mostrano una miscela di somiglianze e differenze, di convergenza e divergenza. Noi abbiamo un cuore, così come i polpi. Un polpo però ne ha tre, non uno solo. I loro cuori pompano un sangue color verde-azzurro giacché per loro la specie chimica trasportatrice dell'ossigeno è il rame, invece del ferro che rende rosso il nostro sangue. E poi, naturalmente, c'è il sistema nervoso: grande come il nostro, ma costruito secondo un piano differente, con un diverso insieme di relazioni tra corpo e cervello. A volte si dice che il polpo sia una buona dimostrazione dell'importanza, in psicologia, del movimento teorico che sostiene la cognizione incarnata: idee che non vennero sviluppate per essere applicate ai polpi, ma agli animali in generale, esseri umani compresi, e furono anche influenzate dalla robotica. Un'idea fondamentale è che responsabile di parte dell'«intelligenza» con cui gestiamo la realtà sia il nostro stesso corpo, più che il nostro cervello. La struttura stessa del corpo codifica parte dell'informazione sull'ambiente e sul modo di trattarlo; pertanto, non tutta questa informazione deve essere immagazzinata nel cervello. Le articolazioni e la struttura dei nostri arti, per esempio, sono responsabili della spontanea insorgenza dei movimenti deambulatori: saper camminare è, in parte, questione di avere il corpo giusto. Per usare le parole di Hillel Chiel e Randall Beer, la struttura del corpo di un animale crea al tempo stesso vincoli e opportunità che ne guidano l'azione. [...] In effetti, il polpo ha una «incarnazione diversa», di un tipo talmente insolito da non corrispondere a nessuna delle consuete prospettive. Di solito il dibattito è tra chi considera il cervello come un dirigente con pieni poteri, e chi enfatizza l'intelligenza contenuta nel corpo. Entrambe le prospettive dipendono da una distinzione tra conoscenza fondata sul cervello e conoscenza fondata sul corpo. Il polpo, d'altra parte, vive al di fuori di entrambi questi quadri di riferimento. La sua incarnazione gli impedisce di fare il tipo di cose solitamente enfatizzate dai teorici della cognizione incarnata. In un certo senso, si tratta di un animale disincarnato. Questo termine però lo fa sembrare immateriale, il che naturalmente non è ciò che intendo: il polpo ha un corpo ed è un oggetto materiale, ma è un corpo proteiforme, è tutto possibilità; non incorre in nessuno dei costi e dei benefici con cui fa invece i conti un corpo vincolante che guida l'azione. Il polpo vive al di fuori della consueta separazione tra corpo e cervello. | << | < | > | >> |Pagina 97Che cosa si prova a essere un polpo? E una medusa? Ma poi: si prova davvero qualcosa? Quali furono i primi animali che provarono qualcosa a essere ciò che erano? All'inizio del libro ho citato William James e la sua perorazione della «continuità» nella nostra interpretazione della mente. Le complesse forme di esperienza riscontrate in noi umani sono derivate da forme più semplici, presenti in altri organismi. Di certo, sosteneva James, la coscienza non irruppe nell'universo pienamente formata. La storia della vita è una storia di forme intermedie, di zone d'ombra e aree grigie. Molto di ciò che riguarda la mente si presta a essere trattato in quei termini. La percezione, l'azione, la memoria: entrano tutte lentamente in essere a partire da precursori e da manifestazioni incomplete. Supponiamo che qualcuno chieda: Davvero i batteri sono sensibili al loro ambiente? Davvero le api ricordano quanto è accaduto in precedenza? Per queste domande non esiste una buona risposta sì-o-no: la sensibilità nei confronti dell'ambiente va incontro a una transizione graduale da forme minime ad altre più elaborate, e non vi è alcuna ragione di pensare in termini di netti spartiacque.
Nel caso della memoria, della sensibilità, eccetera,
questo atteggiamento gradualista ha molto senso. L'altro lato della medaglia,
tuttavia, è l'esperienza soggettiva, la percezione che ciascuno ha della propria
vita. Molti anni fa
Thomas Nagel
si servì dell'espressione
what it's like -
com'è, che cosa si prova - nel tentativo di
indicarci il mistero dell'esperienza soggettiva. Si chiese: Com'è essere un
pipistrello? Probabilmente
qualcosa
si prova, ma è molto diverso da quello che
prova un essere umano a stare nei propri panni. Qui la parola
like,
«come», è fuorviante, in quanto insinua che il problema ruoti intorno a
questioni di confronti e somiglianze:
questa
sensazione è come
quella.
Ma il punto, qui, non è la somiglianza. Piuttosto,
si prova qualcosa
in molte situazioni della vita umana: svegliarsi, guardare il
cielo, far colazione - tutte queste esperienze sono associate a una sensazione.
È questo che va compreso: adottare una prospettiva evoluzionista e gradualista,
però, ci porta in strani luoghi. Com'è che questo fatto - che a
vivere si prova qualcosa - entra lentamente in essere?
Come può, un animale, trovarsi a metà strada lungo la
via che lo porterà a provare qualcosa a essere ciò che è?
Ho intenzione, qui, di fare qualche passo avanti su questi problemi. Non pretendo di risolverli, ma di spingermi più vicino alla meta delineata da James. Imposterò la discussione come segue. L' esperienza soggettiva, il fatto che a vivere proviamo qualcosa, è il fenomeno più importante in attesa di spiegazione. Oggi, a volte, alcuni si riferiscono a questo problema come se si trattasse di spiegare la coscienza; queste persone considerano l'esperienza soggettiva e la coscienza come la stessa cosa. Per me invece la coscienza è una forma di esperienza soggettiva, ma non l'unica. Per giustificare questa distinzione, prendiamo come esempio il caso del dolore. Mi chiedo se un calamaro provi dolore, e se lo provino gli astici e le api. Intendo dire: un calamaro prova qualcosa quando subisce una lesione? Prova qualcosa di negativo? Spesso, oggi, questa domanda sarà espressa chiedendo se il calamaro sia o meno cosciente, il che mi pare sempre fuorviante: come se pretendessimo troppo da questo animale. Per usare un termine più antico: se a essere un calamaro o un polpo si prova qualcosa, allora vuol dire che questi sono esseri senzienti. La senzienza precede la coscienza: ma da dove viene? | << | < | > | >> |Pagina 131Nel primo capitolo abbiamo incontrato un animale che galleggiava sotto una roccia sporgente nell'oceano. Mentre era lì, sospeso sul fondale, cambiava colore da un istante all'altro. L'iniziale rosso cupo svelava poi chiazze di grigio e venature argentee. Sulle braccia, i verdi e i blu affioravano e poi scomparivano. Nelle pagine che seguono torneremo in acqua, in compagnia di questo animale e delle sue incessanti trasformazioni. Una seppia gigante assomiglia a un polpo attaccato a uno hovercraft; il dorso ricorda un po' il guscio d'una tartaruga, e dalla testa prominente emergono otto braccia in linea di massima simili a quelle del polpo: flessibili e prive di articolazioni, dotate di ventose. Quando si guarda una seppia, queste braccia possono dare l'impressione di essere disposte più o meno orizzontalmente, ma in realtà sono sistemate intorno alla bocca e possiamo visualizzarle - come quelle di un polpo - quali otto enormi abilissime labbra. Nascosti vicino alla bocca si trovano due «tentacoli con funzione alimentare», più lunghi, che possono estendersi velocemente per ghermire una preda. Nella bocca c'è un becco duro. Il corpo della seppia non ha colonna vertebrale né vere e proprie ossa; tuttavia, all'interno del dorso, che è simile a uno scudo, c'è un «osso di seppia» rigido che sembra l'anima di una tavola da surf. Su ciascun lato, poi, lo scudo è contornato da una pinna che pare una balza, larga qualche centimetro: la seppia si muove lentamente grazie all'ondulazione di queste pinne. Quando invece vuole spostarsi rapidamente, si serve della propulsione a getto, attuata da un «sifone» posto sotto il ventre che può essere orientato in qualsiasi direzione. La maggior parte delle seppie è di piccole dimensioni, nell'ordine dei centimetri. Una seppia gigante, però, può crescere fino a misurare quasi un metro. Là seppia gigante solitamente è lunga una novantina di centimetri; la sua cute può assumere praticamente qualsiasi colore e può modificarsi nel giro di qualche secondo, a volte anche in molto meno di un secondo. La testa della seppia è percorsa da sottili linee d'argento, come se l'animale fosse attraversato da una corrente elettrica visibile. Queste linee «elettriche» conferiscono alla seppia l'aspetto di una nave spaziale che si libra nell'acqua. D'altra parte, le impressioni di chi guarda, insieme a qualsiasi tentativo di comprendere questa creatura, vengono continuamente sconvolte. Mentre la osserviamo, dai suoi occhi emanano venature d'un rosso brillante. Una nave spaziale che piange lacrime di sangue? In generale i cefalopodi (non tutti, ma moltissimi) sono abili a cambiar colore. In questo taxon prodigioso, le seppie giganti rappresentano forse l'apogeo, o quanto meno gli esempi più colorati. Un determinato livello di mutamento cromatico non è raro in natura; entro certi limiti, molti animali possono modulare il colore della propria superficie corporea. I camaleonti sono l'esempio più familiare. Ma i cefalopodi sono in grado di farlo più velocemente, producendo una gamma di colori più ampia. Nel caso delle grandi seppie, tutto il corpo dell'animale è come uno schermo sul quale vengono proiettati disegni che non sono una serie di istantanee, ma forme in movimento - strisce e chiazze dall'aspetto nebuloso. Questi sembrano dunque animali estremamente espressivi, animali che hanno moltissimo da dire. Ma se è davvero così, che cosa dicono, e a chi? | << | < | > | >> |Pagina 192Perché i cefalopodi non vivono più a lungo? Perché non viviamo tutti più a lungo? Sui versanti delle montagne della California e del Nevada crescono pini che già esistevano quando Giulio Cesare passeggiava per le strade di Roma. Perché alcuni organismi vivono decine, centinaia o migliaia di anni mentre altri, nel corso naturale delle cose, non arrivano nemmeno a vedere la conclusione di un anno? Nella morte dovuta a incidenti o a malattie infettive non c'è alcun mistero; il mistero è la morte «di vecchiaia». Perché, dopo aver vissuto per un po', dobbiamo cadere a pezzi? Con il susseguirsi dei compleanni, questo interrogativo è sempre lì che incombe; la breve vita dei cefalopodi però lo rende inquietante. Perché invecchiamo? Intuitivamente tendiamo a pensare che sia una questione di logoramento dell'organismo. Qualcuno potrebbe dire: alla fine dovremo pur consumarci, esattamente come accade a un'automobile. L'analogia però non è calzante. Le parti originali di un'automobile vanno effettivamente incontro a usura, ma un essere umano adulto non funziona con le sue parti originali. Noi siamo fatti di cellule che continuano a introdurre nutrienti e a dividersi sostituendo le vecchie componenti con altre nuove. Anche una cellula che viva molto a lungo rinnova costantemente i propri materiali (quanto meno, la maggior parte). Se si sostituiscono via via le parti con pezzi nuovi, non c'è ragione perché l'automobile smetta di funzionare. Ecco un altro modo di considerare questo problema. Il nostro corpo è un complesso di cellule che stanno insieme e funzionano in modo coordinato, ma sono comunque soltanto cellule. La maggior parte di esse si continua a dividere: da una, se ne formano due. Supponiamo che per qualche ragione queste cellule che si dividono siano destinate a «invecchiare», anche se quelle attualmente presenti nell'organismo non esistono da molto tempo. In altre parole: supponiamo che anche appena formatesi le cellule mostrino l'età della loro linea, e che responsabile del decadimento fisico di un organismo sia proprio quell'età. Ma se fosse così, perché i batteri e altri organismi unicellulari esistono ancora? I batteri attuali sono il prodotto di divisioni cellulari recenti, ma le loro linee cellulari contano miliardi di anni. Immaginiamo di prendere dei batteri di un certo tipo - per esempio, il familiare E. coli - e di metterli insieme, così che formino un aggregato. Quando queste cellule si dividono, la loro prole rimane nello stesso aggregato: pertanto, quest'ultimo persiste, mentre le cellule entrano ed escono. Se le condizioni fossero favorevoli, quella massa potrebbe persistere per milioni di anni: sarebbe una sorta di «corpo» - un grande insieme di cellule. Non vi è ragione che essa si logori o si deteriori solo perché è vecchia. Le componenti attuali, ancora una volta, non sono vecchie: sono cellule nuove di zecca. Se quell'aggregato di cellule può vivere per un tempo indeterminato, sostituendo e rimpiazzando i propri componenti, allora perché non possono farlo quei particolari aggregati cellulari che sono i nostri corpi? Adesso potreste dire: a renderci diversi dai batteri è il modo di organizzarsi delle nostre cellule. Noi non siamo semplicemente degli aggregati cellulari. La nostra organizzazione può disintegrarsi, anche se le cellule sono sempre nuove. Ma perché le cellule nuove non possono ricostituire l'organizzazione corretta? Quando un essere umano viene concepito, nasce e poi si sviluppa da neonato ad adulto, possono farlo. Perché l'organizzazione necessaria a mantenerci in vita non può essere rigenerata costantemente dalle cellule appena formate? Le spiegazioni in termini di «usura delle parti» non bastano a risolvere il problema. Anche se esiste una versione di quest'idea che ha effettivamente un senso, essa mal si combina con molte osservazioni sulla longevità degli animali. Se il problema fosse davvero quello del logorio, allora gli animali con un tasso metabolico più elevato - quelli che «bruciano» più energia - dovrebbero invecchiare più velocemente. Benché abbia un certo potere predittivo, in un discreto numero di casi questa relazione non regge: marsupiali come i canguri hanno un tasso metabolico più lento rispetto ai mammiferi placentati come noi, eppure invecchiano più velocemente. I pipistrelli hanno un metabolismo frenetico, ma invecchiano lentamente.
A livello cellulare esiste una possibilità di rinnovamento indeterminato.
Nel tipo di oggetto - di insieme di cellule - che noi siamo, c'è invece qualcosa
che conferisce a noi e ad altri animali un rapporto con l'invecchiamento diverso
da quello di altri esseri viventi. Questo modo di considerare la questione ci
porta indietro di molti capitoli, all'evoluzione degli animali: qui, nascita e
morte sono comparse come confini che segnano
la vita individuale nonostante le cellule continuino ad
andare e venire, e nonostante le linee cellulari si estendano prima e dopo di
noi. Ecco quindi che siamo di nuovo di fronte al problema: perché i colibrì
vivono dieci anni, i pesci
Sebastes
anche duecento, la
Pinus longaeva
migliaia - e i polpi due soltanto?
Questi enigmi sono stati in larga misura risolti grazie ad alcuni eleganti ragionamenti in chiave evolutiva. | << | < | > | >> |Pagina 229Mentre ci avviciniamo alla fine di questo libro, riconsideriamo l'evoluzione di corpi e menti. Le pietre miliari più antiche e consolidate sono state descritte nel secondo capitolo: le prime capacità percettive e il comportamento, l'evoluzione degli animali da forme di vita unicellulare, i primi sistemi nervosi. Poi seguì l'evoluzione del piano corporeo dei bilateri, il piano che noi condividiamo con le api e i cefalopodi. Subito dopo la comparsa dei bilateri, nell'albero della vita ebbe luogo una biforcazione: un ramo portò ai vertebrati, l'altro a un'ampia varietà di gruppi invertebrati: insetti, vermi, molluschi. Il rapporto a doppio senso tra percezione e azione è caratteristico di tutti gli organismi conosciuti, compresi quelli unicellulari. Nella transizione che portò ai primi animali dotati di sistema nervoso, i meccanismi della sensibilità e della segnalazione esterne vennero portati all'interno, consentendo la coordinazione di queste nuove unità viventi più grandi. Qualsiasi cosa facessero inizialmente i sistemi nervosi, con il passaggio dall'Ediacarano al Cambriano si aprì un nuovo corso per il comportamento animale e per le strutture corporee che lo consentivano. Ciascun organismo si ritrovò coinvolto nella vita degli altri in modi nuovi, soprattutto come predatore e preda. L'albero della vita continuò a ramificarsi, alcuni cervelli si espansero, e furono tentati due esperimenti con sistemi nervosi molto grandi: uno nei vertebrati, l'altro nei cefalopodi. Tracciato questo abbozzo, esaminerò alcuni aspetti dell'albero della vita che - rivisitati adesso - assumono nuova rilevanza: parti che diventano visibili nel momento in cui ci avviciniamo ad alcuni rami osservati solo da lontano nei primi capitoli. Guardando innanzitutto il versante dei vertebrati, vi troviamo noi esseri umani e gli altri mammiferi, i quali d'altra parte non sono gli unici vertebrati ad aver evoluto un alto grado di intelligenza. Pesci e rettili possono fare cose sorprendenti, tuttavia l'esempio principale che ho in mente è quello di uccelli come i pappagalli e i corvi. I cervelli dei vertebrati sono tutte «variazioni su un tema» e hanno molto in comune, ma le divergenze sono assai profonde. L'antenato comune di uccelli ed esseri umani - un animale simile a una lucertola - visse forse 320 milioni di anni fa, prima dell'èra dei dinosauri. Da allora, all'interno dei vertebrati comparvero cervelli di grandi dimensioni in diverse linee indipendenti. Nel terzo capitolo ho detto che la storia dei grandi cervelli ha approssimativamente la forma di una Y, con un ramo per i vertebrati e un altro per i cefalopodi: si trattava però di una notevole semplificazione. Un esame più attento sul versante dei vertebrati mostra infatti importanti differenze interne. Sempre nel terzo capitolo ho parlato dell'evoluzione iniziale dei cefalopodi e ho scritto a lungo di polpi e seppie: entrambi cefalopodi, ma per molti versi differenti. Come si sviluppò la storia sul loro versante? Nell'evoluzione dei cefalopodi ebbe chiaramente luogo una ramificazione principale - quanto è profonda quella divergenza? | << | < | > | >> |Pagina 235La relazione tra polpi e seppie è simile a quella tra mammiferi e uccelli. Nella linea dei vertebrati, una scissione occorsa circa 320 milioni di anni fa condusse a mammiferi e uccelli, e ciascuno dei due gruppi evolse - all'interno di un corpo un po' diverso - un grande cervello. Nei cefalopodi, i polpi e le seppie sono entrambi costruiti secondo il piano corporeo dei molluschi, ma la loro separazione ha una profondità storica simile, e anche in quel caso ebbe luogo un'evoluzione parallela di grandi cervelli.L'albero potrebbe essere rappresentato come si vede nella pagina seguente.
I cefalopodi erano stati grandi predatori fin dai tempi più antichi;
all'incirca 270 milioni di anni fa un loro
gruppo si divise, probabilmente dopo l'essenziale abbandono della conchiglia
esterna. Poi, separatamente, almeno due linee evolsero grandi sistemi nervosi. I
cefalopodi e i vertebrati, con la loro intelligenza, sono esperimenti
indipendenti nell'evoluzione della mente. Come i mammiferi e gli uccelli, i
polpi e le seppie discussi in questo libro rappresentano un sotto-esperimento
all'interno di quello di più vasta portata.
La mente evolse in mare: fu l'acqua a renderla possibile. Tutti i primi stadi dell'evoluzione - l'origine della vita, la comparsa degli animali, l'evoluzione dei sistemi nervosi e dei cervelli, e infine la comparsa di corpi complessi al punto da rendere conveniente dotarsi di un cervello - ebbero luogo nell'acqua. Le prime incursioni sulla terraferma probabilmente furono intraprese non molto tempo dopo gli eventi descritti all'inizio del libro - sicuramente già 420 milioni di anni fa, forse anche prima; la storia primordiale degli animali, tuttavia, è una storia della vita in mare. Quando gli animali strisciarono sulla terra, all'asciutto, portarono il mare con sé: tutte le attività fondamentali della vita si svolgono in cellule piene di acqua delimitate da membrane, minuscoli contenitori il cui interno ricorda l'ambiente marino. Nel primo capitolo ho detto che sotto molti aspetti imbattersi in un polpo è probabilmente l'esperienza più vicina all'incontro con un alieno intelligente che ci possa mai capitare. D'altra parte, i polpi non sono veramente alieni; noi e loro siamo entrambi figli della Terra e dei suoi oceani. | << | < | |