Copertina
Autore Gian Franco Goldwurm
CoautoreMargherita Baruffi, Federico Colombo
Titolo Qualità della vita e benessere psicologico
SottotitoloAspetti comportamentali e cognitivi del vivere felice
EdizioneMcGraw-Hill, Milano, 2004, Psicologia , pag. 314, cop.fle., dim. 150x210x20 mm , Isbn 978-88-386-2792-7
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe psicologia , salute
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Indice

Autori                                                  VIII

Presentazione                                              X

Prefazione                                                XV

PARTE I
QUALITÀ DELLA VITA
1. Aspetti storici, valutazione e definizioni della Qualità della Vita 3 Aspetti storici 3 Valutazione della Qualità della Vita 8 Definizioni della Qualità della Vita 10 2. La Qualità della Vita in relazione all'educazione, allo stile di vita e alla salute 17 Introduzione 17 Qualità della Vita, educazione e stile di vita (Concepción Gomez Ocaña) 19 Qualità della Vita e salute 26 3. L'assessment della Qualità della Vita connessa alla salute 47 Aspetti metodologici 47 Strumenti per l'assessment della Qualità della Vita 52
PARTE II
BENESSERE E FELICITÀ
4. Definizioni di benessere e felicità 67 Definizioni 67 Aspetti teorici 69 Aspetti pratici 71 Componenti 72 5. Relazione tra benessere e altre importanti variabili 77 Adattamento 80 Caratteristiche di personalità 82 Memoria 88 Aspettative 90 Istruzione 91 Reddito 91 Classe sociale 94 Sistema politico 95 Disoccupazione 97 Tempo libero 99 Età 101 Religione 102 Matrimonio 103 Etnicità 104 6. L'assessment del Benessere Soggettivo 107 Strumenti 110 La metodologia di campionamento delle esperienze (ESM) 114 7. Rassegna di studi sulla promozione del benessere 117
PARTE III
COME AUMENTARE LA FELICITÀ
8. Le basi della felicità 131 Introduzione all'opera di Fordyce 131 I 14 fondamentali della felicità 143 9. La ricerca milanese 159 Adattamento italiano degli strumenti di assessment 159 Valutazione del Subjective Well-being Training 204 Considerazioni conclusive 209 Appendice I - Un test sul vostro bagaglio di felicità 211 Appendice II - I 14 principi fondamentali della felicità 227 Appendice III - Scala di soddisfazione della vita 237 Appendice IV - Happiness Measures 239 Appendice V - Psychap Inventory 243 Bibliografia 283 Indice dei nomi 305 Indice analitico 311  

 

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Pagina XV

Prefazione



Le tematiche che tratta questo libro per noi si possono far risalire agli anni '60 e '70 e qui vogliamo esprimere un nostro punto di vista.

In quegli anni in Italia vi fu il boom economico e contemporaneamente un insieme di cambiamenti sociali che esplicitamente o implicitamente parlavano di nuovi valori: di salute, di benessere, di partecipazione e di Qualità della Vita.

L'Italia era ormai uscita dal dopoguerra. Da un lato con l'allontanarsi del dogmatismo di sinistra cominciò a riattualizzarsi e a rifiorire il pensiero gramsciano come riaffermazione della ricerca di giustizia e riscatto sociale attraverso la partecipazione delle masse lavoratrici alla vita democratica e allo sviluppo economico della nostra società. Si riproponeva il binomio del 1946-47 "giustizia e libertà". Dall'altro vi è stato a mio avviso una significativa evoluzione del pensiero cattolico da De Gasperi, a Dossetti, a Giovanni XXIII, a Paolo VI, ad Aldo Moro.

Sullo sfondo di un grande e abbastanza omogeneo sviluppo economico e dell'apertura sempre maggiore del dialogo politico in senso liberale e sociale, si manifestarono i primi movimenti importanti verso un nuovo concetto di benessere, di salute e di partecipazione di base. Il Welfare non fu criticato se non per i suoi aspetti palesemente negativi.

Nella seconda metà degli anni '60 iniziano e si sviluppano le prime battaglie per la salute nelle fabbriche, per la prevenzione delle malattie e degli infortuni sul lavoro e la non monetizzazione del rischio. La classe operaia, forse per la prima volta, davanti alle tradizionali rivendicazioni salariali pone la rivendicazione della tutela della salute nei luoghi di lavoro e di un miglioramento delle condizioni di lavoro, anche da un punto di vista psicologico (AA.VV., 1971a; AA.VV., 1971b; AA.VV., 1972). Fra le rivendicazioni, infatti, vi è anche quella relativa al "quarto gruppo dei fattori nocivi", cioè fattori che generano patologia psichica (Goldwurm, 1972). Vale a dire condizioni di lavoro, diverse dal lavoro fisico, che provocano effetti stancanti, affaticamento cronico difficilmente recuperabile, frustrazioni psicologiche. Fra queste condizioni vi sono: monotonia, parcellizzazione, ritmi eccessivi, saturazione dei tempi, ripetitività, posizioni disagevoli, pesanti turni e orari di lavoro, eccessiva responsabilità che rendono l'uomo un'appendice della macchina, uno strumento passivo di un'organizzazione del lavoro a lui estranea.

Altri fattori psicopatogeni sono stati allora denunciati dai lavoratori, come la pericolosità per l'integrità dell'Io somatico e psichico, il vissuto psichico di un rischio reale, i rapporti autoritari, le frustrazioni sistematiche, il lavoro alienante, la dequalificazione professionale, l'insicurezza economica o del posto di lavoro e varie altre situazioni il cui effetto principale era il disagio o la vera e propria patologia psichica (Goldwurm, 1971).

Ciò era già stato evidenziato dalla letteratura psichiatrica (vedi Goldwurm, 1972), ma in questo caso vi è la presa di coscienza dei lavoratori che lottano per eliminare anche il rischio provocato dal malessere psichico, in definitiva lottano per un lavoro che crei benessere psicologico e non malessere.

L'avanguardia operaia nelle grandi fabbriche del nord, partecipando con il metodo dei gruppi omogenei (omogenei per condizioni di rischio) (Goldwurm, 1972), che si riuniscono a livello di base ed elaborano piattaforme rivendicative, spesso con la collaborazione di intellettuali e tecnici specialisti, mediate dai sindacati, pone quindi implicitamente il tema della Qualità della Vita nei luoghi di lavoro, in primo luogo come fonte di promozione della Salute (AA.VV., 1973; Oddone, 1975).

Questa idea poi esce dalle fabbriche e i lavoratori, essendo anche cittadini, pongono con la forza il problema della prevenzione delle malattie e la promozione della salute nei luoghi di vita. Nei comuni, consorzi di comuni, province e regioni, omogenee per rischio sanitario, è necessario fare una politica socio-sanitaria adeguata non solo per curare le malattie, ma in primo luogo per eliminare i rischi e promuovere la Salute (Goldwurm, 1975).

Il cittadino e il lavoratore sono la stessa persona, e fabbrica e società sono intercomunicanti, difendere l'una vuol dire difendere l'altra. E la rivendicazione da sindacale si fa politica.

Questo è il principio della Riforma Sanitaria che vede nelle Unità Sanitarie Locali, il luogo "omogeneo" ove tutte le risorse socio-sanitarie devono concorrere e promuovere la Salute dei cittadini, siano lavoratori o no (AA.VV., 1963).

Questa è anche la frontiera della Nuova Medicina che si fa largo sempre più in quegli anni (Berlinguer, 1968).

Anche il movimento del '68, definendolo alcuni quello della "nuova classe operaia" o dei "colletti bianchi" con ambizioni egemoni, pone in primo luogo il problema della partecipazione e del potere decisionale di ormai larghe masse del ceto medio, di studenti, di intellettuali, di professionisti, di impiegati e di dirigenti.

Vi è una nuova identificazione e socializzazione di individui prima isolati che chiedono ora partecipazione come gruppo che porta nuovi specifici problemi e valori nel Welfare State.

Abbiamo visto da recenti lavori (Butler e Ranney, 1994; Frey e Stutzer, 2000, 2002; Veenhoven, 2001), come la prospettiva di partecipazione e la percezione di avere un peso sociale nelle decisioni democratiche delle proprie comunità è fattore di benessere soggettivo e di felicità.

Si potrebbe allargare il discorso dicendo che pure la forte immigrazione di lavoratori dal Sud Italia ha contribuito al cambiamento della nostra intera società, mescolando valori fino ad allora parzialmente tenuti distinti (Grossoni e Goldwurm, 1963; Goldwurm e Ravasini, 1964).

Anche il dibattito sui bisogni radicali e indotti, in quell'epoca introdotto in Italia dai libri di Agnes Heller, ha avuto un ruolo come accenneremo nel corso del nostro libro (Heller, 1974, 1978; Rovatti et al., 1976). La Heller, che assieme a Lukacs fa parte della "Scuola di Budapest", formula "La teoria dei bisogni radicali [dice Rovatti] quei bisogni che si generano nell'ambito dello stesso capitalismo e che comportano la radicale rivoluzione del modo di vita borghese, non solo delle forme politiche. I temi della critica della vita quotidiana e della centralità dell'individuo sociale, che la Heller eredita da Lukacs, acquistano qui (sulla spinta del movimento politico scoppiato nel '68) lo spessore di un'analisi concreta e politica". E benché la Heller ritrovasse "in Marx la centralità del concetto di bisogno e l'irrinunciabilità di una teoria dei bisogni radicali" fu attaccata dal Partito Comunista ungherese e ha costituito un caso di dibattito politico e culturale anche in Italia.

Il dibattito sulla teoria dei bisogni in Marx fu fatto allora essenzialmente dal punto di vista filosofico ed economico-politico (Adornato, 1976; Mineo, 1977).

Tuttavia, da un punto di vista psicologico e psichiatrico scrivevo in quegli anni (Goldwurm, 1977, pp. 199-200); "il problema dei bisogni in psichiatria si è fatto ora più attuale perché il movimento della Riforma Sanitaria ha posto nel nostro Paese, come essenziale, la questione della prevenzione primaria e della partecipazione, e perché le distorsioni dello sviluppo capitalistico della nostra società e la crisi economica hanno imposto una riflessione sulla esigenza di una nuova Qualità della Vita e di un nuovo ruolo delle classi lavoratrici nel nostro paese. Nell'individuo i bisogni sono un anello della catena del comportamento, l'individuo si trova ad avere una serie di 'bisogni socialmente determinati' (e quindi storicamente sviluppatisi) che motivano il suo comportamento. A questo livello, però, può sorgere una serie di contraddizioni sociali che si riflettono nell'individuo come contraddizioni fra l'individuo e la società, o come contraddizioni e conflitti intrapsichici, con relativa sofferenza e modificazione del comportamento".

Altro aspetto della evoluzione della nostra società in quegli anni è stato l'acquisizione di alcuni diritti civili fondamentali.

Se è vero come dice Fordyce (2000) che un buon matrimonio contribuisce in larga parte alla nostra felicità, è anche vero che un'unione deteriorata e forzata può rendere tutti molto infelici. L'introduzione del divorzio può eliminare questa fonte di infelicità e aprire eventualmente la porta a un altro matrimonio che ci renda più felici del primo.

Queste e altre acquisizioni hanno contribuito, anche sul piano psicosociale, ad affermare i diritti di parità e dignità delle donne nel contesto sociale, cosa che vari Autori ritengono fonte di benessere e felicità (Veenhoven, 2001).

Nell'ambito della Psichiatria all'inizio degli anni '60 si è sviluppato per merito di Basaglia il movimento anti-istituzionale, che mirava a togliere i malati di mente dai manicomi, a "ristoricizzarli", prima facendoli partecipare con assemblee alla vita dell'ospedale psichiatrico, poi reinserendoli nelle loro famiglie e nel loro territorio, assistendoli e nello stesso tempo facendo loro riacquistare dignità e potere di cittadini (Basaglia, 1968; Goldwurm e De Prà, 1976a; Goldwurm e Alberti, 1978).

Questa non fu solo battaglia della scienza psichiatrica, ma anche della classe operaia (Goldwurm e De Prà, 1976b) e della società civile; battaglia di civiltà che dopo tante lotte si è conclusa sul piano legislativo con la legge 180 e la Riforma Sanitaria del 1978, ma che sul piano pratico dura tuttora (Goldwurm 1978).

Anche l'opera di Basaglia e di tutti noi mirava non solo a eliminare i disturbi psichici, ma a rendere la vita dei nostri "malati" degna della vita di un uomo. Un uomo che avesse il suo posto nella società e potesse essere felice (Goldwurm e De Prà, 1976a, 1976b). Come vedremo nel capitolo 2, questo è un problema ancora aperto, che però per noi è partito dalla critica all'istituzione manicomaniale e dalla Riforma, e quindi dal progressivo inserimento dei pazienti nelle loro comunità. Questo cambiamento positivo nei pazienti fu da noi osservato nel corso della nostra esperienza di deistituzionalizzazione. Ma anche vari Autori stranieri avevano messo in rilievo, e lo mettono tuttora, che la vita dei pazienti psichiatrici in comunità risulta qualitativamente migliore che nell'ospedale psichiatrico e tutto ciò ha contribuito a far riconoscere le nuove dimensioni del benessere psicologico di cui hanno bisogno queste persone (Stein e Test, 1980; Lehman et al., 1986; Cialdella, 1992; Sartorius, 2001).

È interessante notare che nella seconda metà degli anni '70 sono sorte in Italia le facoltà di Psicologia, che hanno permesso non solo di ravvivare questi studi, ma di preparare un gran numero di psicologi. Col tempo questa tendenza si è ulteriormente sviluppata e ciò significa che la nostra società sentiva e sente il bisogno di aiuto psicologico, non solo psicoterapeutico, ma anche di supporto per migliorare la vita di individui e istituzioni nel senso "di vivere meglio psicologicamente".

A nostro avviso, quindi, negli anni '60-'70 si va formando una base oggettiva strutturale nuova che segue quella di altri paesi occidentali più avanzati, come i paesi anglosassoni.

In primo luogo, si consolida la dialettica democratica fra le classi sociali. Si ha un notevole sviluppo economico e una maggiore diffusione del benessere materiale.

Vi è un progressivo emanciparsi e svilupparsi delle classi lavoratrici, un emergere dei gruppi di sottoprivilegiati. Questi chiedono partecipazione e pongono istanze rivendicative nuove in cui si fa largo il bisogno di salute e di benessere soggettivo.

La classe operaia in particolare e la piccola e media borghesia sono inizialmente le forze motrici di un cambiamento strutturale e sono guidate da istanze ideali che giustificano la loro lotta, facendole sentire protagoniste del progresso sia sociale che politico.

Lo sviluppo delle prospettive del mondo del lavoro (La Rosa, 1983) pongono l'esigenza di valutare gli aspetti qualitativi del modo di vivere e di lavorare e non solo quelli qualitativi ed economici.

Nel complesso, poi, tutta la società civile pone istanze di rinnovamento qualitativo che tenga maggiormente conto della soggettività individuale. Ciò investe l'ambiente di vita, i rapporti fra gli individui, la scuola, l'assistenza socio-sanitaria e in modo sui generis anche l'assistenza psichiatrica. La medicina ne è investita in prima istanza e le problematiche della salute, accanto alla dimensione biologica recuperano quella sociale e psicologica diventando sensibili alla Qualità della Vita dei cittadini.

Sulla base di questi cambiamenti strutturali si fa strada particolarmente in ambito sociologico una critica al Welfare State e una riflessione che valorizza il concetto di Qualità della Vita. Sociologi come Martinotti, Ardigò, Donati ecc. (vedi Demarchi, 1987) in Italia contribuiscono in misura notevole ad analizzare la storia, le cause e le soluzioni a noi adeguate. Questo percorso che descriveremo nel primo capitolo, segue a distanza di pochi anni un analogo percorso fatto dalla società americana (Wingo ed Evans, 1977; Demarchi, 1987).

Tuttavia è possibile che su quest'onda, sul finire degli anni '80, si realizzi un ulteriore cambiamento sociale e psicologico, favorito anche dai grandi cambiamenti tecnologici e politici.

Ai grandi ideali dello Stato sociale del dopoguerra, e facendosi più acuto il disfacimento del Welfare State, viene a contrapporsi una dimensione privatistica, volontaristica e individualista dei rapporti sociali e istituzionali. È quella che Ingrosso (2003) chiama società a rischio e che travolge le nuove generazioni degli anni '90, che malgrado un relativo benessere si sentono psicologicamente insicure e comunque bisognose di acquisire e accrescere una loro felicità interiore, per così dire privata.

Seligman (2003) nel commentare l'epidemia di depressione psichica fra le nuove generazioni americane, chiama in causa la caduta di valori familiari, religiosi e statali, che si associano a un aumento del benessere materiale ma nello stesso tempo mette in evidenza l'accentuarsi in queste generazioni dell'individualismo e dell'isolamento sociale. Da qui il pessimismo per mancanza di valori, di ideali e di prospettive per cui valga la pena combattere nella vita.

Se vogliamo analizzare la nostra società con la lente di Seligman, credo che possiamo trovare anche noi una battuta d'arresto nei secondi anni '80 e primi anni '90.

Sarebbe da studiare se fattori cognitivi negativi (e per quale causa) abbiano giocato in quell'epoca un qualche ruolo nel determinare nei secondi anni '90 e negli anni 2000 questo singolare bisogno di felicità individuale di cui si è accennato.

Anche la Psicologia Positiva (che si propone di migliorare il benessere nelle persone sane) nasce all'incirca in quest'epoca.

Forse anche per noi sono caduti degli ideali.

La crisi del Welfare State, che non è stato sostituito dal Welfare Society come alcuni prevedevano, ha teso a valorizzare il privato, a creare una società del rischio, ad aumentare un malessere che cognitivamente si trasforma in preoccupazioni, pessimismo, pensieri negativi.

Noi cerchiamo nel privato "nelle relazioni intime" quella sicurezza e quella soddisfazione che la Società globalizzata in generale non ci può più dare.

La Società ci dà il "pacchetto minimo di beni e di sicurezza" (e non sempre), ma le esigenze di un maggior benessere soggettivo lo dobbiamo soddisfare altrove.

Alcuni osservano che essere felici è un atto "egoistico" e che può portare a un "deterioramento della società", a un dissolversi dell'impegno etico sociale in un orizzonte strettamente individuale o famigliare, che rifiuta di farsi carico di problemi comuni più vasti, di utilità collettiva.

Orbene, gli studi sui fattori che rendono felici gli uomini mettono in evidenza che le persone felici si occupano di cose significative che danno un valore alla loro vita, e che questa non può essere chiusa in un orizzonte "egoistico" privo di rapporti sociali e di un progetto di vita pieno di valore per noi e per gli altri.

Forse se ci sentiamo infelici è perché da un lato manca questo rapporto di socializzazione e di valore sociale del nostro operare in funzione di ideali e aspirazioni adeguate, e dall'altro i nostri schemi cognitivi ci fanno percepire una realtà e un "noi stessi" in rapporto con la realtà che ci riempie di preoccupazioni, di pensieri negativi e di pessimismo.

Mi sono reso conto ora che formulando queste riflessioni ho ripercorso la storia dei 14 fondamentali di Fordyce, cioè di quelle caratteristiche che possono aiutarci a essere più felici.

Nella Parte I del libro che andiamo presentando si parla della Qualità della Vita (QdV), della nascita del suo concetto e del contesto sociale in cui è stato formulato, focalizzando la sua relazione con i problemi della Salute.

Nella Parte II si parla del "cuore" della QdV e cioè del Benessere Soggettivo e della Felicità.

Si analizza la sua definizione, le sue componenti, nonché le variabili che sono poste in relazione col Benessere psicologico e possono influire nel crearlo, mantenerlo o modificarlo.

Sono riflessioni che si attualizzano quando a parità di condizioni esterne o a causa di esse avvertiamo il malessere, la mancanza di qualcosa nel profondo del nostro animo che è la soddisfazione per la nostra vita, la felicità come stato o tratto psicologico.

La Parte III risponde alla domanda se è possibile apprendere uno stile di vita che ci renda più felici. E Fordyce ci risponde indicandoci i 14 fondamentali.

Di questi tempi si legge spesso sui mass-media, giornali, riviste, volumetti divulgativi, osservazioni, consigli, prescrizioni che riguardano la felicità, il benessere, il buon umore ecc.

Questo indica la diffusione del bisogno di benessere fra la gente comune o sana e normale, e nel contempo la raggiunta coscienza del valore della felicità e del diritto a essere felici.

Vale a dire siamo arrivati al 14° fondamentale, cioè la presa di coscienza che la felicità è importante e che bisogna fare qualcosa per raggiungerla.

Questo fare qualcosa viene indicato dagli altri 13 fondamentali, che indicano le caratteristiche delle persone felici e cosa fare per esserlo.

La Parte III è dedicata a questo, indicando un metodo per apprendere quelle caratteristiche fondamentali che ci possono rendere felici. In primo luogo è possibile individuare quali sono gli aspetti deficitari e incongrui del nostro modo di vivere e di pensare. In secondo luogo si possono apprendere modalità comportamentali e cognitive che, se giustamente applicate, possono ovviare alle nostre mancanze e a lungo andare renderci la vita più accettabile. Permetterci di sorridere e far sorridere.

Ovviamente calato nella realtà della nostra vita tutto questo non è così semplice, non è "una formula", è un'indagine che va approfondita e personalizzata e dove ognuno scopre qualcosa di sé che vale la pena di essere elaborato, purché alla base di questo lavoro interiore vi sia la convinzione profonda che la felicità è un valore importante che vale la pena di essere perseguito.

La Parte III si conclude esponendo un nostro lavoro scientifico in cui si sperimenta il metodo del Subjective Well-Being Training, accompagnato da un accurato assessment psicologico su gruppi di studenti. Da questo esperimento, ovviamente limitato, anche se si inserisce in una serie di esperimenti analoghi fatti da altri studiosi, si ricava la convinzione che agendo in modo adeguato sia possibile migliorare il proprio Benessere Soggettivo, in sostanza apprendere a essere più felici.

Pensiamo quindi che questo libro, sia per lo sforzo riassuntivo corredato da numerosa bibliografia, sia per l'esposizione del metodo e dei risultati della nostra ricerca, possa essere di utilità per nostri lettori.

Gian Franco Goldwurm

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